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La Cina accorre nel Baltico, con i russi assediati dalla Nato
Che cosa avverrebbe se l’aereo del segretario Usa alla difesa Jim Mattis, in volo dalla California all’Alaska lungo un corridoio aereo sul Pacifico, venisse intercettato da un caccia russo dell’aeronautica cubana? La notizia occuperebbe le prime pagine, suscitando un’ondata di preoccupate reazioni politiche. «Non si è invece mossa foglia quando il 21 giugno l’aereo del ministro russo della difesa Sergei Shoigu, in volo da Mosca all’enclave russa di Kaliningrad lungo l’apposito corridoio sul Mar Baltico, è stato intercettato da un caccia F-16 statunitense dell’aeronautica polacca che, dopo essersi minacciosamente avvicinato, si è dovuto allontanare per l’intervento di un caccia Sukhoi Su-27 russo». Una provocazione programmata, scrive Manlio Dinucci su “Megachip”, che rientra nella strategia Nato mirante ad accrescere in Europa, ogni giorno di più, la tensione con la Russia, che nel frattempo si prepara ad esercitazioni congiunte, nel Baltico, nientemeno che con la Cina. Giochi di guerra, a tutto campo, mentre Trump torna a minacciare la Siria paventando “nuovi attacchi chimici”, ben sapendo che non è stato Assad, ma i “ribelli” Nato, a usare il gas Sarin contro i civili.Siamo sull’orlo della Terza Guerra Mondiale, come sostengono molti osservatori? La situazione è pericolosa, anche se – secondo altri – lo stato di tensione geopolitica sarebbe una colossale farsa, con l’obiettivo di rafforzare in modo simmetrico le leadership americana e russa, giustificando la nuova corsa agli armamenti. Intanto però l’agenda più o meno sotterranea della guerra è impressionante: dal 1° al 16 giugno, ricorda Dinucci, si è svolta nel Mar Baltico, a ridosso del territorio russo ma con la motivazione ufficiale di difendere la regione dalla “minaccia russa”, l’esercitazione Nato “Baltops”: in campo oltre 50 navi e 50 aerei da guerra di Stati Uniti, Francia, Germania, Gran Bretagna, Polonia e altri paesi tra cui Svezia e Finlandia, non membri ma partner dell’Alleanza. Nel frattempo, dal 12 al 23 giugno si è svolta in Lituania l’esercitazione “Iron Wolf” che ha visto impegnati, per la prima volta insieme, due gruppi di battaglia Nato «a presenza avanzata potenziata»: quello in Lituania sotto comando tedesco (con truppe belghe, olandesi e norvegesi, e dal 2018 anche francesi, croate e ceche) e quello in Polonia sotto comando Usa, comprendente truppe britanniche e rumene.Carri armati Abrams della 3a brigata corazzata Usa, trasferita in Polonia lo scorso gennaio, sono entrati in Lituania attraverso il Suwalki Gap, un tratto di terreno piatto lungo un centinaio di chilometri tra Kaliningrad e Bielorussia, unendosi ai carri Leopard del battaglione tedesco 122 di fanteria meccanizzata. Il Suwalki Gap, avverte la Nato «riesumando l’armamentario propagandistico della vecchia guerra fredda», sarebbe «un varco perfetto attraverso cui i carrarmati russi potrebbero invadere l’Europa». In piena attività anche gli altri due gruppi di battaglia Nato: quello in Lettonia sotto comando canadese, che include truppe italiane, spagnole, polacche, slovene e albanesi, e quello in Estonia sotto comando britannico, con truppe francesi (e dal 2018 anche danesi). «Le nostre forze sono pronte e posizionate nel caso ce ne fosse bisogno per contrastare l’aggressione russa», assicura il generale Curtis Scaparrotti, capo del comando europeo degli Stati Uniti e allo stesso tempo comandante supremo alleato in Europa.Ad essere mobilitati, aggiunge Dinucci, non sono solo i gruppi di battaglia Nato «a presenza avanzata potenziata». Dal 12 al 29 giugno si svolge al centro Nato di addestramento delle forze congiunte, in Polonia, l’esercitazione “Coalition Warrior”, il cui scopo è «sperimentare le più avanzate tecnologie per dare alla Nato la massima prontezza e interoperabilità, in particolare nel confronto con la Russia». Vi partecipano oltre 1000 scienziati e ingegneri di 26 paesi, tra cui quelli del centro Nato per la ricerca marittima e la sperimentazione con sede a La Spezia. Ma Mosca, ovviamente, non sta con le mani in mano: «Dopo che il presidente Trump sarà stato in visita in Polonia il 7-8 luglio, la Russia terrà nel Mar Baltico una grande esercitazione navale congiunta con la Cina. Chissà se a Washington conoscono l’antico proverbio “Chi semina vento, raccoglie tempesta”»Che cosa avverrebbe se l’aereo del segretario Usa alla difesa Jim Mattis, in volo dalla California all’Alaska lungo un corridoio aereo sul Pacifico, venisse intercettato da un caccia russo dell’aeronautica cubana? La notizia occuperebbe le prime pagine, suscitando un’ondata di preoccupate reazioni politiche. «Non si è invece mossa foglia quando il 21 giugno l’aereo del ministro russo della difesa Sergei Shoigu, in volo da Mosca all’enclave russa di Kaliningrad lungo l’apposito corridoio sul Mar Baltico, è stato intercettato da un caccia F-16 statunitense dell’aeronautica polacca che, dopo essersi minacciosamente avvicinato, si è dovuto allontanare per l’intervento di un caccia Sukhoi Su-27 russo». Una provocazione programmata, scrive Manlio Dinucci su “Megachip”, che rientra nella strategia Nato mirante ad accrescere in Europa, ogni giorno di più, la tensione con la Russia, che nel frattempo si prepara ad esercitazioni congiunte, nel Baltico, nientemeno che con la Cina. Giochi di guerra, a tutto campo, mentre Trump torna a minacciare la Siria paventando “nuovi attacchi chimici”, ben sapendo che non è stato Assad, ma i “ribelli” Nato, a usare il gas Sarin contro i civili.
