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Archivio del Tag ‘mercato’

  • Da Google a Twitter, l’élite digitale ha preso il potere

    Scritto il 14/1/14 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    «Informazione, salute, politica, denaro, cultura, relazioni personali, tempo libero: nulla è più come prima». Oggi, infatti, è tutto on-line. Sono passati vent’anni da quando “Time Magazine”, nel 1983, nominò “Machine of The Year” il personal computer. Da quel momento, con la “rivoluzione digitale”, costruttori di computer e geniali inventori di software hanno cominciano a cambiarci la vita. Che dire poi dell’avvento di Internet: nel 1987 erano connessi in rete 10.000 computer, ma nel 1993 comparve Mosaic, il primo browser, e nel 1996 i computer connessi erano già 10 milioni; oggi sono 3 miliardi e a loro si aggiungono 3 miliardi di dispositivi mobili. Qualcosa è cambiato, non c’è dubbio, e la “rivoluzione” si è arricchita di protagonisti e comprimari: alla coppia iniziale hardware-software, riassume Glauco Benigni, si sono aggiunti i servizi di e-commerce e di e-banking, i motori di ricerca, i social network, i blog, i siti di informazione, le Tv online e i loro antagonisti, hacker e pirati.
    «C’è un pianeta parallelo ormai che vive e vegeta in un’altra dimensione, fatta di sterminate, inconcepibili sequenze di numeri che si spostano a velocità impressionanti, si trasformano e appaiono sui nostri schermi quali testi, foto, immagini in movimento e influiscono su ogni attività contemporanea». La “rivoluzione digitale” incede solenne, scrive Benigni nel suo blog in un post ripreso da “Megachip”. Il web «non perde tempo a condividere i valori e le visioni del passato» e in pratica «non rispetta nessuno, neanche i governi e gli ultimi Stati rimasti sovrani». Tutto viene travolto dalle “digital power élites” «costituite da 20enni, 30enni, solo raramente 40enni e 50enni che, giunti in parte dai garage e dalle cantine degli angoli più remoti del mondo e in parte da prestigiose università, oggi siedono nei consigli di amministrazione di enormi “conglomerates” e da lì “shape the history” (danno forma alla Storia del Futuro)».
    Il 2013 si era aperto con l’annuncio da parte di Pay Pal, il maggior gestore di transazioni economiche in rete, del proprio sistema mobile: per l’e-trading, un’accelerazione radicale, ovvero «la possibilità di spostare denaro con pochi click sul cellulare o sul tablet». In sintonia con questa tendenza, a febbraio Twitter ha siglato l’accordo con l’American Express: da questa accoppiata – social network e gestori di carte di credito – possono scaturire «scenari da fantaeconomia», osserva Benigni, dal momento che ormai «tre italiani su quattro comprano direttamente online», e nel 2016 il mercato italiano varrà 20 miliardi di euro (in Europa ne vale già 311). Il 2013, continua Benigni, è l’anno in cui i vecchi protagonisti della scena, i Ginger e Fred dell’hardware-software, soffrono di più. «Lord Microsoft accusa pesanti colpi al suo fatturato dovuti all’avvento dei nuovi sistemi operativi, primo fra tutti Android. E anche la vecchia lady Apple, per la prima volta in 10 anni, nonostante la cavalcata selvaggia dei suoi I-Phone e I-Pad, vede un calo degli utili». Tablet e smartphone dilagano dovunque: «Anche il sofferente mercato italiano, a maggio, registra un’impennata di vendite, nonostante la crisi». Il ruolo strategico dei social network condiziona motore di ricerca come “Yahoo!”, costretto a limitarsi al 15% delle ricerche mondiali. Come Google, ha bisogno di possedere un suo social network, e quindi tenta di perfezionare una partnership con i francesi di Daily Motion. Offerta rigettata, ma “Yahoo!” si consolerà presto comprando Tumbir, un social network con 108 milioni di blog, per 1,1 miliardi di dollari. E anche Daily Motion si consolerà, volgendo la propria attenzione al Giappone.
    Sul piano politico, intanto, si segnala l’altolà imposto a Mark Zuckerberg, patron di Facebook, costretto a pagare 62 milioni di dollari per risarcire broker e investitori travolti dal crollo del titolo in Borsa. Stop anche alla lobby dell’enfant prodige, messa in piedi per “infiltrare” il Congresso. Messaggio: ok al business, ma non alle scorribande politiche – a meno che non siano orchestrate dall’intelligence, che utilizza i social network per pilotare «piccole e medie rivolte di piazza, colpi di Stato, rimozioni di primi ministri e presidenti ormai bolliti e non più graditi al Washington Consensus». La Cina, intanto, stanca delle critiche sulla tutela dei diritti umani (e del pressing di Google) annuncia che non chiederà più l’accesso agli Internet Protocol alle autorità Usa, che ne hanno fatto “cosa nostra”, ma si rivolgerà direttamente all’Agenzia delle Nazioni Unite di Ginevra, che è l’istituzione suprema preposta al rilascio. «La decisione genera un grande imbarazzo diplomatico, ma tant’è: è solo uno degli atti di cyber-guerra fredda degli ultimi anni tra le due superpotenze».
    Il colpo di grazia alla credibilità di Facebook è il caso Datagate, scoppiato a giugno: tutti i dati sensibili degli utenti sono a disposizione della Nsa. I gestori del web sono in imbarazzo,  Zuckerberg licenzia 520 dipendenti della sua controllata Zynga e in Borsa perde il 20%, crollando ai minimi, salvo poi recuperare utenti grazie all’uso dei dispositivi mobili. Per Benigni,la transizione dal Pc al laptop è un’altra “rivelazione” del 2013. Amazon fa sapere che i primi 10 prodotti venduti a livello mondiale «sono tutti devices digitali». E pertanto il boss Jeff Bezos, uno che a 49 anni fornisce 225 milioni di clienti e che in un giorno solo, secondo “Fortune”, riesce a guadagnare o a perdere anche 2 miliardi di dollari, annuncia che vuole mettersi in concorrenza con i grandi costruttori di tablet. E’ forte del successo del suo Kindle, che sta rivoluzionando tutta la tradizione di lettura libri, ma non basta. A Seul quelli della Samsung non lo faranno passare. Comincia a perdere anche Amazon.
    Infine, nella seconda parte del 2013, si apre un vero scontro politico tra l’élite digitale e i governi. Prima questione: i grandi motori di ricerca, Google in testa, devono pagare editori e case discografiche, perché «è grazie a loro che esiste qualcosa da ricercare». Secondo problema, più rilevante per i governi: «Questi furboni devono pagare le tasse come gli altri», perché «non è giusto che facciano profitti con la pubblicità sui territori europei e poi si inguattino i soldi nei paradisi fiscali». Google viene colta con le mani nel sacco: nel solo 2012 ha trasferito in Bermuda 8,8 miliardi di dollari. E dalle sue sedi europee, soprattutto quella irlandese, si è sottratta al fisco con grande destrezza. I lobbisti di Google si scatenano per correre ai ripari: coi francesi chiudono un pagamento di 60 milioni di dollari a favore di editori e case musicali, ma resta per aria la questione delle tasse – che non è ancora risolta.
    E mentre “volano gli stracci” quando si scopre che la Nsa ha spiato capi di Stato e di governo alleati, Twitter fa il botto a Wall Street, raddoppiando di valore in un solo giorno. «Anche le società digitali start up israeliane fanno il pieno di investimenti. Per un verso sembra di essere tornati ai bei tempi di Nasdaq prima della bolla del 1999. In realtà è Bernanke che pompa 85 miliardi di dollari al mese nel comparto industriale Usa e quindi ne gode anche la Borsa. In ogni caso la rivoluzione digitale smuove oceani di denaro, provocando tsunami e bonacce, sia nella economia degli scambi reali che nella finanza virtuale». Google oscilla attorno ai 300 miliardi di capitalizzazione e genera un fatturato di circa 50 miliardi l’anno. «E’ diventato uno Stato tra gli Stati», dice Benigni. «Quando ti chiede di accettare le sue Condizioni d’Uso per Google+ o YouTube sembra che proponga le nuove norme base di una futura Costituzione Planetaria». E la stessa YouTube, di proprietà di Google, ha annunciato di aver raggiunto l’incredibile cifra di 1 miliardo di utenti attivi al mese. Tutto questo, aspettando i cibernetici “Google Glasses” e le stampanti 3d che permettono a chiunque di riprodurre oggetti solidi, mentre si fa largo la grande promessa del crowdfunding (azionariato popolare per finanziare l’editoria indipendente) e l’ultima “invenzione”, la più scottante, cioè la moneta virtuale rappresentata dai Bitcoin.

