Archivio del Tag ‘moralismo’
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Germania SpA, smascherata la mafia più onesta d’Europa
La prossima volta che un ministro tedesco farà la lezioncina a qualche altro paese dell’Unione Europea sulla necessità di obbedire alle regole, il malcapitato bersaglio potrà essere perdonato se gli renderà la pariglia. Il paese che tanto ama fustigare gli altri per i danni legati all’azzardo morale, che chiede una rigida disciplina nell’applicare le regole fiscali della Ue e che dipinge i paesi dell’Europa del Sud come endemicamente corrotti, è caduto proprio lui nel pantano. Gli scandali hanno colpito la sua tanto decantata industria automobilistica, il suo più grande settore ingegneristico (Siemens) e la sua maggiore banca (Deutsche Bank) – e c’è più di un sospetto che Berlino abbia chiuso un occhio su tutto questo, per molto tempo. Può essere che la Germania non sia né più sporca né più pulita di qualsiasi altro paese europeo. Ma è certamente più presuntuosa. Ed è per questo che oggi è difficile non essere percorsi da un brivido di gioia maligna quando si leggono i sempre più frequenti resoconti sui comportamenti scorretti – e forse anche illegali – di alcune delle sue maggiori aziende.L’ultimo scandalo che ha macchiato la reputazione di Deutschland Ag – “Germania Spa”, come viene spesso soprannominata la relazione un po’ troppo intima tra mondo degli affari e politica – riguarda più di due decenni di presunte collusioni tra le cinque maggiori case automobilistiche tedesche. Lo riporta “Der Spiegel”. Le autorità tedesche ed europee sull’antitrust stanno investigando per appurare se Mercedes-Benz, proprietario di Daimler, Volskwagen, Bmw, Porsche e Audi abbiano svolto riunioni segrete per concordare gli standard tecnici, le forniture e i prezzi, a scapito dei concorrenti stranieri. Secondo il report è stata Volkswagen, nel disperato tentativo di ripulirsi ed evitare ulteriori problemi legali dopo essere stata scoperta a imbrogliare sistematicamente nei test di emissione di sostanze inquinanti negli Stati Uniti, a informare l’Ufficio federale tedesco per l’antitrust. In seguito, dice l’inchiesta, è risultato che Daimler potrebbe avere preceduto Volkswagen nel fare la soffiata.Le prove sull’esistenza di un presunto cartello sarebbero state poi insabbiate per un anno, fino a che “Der Spiegel” non ha pubblicato il suo report. Bmw ha negato qualsiasi comportamento illegale. Le altre case automobilistiche non hanno commentato, mentre la Vda (associazione tedesca dell’industria automobilistica, ndt) ha dichiarato di non essere coinvolta. Le case automobilistiche confermate colpevoli di violazione delle regole europee sulla concorrenza potrebbero essere multate fino al 10 per cento del loro fatturato totale: ma il sistema prevede che il primo dei partecipanti a denunciare l’esistenza dei comportamenti anticoncorrenziali illeciti sia esentato dal pagamento della multa. Per esempio, due dei maggiori costruttori tedeschi di camion – Man e Daimler – erano tra le cinque aziende coinvolte in un cartello per concordare i prezzi che lo scorso anno è stato sanzionato dalla Commissione Europea con una multa di 2,93 miliardi di euro. Però Man non è stata multata, perché è stata la prima a rivelare l’esistenza del cartello, nel 2011.Ma non è solo la tanto decantata industria automobilistica tedesca ad essersi messa in cattiva luce negli ultimi tempi. Lo scorso anno Deutsche Bank ha patteggiato 7,2 miliardi di dollari con il Dipartimento della Giustizia statunitense per un’indagine sulle modalità scorrette di vendita di titoli garantiti da ipoteca tra il 2005 e il 2007: era risultato che alcuni prestiti fatti a debitori del tutto privi di garanzie venivano reimpacchettati e rivenduti agli investitori come titoli sicuri. Il crollo dei titoli garantiti da ipoteca è stato uno dei maggiori fattori scatenanti della crisi finanziaria globale del 2008 (quella stessa che dato fiato a orde di moralizzatori tedeschi). Ma Deutsche Bank è stata multata anche perché la sua società sussidiaria nel Regno Unito ha manipolato il tasso di interesse Libor e non ha impedito il riciclaggio di 10 miliardi di dollari di denaro sporco proveniente dalla Russia.Nel frattempo il gigante ingegneristico Siemens è stato accusato di avere fornito turbine a gas per alcuni generatori elettrici che permetteranno il funzionamento di due centrali elettriche nella Crimea occupata dalla Russia, e che metteranno fine alla dipendenza energetica della penisola dall’Ucraina, dopo che Mosca ha ripreso possesso della regione nel 2014. La fornitura di apparecchiature elettriche alla Crimea viola le sanzioni stabilite dall’Unione Europea, ma Siemens sostiene che il dirottamento è avvenuto a sua insaputa, a causa di un’azienda statale russa sua cliente, in violazione del contratto e nonostante i passati avvertimenti fatti dall’azienda. All’inizio del mese Siemens aveva negato un report di “Reuters” che affermava che due delle sue turbine erano state inviate in Crimea dalla vicina Russia sud-occidentale. Poi ha affermato che stava compiendo delle indagini. Poi ha ammesso che l’attrezzatura era stata spedita in Crimea ma “contro la sua volontà” e ha dichiarato che avrebbe fatto causa al suo cliente russo, Technopromexport, e alla sua stessa società sussidiaria in Russia, la Siemens Gas Turbine Technologies. Ora dichiara di avere bloccato l’esportazione di qualsiasi tecnologia per la generazione di corrente elettrica destinata alla Russia.Le spiegazioni fornite appaiono nel migliore dei casi ingenue. Come riportato dal sito investigativo ucraino “Euromaidanpress”, era evidente a chiunque che Mosca stava costruendo a gran velocità centrali elettriche calibrate esattamente per le turbine Siemens in Crimea. Mentre i progetti per la costruzione di una centrale elettrica, cui sulla carta le turbine dovevano essere destinate, sull’altra sponda del Mar d’Azov, erano a malapena abbozzati. Recitando il più ovvio dei copioni, Siemens si è autodipinta come vittima di un inganno dei russi e ha rumorosamente chiuso la stalla dopo che i buoi erano già scappati. Tutta la faccenda è una bella ragione di imbarazzo per Berlino, che si era schierata in prima fila nella richiesta delle sanzioni europee contro le aziende e i singoli russi coinvolti nell’occupazione della Crimea da parte di Mosca. La cancelliera Angela Merkel ha perfino affermato che questa vicenda ha infranto un sistema di regole rispettate in Europa dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.Un portavoce del governo tedesco ha dichiarato che alti funzionari russi avevano assicurato che le turbine non sarebbero state usate in Crimea, e che Berlino stava studiando le potenziali conseguenze di questa operazione “inaccettabile”. In uno scaricabarile da manuale, il portavoce del governo ha affermato che era compito delle aziende assicurarsi di non violare le sanzioni, e tuttavia non ha minimamente fatto cenno ad alcuna conseguenza per Siemens legata a tutto questo. Un filo comune, in tutta questa serie di scandali aziendali, è che il governo tedesco non è mai stato il primo a far saltare fuori pubblicamente i problemi o svolgere indagini. Al contrario, sono state le autorità degli Stati Uniti (e in misura minore di Bruxelles) a smascherare il comportamento di Deutsche Bank e Volkswagen. Volkswagen ha pagato 2,8 miliardi di dollari di sanzioni penali, più 1,5 miliardi di dollari di sanzioni civili negli Stati Uniti in aprile per avere manipolato in modo truffaldino il software dei suoi veicoli diesel, perché passassero i test sulle emissioni inquinanti imposti dalla legge. È stata l’Agenzia statunitense per la protezione ambientale a scoprire le violazioni, nel 2015.Volkswagen ha dovuto allora richiamare 11 milioni di veicoli, di cui circa 8 milioni erano stati venduti in Europa. Lo scandalo ha messo in luce tutta la debolezza e la frammentarietà del sistema di regolamentazione europeo, nonché l’applicazione estremamente lassista delle regole da parte delle autorità. La casa automobilistica tedesca ha accettato di pagare circa 15 miliardi di euro di risarcimenti agli acquirenti statunitensi, ma ha rifiutato di fare lo stesso verso i propri clienti europei, a causa delle diverse regole per la tutela dei consumatori in Europa. I produttori tedeschi riescono a far pagare cari i propri prodotti, le loro “automobili definitive”, grazie a quello che un tempo era conosciuto in Europa come l’indiscutibile marchio di “Deutsche Qualität” (qualità tedesca). Ma che succede, se la massima avanguardia tecnologica sbandierata negli slogan come “il progresso attraverso la tecnologia” si rivela essere “il progresso attraverso l’imbroglio”, costruito con marchingegni truffaldini e cartelli sui prezzi? Si canterebbe ancora “Oh Signore, comprami una Mercedes-Benz?”.(Paul Taylor, “Quei disonesti dei tedeschi”, dall’edizione europea di “Politico” del 25 luglio 2017, post tradotto e ripreso da “Voci dall’Estero”).La prossima volta che un ministro tedesco farà la lezioncina a qualche altro paese dell’Unione Europea sulla necessità di obbedire alle regole, il malcapitato bersaglio potrà essere perdonato se gli renderà la pariglia. Il paese che tanto ama fustigare gli altri per i danni legati all’azzardo morale, che chiede una rigida disciplina nell’applicare le regole fiscali della Ue e che dipinge i paesi dell’Europa del Sud come endemicamente corrotti, è caduto proprio lui nel pantano. Gli scandali hanno colpito la sua tanto decantata industria automobilistica, il suo più grande settore ingegneristico (Siemens) e la sua maggiore banca (Deutsche Bank) – e c’è più di un sospetto che Berlino abbia chiuso un occhio su tutto questo, per molto tempo. Può essere che la Germania non sia né più sporca né più pulita di qualsiasi altro paese europeo. Ma è certamente più presuntuosa. Ed è per questo che oggi è difficile non essere percorsi da un brivido di gioia maligna quando si leggono i sempre più frequenti resoconti sui comportamenti scorretti – e forse anche illegali – di alcune delle sue maggiori aziende.