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Flynn: Usa terroristi, l’Isis è in Siria grazie a Obama e Hillary
Un folle pilota americano ha abbattuto un aereo siriano che stava attaccando l’Isis. Questo conferma che Washington non sta combattendo i terroristi, ma li sta proteggendo, in quanto suoi agenti in Siria per rovesciarne il governo. Il generale Michael Flynn, ex direttore della Defense Intelligence Agency, ha rivelato in un’intervista tv che Obama e la Clinton hanno voluto fortemente inviare l’Isis in Siria, contro il suo parere. L’Isis è la scusa per entrare abusivamente in Siria. Russia e Iran vi sono legalmente, invitati da un governo eletto. Gli americani invece sono lì come criminali di guerra. Secondo il diritto internazionale, stabilito dagli stessi yankees, è un crimine di guerra aggredire un paese che non ha sollevato un pugno contro di te. Ora che un pilota americano ha dimostrato che gli Usa sono in Siria solo per sostenere il proprio agente, l’Isis, nemmeno una “presstituta” come Megyn Kelly può credere alla versione di Washington. Russi, siriani e iraniani lo sapevano sin dall’inizio. Tuttavia, queste fonti ufficiali sono tutte considerate sospette dai media occidentali. Per questo, la bugia è rimasta in piedi, fino a quando l’idiota pilota americano ha tolto il velo dalla menzogna.Washington, naturalmente, mentirà spudoratamente. È l’unica cosa che sa fare. Dirà che era un “combattente della coalizione”, cioè che qualcun altro stava guidando gli F-18 americani. Non eravamo noi. Oppure affermeranno che il fighter siriano stava attaccando donne e bambini, oppure un gruppo di transgender o ancora un reparto maternità per donne violentate dalle “brutali truppe” di Assad. Il governo la girerà in qualche modo per rendere un aggressivo crimine di guerra un’eroica difesa di un gruppo di vittime. La domanda è: l’idiota pilota ha fatto tutto da solo, in stile Top Gun, oppure è stata un’iniziativa del complesso militare per iniziare un conflitto Stati Uniti-Russia che impedirebbe a Trump di calmare le tensioni con Putin? Sono in gioco 1 trilione di dollari annui pagati dai contribuenti americani. Non sappiamo se il pilota abbia agito da sé o su ordine. Quel che sappiamo è che non è andata giù ai russi. Il ministro della difesa ha dichiarato oggi che considera la decisione del comando statunitense come una «violazione intenzionale del memorandum per evitare incidenti di voli aerei nelle operazioni in Siria, firmato il 20 ottobre 2015». Che sorpresa! Gli americani hanno rotto un altro accordo fatto con la Russia.Quando capirà Mosca che un accordo firmato con Washington non ha senso? I nativi americani non lo hanno mai fatto. C’è una famosa maglietta in America: “Certo che puoi fidarti del governo: chiedi ad un nativo”. Il ministro della difesa russo ha annunciato oggi che il paese sta interrompendo tutte le interazioni con gli Stati Uniti nell’ambito del memorandum di prevenzione degli incidenti nei cieli siriani. Ha aggiunto inoltre che la difesa missilistica intercetterà qualsiasi aeromobile nella zona delle Forze Aerospaziali russe in Siria, e che «nelle aree in cui l’aviazione sta conducendo missioni di combattimento nei cieli siriani, qualsiasi oggetto volante, inclusi jet e veicoli aerei senza pilota della coalizione internazionale, scoperti ad ovest del fiume Eufrate, verranno seguiti da difese aeree e terrestri russe come bersagli aerei». In altre parole, la Russia ha velatamente indetto una “no-fly zone” in tutte le aree della Siria in cui operano le forze siriane e russe. Ogni intruso verrà colpito. Americani, israeliani, chiunque sarà fatto fuori.Poiché è la Russia, e non Washington, ad avere la superiorità aerea in Siria, tutto ciò che serve è un altro pilota americano sconsiderato, e i totali cretini di Washington dovranno ritirarsi o fare un errore. Date la stupidità e la hybris a D.C., i cretini commetteranno un errore. Non c’è nessuna intelligenza a Washington, solo arroganza. Nel quarto di secolo che ci sono stato ho visto le persone più stupide al mondo. Credo che la Russia e la sua abile leadership ne usciranno vincenti. Tuttavia, penso anche che abbia lasciato troppo che la crisi siriana si sviluppasse. Russia e Siria avrebbero vinto la guerra molto tempo fa, se Mosca avesse evitato di continuare a dichiarare una vittoria prematura, andandosene, dovendo tornare, sperando sempre di raggiungere un accordo con Washington. Raggiungere un accordo con gli americani era quasi più importante che vincere la guerra. Che cosa assurda. Sono gli americani che hanno fomentato il terrorismo in Cecenia.I russi sembrano non capire che non esistono terroristi indipendenti. Il terrorismo è un’arma di