    «Informazione, salute, politica, denaro, cultura, relazioni personali, tempo libero: nulla è più come prima». Oggi, infatti, è tutto on-line. Sono passati vent’anni da quando “Time Magazine”, nel 1983, nominò “Machine of The Year” il personal computer. Da quel momento, con la “rivoluzione digitale”, costruttori di computer e geniali inventori di software hanno cominciano a cambiarci la vita. Che dire poi dell’avvento di Internet: nel 1987 erano connessi in rete 10.000 computer, ma nel 1993 comparve Mosaic, il primo browser, e nel 1996 i computer connessi erano già 10 milioni; oggi sono 3 miliardi e a loro si aggiungono 3 miliardi di dispositivi mobili. Qualcosa è cambiato, non c’è dubbio, e la “rivoluzione” si è arricchita di protagonisti e comprimari: alla coppia iniziale hardware-software, riassume Glauco Benigni, si sono aggiunti i servizi di e-commerce e di e-banking, i motori di ricerca, i social network, i blog, i siti di informazione, le Tv online e i loro antagonisti, hacker e pirati.

  • Maggiani: rimpiango i piccoli negozi, uccisi dall’avidità

    Scritto il 06/1/14 • nella Categoria: idee • (3)

    Finiscono un sacco di cose nel tempo della crisi; si estinguono, si dissanguano, si consumano un sacco di cose che avrebbero meritato di esserci, di perdurare, di resistere. Perché la crisi spazza via parecchio dell’inutile e dell’obsoleto, ma anche molto di buono, di utile, di bello. In una minuscola, antica frazione sulla collina del golfo di La Spezia, uno dei non pochi borghi rimasti vivi nonostante i vecchi abbandoni e le recenti speculazioni, un borgo ancora abitato dai vecchi che hanno voluto rimanere e dai giovani che hanno voluto tornare, c’era un piccolo commestibile. Era un presidio importante e amato; gli anziani potevano comprare le cose essenziali senza dover faticosamente scendere in città, i giovani tornavano dal lavoro e lo trovavano aperto alle ore insolite dei loro frettolosi rientri. E siccome la signora che lo gestiva sapeva fare in cucina delle cose molto buone che metteva sul banco, le giovani coppie non sentivano troppo la lontananza dalle vecchie madri cuciniere, e gli operai dei cantieri lungo la strada si godevano confortanti pause del mezzodì, e i girovaghi e i viandanti, tra questi il sottoscritto, se n’erano fatto un prezioso punto di ristoro e soccorso alle crisi ipoglicemiche.
    Con quel suo minuscolo esercizio la signora che lo gestiva non ci si è davvero arricchita, ma ci sono persone che vivono con piacere anche la semplice condizione di dignitoso sostentamento, appagandosi del necessario e ignorando l’accumulazione. Ora, dicevo, questa piccola, utile e buona cosa non c’è più. Colpa della crisi, ma di un particolare, e singolare, risvolto della crisi. Alla signora del commestibile il titolare della licenza ha chiesto un possente aumento del suo affitto, un aumento che non le permette di sopravvivere. Per inciso, stupidamente e ingenuamente, mi ero fatto l’idea che in questo Paese il commercio fosse attività liberalizzata da anni, così mi pareva per certe leggi di cui ero venuto a conoscenza, salvo constatare che non è così, non per alcuni settori strategici per la conservazione delle vecchie, care rendite di posizione, a ferma tutela del parassitismo nazionale; non solo taxi e farmacie, ma anche, per esempio, commestibili e ristorazione. Comunque, ecco, che il commestibile chiude, e non per questo se ne riapre uno nuovo, perché nessun pazzo è disponibile a farsi strozzare dall’avidità del titolare della licenza che gli dovrebbe consentire di vivere.
    Non più distante di un paio di chilometri da lì, sta chiudendo, sempre a causa delle pretese del “padrone” della licenza, e in questo caso anche dei muri, una piccola trattoria di collina, presa in gestione, dopo anni di decadenza e abbandono, da un giovane cuoco capace e volenteroso. Che si è rimesso a fare quei tre o quattro piatti della vecchia cucina di cui sentiamo ancora nostalgia, e li fa buoni e sani e alla portata dei più, e solo per questo dovrebbe essere nominato cavaliere del lavoro. Se ne andrà, fine, e al suo posto non ci sarà più niente di buono, perché a quei costi niente di buono può dar da vivere. Ben che vada al goloso proprietario, arriverà un qualche disperato furbastro o un ingenuo incompetente che firmerà un pacco di pagherò che non pagherà, e svanirà nel nulla in una manciata di mesi. Come è già capitato, come continua a succedere in ogni ramo del commercio.
    Perché se ne contano decine, centinaia di desolanti casi del genere in ogni città, centro storico, periferia e collina, e non si contano più le serrande abbassate e mai più rialzate, le vetrine vuote e le scritte “affittasi” ormai stinte. Come non si contano più i cambi continui di gestione. E c’è qualcosa di raccapricciante in questo. C’è il fatto che in tempo di crisi chi ha la “roba” da ricavarci una rendita di posizione, è preso da una fame di profitto ancor maggiore della sua solita, tipica fame. Una smania di fare ancora più soldi di quanti non ne abbia già fatto, da accecarlo. Sfugge a una qualsivoglia regola dell’accumulo capitalistico il pretendere più di quanto la “roba” valga sul mercato. Sfugge a qualsivoglia ragionevole calcolo preferire nessun reddito a un modesto ma certo reddito. A meno che il calcolo non segua le regole dell’irragionevole, ultra umana avidità che presagisce vacche grasse da mungere e macellare che nessun altro sa immaginare. E a me pare più che un problema sociologico da sottoporre agli economisti, una questione da affrontare nell’ambito della psicoanalisi, là dove getto lo sguardo nello sprofondo delle pulsioni di morte. E vedo in quegli avidi il Mazzarò della novella del Verga che ancora, mi pare, si studia a scuola. Il racconto della “Roba” e di quel tale, Mazzarò, che, dopo una vita dedicata all’accumulo in totale dispregio degli uomini e di Iddio, in punto di morte si mette a distruggere la sua roba urlando a squarciagola: Roba mia vieni con me.
    (Maurizio Maggiani, “Quei piccoli negozi uccisi dall’avidità”, da “Il Secolo XIX” del 24 giugno 2012).

    Finiscono un sacco di cose nel tempo della crisi; si estinguono, si dissanguano, si consumano un sacco di cose che avrebbero meritato di esserci, di perdurare, di resistere. Perché la crisi spazza via parecchio dell’inutile e dell’obsoleto, ma anche molto di buono, di utile, di bello. In una minuscola, antica frazione sulla collina del golfo di La Spezia, uno dei non pochi borghi rimasti vivi nonostante i vecchi abbandoni e le recenti speculazioni, un borgo ancora abitato dai vecchi che hanno voluto rimanere e dai giovani che hanno voluto tornare, c’era un piccolo commestibile. Era un presidio importante e amato; gli anziani potevano comprare le cose essenziali senza dover faticosamente scendere in città, i giovani tornavano dal lavoro e lo trovavano aperto alle ore insolite dei loro frettolosi rientri. E siccome la signora che lo gestiva sapeva fare in cucina delle cose molto buone che metteva sul banco, le giovani coppie non sentivano troppo la lontananza dalle vecchie madri cuciniere

  • Mujica: non sono povero, sono sobrio (quindi felice)