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Falsa morale (e veri interessi) da chi pilota l’immigrazione
Poteri forti, interessi fortissimi. Attraverso i media da loro gestiti, giustificano l’immigrazione di massa come rimedio alla denatalità dei paesi occidentali. Ma la giustificazione non regge, secondo Marco Della Luna, «perché quelli sono i medesimi poteri (interessi) forti che hanno indotto la denatalità, soprattutto attraverso la loro politica monetaria deflazionistica e recessiva la quale, assieme al modello sociale ad essa collegato, al contrario delle sue promesse di sviluppo e stabilità, ha tolto lavoro e prospettive per il futuro, nonché partecipazione democratica». Sono i medesimi super-poteri che «mantengono quella politica nonostante i suoi effetti, e che con essa si sono arricchiti e potenziati politicamente». Sono sempre loro a produrre i flussi migratori, «fomentando o conducendo direttamente guerre in Africa e Asia, per i loro interessi petroliferi, minerari, militari e per vendere armi, e praticandovi il land grabbing», la “rapina” delle loro terre. Poteri che «permettono ai comitati d’affari» anche italiani, «in veste politica o religiosa», di «speculare e rubare sul traffico dell’accoglienza», al riparo del Vaticano e dei mass media «moraleggianti». Tutto questo permette ai grandi padroni di «giocare al ribasso sui salari grazie alla manodopera immigrata».Per Della Luna, si tratta di «un traffico che distrae grosse risorse economiche altrimenti spendibili per sostenere l’occupazione e gli investimenti, quindi la natalità», senza contare «problemi di criminalità, di sicurezza del territorio e di malattie importate». Facciamo pochi figli? E’ sempre scarsa la domanda interna di beni? E’ perché «già abbiamo scarso reddito, scarsi servizi e scarsa sicurezza». E loro, i poteri al servizio degli “interessi forti”, «ci tolgono altri soldi, altri servizi e altra sicurezza per offrire il mantenimento (per giunta gratuito, senza lavorare) a chiunque arrivi: un invito potentissimo ad accorrere in massa, rivolto a un bacino di centinaia di milioni di poveri, che mette in moto un flusso inesauribile, che richiederà risorse inesauribili, ossia esaurirà presto quelle disponibili». Per Della Luna, da sempre ultra-critico verso l’immigrazione “pilotata”, il cerchio si chiude: «Con la recessione e la disoccupazione si produce la denatalità che giustifica l’accoglienza, la quale sostiene la denatalità».Al tempo stesso, «con l’imperialismo e l’interventismo nei paesi poveri si alimentano i flussi migratori, scaricandone i costi sui paesi occidentali, in cui le condizioni di vita e le prospettive per il futuro si deteriorano al punto che essi risultano attraenti solo per i migranti economici che vengono da aree molto peggiori, mentre per noi davvero aver figli diviene sempre meno sostenibile e desiderabile». Così sta avvenendo una sorta di graduale sostituzione etnica: «Fuori noi, dentro loro». E’ la sindrome dei panda, che «quando si trovano in cattività, in un ambiente cioè che non sentono più come il loro, smettono di riprodursi». Preti e mass media dicono che noi occidentali dobbiamo accettare l’immigrazione di massa da quei paesi per espiare il fatto che, in passato, li abbiamo colonizzati e sfruttati? «Ma chi decise la colonizzazione e la usò per arricchirsi – ribatte Della Luna – erano non già i popoli (occidentali), bensì proprio quelle medesime élites che oggi stanno praticando l’imperialismo verso quei paesi, a spese (anche) dei popoli occidentali, e che posseggono i media e gestiscono l’informazione, cioè la propaganda, a loro profitto».(Marco Della Luna, “Elites e migrazione, falsa morale e veri interessi”, dal blog di Della Luna del 15 agosto 2016).Poteri forti, interessi fortissimi. Attraverso i media da loro gestiti, giustificano l’immigrazione di massa come rimedio alla denatalità dei paesi occidentali. Ma la giustificazione non regge, secondo Marco Della Luna, «perché quelli sono i medesimi poteri (interessi) forti che hanno indotto la denatalità, soprattutto attraverso la loro politica monetaria deflazionistica e recessiva la quale, assieme al modello sociale ad essa collegato, al contrario delle sue promesse di sviluppo e stabilità, ha tolto lavoro e prospettive per il futuro, nonché partecipazione democratica». Sono i medesimi super-poteri che «mantengono quella politica nonostante i suoi effetti, e che con essa si sono arricchiti e potenziati politicamente». Sono sempre loro a produrre i flussi migratori, «fomentando o conducendo direttamente guerre in Africa e Asia, per i loro interessi petroliferi, minerari, militari e per vendere armi, e praticandovi il land grabbing», la “rapina” delle loro terre. Poteri che «permettono ai comitati d’affari» anche italiani, «in veste politica o religiosa», di «speculare e rubare sul traffico dell’accoglienza», al riparo del Vaticano e dei mass media «moraleggianti». Tutto questo permette ai grandi padroni di «giocare al ribasso sui salari grazie alla manodopera immigrata».
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Errore fatale, trattare i migranti come i Goti di Alarico
Nel clima da fine impero in cui siamo immersi fioriscono i paragoni tra l’ondata migratoria attuale e le invasioni barbariche del V secolo. Scrive ad esempio l’antropologa Amalia Signorelli: «Vorrei suggerire all’onorevole Matteo Salvini e a tutti coloro che condividono le sue idee una passeggiata lungo le Mura Aureliane, la possente fortificazione con cui l’imperatore Aureliano (215 – 275 d.C.) circondò Roma, capitale dell’Impero, per metterla al riparo dalle invasioni dei barbari. Si resta affascinati dal diametro della cinta muraria (Roma all’epoca sfiorava il milione di abitanti), dallo spessore delle mura, dalla frequenza delle torri di avvistamento, dall’eccellente protezione dei camminamenti. Un’opera di ingegneria militare ancora oggi esemplare. Che, come tutti sappiamo, non fermò le invasioni barbariche. Se mai, per un paio di secoli, ne ritardò il compimento. Quei barbari non erano bande di briganti dedite al saccheggio, erano popolazioni che si muovevano dall’Est verso Ovest con donne e bambini e che tendevano a stabilirsi nei paesi conquistati». E poi la proposta: «Il rifugiato riceva dallo Stato italiano una cifra giornaliera per il proprio mantenimento e, in segno di gratitudine, si offra volontario per lavori socialmente utili».Questa è l’impostazione politically correct di Amalia Signorelli. Commenta una lettrice: «E purtroppo l’autrice dell’articolo ha ragione, ha dannatamente ragione: i muri non bastano, non basteranno a fermare questa invasione barbarica che produrrà soltanto distruzione, come d’altronde tutte le invasioni. Non è più un fenomeno di immigrazione, è un’incontenibile invasione. Ha ragione l’autrice a paragonarla con quanto successe durante le guerre gotiche. Ma l’autrice omette colpevolmente di ricordare gli episodi di atroce crudeltà. Roma in cinquant’anni passò da un milione di abitanti a trentamila. Fu una carneficina e fu il crollo di una civiltà. Siamo arrivati, purtroppo, a una scelta: o noi o loro». Questa opinione è sostanzialmente condivisa da oltre il 90% dei lettori che commentano. Perciò parliamone apertamente e senza moralismi, o magari utilizzando la storia come metafora. Che vuol dire: “O noi o loro”? Dovremmo sterminarli, riportarli da dove vengono, o cosa?Lo so che il genocidio (non è già in corso?) è un reato, e l’apologia di reato non si può fare; e chi lo commette si autodistrugge. Ma proviamo a ridurre il divario fra opinione pubblica e establishment. I Goti e i loro successori non volevano abbattere l’impero romano, anzi: ma solo inserirsi in un’area sicura (dagli attacchi degli Unni) e ricca. Sounds familiar? Però ne provocarono il crollo. Il declino del reddito pro-capite durò circa mille anni. O più: i contadini del V secolo abitavano case pavimentate e con le tegole sul tetto; in Veneto cento anni fa molti contadini vivevano in abitazioni di paglia. Come gestirono la pressione migratoria nel V secolo? In modi diversi a Oriente e a Occidente. A Costantinopoli, in un caldo giorno di luglio dell’anno 400, fu pogrom. La folla inferocita trucidò tutti i Goti presenti in città: uomini, donne, bambini. Il governo di Arcadio completò la pulizia etnica, anche in Anatolia. La città festeggiò (3 gennaio 401)! I Visigoti di Alarico, invitti da 25 anni, vista la brutta aria, lasciarono la Tracia per l’Italia. E dei Goti in Oriente non si sentì più parlare. Problema risolto.In Occidente, in un caldo giorno di agosto del 405, Stilicone sconfisse un’orda di Goti che (dopo aver messo a ferro e fuoco l’Italia del Nord) assediava Firenze. Fece prigionieri forse 30.000 guerrieri: li risparmiò. Ne inserì 12.000 nell’esercito romano, alloggiando (in servitù) le rispettive donne e bambini presso famiglie padane; tutti gli altri li vendette schiavi. Ma nel 408 Stilicone cadde, e in Padania fu subito pogrom: la folla trucidò le donne e i bambini dei Goti. Allora i padri-mariti disertarono l’esercito romano (gli schiavi abbandonarono i padroni) e si unirono ad Alarico, portando l’esercito visigoto a circa 30.000 soldati. Fino ad allora battuto e ricacciato in Pannonia, Alarico così rinforzato riuscì ad espugnare Roma (410).Morale della favola. O li facciamo fuori tutti, ma proprio tutti, e in un colpo solo, come a Bisanzio. Ma ce la sentiamo di diventare dei genocidi? Oppure è meglio che li trattiamo bene. Perché anche in Oriente, nel 376, quando tutto cominciò, i forse 100.000 Goti che si presentarono alla frontiera sul Danubio chiesero ‘asilo politico’ all’imperatore, aspettarono due mesi la risposta di là dal fiume, entrarono disarmati, e non crearono problemi. Fino a quando – raccontano le fonti romane, non gote – traditi, umiliati, e affamati si ribellarono. E furono 25 anni di saccheggi. Tre strade. Il genocidio. La ri-emigrazione verso altri lidi (Cina? Antartide? I paesi di origine?). L’integrazione: attribuire loro dei diritti e rispettarli. Oppure il caos e la fine della civiltà. Quale preferite?Ps: il padre di Stilicone era Vandalo. E Stilicone fu l’ultimo baluardo di Roma! L’integrazione porta anche benefici. I romani avevano controlli sugli ingressi alle frontiere molto efficaci; e politiche dell’immigrazione molto restrittive (oggi Obama dice: fate di più contro i trafficanti di uomini). Il più bel libro che ho letto sull’argomento è di un italiano (Alessandro Barbero, “Barbari: Immigrati, profughi, deportati nell’impero romano”, Laterza). I migranti di oggi non sono come quelli del V secolo. Nella società agraria latifondista romana un Goto che arrivava da solo non aveva nessuna possibilità di migliorare la sua condizione economica: poteva fare solo lo schiavo o il servo della gleba. La produzione agricola essendo più o meno data, l’impero non traeva benefici economici dall’immigrazione (a parte l’esercito).Perciò per i migranti al di là delle frontiere l’unico modo per partecipare al benessere romano era organizzare spedizioni armate di massa e costringere con la forza (e i saccheggi) lo Stato romano a venire a patti, a concedere terre e diritti di stanziamento (Alarico fino al 410 non chiese altro). Ma in tal modo i migranti del V secolo impoverirono l’impero, anche fiscalmente (i barbari non pagavano tasse), fino allo stremo. Oggi l’industria e i servizi cambiano la situazione: gli immigrati aumentano la capacità produttiva del paese ospite (perciò si presentano da soli, disarmati, pronti a creare valore e pagare le tasse). Il problema è nostro: organizzarci, investire su di loro per renderli produttivi. E prima ancora, farla finita con la crisi di domanda che non consente neanche a molti europei potenzialmente produttivi (disoccupati) di lavorare.(PierGiorgio Gawronski, “I migranti di oggi non sono come i Goti del V secolo”, da “Il Fatto Quotidiano” del 30 agosto 2015).Nel clima da fine impero in cui siamo immersi fioriscono i paragoni tra l’ondata migratoria attuale e le invasioni barbariche del V secolo. Scrive ad esempio l’antropologa Amalia Signorelli: «Vorrei suggerire all’onorevole Matteo Salvini e a tutti coloro che condividono le sue idee una passeggiata lungo le Mura Aureliane, la possente fortificazione con cui l’imperatore Aureliano (215 – 275 d.C.) circondò Roma, capitale dell’Impero, per metterla al riparo dalle invasioni dei barbari. Si resta affascinati dal diametro della cinta muraria (Roma all’epoca sfiorava il milione di abitanti), dallo spessore delle mura, dalla frequenza delle torri di avvistamento, dall’eccellente protezione dei camminamenti. Un’opera di ingegneria militare ancora oggi esemplare. Che, come tutti sappiamo, non fermò le invasioni barbariche. Se mai, per un paio di secoli, ne ritardò il compimento. Quei barbari non erano bande di briganti dedite al saccheggio, erano popolazioni che si muovevano dall’Est verso Ovest con donne e bambini e che tendevano a stabilirsi nei paesi conquistati». E poi la proposta: «Il rifugiato riceva dallo Stato italiano una cifra giornaliera per il proprio mantenimento e, in segno di gratitudine, si offra volontario per lavori socialmente utili».
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Mani Pulite, sfasciare l’Italia per venderla ai suoi carnefici
Mani Pulite? Un “golpe” giudiziario per radere al ruolo la Prima Repubblica, corrotta fin che si vuole ma non disposta a demolire la sovranità nazionale. «La vecchia dirigenza Dc-Psi, che per anni, nel bene e nel male, aveva governato l’Italia – scrive Gianni Petrosillo – non avrebbe mai ceduto alle pressioni esterne tese ad ottenere la liquidazione degli asset strategici e patrimoniali del Belpaese, per una sua completa subordinazione a (pre)potenze straniere, in atto di ricollocarsi sullo scacchiere geopolitico dopo l’implosione dell’Unione Sovietica». Tutto ciò «verrà fatto dopo, dai residuati della Prima Repubblica, sospettamente scampati alla mannaia giudiziaria, pur avendo ricoperto ruoli e funzioni di primo piano per una lunga fase, e da nuovi partiti frettolosamente nati sulle macerie di quelli vecchi o appena riverniciati di falso moralismo necessario a mimetizzarsi tra scandali e persecuzioni». Un magistrato come Tiziana Maiolo denunciò le “stranezze” del pool di Milano, «il quale, incredibilmente, insabbiò le indagini sui comunisti e mise i bastoni tra le ruote a quei magistrati che avrebbero voluto fare maggiore chiarezza anche da quella parte».La stessa Maiolo, scrive Petrosillo su “Conflitti e Strategie”, «riprende la tesi del complotto della Cia nell’affaire Tangentopoli», anche se «non arriva a comprendere come gli americani potessero fidarsi dei comunisti, cresciuti sotto l’ala di Mosca, per raggiungere i loro scopi». Forse alla Maiolo erano sfuggiti «importanti spostamenti di campo che il Pci iniziò ad operare sin dalla fine degli anni ’60 e che diventarono sempre più evidenti con il compromesso storico, le dichiarazioni berlingueriane favorevoli alla Nato e i viaggi d’oltreoceano di Giorgio Napolitano». L’onda lunga del “tradimento” si completerà in seguito alla caduta dell’Urss con la svolta occhettiana della Bolognina, che porterà la “ditta” a cambiare apertamente nome e ragione sociale. «E’ vero che la gioiosa macchina da guerra del Pds s’ingripperà sul più bello, mentre dava l’assalto al potere», ma in effetti anche il complotto meglio pianificato può incontrare un inghippo: in quel caso l’inghippo fu Berlusconi, «catalizzatore del bacino elettorale dei partiti distrutti dai giudici».Quando il pool di Milano «procedeva come un carro armato e tutti aspettavano che finalmente andasse a colpire anche il Pci-Pds, che andasse a fondo, che facesse una pulizia totale», grande stupore destarono quindi le parole del procuratore aggiunto Gerardo D’Ambrosio, che in un’intervista rilasciata al quotidiano “L’Unità” il 26 maggio 1993 annunciò che a grandi linee l’inchiesta su Tangentopoli era finita, dopo aver colpito Dc e Psi e risparmiato il Pci-Pds. Fu lo stesso D’Ambrosio, aggiunge Petrosillo, a battersi per dimostrare che Primo Greganti, il faccendiere del Pci-Pds che aveva prelevato denaro in Svizzera dal “Conto Gabbietta”, «rubava per sé e non per il partito». Un paio di anni dopo, quando il quadro politico era radicalmente cambiato e non esistevano più la Dc né il Psi (ma esisteva ancora l’ex partito di Occhetto), il ministro di giustizia del governo Dini, Filippo Mancuso, avvierà un’ispezione nei confronti del pool di Milano, e la questione Greganti salterà di nuovo fuori. Dov’erano finiti quei soldi? «Nelle casse del Pci-Pds». Ma il pool di Milano cessò di indagare. E a Tiziana Parenti, la giovane magistrata che aveva osato sfidare i vertici della Quercia, l’inchiesta fu tolta.«Ci sarà un altro magistrato la cui inchiesta sul Pci-Pds si infrangerà su un muro di omertà complici e di “aiutini”», continua Petrosillo. Si tratta del procuratore di Venezia, Carlo Nordio, cui a un certo punto furono trasferiti anche atti provenienti da Milano. «L’interrogatorio di Luigi Carnevale, che chiamava in causa esplicitamente Stefanini, Occhetto e D’Alema, non arrivò mai. Si disse che era stata una “dimenticanza”. E così l’inchiesta di Venezia, come tante altre che si snodarono in tutta Italia, si risolse con le condanne dei pesci piccoli». E che dire di quel miliardo di lire che Raul Gardini, patron di Enimont, avrebbe consegnato a Botteghe Oscure, su cui esistono diverse testimonianze e per il quale Sergio Cusani fu condannato a sei anni di carcere? «Sparito nelle stanze buie della grande federazione del Pci-Pds. Nessun magistrato, né Di Pietro né in seguito i diversi tribunali individuarono in quali mani il denaro fosse finito. Per D’Alema e Occhetto non è mai valso il principio del “non poteva non sapere” o della “responsabilità oggettiva” con cui fu colpito Bettino Craxi. Eppure c’era stato il racconto (indiretto) di Sergio Cusani che aveva riferito di aver consegnato un miliardo nelle mani di Achille Occhetto».Il tribunale che condannò Cusani scrisse: «Gardini si è recato di persona nella sede del Pci portando con sé 1 miliardo di lire. Il destinatario non era quindi semplicemente una persona, ma quella forza di opposizione che aveva la possibilità di risolvere il grosso problema che assillava Enimont e il fatto così accertato è stato dunque esattamente qualificato come illecito finanziamento di un partito politico». Non si ricordano urla e strepiti del pubblico ministero Antonio Di Pietro (anche se chiederà timidamente di interrogare D’Alema), che dopo quel processo gettò la toga, scrive Petrosillo. Occhetto e D’Alema non furono neppure sentiti e il miliardo passò alla storia come finanziamento illegale “a un partito”. Francesco Misiani, pm romano di sinistra aderente alla corrente più radicale di “Magistratura democratica”, ha spiegato in un libro quale fosse il suo stato d’animo quando scoprì che il Pci-Pds, «lungi dal rappresentare quella “diversità” su cui tanto si era appassionato Enrico Berlinguer, era invece assolutamente omologo (un terzo, un terzo, un terzo) ai partiti di governo e, proprio come aveva denunciato l’inascoltato Craxi, si era sempre finanziato in modo illecito o illegale». Anzi, avendo anche ricevuto finanziamenti dall’Unione Sovietica, come racconterà con franchezza in un altro libro Gianni Cervetti, aveva persino maggiore disponibilità finanziaria.Un politico di Forza Italia come Giuliano Urbani racconta: «Nel 1994, quando ero ministro del primo governo Berlusconi, fui avvicinato da alcuni professori miei amici, che erano legati alla Cia, i quali mi misero in guardia da Di Pietro, mi suggerirono di diffidare della persona. Mi dissero con certezza che Di Pietro nella costruzione di tangentopoli era stato aiutato dai servizi segreti americani». Secondo i “contatti” di Urbani, il desiderio di vendetta degli