Washington. Come può dunque Mosca fare un accordo con un paese che le sta usando il terrorismo contro? Quale crede che sia il piano neocon di conquistare Siria ed Iran, se non portare più terrorismo in Russia? Putin è un leader esperto, forte e capace, forse l’unico fuori della Cina. Palesemente non ce n’è nessuno, in Occidente: un deserto di leadership. Pochi dubbi che sia un capo morale, che si oppone alla guerra e vuole il meglio per tutti i paesi. Tuttavia, cercando accordi con Washington, dà l’idea di essere debole e scavalcabile. Sarebbe molto meglio se Putin dicesse chiaramente: «Se volete la guerra, l’avrete in mezz’ora». Improvvisamente, la Russia verrebbe subito presa sul serio. Ammiro il presidente russo. Ma sta sbagliando mossa. Invece di parare l’aggressione di Washington, dovrebbe costringere Europa e Stati Uniti a venire da lui per una soluzione. Putin, il leader del mondo libero, non dovrebbe essere passivo rispetto ad un governo in bancarotta, corrotto e che si rotola nel male.(Paul Craig Roberts, “Un altro passo verso la guerra totale”, da “Information Clearing House” del 19 giugno, post tradotto da Hmg per “Come Don Chisciotte”. Craig Roberts è stato viceministro del Tesoro nel governo di Ronald Reagan).Un folle pilota americano ha abbattuto un aereo siriano che stava attaccando l’Isis. Questo conferma che Washington non sta combattendo i terroristi, ma li sta proteggendo, in quanto suoi agenti in Siria per rovesciarne il governo. Il generale Michael Flynn, ex direttore della Defense Intelligence Agency, ha rivelato in un’intervista tv che Obama e la Clinton hanno voluto fortemente inviare l’Isis in Siria, contro il suo parere. L’Isis è la scusa per entrare abusivamente in Siria. Russia e Iran vi sono legalmente, invitati da un governo eletto. Gli americani invece sono lì come criminali di guerra. Secondo il diritto internazionale, stabilito dagli stessi yankees, è un crimine di guerra aggredire un paese che non ha sollevato un pugno contro di te. Ora che un pilota americano ha dimostrato che gli Usa sono in Siria solo per sostenere il proprio agente, l’Isis, nemmeno una “presstituta” come Megyn Kelly può credere alla versione di Washington. Russi, siriani e iraniani lo sapevano sin dall’inizio. Tuttavia, queste fonti ufficiali sono tutte considerate sospette dai media occidentali. Per questo, la bugia è rimasta in piedi, fino a quando l’idiota pilota americano ha tolto il velo dalla menzogna.
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Per l’Occidente, i criminali sono sempre e soltanto gli altri
Secondo Furio Colombo, in un articolo pubblicato dal “Fatto Quotidiano” dell’8 maggio e intitolato “La follia come politica del mondo”, i leader dei paesi che non rientrano nel circolo buono delle democrazie occidentali propriamente dette, sono dei pazzi o quantomeno dei pericolosi psicolabili. Al primo posto sta, per antonomasia, “a prescindere”, di diritto, il dittatore della Corea del Nord Kim Jong-un. Al secondo Nicolás Maduro, il presidente del Venezuela, al terzo e al quarto, a scelta, leggermente distaccati, Putin ed Erdogan. Sarò più pazzo di lui, ma Kim Jong-un a me non sembra affatto pazzo. È l’unico a essere rimasto, col suo paese, nel famigerato “Asse del Male”. Saddam Hussein, che abbiamo a lungo utilizzato in funzione anti-iraniana e anti-curda, lo abbiamo fatto fuori quando non ci serviva più; al contrario, l’Iran degli ayatollah è uscito dall’ “Asse” perché, dopo averlo osteggiato per più di trent’anni con uno spietato embargo economico, e militarmente (aiuti a Saddam quando l’Iran stava per vincere una guerra in cui era l’aggredito e non l’aggressore) ora è tornato utile e ci serve nella guerra all’Isis. E stare nell’“Asse del Male” non è proprio tranquillizzante per chi vi è inserito. La Corea del Nord è l’ultimo paese comunista rimasto al mondo. È criminale, oltre che folle, essere comunisti?Per decenni, almeno fino al collasso dell’Urss, pregiati e stimati leader politici occidentali, italiani, francesi, tedeschi, appartenenti all’area della sinistra europea sono stati comunisti – alcuni ancora lo sono – senza che li si considerasse né criminali né folli. La Corea del Nord è circondata da paesi ostili, alcuni nucleari; e anche quelli che nucleari non sono, come la Corea del Sud, è come se lo fossero, perché sono di fatto un protettorato della più grande potenza atomica del mondo. È così strano, così criminale, così folle che la Corea del Nord voglia farsi un armamento nucleare peraltro minimo e ridicolmente inefficiente, come deterrente per non essere spazzata dalla faccia della terra dal primo che abbia la voglia di farlo? Il venezuelano Maduro, eletto democraticamente, è