    Scritto il 05/1/14 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    Mujica è un lucidissimo ottantenne che è stato eletto presidente dell’Uruguay e che ha rinunciato agli appannaggi del suo status vivendo con cinquecento dollari o giù di lì in una casetta di due stanze; si sposta con un vecchio Maggiolino Volkswagen. Quando parla all’Onu o nei congressi internazionali, senza nessuna enfasi ma con un vigore che ammutolisce l’uditorio, ripete instancabile cose già note ma dando alla sua voce una vibrazione profetica: anno dopo anno stiamo intaccando, divorando il futuro delle giovani generazioni, le pubblicità di tutto il mondo reclamizzano stili di vita che ci porteranno al disastro inevitabile. Stili di vita che già ora, ove potessero imporsi globalmente, presupporrebbero non un solo pianeta ma tre! E dunque il modello propagandato e agognato è di una colossale falsità, un imbroglio planetario. Gli altri capi di Stato non fiatano quando don Pepe si rivolge a loro. Soffrono e non vedono l’ora di ritornare alle loro alchimie, alle convergenze parallele. Ma puntualmente, cioè al convegno successivo, Mujica scompagina quei loro discorsi, ridicolizza cifre utopiche spacciate come verità sacrosante, il tutto con toni dimessi, senza astio.
    Ha detto nei suoi discorsi più famosi, primo fra tutti quello davanti alla platea dell’Onu: «Si parla di sviluppo sostenibile, ma che cosa ci frulla in testa? Il modello di sviluppo e di consumo è quello attuale delle società ricche? Di nuovo mi sono chiesto cosa succederebbe a questo pianeta se gli indiani avessero lo stesso numero di auto per famiglia che hanno i tedeschi. Quanto ossigeno ci resterebbe da respirare? Il mondo ha forse oggi risorse sufficienti per far sì che 7-8 miliardi di persone possano avere lo stesso livello di consumo e spreco che hanno le più opulente società occidentali? O dovremo forse fare un altro tipo di ragionamento? Abbiamo creato una civiltà figlia del mercato, della concorrenza che ha portato a un progresso materiale esplosivo. Siamo in una società di mercato e questo ci ha portato alla globalizzazione cui assistiamo. Ma noi stiamo governando la globalizzazione o è la globalizzazione a governarci? E’ possibile parlare di solidarietà in una società basata sulla concorrenza spietata? Fin dove arriva la nostra fratellanza?».
    «La sfida che abbiamo davanti è grandissima, colossale, e la grande crisi non è ecologica, è politica. L’essere umano non governa oggi; sono le forze che l’uomo ha scatenato a governarlo. Non veniamo al mondo per svilupparci in termini generali; veniamo al mondo per cercare di essere felici, perché la vita è breve e ci sfugge. E nessun bene vale quanto la vita, è elementare. Ma se consumo la mia vita lavorando senza sosta per consumare sempre di più, aggredisco il pianeta e per mantenere quel consumo dovrò produrre sempre di più cose che durano sempre meno. Siamo in un circolo vizioso, ci sentiamo costretti a mantenere una civiltà usa e getta. Questi sono problemi di carattere politico e ci stanno dicendo che bisogna iniziare a lottare per un’altra cultura».
    Mujica profeta, dunque, ma anche leader, più di moltissimi altri. Ultima sua mossa, ai primi di dicembre, quella di spiazzare i cartelli della droga legalizzando e nazionalizzando in Uruguay la coltivazione e la vendita della marjuana. Qualcosa di eclatante che forse può rinvigorire altre e decisive azioni volte a erodere il mito perverso del consumo senza freni e l’utilizzo senza limiti delle sempre più scarse riserve del pianeta. L’Uruguay non è certo l’America, ha tre milioni di abitanti, è uno dei paesi sudamericani con storie di dittature, di persecuzioni. E prima ancora una storia ancor più tragica, quella della colonizzazione ispanica, di vessazioni, di massacri. Una piccola nazione, dunque, ma ciò che sta facendo Mujica è grande, così grande e potente che i media convenzionali ne parlano pochissimo, perché questo agire fa tremare certuni nelle altissime sfere.
    Pepe Mujica era, da giovane, un convinto oppositore della dittatura; si era convertito ai Tupamaros, il movimento armato che si rifaceva al leggendario Tupac Amaru, un cacique che aveva capeggiato una lunga e sanguinosa lotta contro i conquistadores spagnoli. Mujica ha pagato, assieme a molti compagni, la sua ribellione con quattordici anni di carcere e torture. Oggi Il suo vivere spartanamente da presidente della sua nazione gli appare cosa scontata: «Yo no soy pobre, Yo soy sobrio», usa dire d’abitudine. Una formidabile coerenza con lo stato del mondo costituito più di poveri che di ricchi. I fasti della sua carica altrove dispiegati (basti pensare all’enormità delle spese per la presidenza della Repubblica che Napolitano si ostina a voler mantenere) Mujica li ritiene un semplice e incongruo retaggio del Medio Evo. Filosofo di formazione, cita volentieri Seneca, Diogene – colui che ricevette Alessandro Magno e i suoi dignitari sulla soglia del suo poverissimo ricovero, pare fosse una botte. Alessandro che gli veniva promettendo tutto e di più, una personalità così grande. Al gentile rifiuto di Diogene sul presupposto che nessuno fa niente per niente, per cui lui non si sarebbe più sentito libero, Alessandro deluso rispose: «Ma allora non possiamo proprio fare niente per te». «Certamente, Alessandro, ero qui seduto al sole per scaldarmi un poco dal freddo della notte, basta che vi facciate un poco più in là».
    (Carlo Carlucci, “Io non sono povero, sono sobrio – quindi felice”, da “Il Cambiamento” del 17 dicembre 2013).

    Mujica è un lucidissimo ottantenne che è stato eletto presidente dell’Uruguay e che ha rinunciato agli appannaggi del suo status vivendo con cinquecento dollari o giù di lì in una casetta di due stanze; si sposta con un vecchio Maggiolino Volkswagen. Quando parla all’Onu o nei congressi internazionali, senza nessuna enfasi ma con un vigore che ammutolisce l’uditorio, ripete instancabile cose già note ma dando alla sua voce una vibrazione profetica: anno dopo anno stiamo intaccando, divorando il futuro delle giovani generazioni, le pubblicità di tutto il mondo reclamizzano stili di vita che ci porteranno al disastro inevitabile. Stili di vita che già ora, ove potessero imporsi globalmente, presupporrebbero non un solo pianeta ma tre! E dunque il modello propagandato e agognato è di una colossale falsità, un imbroglio planetario. Gli altri capi di Stato non fiatano quando don Pepe si rivolge a loro. Soffrono e non vedono l’ora di ritornare alle loro alchimie, alle convergenze parallele. Ma puntualmente, cioè al convegno successivo, Mujica scompagina quei loro discorsi, ridicolizza cifre utopiche spacciate come verità sacrosante, il tutto con toni dimessi, senza astio.

  • Ortaggi vietati, sul nostro cibo l’ultimo diktat dell’Ue

    Scritto il 31/12/13 • nella Categoria: segnalazioni • (7)