Stati Uniti nei confronti di Craxi, Spadolini e Andreotti per i fatti di Sigonella ebbe diversi strumenti operativi, tra cui appunto l’uso di Tonino Di Pietro. «Il quale in effetti arrivò, distrusse e se ne andò. Su mandato dei servizi segreti americani». Il racconto di Urbani, proprio perché proviene da un liberale che arrivò nei palazzi del potere “dopo”, e quindi non aveva nessun motivo di revanchismo nei confronti del Pm di Mani Pulite, sembra convincente: «Quegli amici mi hanno avvicinato per avvertirmi della doppiezza dell’uomo, che era stato protagonista di una pagina oscura. E mi hanno proprio cercato loro, appositamente». Vengono con facilità alla memoria quelle trattative, poi saltate, per far entrare Di Pietro nel governo Berlusconi. E i dubbi aumentano. «Sappiamo come è cominciata, ma non sappiamo perché», osserva Petrosillo. «Perché una colossale retata giudiziaria a strascico abbia rivoluzionato la fisionomia politica del paese».C’è chi ha sposato la teoria del complotto internazionale, scrive Petrosillo. Sostenuta da molti esponenti governativi prestigiosi della Prima Repubblica (Craxi in primis), questa ipotesi parte dal presupposto che la magistratura fino al 1992 ignorò il finanziamento illecito dei partiti. Poi, con l’arresto di Mario Chiesa, il caso esplose e si trasformò in un “processo al sistema”. «Qualcuno, si dice, aveva interesse ad annientare l’intera classe politica al governo e sostituirla con un’altra. Chi? Perché?». Francesco Cossiga ha fatto parte di coloro che hanno creduto al complotto internazionale. In una delle sue ultime interviste, attribuì alla Cia un ruolo importante sull’inizio di Tangentopoli, così come sulle “disgrazie” di Craxi e Andreotti. In quel periodo alla Casa Bianca c’erano amministrazioni del Partito democratico, «le più interventiste e implacabili». Un altro boss della Prima Repubblica, l’ex ministro democristiano Paolo Cirino Pomicino, sostiene che il “complotto” iniziò proprio nel 1992, la data fatidica di Mani Pulite. In quei giorni il capo della Cia, James Woolsey, spiegò che l’amministrazione Clinton aveva disposto un vero spionaggio industriale, e a Milano sbarcò l’agenzia privata di investigazioni Kroll. Gli Usa raccolsero corposi dossier sul finanziamento illecito. E il capo della Cia fece sapere al suo governo che c’era la possibilità di far scoppiare scandali, se fosse servito.Nell’analisi di Cirino Pomicino, aggiunge Petrosillo, c’è anche la Gran Bretagna, dove «la Thatcher aveva perso la battaglia sulla moneta unica e gli americani iniziarono una politica aggressiva per difendere il dollaro», oltre che una certa attenzione ai problemi avuti da Chirac in Francia e Kohl in Germania. In quel momento «sarebbe stata scelta l’Italia, come luogo dove far scoppiare lo scandalo». Il punto debole, conclude Petrosillo, è la strategia che gli americani avrebbero avuto sul “dopo”. «Chi assaltò il Palazzo d’inverno, chi prese la Bastiglia aveva un progetto per il giorno dopo la rivoluzione. I servizi segreti americani avevano dunque un accordo con Occhetto? Oppure con quei “poteri forti” che cercavano la discontinuità e che non ameranno mai Berlusconi, trattato sempre come un Maradona, geniaccio arrivato d’improvviso dalle favelas?». La risposta è nei fatti, dal Britannia in poi, col clamoroso precedente del divorzio tra il Tesoro e Bankitalia, quando la banca centrale era retta da Ciampi. Lo ha spiegato molto bene Nino Galloni, consulente di Andreotti alla vigilia del Trattato di Maastricht: l’Italia fu deliberatamente azzoppata, con la complicità delle sue élite tecnocratiche in quota al futuro centrosinistra, per sabotare il sistema produttivo nazionale, come chiedeva la Germania per aderire all’euro e gestire il disegno strategico di indebolimento generale dell’Europa. Il resto è cronaca, e si chiama crisi.Mani Pulite? Un “golpe” giudiziario per radere al ruolo la Prima Repubblica, corrotta fin che si vuole ma non disposta a demolire la sovranità nazionale. «La vecchia dirigenza Dc-Psi, che per anni, nel bene e nel male, aveva governato l’Italia – scrive Gianni Petrosillo – non avrebbe mai ceduto alle pressioni esterne tese ad ottenere la liquidazione degli asset strategici e patrimoniali del Belpaese, per una sua completa subordinazione a (pre)potenze straniere, in atto di ricollocarsi sullo scacchiere geopolitico dopo l’implosione dell’Unione Sovietica». Tutto ciò «verrà fatto dopo, dai residuati della Prima Repubblica, sospettamente scampati alla mannaia giudiziaria, pur avendo ricoperto ruoli e funzioni di primo piano per una lunga fase, e da nuovi partiti frettolosamente nati sulle macerie di quelli vecchi o appena riverniciati di falso moralismo necessario a mimetizzarsi tra scandali e persecuzioni». Un magistrato come Tiziana Maiolo denunciò le “stranezze” del pool di Milano, «il quale, incredibilmente, insabbiò le indagini sui comunisti e mise i bastoni tra le ruote a quei magistrati che avrebbero voluto fare maggiore chiarezza anche da quella parte».
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Ma perché trasformare in guru il povero, banale Saviano?
Saviano al posto di Bocca. Uno che non ha mai detto nulla di interessante, che non ha un’idea in croce, che scrive male e banale, che parla come una macchinetta sputasentenze, che brancola nel buio di un generico civismo, che è stato assemblato come una zuppa di pesce retorico a partire da un romanzo di successo, si prende la rubrica di un tipo tosto che di cose da dire ne aveva fin troppe. Saviano a La7 per tre giorni con l’auricolare di Serra e la bonomia un po’ spenta di Fazio, un rimasuglio di tv dell’indignazione, una celebrazione di quella cazzata che è l’evento, il tutto destinato a sicuro successo di critica e di pubblico: il nulla intorno alle parole, ridotte barbaramente al nulla dell’ideologia, e tutt’intorno un uso cinico della condiscendenza verso il piccolo talento dell’ordinario. Saviano a New York, come un brand scassato alla ricerca della mafia già scoperta da Puzo, Coppola e Scorsese, una specie di Lapo in cerca di marketing sulle orme di Zuccotti Park, tranne che Lapo fa il suo mestieraccio.Saviano in ogni appello, dalla lotta al traffico di cocaina ai diritti dei gay a chissà cos’altro ancora. Saviano sul giornale stylish del mio amico Christian Rocca, perfino. Ma che palle. L’ho ascoltato al Palasharp, un anno e mezzo fa, via web. Un disastro incolore. Uno fuori posto perfino in un luogo in cui si faceva mercimonio delle idee peggiori della società italiana. Non riusciva ad aderire, malgrado la buona volontà, nemmeno alla semplificazione moralista della politica nella sua forma estrema di faziosità e di odio teologico-politico. Saviano non sa fare niente e va su tutto, è di un grigiore penoso, e i madonnari che lo portano in processione dalla mattina alla sera gli hanno fatto un danno umano, civile, culturale e professionale quasi bestiale. Credo che le premesse fossero genuine, è l’esplosione che si è rivelata di un’atroce fumosità.Già non è dotato, ma poi mettergli in mano una specie di scettro da maghetto della popolarità e della significatività di sinistra o de sinistra, insignirlo di una strana laurea da rive gauche all’italiana, il caffè intellettuale dei mentecatti, chiedergli di pronunciarsi su tutto e su tutti come l’oracolo, di fungere da uomo-simbolo, lui che del simbolico ha appena la scorta, questo è veramente troppo. I Moccia e i Fabio Volo hanno scritto anche loro libri di successo. E’ un guaio che ti può capitare, una brutta malattia come il premio Nobel e altre scemenze. Un giorno o l’altro qualcuno te le commina, se sei veramente sfortunato, e c’è chi sbava nell’attesa. Ma nessuno li ha trasformati in totem, non si prestavano, non erano all’altezza. Saviano invece è all’altezza di questa mondializzazione del banale, di questa spaventosa irriverenza verso l’allegria e l’eccentricità dell’intelletto come nutrimento della società e della vita, di questa orgia del progressismo finto sexy, il torello triste che combatte la sua corrida in compagnia di milioni di consumatori culturali e di utenti dell’indicibilmente e sinistramente comune, medio.Siamo il paese di Wilcock, di Flaiano, di Cesaretto, di Manganelli e a parte lo spirito d’avanguardia e di letizia della scrittura, abbondano grandi maestri, filologi, scrittori anche civili che qualcosa da dire ce l’hanno, in trattoria e sui giornali e in tv, e siamo stati trasformati nel paese dei balocchi dei festival e delle seriali conferenze culturali dedicate al libro, al bestseller che ti cambia la vita come una nuova religione e ti immette nel mainstream più compiacente e belinaro. Ma via. Qualcuno deve pur dirlo. Facciamo un comitato, qualcosa di sapido e di cattivo, qualcosa di rivoltoso e di ribaldo. Basta con Saviano.(Giuliano Ferrara, “Qualcuno deve pur dirlo, ora basta con Saviano”, da “Il Foglio” del 13 maggio 2012).Saviano al posto di Bocca. Uno che non ha mai detto nulla di interessante, che non ha un’idea in croce, che scrive male e banale, che parla come una macchinetta sputasentenze, che brancola nel buio di un generico civismo, che è stato assemblato come una zuppa di pesce retorico a partire da un romanzo di successo, si prende la rubrica di un tipo tosto che di cose da dire ne aveva fin troppe. Saviano a La7 per tre giorni con l’auricolare di Serra e la bonomia un po’ spenta di Fazio, un rimasuglio di tv dell’indignazione, una celebrazione di quella cazzata che è l’evento, il tutto destinato a sicuro successo di critica e di pubblico: il nulla intorno alle parole, ridotte barbaramente al nulla dell’ideologia, e tutt’intorno un uso cinico della condiscendenza verso il piccolo talento dell’ordinario. Saviano a New York, come un brand scassato alla ricerca della mafia già scoperta da Puzo, Coppola e Scorsese, una specie di Lapo in cerca di marketing sulle orme di Zuccotti Park, tranne che Lapo fa il suo mestieraccio.