quotidianamente sotto il fuoco incrociato delle democrazie occidentali; non, come si afferma, per i suoi eccessi nella repressione degli oppositori (altri paesi nostri alleati fanno ben di peggio) ma perché è erede dello chavismo che è stato il tentativo, per qualche tempo riuscito, di sottrarre i paesi del Sud America, più efficacemente di quanto non avesse fatto Fidel, al soffocante abbraccio dell’“amico americano”.Putin è un autocrate criminale, responsabile insieme a Eltsin e al molto venerato Gorbačëv del genocidio ceceno; fa sparire in un modo o nell’altro i suoi oppositori, ma non è affatto un folle. La sua politica di appeasement con i Talebani afghani, che l’Isis lo combattono, lo dimostra. Perché se l’Isis sfonda in Afghanistan poi può dilagare in Turkmenistan, Tagikistan, e altri paesi con forti componenti musulmane che potrebbero diventare un serio pericolo per Mosca. Erdogan è effettivamente il peggiore di tutti. Come scrive Colombo, «il numero delle persone arrestate e tuttora detenute è troppo alto per essere compatibile con una pur crudele normalità». Peccato che Erdogan sia un nostro alleato e membro della Nato. Fra gli “imperatori folli” Colombo non inserisce, pudicamente, il generale Abd al-Fattāḥ al-Sīsī, che per giunta – e a differenza di Erdogan – non è stato democraticamente eletto, ma è autore di un colpo di Stato in cui ha messo in galera tutti i dirigenti dei Fratelli Musulmani vincitori delle prime elezioni libere in Egitto, ne ha ammazzati per ora circa 2.500 e ne ha fatti sparire 4.000 di cui ci siamo accorti solo quando è stato ritrovato il cadavere del ricercatore dilettante Giulio Regeni (diciamolo: non si va nell’Egitto di al-Sīsī a fare un’inchiesta sui “sindacati indipendenti”). Ma l’Egitto è da moltissimi anni un alleato degli americani che lo foraggiano e lo armano, e tanto più lo è ora al-Sīsī che l’imprudente Matteo Renzi, con la sua solita impudente leggerezza si è spinto a definire «un grande statista».I leader delle democrazie occidentali non sono folli. Si chiamino Bush padre, Bush figlio, Clinton, Obama, Hollande, Sarkozy, si presentano bene, ingiacchettati e incravattati. Sanno stare in società. Hanno modi gentili. Sono affidabili. Però da vent’anni a questa parte, perlomeno dall’attacco alla Serbia del 1999, si sono resi responsabili di cinque guerre di aggressione (Afghanistan, Iraq, Somalia e Libia più l’intromissione, con i russi e i turchi, nella guerra civile siriana) che hanno causato, direttamente o indirettamente, più di un milione di morti civili e altri ne continuano a causare, insieme a migrazioni bibliche. Non sono folli. Sono semplicemente dei criminali, o se si preferisce, dei terroristi di Stato. È la solita storia. Noi siamo il Bene per definizione; gli altri, di conseguenza, il Male. I nostri sono eserciti regolari, quelli degli altri sono “orde”. I nostri nemici non appartengono mai alla categoria dello iustus hostis, ma sono sempre dei terroristi. Quando li facciamo prigionieri non gli riconosciamo lo status di “prigionieri di guerra” e li trattiamo come criminali (vedi Guantánamo e Abu Ghraib). Forse dovremmo smetterla con questo doppiopesismo ipocrita e un tantino ripugnante. A mio avviso il vero folle è chi considera tutti gli altri “folli”.(Massimo Fini, “Per l’Occidente i criminali sono sempre gli altri”, dal “Fatto Quotidiano” del 15 maggio 2017).Secondo Furio Colombo, in un articolo pubblicato dal “Fatto Quotidiano” dell’8 maggio e intitolato “La follia come politica del mondo”, i leader dei paesi che non rientrano nel circolo buono delle democrazie occidentali propriamente dette, sono dei pazzi o quantomeno dei pericolosi psicolabili. Al primo posto sta, per antonomasia, “a prescindere”, di diritto, il dittatore della Corea del Nord Kim Jong-un. Al secondo Nicolás Maduro, il presidente del Venezuela, al terzo e al quarto, a scelta, leggermente distaccati, Putin ed Erdogan. Sarò più pazzo di lui, ma Kim Jong-un a me non sembra affatto pazzo. È l’unico a essere rimasto, col suo paese, nel famigerato “Asse del Male”. Saddam Hussein, che abbiamo a lungo utilizzato in funzione anti-iraniana e anti-curda, lo abbiamo fatto fuori quando non ci serviva più; al contrario, l’Iran degli ayatollah è uscito dall’ “Asse” perché, dopo averlo osteggiato per più di trent’anni con uno spietato embargo economico, e militarmente (aiuti a Saddam quando l’Iran stava per vincere una guerra in cui era l’aggredito e non l’aggressore) ora è tornato utile e ci serve nella guerra all’Isis. E stare nell’“Asse del Male” non è proprio tranquillizzante per chi vi è inserito. La Corea del Nord è l’ultimo paese comunista rimasto al mondo. È criminale, oltre che folle, essere comunisti?