    Semi proibiti e nuovi vincoli per l’orticoltura. L’11 dicembre è scaduto il termine che i deputati del Parlamento Europeo avevano per presentare emendamenti al testo con il quale la Commissione di Barroso intende introdurre una nuova regolamentazione per il mercato delle sementi. Un testo molto criticato dalle associazioni che raccolgono le realtà contadine di base che si battono per un’agricoltura sostenibile, per la libera circolazione dei semi e per la preservazione della biodiversità. Il nuovo regolamento, infatti, punta a sostituire 12 precedenti direttive europee. Secondo l’associazione europea “Seed Freedom”, sono in arrivo «condizioni ancora più limitative e ulteriore standardizzazione delle sementi». Lo scambio dei semi «conoscerà nuove restrizioni». Conseguenza: «Ciò che costituisce la base del nostro cibo diventerà parte di regole di mercato». Per le varietà locali, gli ortaggi rari e i frutti antichi, il nuovo regolamento «significherà barriere burocratiche ed economiche che saranno molto difficili da oltrepassare», mentre «diventerà più complicato anche l’accesso alle varietà biologiche».
    Probabilmente, spiega Giovanni Fez su “Il Cambiamento”, la commissione agricoltura del Parlamento voterà sul testo a gennaio 2014 e qualche mese dopo ci sarà la votazione in plenaria prima che venga adottata la decisione definitiva dal Consiglio d’Europa. “Seed Freedom” chiama quindi a raccolta tutti i cittadini affinché facciano pressione sulle istituzioni europee per non far passare il testo così com’è stato redatto: «Con queste modalità spesso si arriva ad ignorare la salute pubblica, la biodiversità e gli aspetti etici della produzione alimentare e degli interessi comuni». E’ in pericolo anche l’economia locale dei territori, quella delle filiere corte. «Chi si prenderà a cuore gli interessi della società civile, dei cittadini, degli agricoltori biologici e dei consumatori?». Attenzione: «L’uniformità genetica delle sementi non potrà mai risolvere il problema della fame nel mondo; in molti casi questi semi non riescono ad adattarsi alle condizioni locali e hanno bisogno di grandi quantità di pesticidi e fertilizzanti». Al contrario, «l’agricoltura biologica, biodinamica e tradizionale cerca di sviluppare varietà che diano risposte alle esigenze del luogo e che si adattino alle condizioni specifiche per produrre in maniera sostenibile».
    Lo dimostra un recente progetto co-finanziato dalla stessa Unione Europea attraverso il programma Alcotra (cooperazione franco-italiana), che in due anni ha creato “una rete per le biodiversità transfrontaliere”, varietà locali di ortaggi tradizionalmente coltivati in Piemonte e in Provenza, grazie all’impegno di agricoltori-custodi che hanno salvaguardato le specie, scongiurandone l’estinzione. Può apparire un impegno hobbystico, ma non lo è: la lotta contro l’erosione genetica degli ortaggi garantisce un’offerta più ampia verso il consumatore locale, fatta di prodotti veramente a chilometri zero, con un taglio netto al costo dei trasporti e all’impatto negativo – anche ecologico – della grande distribuzione, a tutto vantaggio delle economie locali e degli stessi consumatori, a cui si offrono prodotti sani, di stagione, coltivati senza pesticidi. A coordinare il progetto sono stati centri di ricerca francesi come il Grab di Avignone (agricoltura biologica) e la stessa Aiab, associazione italiana per l’agricoltura biologica. Obiettivo del progetto: il libero scambio di semi tra contadini italiani e francesi, per mettere al riparo – una volta per tutte – l’immensa ricchezza costituita dalla biodiversità coltivata negli orti.
    In Italia a battersi per la modifica del testo di Bruxelles è ora la Rete Semi Rurali. «La revisione attuata dalla Commissione Europea deve tenere in considerazione quegli agricoltori e quei cittadini-consumatori che, ad oggi, sono stati dimenticati dalla legislazione». Infatti, «chi cerca varietà locali, tradizionali, non uniformi o con particolari caratteristiche organolettiche o qualitative non può trovarle sul mercato, a causa di una legislazione troppo restrittiva». Inoltre, la nuova normativa sementiera «deve rispettare gli obblighi internazionali firmati dall’Unione Europea e in particolare il trattato Fao sulle risorse genetiche agricole per l’alimentazione e l’agricoltura, favorendo l’uso sostenibile della diversità agricola, tutelando i diritti degli agricoltori e garantendo l’accesso facilitato per fini di ricerca e sperimentazione alle varietà commercializzate». Le grandi lobby del cibo, comprese le multinazionali degli Ogm, vedono la sovranità alimentare dei territori come fumo degli occhi. Il guaio è che Bruxelles si limita a prendere ordini da loro. Non resta che una mobilitazione per tentare di sbarrare la strada a chi vuole cancellare la concorrenza locale al grande business. Ora, riassume “Il Cambiamento”, i prossimi mesi saranno decisivi: dopo la tappa di gennaio «ci si giocherà veramente tanto, perché non dimentichiamolo: chi controlla i semi, controlla il cibo e quindi la vita».

    Semi proibiti e nuovi vincoli per l’orticoltura. L’11 dicembre è scaduto il termine che i deputati del Parlamento Europeo avevano per presentare emendamenti al testo con il quale la Commissione di Barroso intende introdurre una nuova regolamentazione per il mercato delle sementi. Un testo molto criticato dalle associazioni che raccolgono le realtà contadine di base che si battono per un’agricoltura sostenibile, per la libera circolazione dei semi e per la preservazione della biodiversità. Il nuovo regolamento, infatti, punta a sostituire 12 precedenti direttive europee. Secondo l’associazione europea “Seed Freedom”, sono in arrivo «condizioni ancora più limitative e ulteriore standardizzazione delle sementi». Lo scambio dei semi «conoscerà nuove restrizioni». Conseguenza: «Ciò che costituisce la base del nostro cibo diventerà parte di regole di mercato». Per le varietà locali, gli ortaggi rari e i frutti antichi, il nuovo regolamento «significherà barriere burocratiche ed economiche che saranno molto difficili da oltrepassare», mentre «diventerà più complicato anche l’accesso alle varietà biologiche».

  • Iper-globalizzazione: noi, sudditi della fabbrica-mondo

    Scritto il 20/12/13 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    Neutralizzare lo Stato, lasciarlo senza soldi e imbrigliarlo in una rete sempre più fitta di vincoli. Sta avvenendo da tempo. Obiettivo: disarticolare le funzioni pubbliche sovrane, a vantaggio di un super-potere esterno – dominante, affaristico, privatizzatore. Dietro a politiche regolarmente insufficienti, deludenti e in apparenza incomprensibili, c’è un orizzonte chiarissimo, chiamato iper-globalizzazione. Funziona così: la catena produttiva delle merci è spezzettata e subappaltata nelle regioni del mondo dove il lavoro costa meno. Così, le istituzioni nazionali – completamente svuotate – anziché a tutelare i propri cittadini sono chiamate essenzialmente a facilitare il nuovo business, rimuovendo ostacoli e regole. Quello che ormai abbiamo di fronte, sostiene Christophe Ventura, è una integrazione mondiale delle élite, come «super-classi oligarchiche mondializzate». Sono “avanti” anni luce: hanno di fronte sindacati inoffensivi, politici compiacenti e media colonizzati. L’area nazionale, con le sue crisi economiche, è solo l’ultimo livello, ormai irrilevante, del grande gioco planetario.
    Nonostante la crisi finanziaria del 2008 e la conseguente riduzione della domanda negli Usa, in Cina e in Europa, nel 2012 il volume mondiale del commercio è aumentato del 2% contro il 5,1% del 2011, e ci si aspetta un incremento del 2,5% per il 2013. Il trading ormai rappresenta il 33% del Pil mondiale. Questo inedito aumento della combinazione commerciale planetaria, secondo gli economisti Arvind Subramanian e Martin Kessler costituisce la prima caratteristica della iper-mondializzazione che ci sta letteralmente travolgendo. Lo dice il Wto: tra il 1980 e il 2011, il volume delle merci scambiate su scala globale si è quadruplicato. E ogni anno il commercio cresce due volte più rapidamente della produzione. La nuova mappa mondiale della merci, annota Ventura in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, rivela una clamorosa frammentazione geografica della produzione e della disgregazione delle funzioni produttive su scala mondiale: «I flussi commerciali si inscrivono attualmente in “catene internazionali di valore” che organizzano i processi di produzione secondo distinte sequenze, realizzate (spesso contemporaneamente) in differenti luoghi del pianeta, secondo logiche di ottimizzazione del territorio».
    Tutto questo, aggiunge Ventura, è in funzione della strategia delle multinazionali: fisco, organizzazione sociale, salari, dimensione finanziaria, sviluppo tecnologico e persino educazione e assetti istituzionali. Così, negli ultimi vent’anni abbiamo assistito alla nascita di uno schema consolidato: la proprietà delle società, dei brevetti e dei marchi, incluse ricerca e sviluppo, si concentrano al centro dell’economia mondiale (specialmente nei paesi della Triade – Usa, Europa e Cina), mentre la creazione e l’assemblaggio dei prodotti si realizzano in paesi minori (Asia, America Latina, Africa, Oriente) attraverso aziende alle quali si subappalta questa funzione, come anche la distribuzione, la vendita e i servizi post-vendita (nel Maghreb o in India, per esempio). In questo modo, riassume Ventura, le 80.000 multinazionali registrate nel mondo (che assorbono i due terzi del commercio internazionale) controllano la manodopera del pianeta.
    Secondo la Cepal, organismo economico delle Nazioni Unite, a trainare il business mondiale sono tre grandi reti di produzione: la “fabbrica America” guidata dagli Usa, la “fabbrica Europa” con a capo la Germania e la “fabbrica Asia”, di cui Pechino ha assunto la leadership, superando Tokyo. «Queste tre “fabbriche” si caratterizzano per l’alto livello del commercio intra-regionale, che a sua volta si organizza attorno alla produzione di beni intermedi per questi stessi centri». Secondo le stime del ministero per il commercio francese, nel mondo la metà del valore delle merci esportate è composta da parti e componenti importati. «In Francia la proporzione è del 25%. Nei paesi in via di sviluppo è del 60%. L’iPhone e la Barbie sono i simboli di questo mercato “Made in the World”». Ne emerge un contesto dove si nota come, a partire dal 2010 e ancor di più nel 2013, sono nate nuove forme di accordi di libero commercio al di fuori dei contesti multilaterali del Wto. Sono chiamati accordi “mega-regionali” o “mega-bilaterali”, e investono ogni aera del mondo, dall’Atlantico al Pacifico. «La loro funzione è allo stesso tempo politica, geopolitica ed economica», spiega Ventura. «Si tratta di organizzare a lungo termine la sicurezza degli investimenti e delle attività – come pure facilitare le loro operazioni – degli attori finanziari ed economici globalizzati».
    Facilitare il business, scavalcando ogni ostacolo: «Tutto questo con l’obiettivo di consolidare e sviluppare il valore aggiunto delle merci nel contesto degli spazi transnazionali adeguati alle catene globali della produzione, nell’agire e nel dispiegare le multinazionali del centro dell’economia mondiale che dividono interessi comuni con gli attori economici, commerciali e finanziari locali e regionali». Il grande traguardo dei globalizzatori è sempre lo stesso: bypassare la geografia locale (incluse le sue leggi a tutela del lavoro) e disegnare nuove frontiere economiche, finanziarie e commerciali tra i paesi. Non si punta solo ad “armonizzare” i diritti doganali, ma anche ad imporre «gli standard giuridici dei paesi egemoni della Triade», oltrepassando la cosiddetta barriera “senza tariffe: norme sanitarie e fitosanitarie, condizioni di accesso ai mercati pubblici, diritti di proprietà, sicurezza degli investimenti, politiche di competenza. «Questa nuova trasformazione del capitalismo – rileva Ventura – tonifica le dinamiche di fusione tra gli Stati interessati ai mercati, disconnettendo così la capacità di controllo democratico del popolo – l’unico capace di controllare il potere del capitale – e in ultimo sottomettere le nostre società alla sua distruttiva dominazione».