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Da soldati del capitale a uomini liberi, malgrado la Boldrini
L’immigrazione è uno dei temi più caldi del dibattito pubblico attuale. Del resto, in un mondo sempre più globale e insicuro, non potrebbe essere altrimenti. Come spesso capita, però, la discussione si è distanziata precocemente dalla ricerca della verità e di soluzioni concrete, fossilizzandosi in due macro-schieramenti: da un lato, c’è chi vede nell’immigrato un invasore, colpevole di rubare il posto di lavoro altrui; dall’altro, la difesa spasmodica di tale fenomeno ha portato ad affermazioni che farebbero rabbrividire qualsiasi appassionato di distopie. È questo il caso, relativamente recente, del presidente della Camera Laura Boldrini, la quale ha esplicitamente dichiarato in diretta nazionale che «il migrante è l’avanguardia dello stile di vita che presto sarà lo stile di vita di moltissimi di noi». Considerata da alcuni come massimo esempio di tolleranza e libertà, quest’idea se fosse del tutto realizzata sancirebbe la vittoria assoluta del sistema liberal-capitalista, già oggi dominante.Come una veggente di stampo neoliberista, infatti, la Boldrini fa riferimento ad un futuro dove si «dovranno muovere i capitali, le merci, gli esseri umani», vale a dire un mondo senza coesione sociale, valori condivisi e stabilità, in cui a comandare, sempre di più, saranno i marchi multinazionali e gli investitori privati. Non un futuro roseo, insomma, per chi è portatore di tradizioni millenarie e combatte contro i disagi della post-modernità da tutta la propria vita. La posizione “boldriniana”, inoltre, ha la presunzione di considerare la vita dell’immigrato come positiva e fiorente, senza interrogarsi su quanto l’esistenza di una persona, costretta ad abbandonare il proprio paese, la propria famiglia e le proprie consuetudini possa essere considerata un bene e dirsi veramente felice. Quest’atteggiamento denota un forte etnocentrismo che forse sarebbe ora di considerare come il razzismo del XXI secolo. Se è vero, infatti, che gran parte della storia coloniale ha visto nella presunta superiorità di una razza sull’altra la giustificazione del dominio e delle ingiustizie, oggi è l’imposizione di modelli propri di una determinata cultura, liberale e occidentale, ad altre, a svolgere la stessa funzione soggiogatrice.È così che le diverse popolazioni perdono la propria identità e il rispetto di se stesse, nella falsa speranza di divenire altro. Del resto, come osserva Jean Baudrillard, «la cultura occidentale si mantiene soltanto sul desiderio del resto del mondo di accedervi». In quanto tristemente reale, questo concetto si collega direttamente all’altra posizione accennata in precedenza, spesso popolare, che vede nell’immigrato il nemico numero uno, l’artefice del male. Questa visione confonde il vero problema in questione, individuandolo non nel fenomeno sistemico e manipolato dai poteri forti, ma nei suoi attori individuali e disperati. Erroneamente, sposta il bersaglio della critica dall’immigrazione agli immigrati. Questi ultimi, più che ad un esercito invasore, assomigliano a quello che Karl Marx, nel primo libro del “Capitale”, definisce «l’esercito industriale di riserva», ovvero quella massa di disoccupati particolarmente comoda ai capitalisti perché, a seguito della grande concorrenza, determina bassi salari e scarse rivendicazioni sociali.Ecco allora come l’immigrazione, difesa non a caso dai liberisti più accaniti, assomiglia più che ad un’invasione, ad una tratta di schiavi. L’immigrato è, allo stesso tempo, agente inconsapevole e vittima reale di un sistema planetario capace di minare la sicurezza e la dignità di tutti. Continuare a sostenere questo tipo di immigrazione, che di scambio tra culture non ha veramente nulla, significa semplicemente legittimare le logiche neoliberiste. Le stesse logiche che hanno ridotto i paesi del “Nord” alla crisi (culturale, sociale, economica) e, più o meno indirettamente, quelli del “Sud” alla miseria. Questo significherebbe volersi chiudere su se stessi ignorando i problemi, tra l’altro da noi creati, nelle parti più povere del mondo? Niente affatto. In realtà, questa presa di coscienza rappresenterebbe il primo passo concreto per agire veramente a difesa delle popolazioni ridotte oggi alla fame, perché intaccherebbe la struttura stessa del sistema liberal-capitalista, prendendo le distanze sia da slogan distanti dalla realtà di cose, sia da un moralismo molto politically correct che non ha davvero ragione di esistere.Questa critica, costruttiva e non distruttiva, dovrà partire dalla rivalutazione dei paesi, delle culture e della dignità stessa degli abitanti del “Sud” del mondo. Nel suo “Breve trattato sulla decrescita serena”, Serge Latouche parla di una «sfida della decrescita per il Sud», sostenendo come la sua popolazione è ancora in tempo per non ficcarsi in quel vicolo cieco, che è la società progressista, in cui l’altra parte del mondo è condannata da tempo. Oggi la società occidentale attira migliaia di persone con l’illusione della tecnica e di un marcio benessere, costruito proprio sulle spalle altrui; per questo, come osserva Latouche, «finché l’Etiopia e la Somalia saranno costrette, mentre infuria la carestia, a esportare alimenti per i nostri animali domestici, finché noi ingrasseremo il nostro bestiame con la pasta di soia prodotta sulle cenere delle foreste amazzoniche, noi soffocheremo qualsiasi tentativo di reale autonomia nel Sud». La “reale autonomia” di tutti i popoli, alimentata dal confronto e dalla scambio tra le diverse realtà presenti nel mondo, rappresenta l’obiettivo per cui lottare oggi. Una presa di posizione netta sul tema dell’immigrazione, al di là di posizioni stereotipate, è necessaria per far finire il circolo vizioso e conseguire questo fine.(Lorenzo Pennacchi, “Da soldati del capitale a uomini liberi”, da “L’Intellettuale Dissidente” del 24 ottobre 2014).L’immigrazione è uno dei temi più caldi del dibattito pubblico attuale. Del resto, in un mondo sempre più globale e insicuro, non potrebbe essere altrimenti. Come spesso capita, però, la discussione si è distanziata precocemente dalla ricerca della verità e di soluzioni concrete, fossilizzandosi in due macro-schieramenti: da un lato, c’è chi vede nell’immigrato un invasore, colpevole di rubare il posto di lavoro altrui; dall’altro, la difesa spasmodica di tale fenomeno ha portato ad affermazioni che farebbero rabbrividire qualsiasi appassionato di distopie. È questo il caso, relativamente recente, del presidente della Camera Laura Boldrini, la quale ha esplicitamente dichiarato in diretta nazionale che «il migrante è l’avanguardia dello stile di vita che presto sarà lo stile di vita di moltissimi di noi». Considerata da alcuni come massimo esempio di tolleranza e libertà, quest’idea se fosse del tutto realizzata sancirebbe la vittoria assoluta del sistema liberal-capitalista, già oggi dominante.