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Corbyn tallona la May? Urge attentato elettorale, a Londra
Finiti i botti, si può anche sospendere la campagna elettorale. Se lo devono essere detti l’Mi5, l’Mi6, la loro dependance Scotland Yard, i fratelloni Mossad, Cia e i suoi 14 nipotini in Usa, i cugini delle varie marche imperiali europee, alla vista di uno che s’impegnava per un apocalittico cambio «dalla politica per i pochi alla politica per i tanti» (Jeremy Corbyn). Roba mai vista da quando l’Ue è entrata in funzione su mandato Rothschild, Rockefeller, Bilderberg e galassia finanziaria globale. Anatema. E così, dopo gli impiegati e il poliziotto sul ponte di Westminster e i ragazzetti al concerto di Manchester, è toccata ai flaneur e alle flaneuses serali sul London Bridge e nei pub sottostanti a finire, come va il trend di questi tempi, sotto un veicolo e tra le lame dei servizi. Quattro morti, più 22, più sette = 33, più parecchie decine di feriti, mutilati, menomati. Esito di una battaglia elettorale sul destino dei pochi e dei tanti. La May, primo ministro, ha cancellato quanto restava della campagna dei tanti. Se ne poteva fare a meno. Forse.A Torino, nel tempo accuratamente costruito dal terrorismo di regime e media, in cui, se cade per terra un mazzo di chiavi, o esplode una miccetta, o qualcuno starnuta forte, scatta il panico da attentato e conseguente fuga tumultuosa che travolge e schiaccia chi non corre abbastanza veloce, o non trova varchi, o è inciampato, per una partita virtuale su maxischermo si contano mille feriti e alcuni a portata di Caronte. In entrambi i casi, come in tutti quelli del prima e del dopo, il risultato è raggiunto. Colpendo nel mucchio. Di quelli che non c’entrano niente. Di quelli spendibili. Non una volta che si spari una bazookata contro le finestre di Goldman Sachs, o si faccia saltare la corrente alla Nato a Bruxelles, o si infili un candelotto sotto il sedile dell’ambasciatore saudita. Che sia mai. Non facciamoci del male da soli.A cui si aggiunge un’altra considerazione. Social, vanterie degli specialisti e dei ministri della “sicurezza”, gole profonde della Nsa, perfino il “Report” disinquinato di Sigfrido Ranucci (Rai 3), o le voci alternative di Gianluigi Paragone (La7), ci informano a valanga di quanto tutti siamo controllati, di come non sfuggiamo neanche al cesso o nell’alcova, di come il nostro cellulare racconti al collegato di che pasta siamo fatti e che pasta consumiamo, insomma come nulla di nessuno sfugga al Grande Occhio. Grande Occhio onnivedente e onniconoscente che resta cieco o chiuso quando gli formicolano davanti migliaia di reclute dell’Isis (chiamiamole così, per non disturbare), istruite nelle carceri o nei campi di Siria e Iraq, pendolari tra sgozzamenti a Mosul e Raqqa e deflagrazioni o piraterie stradali in Europa. «Li conoscevamo, li abbiamo anche registrati, ma poi li abbiamo persi di vista…». Volatilità, volubilità, spensieratezze, disattenzioni, dei servizi di intelligence. Son ragazzi. Sempre meglio che farsi scoprire mandanti. «Tanto poi li secchiamo tutti». Basterebbe sparare alle gambe, o tirare una siringa come alle pantere randagie, o un po’ di gas come i russi nel teatro di Mosca… Ma i morti non parlano.(Fulvio Grimaldi, estratto dal post “Corbyn tallona May? Urge attentato”, pubblicato dal blog di Grimaldi il 4 giugo 2017).Finiti i botti, si può anche sospendere la campagna elettorale. Se lo devono essere detti l’Mi5, l’Mi6, la loro dependance Scotland Yard, i fratelloni Mossad, Cia e i suoi 14 nipotini in Usa, i cugini delle varie marche imperiali europee, alla vista di uno che s’impegnava per un apocalittico cambio «dalla politica per i pochi alla politica per i tanti» (Jeremy Corbyn). Roba mai vista da quando l’Ue è entrata in funzione su mandato Rothschild, Rockefeller, Bilderberg e galassia finanziaria globale. Anatema. E così, dopo gli impiegati e il poliziotto sul ponte di Westminster e i ragazzetti al concerto di Manchester, è toccata ai flaneur e alle flaneuses serali sul London Bridge e nei pub sottostanti a finire, come va il trend di questi tempi, sotto un veicolo e tra le lame dei servizi. Quattro morti, più 22, più sette = 33, più parecchie decine di feriti, mutilati, menomati. Esito di una battaglia elettorale sul destino dei pochi e dei tanti. La May, primo ministro, ha cancellato quanto restava della campagna dei tanti. Se ne poteva fare a meno. Forse.