    Neutralizzare lo Stato, lasciarlo senza soldi e imbrigliarlo in una rete sempre più fitta di vincoli. Sta avvenendo da tempo. Obiettivo: disarticolare le funzioni pubbliche sovrane, a vantaggio di un super-potere esterno – dominante, affaristico, privatizzatore. Dietro a politiche regolarmente insufficienti, deludenti e in apparenza incomprensibili, c’è un orizzonte chiarissimo, chiamato iper-globalizzazione. Funziona così: la catena produttiva delle merci è spezzettata e subappaltata nelle regioni del mondo dove il lavoro costa meno. Così, le istituzioni nazionali – completamente svuotate – anziché a tutelare i propri cittadini sono chiamate essenzialmente a facilitare il nuovo business, rimuovendo ostacoli e regole. Quello che ormai abbiamo di fronte, sostiene Christophe Ventura, è una integrazione mondiale delle élite, come «super-classi oligarchiche mondializzate». Sono “avanti” anni luce: hanno di fronte sindacati inoffensivi, politici compiacenti e media colonizzati. L’area nazionale, con le sue crisi economiche, è solo l’ultimo livello, ormai irrilevante, del grande gioco planetario.

  • Della Luna: Italia da buttare, vogliono staccare la spina

    Scritto il 18/12/13 • nella Categoria: idee • (3)

    Italia indifendibile? Lo dice la Suprema Corte, confermando la storia di un paese dominato per secoli dagli stranieri, grazie a “reggenti” sleali verso il popolo. I difensori dell’establishment, Napolitano e Boldrini in testa, sostengono che il Parlamento possa rilegittimare se stesso e l’intero ordinamento statale facendo semplicemente una nuova legge elettorale che corregga i vizi dichiarati il 4 dicembre dalla Corte Costituzionale? Problema: a votare la nuova legge sarebbero parlamentari eletti “illegittimamente”. Dunque, osserva Marco Della Luna, questa stessa legge sarebbe illegittima. «Insomma, qualunque cosa metteranno insieme, sarà chiaramente un pasticcio, sputtanato in partenza, e contribuirà alla già bassissima credibilità del sistema e delle sue regole, quindi compromettendo ulteriormente il suo funzionamento». L’incidente costituisce un precedente assoluto, nonostante il già scarso prestigio delle istituzioni: quest’ultima sentenza «è la prima auto-certificazione di illegittimità del sistema».
    A questa rottura senza uscita della legittimità dello Stato, aggiunge Della Luna nel suo blog, corrisponde sul piano economico una recessione senza via di uscita: «Le manovre e le predizioni di risanamento e rilancio falliscono tutte, gli indicatori fondamentali continuano a peggiorare, redditi e occupazione vanno a picco e destabilizzano il sistema previdenziale, destinato a non poter erogare pensioni sufficienti a vivere». Inoltre, l’“Europa” di Olli Rehn «preme brutalmente sull’euroservile governo Letta per accelerare e aumentare le privatizzazioni, ossia i trasferimenti sottocosto di industrie e servizi di interesse nazionale ai capitali predatori che guidano la politica comunitaria», mentre le promesse di ripresa «sono chiaramente menzognere, assolutamente impossibili da realizzare, buone solo a puntellare la casta».
    Per salvarsi davvero l’Italia avrebbe bisogno di investimenti privati, che però mancano «perché tasse, costo del lavoro, costo della burocrazia e inefficienza sistemica sono eccessivi, e perché non si investe in un mercato che non può comprare per mancanza di redditi». E servirebbero investimenti pubblici, anch’essi assenti «perché lo Stato ha sempre meno soldi», imprigionato nell’euro-trappola che lo priva di risorse monetarie e ora lo costringe, attraverso il Fiscal Compact, a ridurre il debito pubblico per qualcosa come 50 miliardi l’anno. Dopodiché, sarebbe necessario “riqualificare” la spesa pubblica tagliando gli sprechi destinati al clientelismo di casta, e fermare l’esodo dei cervelli investendo su ricerca e innovazione per riconquistare competitività. Serve liquidità, anche per far fronte al debito storico, «ma la liquidità viene sempre più sottratta all’economia nazionale da fuga dei capitali, fuga dei risparmi, rimesse degli immigrati, contribuzioni al Mes, contrazione del credito, banche che raccolgono denaro per investirlo nei mercati speculativi e improduttivi».
    Servirebbero «governanti competenti e non ciarlatani», in grado di introdurre «regole efficienti e applicate», mentre – al contrario – abbiamo «un continuo deterioramento della fiducia sociale e della qualità delle norme e del loro rispetto da parte di cittadini, imprese e istituzioni». Inevitabilmente, aggiunge Della Luna, questa doppia crisi sistemica – giuridica ed economica –  porta verso una rottura violenta. «La violenza potrà essere quella di insurrezioni interne di disperati-esasperati e conseguenti repressioni armate; oppure quella del nuovo dominus-creditore, il capitalismo rapinatore e affamatore euro-germanico che manderà, o farà chiamare dal governo “responsabile” di turno, l’Eurogendfor (il corpo di polizia militare antisommossa internazionale istituito col Trattato di Velsen nel 2007, con Prodi per l’Italia) ad eseguire quelle forme di repressione a cui le nostre forze dell’ordine non riuscirebbero ad arrivare». Analogamente, la repressione fiscale sarà affidata al Mes, in grado di «perpetrare quei prelievi fiscali per cui neanche Equitalia avrebbe l’animo».
    Domanda: «Fino a che livello di disastro, di asservimento e avvelenamento si vuole spingere questo infelice paese?». Per Della Luna, sarebbe saggio prevenire questi scenari accettando la realtà: vista oggi, la «cosiddetta unità d’Italia» sembra fallita, non funziona, non è vitale, «è una misconstruction come l’euro, la Pac (Politica agricola comune) e la stessa costruzione comunitaria». Sarebbe meglio «staccare la spina a questo Stato insieme mafioso e pagliaccesco, screditato dentro e fuori i propri confini, senza alcuna ragionevole prospettiva di miglioramento». Non basta essere «un’area monetaria ottimale», bisogna anche essere «un’area normativa ottimale, un’area morale ottimale». Missione impossibile, conclude Della Luna, per regioni che hanno subito la dominazione straniera per 14 secoli: per questo, nei conti del popolo, «i reggenti italiani tendono ad assumere il ruolo di governatori vassalli di potenze straniere», e la gente «tende a percepire lo Stato come qualcosa di sovraimposto, di sempre più estraneo e ostile e padronale». Risultato: «La slealtà dei governanti verso i cittadini induce la slealtà dei cittadini verso lo Stato, e viceversa, in una spirale autodistruttiva».