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Berlino ci divora barando, come ha fatto con la Germania Est
Verso la fine della II Guerra Mondiale gli Usa avevano un piano, il Piano Morgenthau (poi non eseguito per ovvie ragioni connesse alla guerra fredda), per eliminare dopo la guerra tutte le industrie tedesche, facendo della Germania un paese puramente agricolo. Il mezzo per ottenere ciò era semplice: imporre alla Germania l’unione monetaria con gli Usa, la cui moneta era allora molto forte: il prezzo delle merci tedesche si sarebbe moltiplicato e le aziende avrebbero chiuso, non potendo più esportare, e l’industria yankee avrebbe preso i suoi mercati e i suoi assets migliori gratis o quasi. Gli Stati Uniti non fecero questo alla Germania dopo la sua resa, però la Germania Ovest lo fece poi alla Germania Est negli anni ’90. E ora lo fa all’Italia. Oramai è stato acquisito: essendosi inchiodata a un cambio elevato e fisso – elevato sia rispetto agli altri paesi dell’Eurozona, che rispetto agli altri – e non potendo più svalutare la moneta per mantenersi competitiva sui mercati internazionali, l’Italia, per restare competitiva e limitare la sua deindustrializzazione, ha dovuto svalutare i lavoratori, riducendo i salari/redditi, tassandoli di più, tagliando e differendo le pensioni.Ma la riduzione dei redditi ha automaticamente causato il crollo della domanda interna e della capacità della gente di pagare i debiti già contratti, quindi un crollo degli incassi di chi produce per il mercato interno e un’impennata delle insolvenze e dei fallimenti. La riduzione dei salari viene in parte compensata con ammortizzatori sociali finanziati con più tasse e contributi, in parte scaricando i disoccupati e i sottoccupati sui risparmi della famiglia e sulle pensioni dei genitori o dei nonni. Tutto ciò sta consentendo una parziale conservazione dell’industria e dei mercati esteri, ma, abbisognando di drenare risparmi e andando a colpire il settore immobiliare (quello che innesca le fasi di espansione e di contrazione), non può tirare avanti ancora a lungo. Inoltre, i vincoli di bilancio, il limite del 3% al deficit sul Pil, la botta dei trasferimenti al Meccanismo Europeo di Stabilità (57 miliardi), la connessa ascesa della pressione fiscale, fa chiudere o emigrare le aziende. Emigrano anche tecnici, professionisti, capitali. Questi sono i risultati dei “compiti a casa”.Sostanzialmente, la recessione è guidata da una costante sottrazione di liquidità voluta politicamente da Berlino via Draghi, che garantisce di fare tutto ciò che serve per sostenere i debiti pubblici, ma a condizione che si facciano quei compiti a casa, ossia che si demolisca l’economia e la si doni a un capitalismo di conquista, apolide e antisociale. Tutti questi meccanismi operano costantemente, appunto come meccanismi, e giorno dopo giorno demoliscono l’Italia e la rendono dipendente, sottomessa, povera rispetto alla Germania. Un po’ più di flessibilità e un po’ meno di spread o un po’ più di spesa e inflazione in Germania non risolverebbero quanto sopra, non fermerebbero la macchina della deindustrializzazione, anche se Renzi cerca di distogliere da ciò l’attenzione attirandola su di sé con la sua azione frenetica e inconcludente (se non nel male). Non la fermerebbe nemmeno un aumento della domanda interna, perché questo si dirigerebbe verso beni di importazione, avvantaggiati dalla forza dell’euro.E poi ci sono gli utili tromboni dell’europeismo idealista, che evocano le favole moralistiche di Spinelli e soci per coprire una realtà di scontro di interessi oggettivamente contrapposti, di sopraffazioni spietate, di colonizzazione. Sarebbe molto utile, a coloro che cercano di tutelare gli interessi italiani in relazione alle politiche europee e monetarie della Germania attuale, a coloro che trattano questi temi nelle sedi europee e nazionali, conoscere come il grande capitale privato tedesco occidentale, durante il processo di riunificazione della Germania iniziato nel 1989, usò una serie di mezzi, alcuni dei quali terroristici, altri formalmente criminali, per impadronirsi delle aziende, dei beni immobili, delle risorse naturali, dei mercati della Germania Orientale senza pagare o quasi, espropriandone la popolazione che era giuridicamente proprietaria di questi assets, e trasferendo i costi dell’operazione a carico dei conti pubblici, ossia dei contribuenti della Germania Occidentale nonché a carico dei lavoratori della Germania Orientale, di cui persero il posto di lavoro circa 2 milioni e mezzo, su circa 16 milioni di abitanti.E’ tutto descritto nel recentissimo saggio di Vladimiro Giacché “Anschluss”. Queste cose vanno sapute per poterle sbattere sul muso a Merkel, Schäuble, Katainen, smascherando i loro veri fini, quando si mettono a predicare i compiti da fare a casa, mentre dovrebbero finire davanti a una Norimberga finanziaria assieme ai loro mandanti. I metodi usati per depredare la Germania Orientale furono molteplici, iniziando con la creazione di allarme default della Germania Est, nella prima fase, in tutto analogo a quello che i banchieri tedeschi scatenarono nel 2011 contro il Btp per sostituire Berlusconi con un premier che li servisse bene. E anche: l’imposizione di un’unione monetaria con cambio uno a uno tra marco orientale e marco tedesco per le partite correnti, che determinò di punto in bianco la quadruplicazione dei prezzi delle merci della Germania Orientale, con la conseguente perdita dei mercati in favore di aziende concorrenti della Germania Occidentale, e naturalmente la chiusura delle imprese orientali con massicci licenziamenti.Poi il sistematico ricorso al falso in bilancio per far apparire irrecuperabili molte aziende sane della Germania orientale, onde poterle comperare a costo nullo o quasi; quindi la rimozione dei pochi funzionari onesti, che rifiutavano di dichiarare il falso; l’imposizione delle “regole di mercato” – in realtà, della potenza economica e politica – onde occupare i mercati della Germania Orientale con merci di produzione occidentale e così favorire le aziende che producevano queste merci a danno della produzione locale; la costante collaborazione del governo federale (Kohl) con gli avidi criminali del grande capitale – e l’autorevole appoggio di… Jean Claude Juncker! Eh sì, le “integrazioni” sono sempre, nella realtà, business sfrenato e disumano, ora come allora. La Germania fa le integrazioni col disintegratore. L’agenzia fiduciaria incaricata della vendita dei beni del popolo della Germania Orientale, la Treuhandanstalt, un veicolo per realizzare questi fini e, in luogo di concludere la suggestione con un utile netto derivato dalla vendita-privatizzazione dei beni pubblici orientali, produsse un buco di oltre 1 miliardo di marchi, sicché i cittadini orientali, ciascuno dei quali aveva ricevuto l’assegnazione di una quota azionaria nell’agenzia fiduciaria del valore teorico di 40.000 marchi, alla fine dei conti non ricevettero nemmeno un pfennig per l’espropriazione dei beni popolari che avevano subito.Dopo il saccheggio, furono intentati processi penali e civili, indagini formali sull’operato dell’agenzia fiduciaria e su altre vicende relative all’annessione della Germania Orientale, ma, grazie all’opposizione del governo, all’inerzia del Parlamento, agli insabbiamenti giudiziari, al fatto che tutta la gestione della missione era stata impostata e imperniata su tecnocrati a bassa o nulla responsabilità e ad alta opacità, come gli attuali eurocrati, i processi e le indagini finirono nel nulla. Il profitto compera tutti i poteri dello Stato. Per contro, mentre il Pil della Germania Orientale crollava (-40,8% nei primi 2 anni, export -60%), quello della Germania Occidentale, grazie alle acquisizioni sottocosto di cui sopra, fece un balzo all’insù di circa il 7%. A dispetto della vulgata ufficiale, ancora oggi la Germania Orientale rimane un paese, un pezzo di paese, arretrato, che non ha agganciato la parte occidentale, che vive di trasferimenti posti a carico del contribuente occidentale, in quanto il deficit commerciale dell’Est è del 45% mentre quello del Meridione è solo il 12,5%: quindi la Germania orientale è messa molto peggio della cosiddetta Terronia. Ma, ovviamente, non è colpa sua, bensì effetto di una rapina assistita dal governo di Bonn, nell’interesse del capitalismo tedesco occidentale, e con la giustificazione pseudo-scientifica dell’ideologia del mercato e delle sue regole, in cui si nasconde il fatto che il mercato non è libero ma è l’arena di scontri e rapporti di forza e sopraffazione.Qualcosa del genere dell’unificazione tedesca del 1990 era già avvenuto in Italia, con la annessione del Sud, un’area complessivamente meno produttiva del Nord – annessione che aveva portato non a una convergenza delle due parti d’Italia, ma a una maggiore divergenza in termini di efficienza e produttività e competitività, in quanto il Nord attraeva e distoglieva capitali e competenze dal Sud, che quindi si deindustrializzava e si votava a diventare o restare un’area agricola e marginale. Analoga operazione sta avvenendo oggi sotto il pretesto della unificazione europea e della unione monetaria, ossia dell’euro. La Germania entrò nell’euro a condizione che vi entrasse d’Italia, l’altro paese ad alta capacità manifatturiera. Perché? Perché se l’Italia fosse rimasta fuori avrebbe fatto una forte concorrenza alla Germania, mentre per contro l’euro avrebbe alzato il corso della valuta italiana e abbassato il corso della valuta tedesca, in tal modo favorendo le esportazioni tedesche soprattutto entro l’unione monetaria europea e limitando quelle italiane, che diventavano meno competitive.Così è avvenuto: contrariamente alla quasi totalità dei paesi dell’Eurozona, in cui la quota manifatturiera del Pil è calata fortemente, la Germania, con l’euro, ha avuto un aumento di circa il 25% di questa quota, dovuto soprattutto ad esportazioni nei mercati dei paesi partners dell’Eurozona, ossia dovuta a quote di mercato sottratte ad essi. Esportazioni che i banchieri tedeschi hanno sostenuto facendo prestiti e investimenti verso i paesi euro-deboli, Grecia e Spagna in testa, ben sapendo che prima o poi quei paesi non sarebbero riusciti a sostenere le scadenze di pagamento – anche poiché i loro conti erano stati truccati ad hoc – e che, a qual punto, sarebbe scoppiata quella crisi che ha poi in effetti consentito alla Germania di imporre le sue regole, i suoi interessi e i suoi uomini al potere, grazie al suo controllo sulla Bce, e a costringere altri paesi, Italia in testa, a svenarsi per prestare a Spagna, Grecia, Portogallo e Irlanda i soldi necessari a realizzare i loro lucri usurari e fraudolenti.Anche se a molti può venire il pensiero che il vero compitino da fare a casa sia liberarsi della Germania una volta per sempre, quanto sopra descritto non va letto e presentato in chiave nazionalistica, ossia come una colpa della popolazione tedesca – sostanzialmente inconsapevole – bensì in chiave di guerra di classe, perché, sotto mentite spoglie ideologiche, è una campagna di conquista del capitalismo finanziario a spese della popolazione generale. L’Italia ha un’arma negoziale molto potente nei confronti della Germania: minacciare di uscire dall’Eurosistema (cosa che farebbe saltare l’euro e condannerebbe la Germania a una rivalutazione monetaria fortissima, che metterebbe fuori mercato le sue produzioni e in ginocchio la sua economia). Non usare quest’arma e lasciare che il paese sia fatto a pezzi giorno dopo giorno, è un delitto capitale. Ai governanti italiani che, facendo finta di non vedere la realtà, hanno collaborato e collaborano a questo disegno a danno di tutti noi, vorrei chiedere: lo fate perché minacciati, perché ricattati, o perché pagati? Quanto?(Marco Della Luna, “Euro-Anschluss, il fantasma di Morgenthau”, dal blog di Della Luna del 17 ottobre 2014).Verso la fine della II Guerra Mondiale gli Usa avevano un piano, il Piano Morgenthau (poi non eseguito per ovvie ragioni connesse alla guerra fredda), per eliminare dopo la guerra tutte le industrie tedesche, facendo della Germania un paese puramente agricolo. Il mezzo per ottenere ciò era semplice: imporre alla Germania l’unione monetaria con gli Usa, la cui moneta era allora molto forte: il prezzo delle merci tedesche si sarebbe moltiplicato e le aziende avrebbero chiuso, non potendo più esportare, e l’industria yankee avrebbe preso i suoi mercati e i suoi assets migliori gratis o quasi. Gli Stati Uniti non fecero questo alla Germania dopo la sua resa, però la Germania Ovest lo fece poi alla Germania Est negli anni ’90. E ora lo fa all’Italia. Oramai è stato acquisito: essendosi inchiodata a un cambio elevato e fisso – elevato sia rispetto agli altri paesi dell’Eurozona, che rispetto agli altri – e non potendo più svalutare la moneta per mantenersi competitiva sui mercati internazionali, l’Italia, per restare competitiva e limitare la sua deindustrializzazione, ha dovuto svalutare i lavoratori, riducendo i salari/redditi, tassandoli di più, tagliando e differendo le pensioni.