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Rovesciare Trump e insediare Mike Pence: il piano procede
Ma cosa sta succedendo negli Usa? Per capirlo bisogna ripercorrere in rapida sequenza i primi 5 mesi della presidenza. Trump inizia come un presidente di rottura, che nel suo discorso inaugurale traccia degli obiettivi e una visione del ruolo degli Stati Uniti nel mondo antitetici rispetto ai suoi predecessori. Come prevedibile, la reazione dell’establishment è durissima: manifestazioni di piazza, giudici che bloccano decisioni presidenziali, l’intelligence che soffia sul fuoco del Russiagate alimentando lo spettro che Mosca abbia interferito nelle elezioni mentre molti repubblicani si schierano con i democratici. Lo Stato Profondo (Deep State) è in rivolta e protagonista di ogni forma di boicottaggio. Dopo appena tre settimane, uno dei suoi consiglieri più, quello alla sicurezza nazionale, Michael Flynn, si dimette per aver nascosto alcune conversazioni con l’ambasciatore russo a Washington. In sé nulla di irrimediabile, anche il team di Hillary ha avuto contatti con l’ambasciata russa. Trump, che non conosce la potenza dell’apparato, commette un errore, si dimostra arrendevole e abbandona Flynn.Il 6 aprile nuovo cedimento: l’altro fedelissimo, Steve Bannon, viene estromesso dal Consiglio nazionale della sicurezza, dove restano solo falchi, tra cui molti neoconservatori. Dopo poche ore Trump rinnega i capisaldi del suo discorso inaugurale e diventa improvvisamente interventista. Bombarda con i missili una base militare in Siria, lancia la “madre di tutte le bombe” in Afghanistan, fa salire alle stelle le tensioni con la Corea del Nord. Intanto, al Pentagono, si affinano i piani di guerra. Trump appare normalizzato, inghiottito dall’establishment. E improvvisamente il Russiagate sparisce dalle prime pagine, perde di intensità e di importanza. Il presidente annuncia la revoca del trattato di libero scambio Nafta ma dopo poche ore si rimangia tutto, a conferma del suo ammansimento. La revoca dell’Obamacare torna d’attualità con il convinto assenso del partito repubblicano. Poi, però, accade qualcosa. Trump ci ripensa o, almeno, dimostra di volersi riprendere qualche spazio, soprattutto diplomatico.Dopo aver incontrato da solo il leader cinese Xi, con cui stabilisce un ottimo rapporto personale, esautora di fatto il Dipartimento di Stato, decidendo da solo la visita dal Papa il 24 maggio e, soprattutto, avviando un dialogo con Mosca; parla al telefono con Putin e riceve alla Casa Bianca il ministro degli esteri russo Lavrov. L’establishment non gradisce e inizia ad agitarsi. Le polemiche interne riaffiorano, i giornali ricominciano a descrivere una Casa Bianca spaccata e caotica. Quando il presidente decide di licenziare il capo dell’Fbi Comey, il Deep State dichiara una nuova guerra, verosimilmente definitiva, al redivivo Trump. Seguendo i dettami illustrati dall’ex consigliere di Obama Kupchan, che invitava ad «adoperare i media e l’opinione pubblica», sulla stampa amica – ovvero “New York Times” e “Washington Post” fioccano indiscrezioni e rivelazioni pesantissime, insinuanti e, come sempre, anonime, ma di fonte sicura: servizi segreti, esponenti dell’amministrazione. Gli altri media amplificano. E l’isteria monta.Qualunque voce o ricostruzione contro Trump viene presentata dai media come sicura e provata, qualunque indizio a sua discolpa viene relativizzato o ignorato. La “Washington Post” annuncia che le informazioni passate a Lavrov durante l’incontro alla Casa Bianca sono segrete e che il presidente ha messo a repentaglio la sicurezza nazionale. Si scopre, tuttavia, che si tratta dell’allarme sulla possibilità che l’Isis compia attentati sugli aerei nascondendo bombe nei laptop, rischio noto da giorni, e lo stesso Putin smentisce di aver ricevuto informazioni segretissime e si dice pronto a dimostrarlo. Ma non basta a riportare la quiete. McCain cita il Watergate, i democratici incalzano, i media attaccano con toni scandalizzati. E ora? Un esponente di lungo corso della politica Usa, insospettabile perché rappresenta la sinistra americana, Dennis Kucinich, legge con molta lucidità la situazione. Ricorda di non aver nulla in comune con Trump ma, in un’intervista a “Fox News”, giudica pretestuosa questa campagna.