    Italia indifendibile? Lo dice la Suprema Corte, confermando la storia di un paese dominato per secoli dagli stranieri, grazie a “reggenti” sleali verso il popolo. I difensori dell’establishment, Napolitano e Boldrini in testa, sostengono che il Parlamento possa rilegittimare se stesso e l’intero ordinamento statale facendo semplicemente una nuova legge elettorale che corregga i vizi dichiarati il 4 dicembre dalla Corte Costituzionale? Problema: a votare la nuova legge sarebbero parlamentari eletti “illegittimamente”. Dunque, osserva Marco Della Luna, questa stessa legge sarebbe illegittima. «Insomma, qualunque cosa metteranno insieme, sarà chiaramente un pasticcio, sputtanato in partenza, e contribuirà alla già bassissima credibilità del sistema e delle sue regole, quindi compromettendo ulteriormente il suo funzionamento». L’incidente costituisce un precedente assoluto, nonostante il già scarso prestigio delle istituzioni: quest’ultima sentenza «è la prima auto-certificazione di illegittimità del sistema».

  • Mdf: cari forconi, la rivoluzione parte dai consumi

    Scritto il 16/12/13 • nella Categoria: idee • (1)

    Cari concittadini (lavoratori, studenti, pensionati, disoccupati…) giustamente stufi e al limite della sopportazione, condividendo la preoccupazione di chi è sceso in piazza ed evitando considerazioni personali sul colore delle manifestazioni (fermo restando il rifiuto della violenza, aspetto che vogliamo ribadire), vorremmo solo condividere alcune riflessioni con voi. Siamo pienamente in sintonia con le motivazioni alla base della protesta (corruzione e sbando della classe politica, globalizzazione, finanza e mercato selvaggi e senza limiti che strangolano il piccolo commercio locale, etc); riteniamo, tuttavia, che un’alternativa migliore debba partire da noi e che il cambiamento di questo sistema economico deve essere attuato con azioni concrete.
    Con il massimo rispetto e pienamente consci della diversità delle situazioni che ognuno sta vivendo e dei drammi personali, vogliamo porre – anche in maniera provocatoria – alcune domande. Perché il punto fondamentale è chiedersi quale futuro (e quale modello di società) auspichiamo. Commercianti, artigiani, piccoli imprenditori, è evidente quanto la crisi che stiamo vivendo si sia abbattuta su di voi con violenza; ma vi chiediamo, quando chiudete il vostro negozio la sera, dove andate a comprare il pasto duramente sudato? All’ipermercato o in un piccolo negozio a km0 o magari da un gruppo di acquisto solidale che si rifornisce da piccoli contadini? Sapete che buona parte delle arance e dei pomodori che trovate nei supermercati sono raccolte da persone in condizioni di schiavitù, vendute ad un prezzo ridicolo dal produttore alla grande distribuzione che poi le rivende negli ipermercati vicino a casa?
    Cittadini e lavoratori, anche noi, seppure sosteniamo la riduzione della giornata lavorativa (“lavorare meno, lavorare tutti”), l’autoproduzione e la riduzione dei consumi, abbiamo bisogno di andare a lavorare, ci scontriamo con la precarietà e abbiamo il timore che i soldi che ci vengono versati in contributi non li vedremo mai; ma quando chiamiamo un elettricista o andiamo dal barbiere, chiediamo la ricevuta fiscale? Abbiamo il coraggio di spendere 20 euro in più o di rinunciare a qualche consumo – magari superfluo – scegliendo di pagare “il giusto” e premiare chi paga le tasse e contribuisce a sostenere le scuole, gli ospedali e il nostro sistema previdenziale? Scegliamo di orientare i nostri consumi verso chi paga le persone rispettando i diritti? Se scopriamo che il pub dove andiamo regolarmente paga i suoi baristi in nero, siamo disposti a cambiare per andare in un posto dove magari la birra costa 0,50€ in più ma dove la legalità è di casa? E se quei 50 centesimi in più fossero un problema sareste disposti a far massa critica con altre persone e chiedere insieme un prezzo più basso e/o competitivo?!
    Non cadiamo nel qualunquismo del “tutti rubano, tutti se ne fregano…”. Alzi la mano chi è disposto a comprare dell’olio da un gruppo di acquisto solidale pagandolo 3-4 euro in più al litro, invece di quello della grande distribuzione che, seppure prodotto in Italia, è ottenuto da olive che vengono da fuori l’Europa, mentre i nostri contadini sono allo stremo! A tutti coloro che ritengono come noi che la finanza sta distruggendo l’economia reale e le banche siano istituzioni corrotte e spesso immorali chiediamo: dove avete posto i vostri risparmi? Avete pensato di investirli nell’economia reale, nelle banche etiche o in mille altri luoghi dove non saranno oggetto di speculazione? Certo, non avremo il 3-4% di interesse come promettono (e probabilmente mantengono) alcune banche on-line… vi siete chiesti cosa se ne fanno dei vostri soldi?
    Anche noi, che nella vita di tutti giorni siamo presi dalle nostre difficoltà, speranze e mille impegni, vorremmo che la politica desse risposte ai nostri problemi. Ci piacerebbe vedere nei programmi politici come punti fondamentali diritti, ambiente, lotte alle speculazioni, alle mafie e tutti coloro che impediscono alle persone di poter realizzare il diritto a vivere senza patimenti e liberi di poter perseguire la propria felicità. Dopodiché, se questo non accade, dobbiamo imparare dalla frase di Gandhi “sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”. Le cose possiamo cambiarle anche noi dal basso e subito senza chiedere niente a nessuno (senza per questo rinunciare al nostro diritto di manifestare e urlare la nostra rabbia se necessario). Domani forse inizia un altro giorno di proteste. Ma possiamo anche provare a informarci di più, cambiare le nostre abitudini e costruire un nuovo futuro a partire da noi stessi e dalle nostre scelte. Ora!
    (“Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo! Una nostra riflessione sulle recenti manifestazioni di protesta”, lettera-appello a cura del Circolo Mdf di Torino, pubblicata dal sito del Movimento per la Decrescita Felice il 12 dicembre 2013).

    Cari concittadini (lavoratori, studenti, pensionati, disoccupati…) giustamente stufi e al limite della sopportazione, condividendo la preoccupazione di chi è sceso in piazza ed evitando considerazioni personali sul colore delle manifestazioni (fermo restando il rifiuto della violenza, aspetto che vogliamo ribadire), vorremmo solo condividere alcune riflessioni con voi. Siamo pienamente in sintonia con le motivazioni alla base della protesta (corruzione e sbando della classe politica, globalizzazione, finanza e mercato selvaggi e senza limiti che strangolano il piccolo commercio locale, etc); riteniamo, tuttavia, che un’alternativa migliore debba partire da noi e che il cambiamento di questo sistema economico deve essere attuato con azioni concrete.