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Ma Cantone sarà solo contro la lobby dei partiti ladri
Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi. Gli italiani – purtroppo – ne hanno un bisogno che sconfina ormai nella dipendenza. L’ultimo è di oggi, 12 maggio, si chiama Raffaele Cantone, è il coraggioso magistrato del tribunale di Napoli recentemente nominato presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione e che adesso viene chiamato a salvare l’Expo 2015 di Milano! «Cancellare l’esposizione mondiale sarebbe come ammettere che l’illegalità ha vinto», ha dichiarato al quotidiano partenopeo “Il Mattino”, che lo ha intervistato per l’occasione; e la lobby delle grandi opere – già confortata ieri dal premier – ha immediatamente tirato un sospiro di sollievo. Che tuttavia deve essersi leggermente strozzato in gola alla lettura della parole – pesanti come macigni – aggiunte forse a “beneficio” di chi ha tentato di minimizzare il ruolo dei partiti in quello che appare solo come l’ultimo degli scandali di una tangentopoli ormai cronica: «La politica tarda a liberarsi da un diffuso malcostume».«Non so se si tratta di un fallimento politico. Di certo in questi anni si è sbagliato a non lavorare abbastanza sulla prevenzione. Si è clamorosamente abbassato il livello di guardia di fronte a certi fenomeni». Un atteggiamento che, secondo l’ex magistrato, «è anche il frutto di un’opinione pubblica spesso distratta», che «su alcuni temi si è rivelata eccessivamente ondeggiante». Perché, se a fronte di alcuni episodi «c’è stata grandissima attenzione, finanche con rigurgiti di moralismo, in altri si è stati del tutto incapaci di indignazione». Il virgolettato è copiato integralmente dall’intervista e, in assenza di smentite, va preso per buono. E non finisce qui: pur avendo smesso la toga, quel che segue sembrerebbe quasi l’istruttoria di una indagine in cui si analizzano analogie e differenze col passato, remoto o prossimo che sia: «Tangentopoli non ci ha insegnato nulla. Tornano alla ribalta personaggi già condannati: il peggio poteva essere scongiurato e i partiti hanno grandi responsabilità perché non hanno saputo attrezzarsi con delle regole chiare di finanziamento trasparente. La trasparenza – sottolinea – è l’anticorpo più potente nei confronti del malaffare».E quasi a voler tirare le orecchie al governo per la sua proposta (poi precipitosamente ritirata) con cui proprio alla vigilia degli arresti si proclamava di voler “slegare la crescita” dai lacci e laccioli della burocrazia, Cantone aggiunge che il controllo pubblico non è sinonimo di ritardi e inefficienze, anzi: «Si può tranquillamente mettere in campo una rete di controlli efficace, intelligente, agile e non burocratica, purché ci sia davvero trasparenza». Per cancellare ogni possibilità di equivoco circa la severità del suo giudizio, l’ex magistrato sottolinea poi che «personaggi già condannati per corruzione sono arrivati a ritagliarsi un ruolo, non di diritto ma di fatto, per incidere nuovamente nell’assegnazione e nella gestione degli appalti», arrivando senza nessun ostacolo a ricandidarsi e farsi eleggere (come nel caso di Gianstefano Frigerio, Pdl), nonostante la precedente condanna per corruzione. Cosa avvenuta sfacciatamente e nel disinteresse generale, il che rappresenta la sostanza della anomalia italiana.Una anomalia peggiorata, se possibile rispetto al 1992 (l’anno della prima tangentopoli) perché «lo scenario è indubbiamente cambiato: oggi esistono gruppi di potere o di pressione del tutto autonomi dalla politica, ovvero che rispondono ai partiti ma piuttosto ne influenzano l’attività politica». Cosa aggiungere dalla mia comoda poltroncina seduto davanti al monitor? Che Milano ha già avuto un eroe, come ebbi modo di ricordare in uno dei miei primi interventi su queste pagine virtuali: si chiamava Giorgio Ambrosoli, ebbe il “torto” di voler andare fino in fondo nell’incarico che gli era stato assegnato di liquidatore del Banco Ambrosiano del banchiere di Cosa Nostra Michele Sindona, sodale dei partiti e delle lobby finanziarie dell’epoca… Se Cantone è scaramantico farà bene a svolgere i riti propiziatori del caso, ma mi (e soprattutto gli) auguro che i riflettori accesi sulla vicenda odierna siano tali da illuminare a giorno la scena che fu lasciata all’epoca completamente al buio dai responsabili della tutela della incolumità di chi si assume incarichi così delicati. Al punto che addirittura i funerali della vittima avvennero nel “disinteresse generale” che il neo commissario denuncia in un altro brano della sua intervista…Oltre agli auguri di buon lavoro che ogni cittadino gli deve, anche nel proprio interesse di contribuente, voglio tuttavia e un po’ a malincuore concludere con una nota di sincero scetticismo: Cantone, come molti suoi colleghi, ha studiato migliaia di pagine, dal diritto romano a quello internazionale e commerciale, per poter svolgere al meglio la sua professione e meritarsi la riconoscenza di tutte le persone oneste e di buona volontà (quelle cui sembra alludere quando fa riferimento alla necessità di indignazione). Ma, avendo come tutti una sola vita a disposizione, non può aver avuto una esperienza di trentatsei anni nel mondo delle grandi opere come è capitato in sorte al sottoscritto… Che riteneva (come ritiene) eroica l’azione di moralizzazione della vita pubblica che pochi coraggiosi magistrati svolgono in una paese che spesso sembra più una infida palude che un’oasi bucolica. E per questo ci si è anche provato – nel limite delle proprie capacità e conoscenze – di inviar loro degli esposti su quel che pareva fosse una caratteristica costante di questo particolare mondo: le tangenti.Inutile dire che la cosa servì, temo, solo ma farmi considerare, “nell’ambiente”, come “uno che sputava nel piatto dove mangiava” (espressione molto in uso in ogni corporazione “che si rispetti”). E proprio perché ho questo passato “certificabile” alle spalle mi permetto di sostenere con convinzione – pur sperando vivamente di sbagliarmi – che le grandi opere, alle lobby che le promuovono, le progettano, le appaltano e poi le gestiscono (generalmente attraverso il famigerato istituto della concessione) servono soprattutto per rubare denaro pubblico. A volte (non sempre, ma solo quando non sono inutili) servono anche ai cittadini. Ma facendogli pagare più volte il conto: con il lievitare spropositato dei costi (sempre a carico pubblico e “a debito”, checché si prometta), con gli interessi bancari, col pedaggio permanente (a fronte dei trent’anni di durata massima generalmente stabilita); e infine con i costi folli delle manutenzioni straordinarie, dovute quasi sempre alla scarsa qualità dei materiali impiegati, che però vengono fatturati per buoni.Un meccanismo che rende la “forbice” tra costi reali e soldi pubblici erogati talmente ampia che si possono accontentare tutti: dai partiti, alle banche, alla ‘ndrangheta al “cartello delle imprese”. Per questo ritroviamo tesserato al Pd di Renzi (e tardivamente sospeso) Primo Greganti, il compagno-G della prima tangentopoli che tanti meriti guadagnò, in quel partito che si chiamava ancora Pds, nel tacere sulla famosa valigia piena di soldi del Gruppo Gavio. Un pesante fardello di quasi un miliardo – c’era ancora la lira – che doveva tornare al mittente per il tramite di un altro compagno, che vive e marcia assieme a noi e proprio a Milano: quel Filippo Penati che consentì ai manager di Tortona l’affare delle azioni dell’autostrada Milano-Serravalle, in cambio di un aiutino nel tentativo di scalata all’Antonveneta della Unipol di un altro “compagno”, Giovanni Consorte, quello a cui ancora un “compagno”, quel Piero Fassino che De Benedetti vorrebbe presidente della nostra (ma non della sua) Repubblica, chiese: «Abbiamo una banca?».Difficile pensare che un uomo solo – per quanto coraggioso e determinato – possa venire a capo di un sistema. Difficile credere che possa farlo senza l’aiuto, se non di tutti i cittadini, di quella parte di opinione pubblica che non intende smettere di indignarsi. Buon lavoro, Cantone. E se vuole, conti su di noi. Ma soprattutto, non conti sulla collaborazione che non potrà che essere di facciata di chi crede (o vuol far credere) che a governare partiti e un intero paese siano quelli che vengono eletti nelle primarie – o, per ben che vada, alle politiche – e non quelli che ne costituiscono, da sempre, le cupole.(Claudio Giorno, “Alla Scala-Expo di Milano va in scena l’Eroica di… Cantone”, dal blog di Giorno del 12 maggio 2014).Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi. Gli italiani – purtroppo – ne hanno un bisogno che sconfina ormai nella dipendenza. L’ultimo è di oggi, 12 maggio, si chiama Raffaele Cantone, è il coraggioso magistrato del tribunale di Napoli recentemente nominato presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione e che adesso viene chiamato a salvare l’Expo 2015 di Milano! «Cancellare l’esposizione mondiale sarebbe come ammettere che l’illegalità ha vinto», ha dichiarato al quotidiano partenopeo “Il Mattino”, che lo ha intervistato per l’occasione; e la lobby delle grandi opere – già confortata ieri dal premier – ha immediatamente tirato un sospiro di sollievo. Che tuttavia deve essersi leggermente strozzato in gola alla lettura della parole – pesanti come macigni – aggiunte forse a “beneficio” di chi ha tentato di minimizzare il ruolo dei partiti in quello che appare solo come l’ultimo degli scandali di una tangentopoli ormai cronica: «La politica tarda a liberarsi da un diffuso malcostume».
