Archivio del Tag ‘mondo’
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Seminare avvenire: orticoltori di tutta Europa unitevi
E’ nata, ufficialmente, la Libera Repubblica degli Orti. Si estende dal Piemonte alla Provenza, lungo la frontiera tra Italia e Francia, dalle Alpi fino al Mediterraneo. E’ popolata di melanzane, peperoni, cavolfiori, fagioli, meloni. Non sono prodotti qualsiasi: sono antiche varietà locali, messe in salvo dai loro agricoltori-custodi. Obiettivo: preservare la biodiversità che arricchisce i territori e i consumatori. «Si tratta di specie autoctone, di grande qualità, selezionate nel corso dei decenni e ben adattatesi al clima delle loro zone», dicono Vianney Le Pichon e Massimo Pinna, sviluppatori del progetto europeo “Una rete per le biodiversità transfrontaliere”. Il network ha aggregato decine di coltivatori-pionieri e li ha messi in contatto: oggi i loro saperi sono condivisi, e i semi dei rispettivi ortaggi – italiani e francesi – fanno parte di una sorta di “banca” e sono a disposizione di chiunque voglia impegnarsi a propagarli, seminandoli nel proprio orto, in barba ai diktat sempre più invadenti che favoriscono la grande distribuzione a vantaggio delle varietà industriali, che puntano tutto sulla resa a scapito della qualità.Piccolo è bello: mai stato più vero. «Da parte nostra – dice Marie Beysson, giovane coltivatrice di peperoni nella zona del Vaucluse – si tratta di offrire ai consumatori un’alternativa valida, permettendo loro di assaggiare sapori diversi». Fa eco il conterraneo Thierry Varis: «Rinunciare agli ibridi e puntare sui semi autoprodotti significa scommettere sul valore del gusto e della genuinità». Filiere corte, chilometri zero, economia locale dei territori. Volendo, sovranità alimentare. E riconversione ecologica del sistema produttivo. Decrescita virtuosa: se ad essere tagliati sono gli sprechi (trasporti, carburante, energia) ci guadagnano tutti. Il video “Seminare futuro”, che documenta il ciclo vitale del progetto, offre un piccolo affresco di umanità resistente, pienamente consapevole del difficile momento mondiale. «Noi teniamo duro – taglia corto Alberto Lombardo, dalla valle di Susa – perché la salvaguardia del territorio non ha prezzo, e la piccola agricoltura locale resta un baluardo».La pensa così anche Eraldo Dionese, agricoltore-poeta delle Langhe, con all’attivo libri di versi pubblicati da Vallecchi. Eraldo è un “mago” dei fagioli: i suoi “scozzesi” vanno a ruba, contesi dai gruppi d’acquisto solidale. Dice: «Il mercato ci ha abituati a “comprare con gli occhi”, trascurando gli ortaggi più rari e più validi: bisogna impegnarsi a farli sopravvivere, bisogna crederci». Il progetto – presentato nel sito ufficiale – è anche una piccola narrazione di ritrovamenti fortunati. «Lavorando negli impianti vinicoli di Gigondas, a nord di Avignone – racconta Françoise Genies – un giorno mio marito si è imbattuto in un pomodoro particolarissimo, assolutamente delizioso e sconosciuto: l’ho recuperato, e ora è diffuso in diverse zone del Vaucluse, per la felicità dei consumatori». Il paniere della “rete transfrontaliera” trabocca di delizie poco note: la cipolla piatta di Leinì, il prelibato ravanello di Moncalieri, il pisello “quarantin” di Casalborgone, l’insalatina invernale di Castagneto Po che cresce anche sotto la neve.Sul versante francese si segnalano varietà rare come la lattuga sanguigna, coltivata dai suoi agricoltori-custodi sulle colline di Saignon in una sorta di campo sperimentale per le biodiversità orticole, coordinato da Jean-Luc Danneyrolles e Hervé Coullet. Ci sono melanzane locali, pomodori-cachi, peperoncini della Costa Azzurra e peperoni come quello di Lagnes, recuperati grazie alle risorse genetiche di un istituto come l’Inra e ora al centro di un vasto programma di reintroduzione, per dare vita a una filiera locale in grado di realizzare sul posto anche la trasformazione del prodotto. Piccoli passi, ma significativi, partendo dalle verdure di stagione, che grazie all’impegno degli agricoltori-custodi stanno tornando stabilmente sui mercati locali. «E sono tutti prodotti rustici, robusti», assicura Vianney Le Pichon. Ortaggi conservati per generazioni dalla sapienza contadina, oggi trasferita a quelli che vengono chiamati “seed savers”.Orticoltori di tutta Europa unitevi. Il momento è propizio: sotto i colpi della crisi economica, cresce ovunque il ritorno alla passione per l’orto, come dimostra anche il proliferare degli orti urbani nelle grandi città. Il progetto transfrontaliero, fondato sull’incontro sistematico tra italiani e francesi, lascia intravedere un germe di futuro, un possibile modello socio-economico alternativo e pieno di vantaggi: «C’è più autonomia per gli agricoltori, che scelgono di coltivare i prodotti che preferiscono», dice Massimo Pinna, «e al tempo stesso più scelta per i consumatori, a cui si offrono varietà locali e genuine». Un modello da replicare: condividendo i suoi saperi sulla coltivazione del proprio prodotto, ogni singolo agricoltore più aiutarlo a sopravvivere e diffondersi, scongiurando l’estinzione. «Il nostro nemico infatti è l’erosione genetica, che impoverisce il patrimonio della biodiversità europea», dice Antonio Balbo, di Leinì. «Coltivare ortaggi locali – insiste Alberto Lombardo – significa anche fare cultura, perché dietro di essi c’è sempre l’umanità».C’è da augurarsi che la “rete delle biodiversità” valichi altri confini europei, sviluppando un’alleanza ecologica e sostenibile fra territori, contadini, consumatori. Del resto, le vie dei semi sono infinite: «Ho recuperato un fagiolo in via di estinzione, il “crochet di Nizza”, grazie a un’appassionata italiana che ho incontrato casualmente a una fiera», racconta Arnaud Dauvillier, agricoltore a Sisteron nella valle della Durance. «Io invece ho già provato a piantare nel mio terreno, con ottimi risulati, i semi che ho ricevuto dai colleghi italiani: sono prodotti come il cavolfiore di Moncalieri e il peperone di montagna», racconta Sylvain Martin, che riesce a coltivare ottimi ortaggi in alta montagna, nel parco nazionale francese degli Écrins. Loris Leali, originario del lago di Garda, si è trasferito in Provenza e ha impiantato un’azienda biologica sulle alture che sovrastano Nizza, a Massoins, nella valle del Var: «Spero che domani i semi recuperati da questo progetto possano diventare patrimonio comune», dice. «Abbiamo bisogno di conoscerci, di essere uniti e solidali, di scambiarci saperi». Anche questa è Europa, sebbene non parli la lingua fredda di Bruxelles.E’ nata, ufficialmente, la Libera Repubblica degli Orti. Si estende dal Piemonte alla Provenza, lungo la frontiera tra Italia e Francia, dalle Alpi fino al Mediterraneo. E’ popolata di melanzane, peperoni, cavolfiori, fagioli, meloni. Non sono prodotti qualsiasi: sono antiche varietà locali, messe in salvo dai loro agricoltori-custodi. Obiettivo: preservare la biodiversità che arricchisce i territori e i consumatori. «Si tratta di specie autoctone, di grande qualità, selezionate nel corso dei decenni e ben adattatesi al clima delle loro zone», dicono Vianney Le Pichon e Massimo Pinna, sviluppatori del progetto europeo “Una rete per le biodiversità transfrontaliere”. Il network ha aggregato decine di coltivatori-pionieri e li ha messi in contatto: oggi i loro saperi sono condivisi, e i semi dei rispettivi ortaggi – italiani e francesi – fanno parte di una sorta di “banca” e sono a disposizione di chiunque voglia impegnarsi a propagarli, seminandoli nel proprio orto, in barba ai diktat sempre più invadenti che favoriscono la grande distribuzione a vantaggio delle varietà industriali, che puntano tutto sulla resa a scapito della qualità.