  • Benvenuti in Albania, al call center si lavora per 600 euro

    Scritto il 13/12/13 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    «Se il call center si sposta in Albania, portiamo l’Albania qui da noi. Cioè, riduciamo drasticamente i salari». Lo rivela l’ultimo contratto di settore siglato da Cgil, Cisl e Uil con le due strutture padronali, Assotelecomunicazioni e Assocontact, in cui si prevede una sorta di “salario di ingresso” al 60% della paga minima, riferisce il “Fatto Quotidiano”. Coi loro 100.000 occupati – senza contare quelli interni alle aziende – i call center «sono la vetrina per clienti in cerca di informazioni oppure da assoldare con proposte “allettanti”». Il contratto si riferisce a questi ultimi, i lavoratori a progetto (co.co.pro.) in “outbound”, cioè coloro che effettuano chiamate verso l’esterno (telemarketing, televendite, ricerche di mercato). Si tratta di 30.000 addetti, per i quali la riforma Fornero ha richiesto il ricorso alla contrattazione per determinarne la retribuzione. E così, aziende e sindacati di categoria hanno siglato un contratto che prevede il riconoscimento del minimo tabellare (circa 1.000 euro netti al mese) ma ridotto al 60% fino a gennaio 2015. Da quella data, poi, si risale di anno in anno fino a tornare al 100% (del minimo) nel 2018.
    «Una forma originale di “salario di ingresso” prolungato nel tempo», la definisce Salvatore Cannavò sul “Fatto”. Inoltre, per le nuove assunzioni al termine del contratto, l’azienda utilizzerà lavoratori presenti in una speciale graduatoria: per potervi accedere, gli aspiranti dipendenti dovranno sottoscrivere “un atto di conciliazione individuale”, di valore giuridico, che li impegna in anticipo a rinunciare «a diritti pregressi, che non vengono nemmeno specificati». Anche da parte sindacale, l’accordo è stato difeso come «una importante novità nel panorama delle relazioni industriali». Le parti hanno addirittura siglato un comunicato congiunto. Cesare Avenia di AssTel sostiene che «non era mai avvenuto prima che si stipulasse un accordo avente come oggetto dei lavoratori non dipendenti». La retribuzione’ Ultra-minima, certo. Però «amplia le certezze per i lavoratori». Tra queste: la contrattazione separata, che secondo fonti sindacali «impedisce loro di accedere al contratto generale».
    Nati impetuosamente agli inizi degli anni Duemila, ricorda Cannavò, i call center si sono evoluti confusamente con contratti “selvaggi”, messi in evidenza da film come “Parole sante” di Ascanio Celestini e “Tutta la vita davanti”, di Paolo Virzì, tratto dal libro di Michela Murgia “Il mondo deve sapere”. «Il call center sembra la catena di montaggio degli anni Duemila», sottolinea il “Fatto”. Nel 2006, l’allora ministro del lavoro Cesare Damiano, «uno dei pochi che si occupa ancora di lavoro», con una circolare riuscì a stabilizzare circa 24.000 lavoratori, ma il dispositivo fu poi “smontato” dal successivo governo Berlusconi. «Nel frattempo si è ampliato il fenomeno di delocalizzazione alla ricerca del costo del lavoro più basso», parzialmente mitigato da una misura introdotta nel 2012 dal governo Monti, che sospende gli incentivi per le aziende che delocalizzino fuori dai confini dell’Ue.
    Per i call center, «settore simbolo del precariato», lo spettro della delocalizzazione incombe da sempre sui lavoratori di marchi come Sky, Fastweb, Vodafone. «Tra i paesi preferiti la vicina Albania, con circa 60 aziende tra Durazzo, Valona e Tirana. Ma anche la Romania o la Tunisia». Attenzione: se negli anni Duemila i lavoratori manifestavano soprattutto per regolarizzare il proprio lavoro, ora la protesta è contro le delocalizzazioni, come dimostrano le recenti agitazioni dei dipendenti Fastweb, Almaviva, E-Care. «In tempi di crisi ogni lavoro è essenziale, anche quello meno professionale dei call center, per quanto si tratti ormai di una occupazione rilevante», conclude Cannavò. «In Puglia, ad esempio, Teleperformance è la seconda azienda dopo l’Ilva con 3.000 dipendenti, mentre Almaviva (ex Atesia) ne occupa 24.000 in Italia». Per i nuovi addetti al telemarketing, la paga scende dunque a 600 euro, full time. I sindacati? Firmano, entusiasti: benvenuti in Albania. «Di questo passo», commenta Giuliana Cupi di “Alternativa”, «tra poco, per lavorare dovremo pagare: e scommetto che qualche sindacato riuscirà pure a vantarsi di aver salvaguardato i posti di lavoro».

    «Se il call center si sposta in Albania, portiamo l’Albania qui da noi. Cioè, riduciamo drasticamente i salari». Lo rivela l’ultimo contratto di settore siglato da Cgil, Cisl e Uil con le due strutture padronali, Assotelecomunicazioni e Assocontact, in cui si prevede una sorta di “salario di ingresso” al 60% della paga minima, riferisce il “Fatto Quotidiano”. Coi loro 100.000 occupati – senza contare quelli interni alle aziende – i call center «sono la vetrina per clienti in cerca di informazioni oppure da assoldare con proposte “allettanti”». Il contratto si riferisce a questi ultimi, i lavoratori a progetto (co.co.pro.) in “outbound”, cioè coloro che effettuano chiamate verso l’esterno (telemarketing, televendite, ricerche di mercato). Si tratta di 30.000 addetti, per i quali la riforma Fornero ha richiesto il ricorso alla contrattazione per determinarne la retribuzione. E così, aziende e sindacati di categoria hanno siglato un contratto che prevede il riconoscimento del minimo tabellare (circa 1.000 euro netti al mese) ma ridotto al 60% fino a gennaio 2015. Da quella data, poi, si risale di anno in anno fino a tornare al 100% (del minimo) nel 2018.

  • Le finte privatizzazioni? Maxi-favori ai banchieri amici

    Scritto il 05/12/13 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    Privatizzare ha due obiettivi fondamentali. Il primo è scollegare la politica e il palazzo dalla gestione delle imprese restituendole al mercato. Il secondo è recuperare risorse una tantum per coprire il nostro gigantesco debito pubblico. Le privatizzazioni annunciate da Letta in una certa misura raggiungono il primo obiettivo. Facciamo un esempio. La Sace è una società attiva nel sostegno assicurativo alle imprese e vale circa 5 miliardi. C’è la possibilità che venga acquistata dalle Generali. Il passaggio dal pubblico al privato ci sarebbe e sarebbe decisivo. Stm, la società dei microchip, verrebbe invece ceduta dal Tesoro alla Cassa depositi e prestiti (che per l’80 per cento è del Tesoro stesso e per il resto delle Fondazioni bancarie) realizzando solo una partita di giro. Ma pur sempre giro pubblico. Ma proprio il caso Sace ci racconta il bluff contabile di queste privatizzazioni. Qualcuno ci deve infatti spiegare come si possa privatizzare due volte la stessa società.
    L’anno scorso infatti ci furono titoloni dei giornali che favoleggiavano sui dieci miliardi di privatizzazioni realizzate dal governo Monti. Succedeva che il Tesoro cedeva alla solita Cassa depositi e prestiti la medesima Sace. Scrivemmo che più che una privatizzazione si trattava dello spostamento da una tasca all’altra di un bene che rimaneva nella piena disponibilità pubblica. Tanto che a distanza di un anno si riparla di privatizzare la Sace. Un miracolo. Ma i paradossi non finiscono qui. Il governo Letta ha parlato di 10-12 miliardi derivanti dalle privatizzazioni. Circa nove di questi 12 miliardi sono di società nel portafoglio della Cdp (non solo la Sace, ma anche Fincantieri, gran parte dell’Eni e le reti infrastrutturali). La Cassa si terrà gran parte del bottino, poiché ha necessità di rafforzarsi patrimonialmente.
    Come proventi delle privatizzazioni resterebbero più o meno tre miliardi che la Cdp potrebbe dare al Tesoro con un dividendo straordinario. Ma c’è un problemino. Il 20 per cento di questo dividendo sarebbe ovviamente pagato al socio di minoranza e cioè le Fondazioni bancarie. Ricapitoliamo. Lo Stato dice di vendere per circa 12 miliardi. Il Tesoro incasserà poco più di 2 miliardi di euro. E 600 milioni finiranno nei forzieri, oggi a secco, delle Fondazioni bancarie. Giuseppe Guzzetti, il potente numero uno delle ex casse di risparmio, può finalmente aprire la bottiglia di champagne che aveva in fresco da anni. Con le banche conferitarie che non danno un dividendo, le Fondazioni rischiavano di rimanere impantanate. Ci pensa il governo Letta, che grazie alle privatizzazioni, fa loro questo bel regalo. Le assurdità contabili di queste vendite di Stato continuano. I circa 2,4 miliardi (sempre che si riesca a vendere tutto) che potrebbero arrivare nelle casse del Tesoro, non andrebbero a ridurre il nostro debito pubblico.
    Grazie all’invenzione fatta l’anno scorso dal governo Monti, si possono usare introiti straordinari (come quelli derivanti da vendite di società o di immobili, insomma dalla cessione dei gioielli della corona) per pagare le spese correnti. È come se una famiglia indebitatissima si vendesse la casa o le posate d’argento per andare a mangiare in un ristorante stellato. Se ciò avvenisse in una famiglia, si potrebbe chiamare la neuro. Se ciò avviene nello Stato, si chiama la finanziaria. La morale. Grazie alla vendita di pezzi del nostro patrimonio, stiamo dando una mano agli azionisti delle banche, oggi in grande difficoltà, stiamo rendendo sempre più forte la nuova e moderna Iri (cioè la Cdp) e con quel che resta stiamo finanziando i pasti del 2014. Che vedrete prima o poi qualcuno dovrà pagare.
    (Nicola Porro, “Finte privatizzazioni”, da “Il Giornale” del 13 novembre 2013).