«Se l’informazione era così sensibile perché è stata passata al “Washington Post”?», si chiede. E ancora: «Qualcosa è fuori controllo. C’è un tentativo di stravolgere la relazione con la Russia. Dobbiamo chiederci: perché l’intelligence sta cercando di sovvertire il presidente degli Stati Uniti con questi leaks? Io sono in disaccordo con Trump su molte questioni, ma su questa no. Ci può essere solo un presidente e qualcuno, nel mondo dei servizi segreti, sta cercando di rovesciare questo presidente al fine di perseguire una linea politica che ci mette in conflitto con la Russia. Il punto è: perché? E chi? Abbiamo bisogno di scoprirlo». Kucinich ha quasi certamente ragione. Qualunque pretesto è utile per perseguire lo scopo finale: ribaltare la volontà popolare, cacciare Trump e mantenere il potere nelle mani dell’establishment, al cui interno si annullano le differenze politiche tra destra e sinistra, e che governa gli Usa dai tempi di Kennedy. Il successore è già pronto: è il vice Mike Pence, che non è mai stato un fedelissimo di Trump. E’ uomo del partito repubblicano. Di lui si fidano.(Marcello Foa, “Obiettivo finale, rovesciare Trump. Preparatevi…”, dal blog di Foa sul “Giornale” del 17 maggio 2017).Ma cosa sta succedendo negli Usa? Per capirlo bisogna ripercorrere in rapida sequenza i primi 5 mesi della presidenza. Trump inizia come un presidente di rottura, che nel suo discorso inaugurale traccia degli obiettivi e una visione del ruolo degli Stati Uniti nel mondo antitetici rispetto ai suoi predecessori. Come prevedibile, la reazione dell’establishment è durissima: manifestazioni di piazza, giudici che bloccano decisioni presidenziali, l’intelligence che soffia sul fuoco del Russiagate alimentando lo spettro che Mosca abbia interferito nelle elezioni mentre molti repubblicani si schierano con i democratici. Lo Stato Profondo (Deep State) è in rivolta e protagonista di ogni forma di boicottaggio. Dopo appena tre settimane, uno dei suoi consiglieri più, quello alla sicurezza nazionale, Michael Flynn, si dimette per aver nascosto alcune conversazioni con l’ambasciatore russo a Washington. In sé nulla di irrimediabile, anche il team di Hillary ha avuto contatti con l’ambasciata russa. Trump, che non conosce la potenza dell’apparato, commette un errore, si dimostra arrendevole e abbandona Flynn.
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Craig Roberts: tradire chi li ha votati è la loro vera missione
La svendita di Trump al termine della svendita di Obama, durata otto anni. Istruttivo: ora abbiamo un presidente democratico che ha svenduto i suoi elettori, e un presidente repubblicano che ha appena fatto la stessa cosa. Questo è un punto molto interessante, il cui significato sfugge alla maggior parte delle persone – ma non al presidente russo Vladimir Putin, che al summit del Club Valdai ha riassunto lo stato della democrazia occidentale in termini che riassumo così, parafrasandoli: “In Occidente, gli elettori non possono cambiare la politica attraverso le elezioni, perché le élite dominanti controllano chiunque sia eletto. Le elezioni danno l’illusione della democrazia, ma il voto non cambia le politiche che favoriscono la guerra e le élite. Pertanto, la volontà popolare è neutralizzata. I cittadini vedono che il loro voto non ha alcuna influenza sugli affari del paese. Ciò li rende impauriti, frustrati e arrabbiati: una combinazione di emozioni pericolose per l’élite dominante che, in risposta, orienta i poteri dello Stato contro il popolo, esortandoli con la propaganda a sostenere altre guerre. Obama aveva promesso di uscire dall’Afghanistan o dall’Iraq, o forse da entrambi i paesi. Aveva promesso di abolire lo “Stato di polizia” creato dal regime di George W. Bush. E aveva promesso di concentrare le risorse americane sui problemi domestici, come l’assistenza sanitaria”.Ma cosa ha fatto, Obama? Ha esteso le guerre in corso e ne ha lanciate di nuove, ha distrutto la Libia e tentato di distruggere la Siria, ma è stato fermato dalla non-partecipazione britannica e dall’opposizione russa. Ha rovesciato i governi democratici in Honduras e in Ucraina. Ha ampliato lo “Stato di polizia”. Ha iniziato la demonizzazione della Russia e di Putin. Ha tradito nuovamente il popolo americano, permettendo all’industria assicurativa privata di scrivere il suo piano sanitario, conosciuto come Obamacare. Gli interessi privati, di fatto, hanno predisposto direttamente il programma, che dirotta i fondi pubblici dall’assistenza sanitaria verso i loro profitti. Tutto questo è stato dimenticato quando le élite governative e i media “presstiuti” al loro servizio hanno rifocalizzato la demonizzazione su Trump. Improvvisamente, il presidente neo-eletto è diventato il principale pericolo per gli Stati Uniti e per il popolo americano. Trump era un agente russo. Aveva cospirato con Putin per rubare l’elezione a Hillary Clinton e rendere la Casa Bianca un partner della presunta riconfigurazione di Putin dell’Impero Sovietico.Una sciocchezza furiosa, ma efficace. Così Trump ha ceduto alla pressione e ha sacrificato il suo consigliere per la sicurezza nazionale, che aveva sostenuto la promessa di normalizzare i rapporti con la Russia. Trump lo ha sostituito con un idiota russofobo che, a quanto pare, non vede l’ora di vedere nubi a