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Fiat-Chrysler, futuro all’estero. E dal governo, silenzio
La nuova Fiat Chrysler Automobiles avrà la sede sociale in Olanda. Quella fiscale nel Regno Unito, ma il gruppo continuerà a pagare le tasse nei paesi in cui gli utili saranno prodotti. La società sarà quotata alla borsa di New York, dove i titoli trattati sono migliaia e il loro valore si misura in trilioni di dollari, e in quella di Milano, dove i titoli e il loro valore totale sono grosso modo otto o dieci volte di meno. Ricerca, sviluppo, progettazione e adattamento evolutivo dei vari modelli saranno concentrati in Usa, poiché essi vanno per forza dove si realizza il grosso della produzione, ma forse un pezzo resterà a Torino per sostenere il cosiddetto polo del lusso. Gli stabilimenti principali sono sparsi tra Usa, Canada e Messico (Chrysler), ovvero tra Brasile, Polonia, Turchia e Italia (Fiat). La rete dei fornitori dei tre principali livelli (sistemi, sottosistemi e componenti minori) sarà distribuita in gran parte del mondo.Devono veramente amare molto le grandi scacchiere e le partite complicate Sergio Marchionne e John Elkann, per avere aperto quasi contemporaneamente tanti fronti di gioco, ed essere riusciti finora a condurre la partita piuttosto che farsela imporre dall’avversario. Essi sanno bene che dall’altra parte vi sono molti altri attori a progettare ed eseguire le prossime mosse, e alcuni di essi, oltre ad essere abili, non hanno accolto troppo bene l’acquisizione di Chrysler. In Usa, molti investitori e analisti hanno patito la mossa del cavallo consistente nell’acquisire la Chrysler in parte con i soldi del governo americano, e in maggior parte con i soldi della Chrysler e dei fondi dei suoi sindacati. Ma più di questa operazione, che ha costituito senza dubbio un successo strategico da parte del Lingotto sul piano finanziario, essi hanno scarsamente gradito che il rilancio della società americana sia avvenuto soprattutto mediante il rilancio di modelli stagionati e non proprio ecologicamente corretti come la Jeep Grand Cherokee, piuttosto che investire gli utili in nuovi modelli idonei a rinfrescare gli allori di Chrysler. Per tacere dei loro giudizi sulla difficile situazione dell’auto Fiat nel nostro paese, che ha portato molti a parlare di salvataggio del Lingotto da parte della casa di Auburn Hills.Non ci siamo solo noi a chiederci quanti nuovi posti di lavoro si creeranno in Italia grazie all’operazione Chrysler; ci sono anche tanti americani che si chiedono quanti posti saranno creati nel loro paese grazie all’operazione Fiat. Dall’altra parte della scacchiera ci sono ovviamente anche le agenzie di rating. Sono attori che non giocano in proprio, ma sono consiglieri assai ascoltati dagli investitori, in specie fondi di investimento e fondi pensione; proprietari, va ricordato, di metà dell’economia mondiale. Li ha resi potenti e influenti la finanziarizzazione delle imprese industriali, a partire proprio dal settore auto. Quando qualcuno, anni fa, definì le corporation del settore «istituti finanziari che producono anche auto», aveva sott’occhio la situazione della General Motors, la cui divisione finanziaria che contava forse trentamila persone produceva il 40% degli utili della società, che aveva allora 300.000 dipendenti.Da allora, il peso della finanza sulle corporation industriali è ancora cresciuto, donde segue che produrre buone automobili in giro per il mondo non basta per assicurare un successo duraturo al costruttore. Il fatto che Moody’s abbia messo sotto osservazione Fiat per una possibile riduzione del rating, che già non è alto (Ba3), a causa della sua situazione finanziaria, può essere soltanto una mossa intermedia in una partita particolarmente complessa. Ma Marchionne ed Elkann sono in due, mentre dall’altra gli attori che si assiepano attorno alla scacchiera suggerendosi a vicenda le mosse sono dozzine. Manca, ai lati della scacchiera, il governo italiano, che non solo non ha la minima idea o intenzione di entrare in partita, ma non si è nemmeno degnato di rivolgere alla ferrata coppia del Lingotto la madre di tutte le domande: mentre auguriamo al lieto evento le migliori fortune, in concreto, cifra su cifra, documento su documento, qui e ora e non nel decennio prossimo, che cosa ne viene al nostro paese, ai lavoratori italiani, al pubblico bilancio, dalla nascita della Fiat Chrysler Automobiles?(Luciano Gallino, “Fiat-Chrysler, il silenzio del governo”, intervento pubblicato su “Repubblica” il 30 gennaio 2014 e ripreso da “Micromega”).La nuova Fiat Chrysler Automobiles avrà la sede sociale in Olanda. Quella fiscale nel Regno Unito, ma il gruppo continuerà a pagare le tasse nei paesi in cui gli utili saranno prodotti. La società sarà quotata alla borsa di New York, dove i titoli trattati sono migliaia e il loro valore si misura in trilioni di dollari, e in quella di Milano, dove i titoli e il loro valore totale sono grosso modo otto o dieci volte di meno. Ricerca, sviluppo, progettazione e adattamento evolutivo dei vari modelli saranno concentrati in Usa, poiché essi vanno per forza dove si realizza il grosso della produzione, ma forse un pezzo resterà a Torino per sostenere il cosiddetto polo del lusso. Gli stabilimenti principali sono sparsi tra Usa, Canada e Messico (Chrysler), ovvero tra Brasile, Polonia, Turchia e Italia (Fiat). La rete dei fornitori dei tre principali livelli (sistemi, sottosistemi e componenti minori) sarà distribuita in gran parte del mondo.
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Chomsky: padroni dell’umanità, hanno ucciso l’Europa
Si credono i padroni dell’umanità, e purtroppo lo stanno diventando: la politica democratica ha cessato di resistere loro, spianando la strada alla dittatura incondizionata dei poteri forti, economici e finanziari, che ormai dettano le condizioni della nostra vita pubblica. Parola di Noam Chomsky, considerato il maggior linguista vivente, autore del capolavoro “Il linguaggio e la mente”. A 86 anni, il professore statunitense dimostra una lucidità di pensiero e di visione che non lascia spazio a dubbi. Nessuna illusione: «Le nostre società stanno andando verso la plutocrazia. Questo è il neoliberismo», dice Chomsky, in Italia per il Festival delle Scienze di Roma, gennaio 2014. Il titolo dell’ultima raccolta di testi inediti tradotti in italiano è estremamente esplicito: loro, gli oligarchi globali, signori delle multinazionali e grandi banche d’affari, sono “I padroni dell’umanità”.«La democrazia in Italia è scomparsa quando è andato al governo Mario Monti, designato dai burocrati seduti a Bruxelles, non dagli elettori», afferma Chomsky. In generale, come risporta il newsmagazine “Contropiano”, per Chomsky «le democrazie europee sono al collasso totale, indipendentemente dal colore politico dei governi che si succedono al potere». Sono “finite”, le democrazie del vecchio continente – Italia, Francia, Germania, Spagna – perché le loro sorti «sono decise da burocrati e dirigenti non eletti, che stanno seduti a Bruxelles». Decide tutto la Commissione Europea, che non è tenuta a rispondere al Parlamento Europeo regolarmente eletto. Puro autoritarismo neo-feudale: «Questa rotta è la distruzione delle democrazie in Europa e le conseguenze sono dittature».Per Chomsky, il neoliberismo che domina la dottrina tecnocratica di Bruxelles è ormai un pericolo planetario. Il fanatismo del “libero mercato” come via naturale per un’economia sana poggia su dogma bugiardo e clamorosamente smentito: senza il supporto pubblico (in termini di welfare e di emissione monetaria) nessuna economia privata può davvero svilupparsi. Oggi il neoliberismo si configura come «un grande attacco alle popolazioni mondiali», addirittura «il più grande attacco mai avvenuto da quarant’anni a questa parte». Desolante il silenzio dell’informazione, che coinvolge gli stessi “new media”: la loro tendenza è quella di «sospingere gli utenti verso una visione del mondo più ristretta». In modo sempre più automatico, «le persone sono attratte verso quei nuovi media che fanno eco alle loro stesse vedute», quelle cioè dei “padroni dell’umanità”.Si credono i padroni dell’umanità, e purtroppo lo stanno diventando: la politica democratica ha cessato di resistere loro, spianando la strada alla dittatura incondizionata dei poteri forti, economici e finanziari, che ormai dettano le condizioni della nostra vita pubblica. Parola di Noam Chomsky, considerato il maggior linguista vivente, autore del capolavoro “Il linguaggio e la mente”. A 86 anni, il professore statunitense dimostra una lucidità di pensiero e di visione che non lascia spazio a dubbi. Nessuna illusione: «Le nostre società stanno andando verso la plutocrazia. Questo è il neoliberismo», dice Chomsky, in Italia per il Festival delle Scienze di Roma, gennaio 2014. Il titolo dell’ultima raccolta di testi inediti tradotti in italiano è estremamente esplicito: loro, gli oligarchi globali, signori delle multinazionali e grandi banche d’affari, sono “I padroni dell’umanità”.