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In bikini per Tsipras, che ignora le cause dell’euro-lager
«Qualche giorno fa Paola Bacchiddu, responsabile per la comunicazione della lista “L’altra Europa con Tsipras” ha postato una propria foto in bikini, con il culo seminudo ben in evidenza in primo piano, accompagnata dal seguente commento: “Ciao è iniziata la campagna elettorale e io uso qualunque mezzo. Votate l’Altra Europa con Tsipras”». Un voto in cambio di un desiderio, scrive Rosanna Spadini: un voto in cambio di una proposta indecente? Vince «l’etica della modernità liquida», il monoteismo del marketing: non avrai altro mercato al di fuori di me, ricordati di santificare lo shopping, onora ogni mio desiderio, non uccidere la libidine dentro di te, ama il piacere tuo come te stesso. «Non si capisce a questo punto quale relazione ci possa essere tra il rigore moralistico laico degli tsiprioti, che per certi versi è dogmatico e reverenziale quanto quello cristiano, e la nuova morale postmoderna della società globalizzata, dominata dal neoliberismo sovranazionale planetario». Quale etica, nel tempo dell’assoluta mancanza di etica?Come può convivere l’etica del marketing con la lotta al mercato e al capitalismo? «Marxisti in crisi di identità? Marxisti dell’Illinois? (da una famosa scena del film “The Blues Brothers”, anche se là erano nazisti)», scrive la Spadini su “Come Don Chisciotte”. «Gli tsiprioti infatti sono quegli esseri che viaggiano sollevati a un palmo da terra (come Remedios la Bella di “Cent’anni di solitudine”), sono entità moralmente sovrannaturali, si spendono e si spandono per i diritti umani di tutta l’umanità, sono gli oracoli viventi dell’“unico dogma” che può salvare la pace, la libertà, la democrazia, sono i profeti dell’“unica verità socialista, marxista, comunista”. Quale complicità ci può essere tra i novelli Templari del marxismo, i monaci militanti della fratellanza universale e la subdola seduzione del mercato? Quale connivenza tra le loro esistenze votate all’ideale universalistico della distribuzione globale dei diritti e la sporcizia morale di chi seduce con una sveltina (per di più anale) in cambio di un voto?».Senza considerare, aggiunge Spadini, che spesso gli “tsiprioti” provengono dalle vaste e profonde gole di “Micromega”, frequentate da intellettuali che hanno attraversato gli anni tormentati del berlusconismo «ragionando sapientemente dei massimi sistemi dell’esistenza, senza che il loro nobile pensiero si traducesse mai in risoluzione pratica dei problemi sociali, confondendo spesso l’astrattezza della loro speculazione filosofica con l’astuta strategia politica di chi intercetta e decifra le esigenze del reale». Ecco perché gli “tsiprioti” sono andati in Grecia a cercarsi un loro degno rappresentante: «Perché in Italia non c’era nessun Zarathustra degno di fede, non c’era nessuno che potesse corrispondere ai loro criteri di selezione darwiniana della specie eletta degli ubermensch». Ma Tsipras e i suoi followers, a partire da Barbara Spinelli, «non sembrano capire che un’Europa federale e democratica dei popoli fratelli non è possibile se non uscendo da quel lager eurocratico che la sta devastando».Secondo Rosanna Spadini, «non ci può essere democrazia se non all’interno dello Stato-nazione, non ci può essere sovranità economica se non restaurando la collaborazione tra Tesoro e Bankitalia che è stata interrotta dal “divorzio” del 1981 (legge Ciampi-Andreatta), e non ci può essere benessere sociale se non recuperando la nostra indipendenza politica e democratica». Per di più, «questi monaci militanti della fratellanza globalizzata, che ha anche impedito in Italia la nascita di una coscienza nazionale, concezione da loro soavemente disprezzata, confusa con quella di nazionalismo (che è decisamente un’altra cosa), questi sacerdoti laici che celebrano quotidianamente il loro anacronistico rito liturgico, sono stati sempre la ruota di scorta dei poteri forti, “utili idioti” al servizio del sistema neoliberista, ottusi strumenti nelle mani del potere eurocratico, tribuni di strategie politiche del nulla, sempre e comunque perdenti, proprio perché connaturate amabilmente al potere costituito (vedi Laura Boldrini)».Non si rendono conto, aggiunge Spadini nella sua requisitoria, che l’Europa odierna sta vivendo uno dei momenti più tragici della propria storia: non potrà cambiare il proprio destino se non facendo una diagnosi precisa della cause che hanno provocato il disastro. E’ «un “golpe bianco” che viene da lontano, dal crollo del muro di Berlino del 1989, quando il sistema capitalistico-imperialistico-neoliberista rimasto unico ordine mondiale, si apprestò a dissolvere gli Stati-nazione, privandoli della loro sovranità politico-economica, per ricomporli in quell’orrido organismo sovranazionale, privo di identità e di cultura, che è appunto l’Unione Europea». Un “golpe bianco” che «si serve dell’euro come arma di distruzione di massa per imporre politiche di austerity che devastano l’economia e i diritti, una dittatura finanziaria che ha imposto i trattati-capestro, dal Trattato di Maastricht (1993) a quello di Lisbona (2007), quando al contrario i popoli di Francia e Olanda avevano ampiamente bocciato la Costituzione Europea».Il “nemico” da riconoscere «una dittatura finanziaria che ha poi aperto la strada all’inarrestabile corso dei tagli alla spesa pubblica (che invece statisticamente non oltrepassa la media dei paesi europei), al ciclo delle privatizzazioni, alla precarizzazione a vita del lavoro e alla devastazione del welfare, straordinaria conquista sociale delle lotte del Novecento, ma anche strategia funzionale all’antagonismo tra il benessere capitalistico dell’ovest europeo, opposto al malessere comunista del suo nemico storico, rappresentato dall’Urss, durante il periodo della guerra fredda». Pertanto, Tsipras e «i suoi gattopardeschi followers» vorrebbero rimuovere gli effetti disastrosi della dittatura eurocratica «senza toccarne le cause, rappresentate dall’euro e dai trattati». E questo, purtroppo o per fortuna, è ben più importante dell’ostentata esposizione delle terga della giovane portavoce in bikini.«Qualche giorno fa Paola Bacchiddu, responsabile per la comunicazione della lista “L’altra Europa con Tsipras” ha postato una propria foto in bikini, con il culo seminudo ben in evidenza in primo piano, accompagnata dal seguente commento: “Ciao è iniziata la campagna elettorale e io uso qualunque mezzo. Votate l’Altra Europa con Tsipras”». Un voto in cambio di un desiderio, scrive Rosanna Spadini: un voto in cambio di una proposta indecente? Vince «l’etica della modernità liquida», il monoteismo del marketing: non avrai altro mercato al di fuori di me, ricordati di santificare lo shopping, onora ogni mio desiderio, non uccidere la libidine dentro di te, ama il piacere tuo come te stesso. «Non si capisce a questo punto quale relazione ci possa essere tra il rigore moralistico laico degli tsiprioti, che per certi versi è dogmatico e reverenziale quanto quello cristiano, e la nuova morale postmoderna della società globalizzata, dominata dal neoliberismo sovranazionale planetario». Quale etica, nel tempo dell’assoluta mancanza di etica?