    Privatizzare ha due obiettivi fondamentali. Il primo è scollegare la politica e il palazzo dalla gestione delle imprese restituendole al mercato. Il secondo è recuperare risorse una tantum per coprire il nostro gigantesco debito pubblico. Le privatizzazioni annunciate da Letta in una certa misura raggiungono il primo obiettivo. Facciamo un esempio. La Sace è una società attiva nel sostegno assicurativo alle imprese e vale circa 5 miliardi. C’è la possibilità che venga acquistata dalle Generali. Il passaggio dal pubblico al privato ci sarebbe e sarebbe decisivo. Stm, la società dei microchip, verrebbe invece ceduta dal Tesoro alla Cassa depositi e prestiti (che per l’80 per cento è del Tesoro stesso e per il resto delle Fondazioni bancarie) realizzando solo una partita di giro. Ma pur sempre giro pubblico. Ma proprio il caso Sace ci racconta il bluff contabile di queste privatizzazioni. Qualcuno ci deve infatti spiegare come si possa privatizzare due volte la stessa società.

  • Il Grillo no-euro pensa ai giovani: non emigrate, cospirate

    Scritto il 04/12/13 • nella Categoria: segnalazioni • (8)

    Non c’è ancora una ricetta precisa – sull’euro “solo” un referendum – ma il nemico è finalmente messo a fuoco: la vera casta, quella di Bruxelles, che emana i peggiori diktat (Fiscal Compact e pareggio di bilancio) per volontà della Commissione Europea, cioè di un governo-fantasma e onnipotente, che nessuno ha mai eletto. E’ la svolta genovese di Grillo, quella del terzo V-Day: la colpa principale della nomenklatura italiana non è più la sua endemica corruzione, ma l’accondiscendenza criminosa verso il potere “nemico” che ha usurpato l’orizzonte europeo per trasformare l’Unione in una sorta di dittatura, ben decisa a rovinare un paese come l’Italia. Balza agli occhi il dato generazionale della piazza grillina, osserva Anna Lami: il popolo di Grillo ha un’età media di trent’anni, è fatto di giovani coppie, studenti, famiglie con bambini. «A differenza delle primarie del Pd, delle convention berlusconiane e della gran parte dei ritrovi di quello che resta della sinistra anticapitalista, i pensionati nella piazza pentastellata sono una sparuta minoranza».
    «Chi negli anni a venire porterà sulle spalle il peso dei disastri che questo sistema sta producendo – aggiunge Anna Lami nel suo reportage su “Megachip” – attualmente guarda ai 5 Stelle con speranza». E il V-Day di Genova segna un salto significativo nel profilo politico del movimento grillino: si riducono i meri attacchi alla casta politica e crescono quelli all’Europa dell’austerità e dell’euro. «Si tenta anche di delineare i primi tratti che dovrebbero caratterizzare in positivo la società del futuro (citati gli esempi di Correa, Morales e Maduro), in maniera a tratti confusa, ma indice di un significativo progresso che, probabilmente, Grillo e Casaleggio intendono innestare nella coscienza del “loro” popolo». Parole dirette, emergenze stringenti: povertà («ci sono 8 milioni di poveri, non possiamo continuare a far finta che non esistano»), precarietà occupazionale («c’è troppa gente costretta ad accettare qualsiasi ricatto per sopravvivere»), allargamento del divario tra ricchi e poveri. Napolitano? Merita l’impeachment: «Rimarrai solo», tuona Grillo, rivolto all’uomo del Colle. «La tradirai da solo, l’Italia».
    “Oltre”, la parola chiave del meeting, è soprattutto «andare oltre il concetto di quest’Europa, a cui non credono più neanche i bambini». In sette punti, ecco delineata la politica estera europea del “populista arrabbiato”. Innanzitutto un referendum sull’euro: «Siamo stati truffati quando siamo entrati, e ora ci troviamo a competere in un mercato schizofrenico». Deve pur esserci un piano-B, perché di questo passo c’è solo il collasso dell’Italia. Gli eurobond, per imporre alla Bce di sostenere i debiti sovrani? «Non li accetteranno mai, ma li chiederemo lo stesso». Come? Stringendo un’alleanza coi paesi mediterranei: «Non dobbiamo parlare con la Merkel, ma con i paesi simili a noi, con problemi simili ai nostri». Cioè Francia, Spagna, Grecia, Portogallo. «Gli economisti mi criticheranno? Sono loro la rovina di questo paese, in cinquant’anni non ne hanno azzeccata una». Il resto sono conseguenze, ben esplicitate. Come il no al pareggio di bilancio: «Vedremo noi se e come sforare, e non per diritto costituzionale. Abbiamo perso la sovranità monetaria, quella economica, quella dei nostri figli». Idem per il Fiscal Compact, da abolire: «Non possiamo accettare un contratto per il quale dovremo tagliare 50 miliardi l’anno per vent’anni». Ai giovani, protagonisti della piazza, un’esortazione forte: «Non dovete emigrare, dovete cospirare!».

    Non c’è ancora una ricetta precisa – sull’euro “solo” un referendum – ma il nemico è finalmente messo a fuoco: la vera casta, quella di Bruxelles, che emana i peggiori diktat (Fiscal Compact e pareggio di bilancio) per volontà della Commissione Europea, cioè di un governo-fantasma e onnipotente, che nessuno ha mai eletto. E’ la svolta genovese di Grillo, quella del terzo V-Day: la colpa principale della nomenklatura italiana non è più la sua endemica corruzione, ma l’accondiscendenza criminosa verso il potere “nemico” che ha usurpato l’orizzonte europeo per trasformare l’Unione in una sorta di dittatura, ben decisa a rovinare un paese come l’Italia. Balza agli occhi il dato generazionale della piazza grillina, osserva Anna Lami: il popolo di Grillo ha un’età media di trent’anni, è fatto di giovani coppie, studenti, famiglie con bambini. «A differenza delle primarie del Pd, delle convention berlusconiane e della gran parte dei ritrovi di quello che resta della sinistra anticapitalista, i pensionati nella piazza pentastellata sono una sparuta minoranza».

  • Qualcosa di sinistra: solo Civati rispetta gli elettori Pd

    Scritto il 03/12/13 • nella Categoria: idee • (4)

    Il Pd un partito di destra? Certamente sì, se lo si giudica dalla linea politica: al confronto, il Pri di Ugo La Malfa (Prima Repubblica) «sarebbe stato un partito di estrema sinistra». E persino il Pli di Giovanni Malagodi, ultra-liberale, avrebbe tranquillamente “scavalcato a sinistra” l’attuale partito di Renzi e D’Alema. Ma attenzione: la base del Pd resta interamente di sinistra. E il fatto che continui a tollerare un gruppo dirigente «di destra» – o meglio ancora, di semplici «cretini» – non deve impedire all’elettorato di sinistra di riconoscere il problema: lo stesso vecchio Pci, accanto ai suoi meriti storici, ha coltivato grandi difetti, tra cui proprio l’abitudine a fidarsi dei dirigenti, anche se «allevati come polli in batteria» specie dopo l’estinzione dei padri nobili. Un difetto tipico della sinistra italiana, rimediabile forse soltanto con una forte rottura nel gruppo dirigente: cioè con un leader come Civati, l’unico in fondo a rispettare davvero l’ispirazione di sinistra dell’elettorato Pd.

  • Bergoglio: no al liberismo, la tirannia che svuota lo Stato

    Scritto il 03/12/13 • nella Categoria: idee • (3)

    «Questa economia uccide. Non è possibile che non faccia notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada, mentre lo sia il ribasso di due punti in Borsa». I media italiani ne hanno parlato poco, ma la nuova “esortazione apostolica” di Papa Francesco, “Evangelii Gaudium” (la gioia del vangelo) contiene una potente critica al capitalismo finanziario. «Così come il comandamento “non uccidere” pone un limite chiaro per assicurare il valore della vita umana, oggi dobbiamo dire “no a un’economia dell’esclusione e della inequità”», scrive Bergoglio. «Oggi tutto entra nel gioco della competitività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole». Conseguenza: «Grandi masse di popolazione si vedono escluse ed emarginate: senza lavoro, senza prospettive, senza vie di uscita». Aggiunge il pontefice: «Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione, ma di qualcosa di nuovo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive».

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