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La Germania sta spolpando le nostre migliori aziende
«Si chiama Spirale della Deflazione Economica Imposta. Ne ho scritto per la prima volta 4 anni fa ne “Il Più Grande Crimine”», ricorda Paolo Barnard. «Dissi che la Germania e la Francia avevano progettato la distruzione dei paesi industrializzati del sud Europa con l’adozione dell’euro, in particolare dell’Italia, perché era la Piccola Media Impresa italiana che aveva stroncato quella tedesca, al punto che nel 2000, prima dell’euro, l’Italia era il maggior produttore e la Germania l’ultimo (dati Banca d’Italia)». Oggi lo scenario si è ribaltato, puntualmente. E le imprese tedesche vengono a fare shopping da noi, perché «in quel comparto industriale abbiamo il miglior sapere al mondo». E, grazie alla trappola dell’euro, che ha «deprezzato l’economia italiana a livello albanese», i tedeschi comprano le aziende italiane a prezzi stracciati. Lo conferma un recente report del “Financial Times”: «Le piccole medie imprese tedesche si sono gettate in un’abbuffata trans-alpina, rendendole le più attraenti acquirenti straniere in Europa di aziende italiane».«Aziende della base industriale del Mittelstand tedesco ottengono accesso al sapere tecnologico di aziende italiane in difficoltà, mentre in alcuni casi spostano i loro quartieri generali oltr’alpe», scrive il quotidiano finanziario il 27 gennaio, sottolineando l’importanza del “sapere tecnologico italiano”. «Le aziende tedesche stanno afferrando opportunità d’espansione mentre la recessione sospinge verso il basso il prezzo degli affari nel sud Europa in difficoltà». Per Barnard, è esattamente «la Spirale della Deflazione Economica Imposta, per comprarci con due soldi» grazie alle restrizioni promosse dal sistema Ue-Bce. Marcel Fratzscher, direttore dell’istituto economico tedesco Diw, ammette che il terreno di caccia del business tedesco è soprattutto l’area in crisi, dove i tedeschi possono “aiutare” le piccole e medie aziende italiane, che «spesso faticano a ottenere credito». Ovvio: «A noi la Germania ha proibito di avere una “banca pubblica” come la tedesca Kfw», protesta Barnard. Una banca che, «barando sui deficit di Stato tedeschi, ha versato miliardi in crediti alle aziende tedesche».«Le acquisizioni – continua il “Financial Times – sono spesso descritte come accordi strategici, ma degli insider ci dicono che il linguaggio nasconde una serie di acquisizioni aggressive». Di fatto, è la “conquista” di aziende italiane, contro la volontà dei proprietari italiani costretti a vendere. «In alcuni casi gli accordi sono strutturati in modo che il marketing e il management sono esportati dall’Italia, spogliando l’azienda acquistata fino alle sue strutture produttive». Carlos Mack, di Lehel Invest Bayern, dice al “Financial Times” che la logica dietro al trasferimento delle sedi delle aziende italiane «è di avere sia i beni di valore che il marketing e il management in Germania, perché così si ha accesso più facile al credito bancario da banche non italiane». Sempre Mack dice che le aziende tedesche «non sono interessate al mercato italiano, ma solo al prodotto italiano». Ovvero, «sono interessate a vendere il prodotto italiano altrove». Per Barnard, è «la conferma che noi abbiamo le più straordinarie piccole medie imprese del mondo, e ora ci portano via i gioielli della nostra produzione».«A differenza delle aziende italiane – continua il “Financial Times” – le tedesche hanno poche difficoltà a trovare crediti». Una ricerca ha evidenziato che «le banche italiane lavorano bene con le succursali tedesche in Italia, facendogli credito, per proteggersi dai loro investimenti nelle aziende italiane in difficoltà». Ma come, non erano in difficoltà le nostre banche? «Perché prestano ai tedeschi e non a noi?». E’ un “trucco”, innescato dalla Deflazione Economica Imposta dall’euro: «Le nostre aziende affogano, quindi le banche italiane strangolano le aziende italiane perché sono in difficoltà, e arrivano i tedeschi a papparsi i nostri marchi di prestigio a 2 soldi, e le banche italiane ci fanno affari». Norbert Pudzich, direttore della Camera di Commercio Italo-Tedesca a Milano, dice che anche prima della recessione le aziende italiane avevano difficoltà a trovare crediti, perché ad esse manca lo stretto rapporto con le banche “di casa”, che invece le aziende tedesche del Mittelstand hanno. Infatti, osserva Barnard, la stessa Kfw «ha versato miliardi di euro di spesa pubblica sottobanco alle aziende tedesche, barando, mentre costringevano noi a rantolare senza un centesimo dal governo».«Tutto questo – conclude Barnard – io lo denunciai 4 anni fa, e mi davano del pazzo. Questa è la distruzione pianificata di una civiltà, quella italiana, delle nostre famiglie, dei nostri ragazzi. Questo è un crimine contro l’umanità, perché lo stesso accade in altri paesi europei. Questo è nazismo economico». I tedeschi? «Non cambieranno mai», sono «sterminatori nell’anima», andrebbero «commissariati dall’Onu per sempre». Barnard l’ha ripetuto in decine di conferenze, mostrando una slide dell’“Economist”: ora, con la nostra economia retrocessa a condizioni da terzo mondo «proprio a causa dell’Eurozona voluta da Germania e Francia», la Germania e altre potenze vengono a rastrellare aziende italiane pagandole quattro soldi. Tutto previsto: era un piano preciso. Se cessi di immettere denaro nel sistema, proibendo allo Stato di spendere, vince chi bara – in questo caso la Germania, in cu lo Stato finanzia (di nascosto) le aziende, creando un enorme vantaggio competitivo, completamente sleale. La politica italiana? Non pervenuta. E’ per questo che i “predatori” hanno campo libero. E il paese precipita.«Si chiama Spirale della Deflazione Economica Imposta. Ne ho scritto per la prima volta 4 anni fa ne “Il Più Grande Crimine”», ricorda Paolo Barnard. «Dissi che la Germania e la Francia avevano progettato la distruzione dei paesi industrializzati del sud Europa con l’adozione dell’euro, in particolare dell’Italia, perché era la Piccola Media Impresa italiana che aveva stroncato quella tedesca, al punto che nel 2000, prima dell’euro, l’Italia era il maggior produttore e la Germania l’ultimo (dati Banca d’Italia)». Oggi lo scenario si è ribaltato, puntualmente. E le imprese tedesche vengono a fare shopping da noi, perché «in quel comparto industriale abbiamo il miglior sapere al mondo». E, grazie alla trappola dell’euro, che ha «deprezzato l’economia italiana a livello albanese», i tedeschi comprano le aziende italiane a prezzi stracciati. Lo conferma un recente report del “Financial Times”: «Le piccole medie imprese tedesche si sono gettate in un’abbuffata trans-alpina, rendendole le più attraenti acquirenti straniere in Europa di aziende italiane».
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Zanotelli: giornalisti, ascoltate il dolore dei poveri
Caro/a giornalista, pace e bene! So quanto sia difficile fare oggi il giornalista in Italia, dentro un sistema in cui i media sono nelle mani dei potentati economico-finanziari.Per questo non ti scrivo per chiederti l’eroismo, anche se in Italia abbiamo avuto tanti giornalisti, che hanno pagato con il sangue, il coraggio di dire la verità al potere, sia esso politico, economico-finanziario o mafioso. Ti scrivo solo per chiederti di mettere qualche ‘sassolino’ nell’ingranaggio dell’informazione, facendo passare qualche notizia in più sui drammi dei più poveri, soprattutto del sud del mondo. Ti confesso che mi fa tanto male vedere come l’informazione in questo paese sia così provinciale, così centrata sui nostri problemi, così persa nei meandri dei pettegolezzi della nostra vita politica e sociale.Come missionario sono profondamente indignato per il pochissimo spazio dato alle gravi crisi che attanagliano il sud del mondo, in particolare dell’Africa, il continente più vicino a noi (è solo grazie alle testate missionarie, che gira qualche notizia in più e non nel grande circuito dei media.) Non riesco a capire come, per esempio, si parli così poco delle tragedie in atto in quel continente. Penso all’attuale guerra civile in Sud Sudan, con migliaia di morti e centinaia di migliaia di rifugiati. Penso alla drammatica situazione della Repubblica Centrafricana, dove si è innescata un’altra spaventosa guerra fratricida. Penso ai bombardamenti in atto nel Sudan contro il popolo Nuba, da parte dell’esercito di Khartoum. Penso a tutta la zona saheliana che vive una stagione di grave instabilità.Siamo di fronte a immensi drammi umani, a massacri di popolazioni inermi, a milioni di rifugiati che ora premono alle porte dell’Europa. E tutto questo in un incredibile silenzio stampa. Ricevo ogni giorno appelli di missionari che chiedono di far conoscere i drammi dei loro popoli. Ma è quasi impossibile far passare tutto questo nei media nazionali. Siamo di fronte alla ‘globalizzazione dell’indifferenza’, come ha detto Papa Francesco a Lampedusa. Caro giornalista, mi appello a te, alla tua umanità, perché tu possa darci una mano a far conoscere il grido di dolore di tanti uomini, donne e bambini. Te lo chiedo perché porto, da una vita, nel mia carne, la loro sofferenza. Ma anche perché, come giornalista, ho pagato caro l’aver detto la verità al potere. Caro giornalista, vorrei che anche tu potessi aiutarci, invitando i tuoi colleghi a fare altrettanto. Se tanti giornalisti della carta stampata, del web, della radio e della televisione dessero solo un piccolo contributo, avremmo un miracolo informatico. Caro collega, non ti chiedo l’eroismo, ma solo un po’ più di coraggio e di passione.Caro/a giornalista, pace e bene! So quanto sia difficile fare oggi il giornalista in Italia, dentro un sistema in cui i media sono nelle mani dei potentati economico-finanziari. Per questo non ti scrivo per chiederti l’eroismo, anche se in Italia abbiamo avuto tanti giornalisti, che hanno pagato con il sangue, il coraggio di dire la verità al potere, sia esso politico, economico-finanziario o mafioso. Ti scrivo solo per chiederti di mettere qualche ‘sassolino’ nell’ingranaggio dell’informazione, facendo passare qualche notizia in più sui drammi dei più poveri, soprattutto del sud del mondo. Ti confesso che mi fa tanto male vedere come l’informazione in questo paese sia così provinciale, così centrata sui nostri problemi, così persa nei meandri dei pettegolezzi della nostra vita politica e sociale.
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Electrolux, ricatto asimmetrico: addio operai italiani
Nella «lotta di classe asimmetrica» scatenata dalla multinazionale svedese Electrolux, i lavoratori sono ridotti a variabile marginale. Stoccolma, osserva Gad Lerner, ha il potere di giocarsi gli operai polacchi contro gli operai italiani. E inoltre può mettere ogni stabilimento a rischio chiusura in competizione con l’altro, azionando così una corsa al ribasso no limits del costo della manodopera. Libera concorrenza senza regole e su un orizzonte mondiale. Stesso obiettivo, ovunque: svincolarsi dai contratti localmente stipulati con la parte più debole. E quindi si tagliano gli stipendi, anche «se ciò comporta una vera e propria retrocessione di civiltà». Prendere o lasciare. «Parliamoci chiaro: se il ricatto occupazionale dovesse funzionare all’Electrolux, costringendo i sindacati ad accettare per cause di forza maggiore un taglio generalizzato dei salari, dal giorno dopo le ripercussioni si manifesterebbero su tutto il sistema manifatturiero italiano.Decisiva, scrive Lerner su “Repubblica” in un post ripreso da “Megachip”, è «la nuova centralità finanziaria del rapporto creditore/debitore», centralità che «prosciuga le risorse pubbliche necessarie all’esercizio della mediazione nel più antico conflitto capitale/lavoro». Così, «la lotta di classe diviene asimmetrica». E il lavoro, «reso precario, tende a precipitare sempre più spesso nella povertà». Se la casamadre di Stoccolma l’avrà vinta sugli operai italiani, «migliaia di aziende in difficoltà» seguiranno l’esempio del battistrada svedese, «generando un’imponente decurtazione di reddito a danno di lavoratori che già percepiscono salari al di sotto della media europea». È vero che il costo del lavoro pesa in misura eccessiva sui bilanci delle nostre imprese, «ma la scorciatoia escogitata – tagliare i salari, altrimenti chiudiamo gli stabilimenti – sortirebbe effetti sociali ed economici dirompenti».Nessuna indicazione utile dal Pd di Renzi: in questa drammatica circostanza, continua Lerner, «aiuta poco il Jobs Act che si voleva sfoderare in campagna elettorale, perché nulla dice sul bivio cui siamo giunti: cosa deve rispondere, il governo, a una multinazionale che per restare nel nostro paese pretende la sospensione del contratto nazionale e dei patti integrativi vigenti?». La richiesta brutale dell’Electrolux suscita reazioni opposte se la si guarda benevolmente dalla city di Londra, come il finanziere renziano Davide Serra che definisce «razionale» lo scambio fra decurtazioni salariali e salvaguardia occupazionale; o viceversa se la si guarda dal Friuli condannato a perdere 1.100 posti di lavoro, come tocca all’altrettanto renziana Debora Serracchiani, schierata con i “suoi” operai di Pordenone. Forse, Renzi «non si rende conto che il dilemma degli operai polacchi d’Italia, sbattuto in faccia alla politica, non è di quelli aggirabili con dei ghirigori verbali. Al contrario, è la priorità delle priorità».Le statistiche sulla ricchezza nazionale divulgate dalla Banca d’Italia ci confermano che stiamo vivendo una metamorfosi sociale, con l’acuirsi delle disuguaglianze e la diffusione della povertà. Ma ancora non fotografano a sufficienza il dato nuovo rappresentato dall’estendersi dell’area che i sociologi definiscono “labouring poor”: ovvero i titolari di un posto di lavoro fisso, la cui busta paga però non li sottrae all’indigenza. Condizione che verrebbe generalizzata da eventuali accordi consensuali di taglio dei salari, che finirebbero per «suggellare una gigantesca opera di espropriazione di ricchezza ai danni del lavoro dipendente, già in atto da anni in tutto l’Occidente». Se l’Italia dovesse quindi subire il ricatto della multinazionale svedese, le conseguenze sarebbero gravissime. «La lotta di classe asimmetrica produce solo declassati e secerne rancore», conclude Lerner. «Sottoscrivere oggi un taglio dei salari significa mettere a repentaglio una già fragile democrazia».Nella «lotta di classe asimmetrica» scatenata dalla multinazionale svedese Electrolux, i lavoratori sono ridotti a variabile marginale. Stoccolma, osserva Gad Lerner, ha il potere di giocarsi gli operai polacchi contro gli operai italiani. E inoltre può mettere ogni stabilimento a rischio chiusura in competizione con l’altro, azionando così una corsa al ribasso no limits del costo della manodopera. Libera concorrenza senza regole e su un orizzonte mondiale. Stesso obiettivo, ovunque: svincolarsi dai contratti localmente stipulati con la parte più debole. E quindi si tagliano gli stipendi, anche «se ciò comporta una vera e propria retrocessione di civiltà». Prendere o lasciare. «Parliamoci chiaro: se il ricatto occupazionale dovesse funzionare all’Electrolux, costringendo i sindacati ad accettare per cause di forza maggiore un taglio generalizzato dei salari, dal giorno dopo le ripercussioni si manifesterebbero su tutto il sistema manifatturiero italiano.
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Obama finanzia i terroristi, a insaputa degli americani
Dopo la guerra in Afghanistan contro i sovietici, molti autori hanno messo in evidenza il ruolo degli Stati Uniti come finanziatori del terrorismo internazionale. Tuttavia, fino ad ora si trattava solo di azioni segrete, di cui finora Washington non si era assunta la paternità. Un passo decisivo è stato compiuto con la Siria: il Congresso ha approvato il finanziamento e l’armamento di due organizzazioni rappresentative di Al-Qaeda. Ciò che era in precedenza il segreto di Pulcinella ora è diventato la politica ufficiale del “Paese della libertà”: il terrorismo. In violazione delle risoluzioni 1267 e 1373 del Consiglio di sicurezza, Il Congresso degli Stati Uniti ha votato il finanziamento e l’armamento del “Fronte al-Nusra” e dell’“Emirato islamico dell’Iraq e del Levante”, due importanti organizzazioni di Al-Qa’ida e classificate come “terroriste” dalle Nazioni Unite. Questa decisione sarà valida fino al 30 settembre 2014.Lo ricorda il francese Thierry Meyssan, giornalista indipendente, in un’analisi pubblicata da diverse testate e ripresa da “Megachip”. Il paradosso della guerra in Siria? «Le immagini sono esattamente il contrario della realtà». Secondo i media mainstream, il conflitto oppone da un lato gli Stati raccoltisi intorno a Washington e Riyadh, intenti a difendere la democrazia e condurre la lotta mondiale contro il terrorismo, e dall’altra la Siria e i suoi alleati russi, «diffamati come dittature che manipolano il terrorismo». Se tutti sono ben consapevoli del fatto che l’Arabia Saudita non è una democrazia, bensì una monarchia assoluta, «laddove la tirannia di una famiglia e di una setta controlla un intero popolo», gli Stati Uniti godono invece dell’immagine di un democrazia, paladina della “libertà”. Eppure, una notizia-bomba come quella del finanziamento ufficiale della guerriglia jihadista è stata censurata, dal momento che il Congresso «si è riunito segretamente per votare il finanziamento e l’armamento dei “ribelli” in Siria». Può sembrare incredibile, ma «il Congresso tiene incontri segreti che la stampa non può menzionare».Ecco perché la notizia,originariamente pubblicata dall’agenzia di stampa britannica Reuters, è stata «scrupolosamente ignorata dalla stampa e dai media negli Stati Uniti e dalla maggior parte dei media in Europa occidentale e nel Golfo: solo gli abitanti del “resto del mondo” avevano il diritto di conoscere la verità». Poiché nessuno ha letto la legge appena approvata, aggiunge Meyssan, non si sa che cosa stabilisca esattamente. «Tuttavia, è chiaro che i “ribelli” in questione non mirano a rovesciare il governo siriano – ci hanno rinunciato – ma piuttosto a “insanguinarlo”. Ecco perché non si comportano come soldati, ma come terroristi». Sicché l’America, presunta vittima di Al-Qaeda l’11 Settembre e poi leader mondiale della “guerra al terrorismo”, di fatto finanzia «il principale focolaio terroristico internazionale», in cui agiscono due organizzazioni ufficialmente subordinate ad Al-Qaeda. «Non si tratta più di una manovra oscura dei servizi segreti, ma piuttosto di una legge, pienamente assunta, ancorché approvata a porte chiuse per non contraddire la propaganda».D’altra parte, continua Meyssan, ci si chiede in che modo la stampa occidentale – che da 13 anni imputa ad Al-Qaeda di essere l’autrice degli attentati dell’11 Settembre – potrebbe mai spiegare all’opinione pubblica la sua decisione. Infatti, la speciale procedura seguita in questo caso (Cog, “continuità di governo”) è protetta anch’essa dalla censura. «È anche per questo che gli occidentali non hanno mai saputo che, nel corso di quell’11 settembre, il potere era stato trasferito dai civili ai militari, dalle 10 del mattino fino a sera, e durante tutto quel giorno gli Stati Uniti erano governati da un’autorità segreta, in violazione delle loro leggi e della loro Costituzione». Lo stesso discorso annuale di Barack Obama sullo stato dell’Unione «si è trasformato in un eccezionale esercizio di menzogne». Davanti ai 538 membri del Congresso che sin dall’inizio lo applaudivano, il presidente ha dichiarato: «Una cosa non cambierà: la nostra determinazione a non permettere ai terroristi di lanciare altri attacchi contro il nostro paese». E ancora: «In Siria, sosterremo l’opposizione che respinge il programma delle reti terroristiche».Eppure, quando la delegazione siriana ai negoziati di “Ginevra 2” ha sottoposto – a quella che s’intendeva rappresentare come la sua “opposizione” – una mozione, esclusivamente basata sulle risoluzioni 1267 e 1373 del Consiglio di sicurezza, a condanna del terrorismo, questa è stata respinta senza causare alcuna protesta da parte di Washington. E per una buona ragione: il terrorismo sono gli Stati Uniti, e la delegazione “dell’opposizione” riceve i suoi ordini direttamente dall’ambasciatore Robert S. Ford, presente in loco». Ford è stato assistente di John Negroponte in Iraq. Nei primi anni ‘80, ricorda Meyssan, Negroponte aveva contrastato la rivoluzione nicaraguense arruolando migliaia di mercenari e alcuni collaboratori locali, costituendo i cosiddetti “Contras”. La Corte internazionale di giustizia, cioè il tribunale interno delle Nazioni Unite, ha condannato Washington per questa ingerenza che non osava pronunciare il proprio nome. Poi, negli anni Duemila, Negroponte e Ford riproposero lo stesso scenario in Iraq. Questa volta però l’intento era di annientare la resistenza nazionalista facendola combattere da Al-Qaeda.Oggi, mentre i siriani e la delegazione dell’“opposizione” discutevano a Ginevra, a Washington il presidente Obama, applaudito meccanicamente dal Congresso, ha continuato il suo esercizio di ipocrisia: «Noi lottiamo contro il terrorismo non grazie all’intelligence e alle operazioni militari, ma anche rimanendo fedeli agli ideali della nostra Costituzione e restando un esempio per il mondo intero. E continueremo a lavorare con la comunità internazionale per dare al popolo siriano il futuro che merita: un futuro senza dittatura, senza terrore e senza paura». La guerra orchestrata dalla Nato in Siria ha già causato più di 130.000 morti, secondo i dati del Mi6, l’intelligence inglese. La beffa: «I carnefici attribuiscono la responsabilità al popolo che osa contrastarli e al suo presidente, Bashar el-Assad». Durante la guerra fredda, conclude Meyssan, la Cia «finanziava lo scrittore George Orwell affinché immaginasse la dittatura del futuro: Washington ha creduto così di svegliare le coscienze di fronte alla minaccia sovietica». In realtà, l’Urss «non ha mai assomigliato all’incubo di “1984”, intanto che gli Stati Uniti ne sono diventati l’incarnazione».Dopo la guerra in Afghanistan contro i sovietici, molti autori hanno messo in evidenza il ruolo degli Stati Uniti come finanziatori del terrorismo internazionale. Tuttavia, fino ad ora si trattava solo di azioni segrete, di cui finora Washington non si era assunta la paternità. Un passo decisivo è stato compiuto con la Siria: il Congresso ha approvato il finanziamento e l’armamento di due organizzazioni rappresentative di Al-Qaeda. Ciò che era in precedenza il segreto di Pulcinella ora è diventato la politica ufficiale del “Paese della libertà”: il terrorismo. In violazione delle risoluzioni 1267 e 1373 del Consiglio di sicurezza, Il Congresso degli Stati Uniti ha votato il finanziamento e l’armamento del “Fronte al-Nusra” e dell’“Emirato islamico dell’Iraq e del Levante”, due importanti organizzazioni di Al-Qa’ida e classificate come “terroriste” dalle Nazioni Unite. Questa decisione sarà valida fino al 30 settembre 2014.
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Sapelli: via tutti, l’Italia si salva solo con una rivoluzione
«Fino al 1450 eravamo l’economia più florida del mondo. Poi abbiamo conosciuto la crisi del ‘600. Perché i figli della borghesia comunale hanno lasciato le città e sono andati a vivere in villa come nobili: quando si guadagnano troppi soldi, non si risponde più a se stessi». Secondo il professor Giulio Sapelli, per l’Italia «forse non c’è più speranza. «A forza di imporre l’ortodossia monetarista e deflazionista, i tedeschi stanno facendo dell’Europa un deserto». Italia addio: «Questa è una nazione ricca, con un grande risparmio. E la cultura. Ma i risparmi si stanno erodendo. E tra 20 anni, forse, saremo un paese desertificato». Come uscirne? Licenziare immediatamente l’attuale classe dirigente, e puntare a una svolta radicale, «socialista e rivoluzionaria», per dire no alla politica della Troika di Bruxelles.Per l’economista che ha conosciuto l’Italia di Olivetti, la grande e la media impresa, le cooperative e i distretti, scrive Giovanna Faggionato su “Lettera 43”, la crisi di oggi è il frutto di un male antico: la persistenza di una classe dirigente che ci condanna alla sudditanza estera. Così, mentre la Commissione Europea certifica che siamo il paese in cui «la situazione sociale si è deteriorata maggiormente», e in cui una quota consistente di occupati non riesce più ad arrivare a fine mese, lo studioso non si dà pace. E si chiede come il Parlamento Ue abbia potuto firmare il Fiscal Compact. Risposta: «Le nostre classi dirigenti cercano approvazione, legami e inserimento nella finanza internazionale. Lo ha fatto Romano Prodi. E poi Mario Monti. E ora anche Enrico Letta punta alle cariche all’estero». Quindi non fanno gli interessi italiani? «Monti ha fatto gli interessi di chi lo ha sempre sostenuto, cioè le istituzioni finanziarie». Draghi? «Lui viene da Goldman Sachs, dalla scuola americana. E prova a fare la politica Usa».La Germania, aggiunge Sapelli nell’intervista, «ci vuole fare morire di deflazione». Meglio gli Stati Uniti, perché a loro «in questo momento serve un’Europa forte». E’ vero, sono proiettati verso il Pacifico perché «preparano la guerra che verrà con la Cina», ma hanno bisogno di avere le spalle coperte, cioè un’economia europea in salute. «Stiamo trattando un accordo di libero scambio transatlantico: possiamo negoziare», dice Sapelli. «E comunque, meglio gli Stati Uniti del dominio tedesco», a cui Draghi “non osa” opporsi. Andiamo verso un crack come quello argentino del decennio scorso? «Dell’Argentina stiamo iniziando a copiare i leader peronisti», a comiciare da Renzi. «Abbiamo avuto due sole “rivoluzioni” generazionali in Italia. Una l’ha fatta Benito Mussolini ed era il fascismo. E l’altra è stata il ‘68. Basta guardare come sono finite». Spiragli? «Avete votato il Pd, Berlusconi…». E cosa bisogna votare, Grillo? «Nessuno. Bisogna rifondare un partito socialista, rivoluzionario. Come Syriza, in Grecia. Che non vuole uscire dall’Europa, ma rinegoziare il debito».«Fino al 1450 eravamo l’economia più florida del mondo. Poi abbiamo conosciuto la crisi del ‘600. Perché i figli della borghesia comunale hanno lasciato le città e sono andati a vivere in villa come nobili: quando si guadagnano troppi soldi, non si risponde più a se stessi». Secondo il professor Giulio Sapelli, per l’Italia «forse non c’è più speranza. «A forza di imporre l’ortodossia monetarista e deflazionista, i tedeschi stanno facendo dell’Europa un deserto». Italia addio: «Questa è una nazione ricca, con un grande risparmio. E la cultura. Ma i risparmi si stanno erodendo. E tra 20 anni, forse, saremo un paese desertificato». Come uscirne? Licenziare immediatamente l’attuale classe dirigente, e puntare a una svolta radicale, «socialista e rivoluzionaria», per dire no alla politica della Troika di Bruxelles.
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Tenetevi pure Matteo Renzi e la sua legge-porcata
Proposta secca: tenetevi la vostra schifezza di legge elettorale, quella che volete, la peggiore che vi possiate inventare, ma in cambio ridateci quello che ci avete subdolamente rubato in questi decenni: la libertà di provare a essere un paese sovrano. Evidentemente gli italiani ispirano e dilettano i loro tormentatori politici, sono perfetti per essere ferocemente presi in giro: accorrono in tre milioni alle primarie del Pd e votano in massa il Rottamatore della nomenklatura, il quale il giorno dopo si accorda nientemeno che con Berlusconi per scodellare una legge elettorale scandalosa, che ripropone le stesse liste bloccate del Porcellum. Il credo non cambia: l’essenziale è che l’italiano medio (cittadino, lavoratore, studente, pensionato, contribuente, elettore) continui a contare meno di zero. E’ un ordine, emanato dai poteri forti che hanno ormai in pugno il nostro destino. Poteri che non vogliono più avere a che fare con cittadini, ma con sudditi remissivi, disinformati e terremotati dalla precarietà.Anche a questo serve la riforma della legge elettorale: a indorare la pillola e simulare l’esercizio democratico, che in realtà è completamente svuotato perché non esistono reali alternative al Programma Unico del sistema. Sicché, i commentatori si rassegnano ad analizzare il grigio dibattito in corso, anche in materia di ingegneria istituzionale. Se non altro, osservano alcuni, il vecchio Mattarellum costringeva almeno i partiti a sfidarsi sul terreno ristretto dei piccoli collegi uninominali, proponendo cioè candidati non impresentabili, non alieni, non ostili ai territori.Con Renzi invece si torna al listino bloccato, che il fiorentino – con inarrivabile faccia tosta – tenta di spacciare per qualcosa di diverso dalla “legge porcata” che si vorrebbe far dimenticare. Eppure, nonostante ciò, se solo si potesse scegliere (ma scegliere davvero) forse già oggi gli italiani lo farebbero. Se in un ipotetico referendum si potesse decidere tra le due opzioni – lasciare la legge elettorale in pasto ai partitocrati ma avere in cambio un’inversione radicale di rotta sulla sovranità finanziaria nazionale – non è difficile immaginare un plebiscito.Nel frattempo, l’attualità è generosissima di episodi sempre più incresciosi. Al pantheon degli orrori mancavano solo figure eleganti e colte come Laura Boldrini, smascherata dai deputati “5 Stelle”. Togliere la parola al Parlamento, ecco il problema. E’ per questa ragione che un altro impavido leader della sinistra italiana, Nichi Vendola, anziché scandalizzarsi per l’autoritarismo prussiano della presidente della Camera preferisce censurare il fuoco polemico dei grillini. Ora si banchetta sulle spoglie di Bankitalia, per amputare in via definitiva la residua sovranità virtuale della finanza pubblica italiana.Solo ieri è stata decisa la vivisezione di Poste Italiane, dopo quelle di Eni e Finmeccanica. Prossimo obiettivo, la Cassa Depositi e Prestiti. Possibile che gli italiani non capiscano? Ma sì, che capiscono. E quelli che ancora non l’hanno fatto, lo faranno. E’ semplice: se ti hanno rubato il portafoglio – divorzio tra Tesoro e Bankitalia, privatizzazione del sistema bancario, cessione del debito pubblico alla finanza privata, adesione all’euro e quindi impossibilità matematica di finanziare la spesa pubblica con moneta propria – è ovvio che, dovendo pur pagare, i soldi verranno richiesti ai contribuenti, in dosi sempre più micidiali, fino a strozzare l’economia, mettendo in ginocchio imprese e famiglie.Nell’Eurozona – caso unico al mondo – per finanziare l’azione del governo (funzione pubblica, servizi vitali) non si può più contare su libera emissione di valuta sovrana, ma solo sulla moneta già circolante, proveniente dalle banche private disposte ad acquistare titoli di Stato. In queste condizioni, per il tracollo – previsto anni fa solo da alcuni isolati economisti “eretici” – è solo questione di tempo, ma intanto la condanna è certa e l’esito è inesorabile, in un crescendo di sofferenze che ormai colpiscono decine di milioni di persone. E se il governo Letta-Napolitano-Draghi continua la sua recita europea raccontando la stessa fiaba di Mario Monti (la medicina amara produrrà la guarigione) il prode Renzi propone di rottamare la Costituzione e l’ordinamento istituzionale, a cominciare dal Senato, senza mai dire una sola parola sui dolori della grande crisi e su come si potrebbe tentare di uscirne.Tace, Renzi, perché sa che il suo mandato-farsa non prevede in nessun modo la salvezza dell’Italia. E così, giusto per parlar d’altro, il segretario del Pd trova pure il coraggio di presentare impunemente, truccata da “riforma”, l’ultima barzelletta elettorale, per di più condivisa con l’amato Cavaliere. Il tutto tra gli inchini del mainstream e i balbettii dei sindacati, che si agitano per l’Electrolux evitando però di chiedersi come mai in Italia un posto di lavoro costi all’azienda 2,5 volte lo stipendio in busta paga – il resto va a finanziare le casse esangui dello Stato immiserito dal neoliberismo predatore. Mancano soldi, guardacaso. E serve un Piano-B per procurarli. Subito, ora o mai più.E’ questo il primo obiettivo dell’agenda-Italia per l’alternativa: senza denaro, senza possibilità di spesa, non ci sarà nessuna ripresa, nessuna occupazione, nessuna riconversione ecologica verso nessuna economia sostenibile. Una forza politica organizzata su questa base, con proposte chiare e inequivocabili, travolgerebbe qualsiasi infame soglia di sbarramento e supererebbe gli ostacoli di qualunque truffa elettorale. C’è da augurarsi che la spietata durezza della crisi, quantomeno, consenta alla verità di farsi strada, in questo mare di frottole indecenti. E convinca gli italiani a rottamare in fretta maggiordomi e pagliacci, perché il paese si merita ben altro: qualcuno che sappia evitare la catastrofe.(Giorgio Cattaneo, “Tenetevi Renzi e la sua legge-porcata”, da “Megachip” del 31 gennaio 2014).Proposta secca: tenetevi la vostra schifezza di legge elettorale, quella che volete, la peggiore che vi possiate inventare, ma in cambio ridateci quello che ci avete subdolamente rubato in questi decenni: la libertà di provare a essere un paese sovrano. Evidentemente gli italiani ispirano e dilettano i loro tormentatori politici, sono perfetti per essere ferocemente presi in giro: accorrono in tre milioni alle primarie del Pd e votano in massa il Rottamatore della nomenklatura, il quale il giorno dopo si accorda nientemeno che con Berlusconi per scodellare una legge elettorale scandalosa, che ripropone le stesse liste bloccate del Porcellum. Il credo non cambia: l’essenziale è che l’italiano medio (cittadino, lavoratore, studente, pensionato, contribuente, elettore) continui a contare meno di zero. E’ un ordine, emanato dai poteri forti che hanno ormai in pugno il nostro destino. Poteri che non vogliono più avere a che fare con cittadini, ma con sudditi remissivi, disinformati e terremotati dalla precarietà.
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Se ci rubano anche le Poste, servizio pubblico universale
Dopo aver versato, per non più di un minuto, lacrime di coccodrillo sui dati della disuguaglianza sociale nel pianeta, forniti dal rapporto della ong Oxfam – le 85 persone più ricche del mondo detengono una ricchezza equivalente a quella di 3,5 miliardi di persone; l’1% del pianeta possiede il 50% della ricchezza mondiale – il ministro Saccomanni, presente all’annuale Forum di Davos, è passato alle cose serie e, in un incontro con i grandi investitori stranieri, ha annunciato l’avvio dell’ennesimo piano di privatizzazioni, con in testa le Poste Italiane. Senza senso del ridicolo, è riuscito a dire che l’operazione, che prevede, per ora, la messa sul mercato del 40% del capitale sociale di Poste, comporterà un’entrata di almeno 4 miliardi da destinare alla riduzione del debito pubblico.Anche ai più sprovveduti credo risulti chiara l’inversione del contesto: Saccomanni dice di voler privatizzare le Poste per ridurre il debito pubblico, mentre è evidente come il debito pubblico sia solo l’alibi – lo shock teorizzato da Milton Friedman – per permettere la privatizzazione di un servizio pubblico universale. Bastano due semplici operazioni di matematica: la vendita del 40% di Poste Italiane porterebbe il debito pubblico da 2.068 a 2.064 miliardi, con un entrata una tantum non riproducibile, e nel contempo eliminerebbe un’entrata annuale stabile di almeno 400 milioni/anno (essendo l’utile di Poste Italiane pari a 1 miliardo). Ma, ovviamente, non c’è dato che conti quando l’obiettivo è quello di dichiarare una vera e propria guerra alla società, attraverso la progressiva spoliazione di diritti, beni comuni, servizi pubblici e democrazia, all’unico scopo di favorire l’espansione dei mercati finanziari.E, d’altronde, la messa sul mercato del 40% di Poste è la naturale prosecuzione di un processo di trasformazione del servizio, in corso già da quando l’azienda dello Stato è diventata una SpA: da allora abbiamo assistito a più riprese – tutte avvallate dagli accordi sottoscritti da Cgil, Cisl e Uil di categoria – al progressivo smantellamento del servizio postale universale, con relativo attacco alle sue prerogative di uniformità di servizio su tutto il territorio nazionale, di tariffe contenute e di soddisfacente qualità del recapito. Ciò che si vuole perseguire, con la definitiva privatizzazione, è lo smantellamento della funzione sociale di Poste Italiane, attraverso la separazione di Banco Posta dal servizio di recapito, trasformando il primo – già oggi ricettacolo di molteplici attività finanziarie – in una vera e propria banca e mettendo sul mercato il secondo.Con la naturale conseguenza che i servizi postali saranno garantiti da una miriade di soggetti privati, solo laddove adeguatamente remunerativi (grandi città e grandi utenti) e smantellati, o a carico della collettività con aumento incontrollato dei costi, in ogni territorio dove il rapporto servizio/redditività non sarà considerato adeguato. Senza contare il fatto che, con questa operazione, anche tutta la funzione di raccolta del risparmio dei cittadini, oggi svolta dagli oltre 13.000 uffici postali, che convogliano il denaro raccolto a Cassa Depositi e Prestiti, verrebbe messa a rischio o profondamente trasformata. Stiamo già sentendo le consuete sirene ideologiche di accompagnamento: la vendita del 40% non intaccherà il controllo pubblico, mentre nel capitale sociale verranno coinvolti i lavoratori e i cittadini risparmiatori, in una sorta di azionariato popolare e democratico.Credo che tre decenni di privatizzazioni abbiano già fornito gli elementi per confutare entrambe le tesi: l’entrata dei privati nel capitale sociale di un’azienda pubblica ha sempre e inevitabilmente comportato la trasformazione della parte pubblica in soggetto finalizzato all’unico obiettivo del profitto; l’azionariato diffuso tra lavoratori e cittadini, aldilà delle favole sulla democrazia economica, è sempre servito a immettere denaro nell’azienda, permettendo agli azionisti maggiori – i poteri forti – di poterla possedere senza fare nemmeno lo sforzo di doverla comprare. Ogni smantellamento di un servizio pubblico universale consegna tutte e tutti noi all’orizzonte della solitudine competitiva: ciascuno da solo sul mercato in diretta competizione con l’altro. Opporsi alle privatizzazioni, oltre a fermare i processi di finanziarizzazione della società, consente di riaprire lo spazio pubblico dei beni comuni e di un altro modello sociale. Perché il futuro è una cosa troppo seria per affidarlo agli indici di Borsa.(Marco Bersani, “Il postino smetterà di suonare?”, da “Comunitaria” del 24 gennaio 2014).Dopo aver versato, per non più di un minuto, lacrime di coccodrillo sui dati della disuguaglianza sociale nel pianeta, forniti dal rapporto della ong Oxfam – le 85 persone più ricche del mondo detengono una ricchezza equivalente a quella di 3,5 miliardi di persone; l’1% del pianeta possiede il 50% della ricchezza mondiale – il ministro Saccomanni, presente all’annuale Forum di Davos, è passato alle cose serie e, in un incontro con i grandi investitori stranieri, ha annunciato l’avvio dell’ennesimo piano di privatizzazioni, con in testa le Poste Italiane. Senza senso del ridicolo, è riuscito a dire che l’operazione, che prevede, per ora, la messa sul mercato del 40% del capitale sociale di Poste, comporterà un’entrata di almeno 4 miliardi da destinare alla riduzione del debito pubblico.
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Rampini: il grande ritorno dei Padroni dell’Universo
C’é un fondo d’investimento che si compra un’intera città della California in bancarotta, c’è quello che controlla da solo il 7% di tutta la ricchezza mondiale, 15.000 miliardi di dollari, e c’è il finanziere d’assalto che sfida Apple. I “Masters of the Universe” sono tornati, osserva Federico Rampini: i giganti della finanza americana rinascono più forti che mai. «Il crac sistemico del 2008, che sembrava averli spezzati, è ormai un ricordo lontano: se ne accorge anche Hollywood, con il duo Martin Scorsese-Leonardo Di Caprio» che proprio a loro dedica a “The Wolf, il Lupo di Wall Street”, alla fine di un 2013 che ha visto Wall Street polverizzare ogni record, con l’indice Standard & Poor’s in rialzo del 30%. rispetto al primo gennaio. L’“Economist” dedica una copertina a Blackrock, il fondo d’investimento più grande del mondo, il primo azionista in metà delle 30 maggiori multinazionali del pianeta. E lo raffigura come una roccia nera che incombe su sfondo di cielo azzurro, «un’immagine che evoca Magritte oppure il monolito di Stanley Kubrick».“Time Magazine” invece sulla copertina di dicembre mette Carl Icahn, un nome che rievoca le prime grandi scalate degli anni Ottanta: «L’epoca in cui il romanziere Tom Wolfe coniò, nel “Falò delle vanità”, quel termine arrogante e superbo, inquietante e gonfio di hubris: i Padroni dell’Universo, appunto», scrive Rampini su “Repubblica” in un’analisi ripresa da “Micromega”. Il fondo che possiede una città si chiama Marathon Asset Management, non è neppure uno dei maggiori colossi, amministra “solo” 11 miliardi di dollari. Ha rilevato l’intera Scotia, città californiana a 250 km a nord di San Francisco, dopo la bancarotta municipale. «È un precedente che potrebbe far scuola per metropoli ben più grandi come Detroit, dove il liquidatore dei beni comunali sta mettendo all’asta fallimentare anche i musei cittadini». Intanto, “Time” saluta il ritorno di Icahn, 77 anni e un patrimonio di 20 miliardi che lo colloca al 18esimo posto della classifica “Forbes” dei Paperoni d’America, con questa presentazione: «È il singolo investitore più ricco di Wall Street, e il più temuto raider di grandi imperi industriali».La sua carriera, ricorda Rampini, cominciò con la scalata alla compagnia aerea Twa nel 1985, un anno prima che i rivali di Kkr lo battessero nella conquista alla Nabisco (raccontata in un altro celebre romanzo-realtà sulla finanza Usa, “Barbari alle porte”). Oggi Icahn fa notizia soprattutto per il braccio di ferro che lo oppone a Tim Cook, il chief executive di Apple nel dopo-Steve Jobs. «E qui viene la sorpresa: invece di assalire Apple con una delle solite scorribande finanziarie mordi-e-fuggi, Icahn si fa il paladino di interessi generali», perché «Apple non è una banca». Icahn vuole che la regina degli iPhone e iPad la smetta di accumulare cash inutilizzato (ben 150 miliardi di dollari, una montagna di liquidità tanto impressionante quanto assurda) e lo distribuisca a tutti gli azionisti – lui incluso, ovviamente, che nel capitale di Apple ha investito due miliardi. Ma l’operazione che Icahn pretende da Apple distribuirebbe benefici anche ai piccoli risparmiatori. «I Padroni dell’Universo si sono convertiti come dei Robin Hood? Tutt’altro. Ma almeno il loro è un capitalismo vero, un’economia di mercato non ingessata».Blackrock è un campione che gioca in una categoria a parte: la sua. «È il King Kong dell’investimento moderno, nessun altro può competere per dimensioni». Fondata nel 1988, oggi Blackrock amministra direttamente 4.100 miliardi di dollari dei suoi clienti. Inoltre fornisce piattaforme tecnologiche e software per la gestione di altri 11.000 miliardi. E quei fondi sotto la sua influenza crescono al ritmo frenetico di 1.000 miliardi all’anno. «Naturalmente compra anche bond, materie prime, immobili. La sua vera specialità però resta l’investimento azionario. Ritrovi Blackrock come primo azionista delle tre regine hi-tech americane: Apple, Google, Microsoft. È il primo azionista anche di due colossi petroliferi (Exxon, Chevron), di due tra le maggiori banche Usa (Jp Morgan Chase, Wells Fargo), sempre primo azionista anche in conglomerati industriali come General Electric, Procter & Gamble». Una peculiarità di Blackrock la distingue da altri protagonisti di epoche precedenti nella storia di Wall Street: «Questo maxi-fondo investe soprattutto attraverso strumenti detti “passivi” come gli exchangetraded funds (Etf) che riproducono esattamente l’andamento di indici di Borsa». Soprattutto, Blackrock investe capitali che le vengono affidati anche dai piccoli risparmiatori, per esempio attraverso fondi pensione. «Dunque, a differenza della famigerata e defunta Lehman Brothers o di altre banche d’affari che si rivelarono fragilissime, un investitore istituzionale come Blackrock ha poco “rischio sistemico”».In un certo senso, continua Rampini, la Blackrock ha obbedito anticipatamente alla nuova regola varata solo da poche settimane dall’amministrazione Obama, quella Volcker Rule che vieta ai banchieri di fare speculazioni rischiose coi propri capitali. «È un altro caso di Padrone dell’Universo che può aiutare l’economia di mercato a evitare catastrofi come quella del 2008? Di certo l’universo capitalistico in cui si muove Blackrock dista anni-luce dalla realtà italiana. Per quanto sia un colosso, e grosso azionista di gruppi come Apple, Google, Shell e Nestlè, Toyota e Novartis, in nessuna di queste aziende la sua quota configura una “minoranza di blocco”. Né fa parte di patti di sindacato, che generalmente non esistono a Wall Street e nei mercati più evoluti. Blackrock può usare la frusta verso un management che giudica inefficiente, ma non ha poteri di veto né si può permettere di paralizzare una grande azienda».Il ritorno dei Padroni dell’Universo, aggiunge Rampini, è un fenomeno dalle molte facce. «L’aspetto negativo lo sottolinea chi teme che la crescita americana sia ripartita su basi vecchie, cioé con gli stessi squilibri che generarono la grande crisi del 2008», in particolare «la finanziarizzazione dell’economia e la dilatazione delle diseguaglianze sociali che le è strettamente legata». Larry Summers, ex consigliere economico di Obama, in un importante discorso al Fmi ha evocato il rischio di una «stagnazione secolare», tra i cui sintomi vi sarebbe la deflazione. Uno studio della Washington University lancia l’allarme sulle disparità nel risparmio: il 5% delle famiglie più ricche sta accumulando troppi risparmi e in questo modo deprime i consumi; mentre il 95% rimanente è costretto a dilapidare lentamente i propri patrimoni per contrastare il peggioramento del tenore di vita.Il “lato positivo” di Wall Street, se esiste, forse lo vedono meglio di tutti gli italiani: per contrasto con la loro realtà nazionale. Il ministro dell’economia Fabrizio Saccomanni, in una recente visita a New York in cui ha incontrato proprio i dirigenti di Blackrock, oltre agli uomini di Citigroup e George Soros, ha potuto misurare i benefici della loro intraprendenza: «Diversi attori della finanza Usa si sono offerti di liquidare in fretta le sofferenze e i crediti incagliati delle banche italiane, un’operazione che consentirebbe alle aziende di credito di tornare a prestare fondi all’economia reale». Dietro un’economia americana che cresce del 3% e genera 200.000 nuovi posti di lavoro al mese, c’è anche questa finanza “flessibile”, che «ha liquidato in tempi record le scorie tossiche della crisi del 2008, ed è tornata a fare il suo mestiere». La storia di come le banche americane si sono rimesse in piedi, nel corso degli ultimi quattro anni, è lo specchio riflesso — all’incontrario — di tutto quel che non accade nel sistema bancario italiano. «Quando le banche Usa sembravano stremate, al tracollo, sul punto di affondare sotto il peso di investimenti sbagliati e crediti inesigibili, la prima mossa è stata la svendita a prezzi di liquidazione di tutta la “monnezza” che poteva impedire la riemersione».In seguito o in parallelo, ci sono state le grandi ricapitalizzazioni. Le banche hanno cercato capitali freschi sul mercato aperto. Una delle prime operazioni la fece un personaggio emblematico del capitalismo Usa, Warren Buffett, con il suo investimento “salvifico” in Goldman Sachs, fatto in un’epoca in cui sui mercati ancora regnava una sfiducia quasi disperata. Una volta ricapitalizzate, anche con l’intervento dei Padroni dell’Universo, le banche hanno riguadagnato la fiducia dei mercati, sono apparse sufficientemente solide da superare gli “stress test” degli organi di vigilanza. E hanno ripreso a fare credito all’economia reale, famiglie e imprese, alimentando la ripresa attuale. Niente blindature degli assetti azionari, niente “foreste pietrificate” dei soliti noti. Questo è il capitalismo americano, conclude Rampini: è la “macchina del mercato” che, negli Usa, «ha ripreso a girare a pieno ritmo».C’è un fondo d’investimento che si compra un’intera città della California in bancarotta, c’è quello che controlla da solo il 7% di tutta la ricchezza mondiale, 15.000 miliardi di dollari, e c’è il finanziere d’assalto che sfida Apple. I “Masters of the Universe” sono tornati, osserva Federico Rampini: i giganti della finanza americana rinascono più forti che mai. «Il crac sistemico del 2008, che sembrava averli spezzati, è ormai un ricordo lontano: se ne accorge anche Hollywood, con il duo Martin Scorsese-Leonardo Di Caprio» che proprio a loro dedica a “The Wolf, il Lupo di Wall Street”, alla fine di un 2013 che ha visto Wall Street polverizzare ogni record, con l’indice Standard & Poor’s in rialzo del 30%. rispetto al primo gennaio. L’“Economist” dedica una copertina a Blackrock, il fondo d’investimento più grande del mondo, il primo azionista in metà delle 30 maggiori multinazionali del pianeta. E lo raffigura come una roccia nera che incombe su sfondo di cielo azzurro, «un’immagine che evoca Magritte oppure il monolito di Stanley Kubrick».
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Jekyll Island: il golpe dei banchieri che crearono la Fed
Jekyll Island, 1910, ovvero l’isola dei pirati di lusso. Un gruppo di banchieri e politici sbarca nell’isola di Jekyll (Georgia) dopo un viaggio segreto in treno. Provengono dalla stazione di Hoboken, nel New Jersey, dove i giornalisti li avevano appena intravisti. Se li erano lasciati sfuggire, costernati, ma non potevano sapere che la “delegazione” era svicolata con un vagone ermeticamente chiuso, tendine abbassate, per una destinazione sconosciuta. Il senatore Nelson Aldrich guida la delegazione, in qualità di capo della Commissione Monetaria Nazionale. Tre anni prima, c’era stato un panico tragico per la crisi finanziaria e nel 1908, il presidente Theodor Roosevelt aveva creato una Commissione per stabilizzare il sistema monetario nella federazione, e Aldrich aveva condotto i membri della Commissione per una tournée in Europa di due anni: costo, 300.000 dollari dell’epoca, naturalmente a spese del contribuente americano. Dopo tanto tempo, nel 1910, Aldrich non aveva né redatto il rendiconto del viaggio né – meno che mai – abbozzato la riforma bancaria.Alla stazione di Hoboken, Aldrich era accompagnato da suo segretario particolare, Shelton, dal Segretario aggiunto al tesoro, Piatt Andrew, dal presidente della National City Bank, Frank Vanderlip, dall’associato della J.P Morgan, Henry Davison, dal presidente della First National Bank, Charles Norton, da un altro rappresentante della J.P. Morgan, Benjamin Strong, e da Paul Warburg, della banca Kuhn, Loeb &Co. di New York. Si imbarcarono su una vedetta misteriosa, diretta a Jekyll Island, e non tutti sapevano la portata né la durata del soggiorno laggiù. Il senatore Aldrich aveva confidato solo a Henry, Frank, Paul e Piatt che la delegazione sarebbe rimasta in clausura nell’isola sino a quando non avesse elaborato un sistema monetario “scientifico” per gli Stati Uniti.Il Club di Jekyll lsland lavorerà per due settimane. Nell’isola è già rappresentato un sesto dell’intera ricchezza mondiale. Non è gente che si accontenta. Ha bisogno di assicurarsi l’eternizzazione dell’immenso potere finanziario e politico acquisito. Vedremo in un prossimo articolo il percorso che farà il lavoro da cospiratori, sino al fatidico dicembre 1913, durante il primo anno del presidente Woodrow Wilson. Sono dunque passati cento anni dalla nascita del Federal reserve system, che non è né federale, né riserva, ma semplicemente un potere di alcuni oligarchi di creare moneta e credito per il proprio profitto.(Agostino Alciator, “Fed, centenario di un colpo di Stato”, da “Megachip” del 1° gennaio 2014. Già diplomatico, console italiano in Francia, Alciator è responsabile esteri di “Alternativa”, laboratorio politico fondato da Giulietto Chiesa).Jekyll Island, 1910, ovvero l’isola dei pirati di lusso. Un gruppo di banchieri e politici sbarca nell’isola di Jekyll (Georgia) dopo un viaggio segreto in treno. Provengono dalla stazione di Hoboken, nel New Jersey, dove i giornalisti li avevano appena intravisti. Se li erano lasciati sfuggire, costernati, ma non potevano sapere che la “delegazione” era svicolata con un vagone ermeticamente chiuso, tendine abbassate, per una destinazione sconosciuta. Il senatore Nelson Aldrich guida la delegazione, in qualità di capo della Commissione Monetaria Nazionale. Tre anni prima, c’era stato un panico tragico per la crisi finanziaria e nel 1908, il presidente Theodor Roosevelt aveva creato una Commissione per stabilizzare il sistema monetario nella federazione, e Aldrich aveva condotto i membri della Commissione per una tournée in Europa di due anni: costo, 300.000 dollari dell’epoca, naturalmente a spese del contribuente americano. Dopo tanto tempo, nel 1910, Aldrich non aveva né redatto il rendiconto del viaggio né – meno che mai – abbozzato la riforma bancaria.