forma di fungo atomico sulle città di tutto il mondo occidentale. Perché i due presidenti succedutisi alla Casa Bianca hanno completamente “venduto” la gente che aveva votato per loro? La risposta è che i presidenti non sono tanto potenti quanto i gruppi di interesse che prendono le decisioni. Trump era d’accordo sull’idea di sganciarsi dalla Siria, ma poi ha commesso un ambiguo crimine di guerra, attaccando gratuitamente Siria con i missili Tomahawk. Stava per normalizzare i rapporti con la Russia, ma ora il suo segretario di Stato annuncia che le sanzioni economiche statunitensi resteranno invariate, sulla Russia, finché Mosca non cede all’Ucraina la sua base navale sul Mar Nero, in Crimea. È impossibile normalizzare le relazioni quando il loro costo, per l’altra parte, è il suicidio nazionale.Nonostante la completa resa di Trump a quei poteri, il 2 maggio su “Npr” (National Public Radio) ho sentito della grezza propaganda, travestita da “opinione di esperti”, secondo cui Trump sarebbe allergico ai media, quando invece quello che tutti abbiamo visto è una massiccia preoccupazione dei media contro Trump, compreso il programma che stavo ascoltando. “Npr”, ad esempio, aveva messo insieme “esperti” che dicevano che Trump avesse calunniato Obama, accusandolo di intercettare le sue comunicazioni. “Npr” non ha detto niente sull’attacco del regime Obama contro Trump, accusato di aver cospirato con Putin per “scippare” l’elezione da Hillary Clinton. Se c’era una calunnia era proprio quella, e invece il discorso, in radio, era tutto concentrato su come Obama potrebbe citare in giudizio Trump. Ma perché l’oligarchia dominante utilizza ancora i suoi “presstituti” per combattere contro un presidente che si è arreso? Forse la risposta è che il vero potere sta “pestando” Trump a mo’ di avvertimento, in modo che nessun candidato faccia mai più un appello populista all’elettorato.(Paul Craig Roberts, “Democrazia americana, un morto che cammina”, dal blog di Craig Roberts del 2 maggio 2017).La svendita di Trump al termine della svendita di Obama, durata otto anni. Istruttivo: ora abbiamo un presidente democratico che ha svenduto i suoi elettori, e un presidente repubblicano che ha appena fatto la stessa cosa. Questo è un punto molto interessante, il cui significato sfugge alla maggior parte delle persone – ma non al presidente russo Vladimir Putin, che al summit del Club Valdai ha riassunto lo stato della democrazia occidentale in termini che riassumo così, parafrasandoli: “In Occidente, gli elettori non possono cambiare la politica attraverso le elezioni, perché le élite dominanti controllano chiunque sia eletto. Le elezioni danno l’illusione della democrazia, ma il voto non cambia le politiche che favoriscono la guerra e le élite. Pertanto, la volontà popolare è neutralizzata. I cittadini vedono che il loro voto non ha alcuna influenza sugli affari del paese. Ciò li rende impauriti, frustrati e arrabbiati: una combinazione di emozioni pericolose per l’élite dominante che, in risposta, orienta i poteri dello Stato contro il popolo, esortandoli con la propaganda a sostenere altre guerre. Obama aveva promesso di uscire dall’Afghanistan o dall’Iraq, o forse da entrambi i paesi. Aveva promesso di abolire lo “Stato di polizia” creato dal regime di George W. Bush. E aveva promesso di concentrare le risorse americane sui problemi domestici, come l’assistenza sanitaria”.
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Al popolo i profitti dei colossi economici: imparate da Putin
Siamo messi così male, oggi, da essere costretti ad applaudire i “dittatori” delle super-economie emergenti, Pechino e Mosca. Che fanno? Qualcosa di elementare e rivoluzionario, secondo Paolo Barnard: pretendono che i colossi economici finanzino lo Stato, dando modo al governo di sostenere il welfare, la crescita diffusa del benessere. «Io vedo che fra Eurozona, Partito Democratico Usa, e Ppps (le Public Private Partnerships) in Africa, Asia, Sud America, la democrazia che iniziammo a conoscere con Montesquieu nel diciottesimo secolo è diventata oggi una pustola che puzza da far vomitare». Infatti, «per trovare leader capaci ancora di atti che vagamente si avvicinano a qualcosa di democratico bisogna leggere i decreti legge dei “dittatori” delle moderne potenze, come Cina e Russia. Ma vi rendete conto?». Forse, aggiunge Barnard nel suo blog, «sarà perché la democrazia in Usa è nata da un tizio come James Madison, che riteneva che mai, ma veramente mai, il popolo avrebbe dovuto aver voce». O perché la democrazia in Europa «è stata dirottata da uno come Friedrich Von Hayek, che diceva che il welfare, e il voto, erano strumenti che andavano usati solo “per tenere le classi inferiori calme affinché non aggredissero fisicamente le élite meritevoli del comando”».Qualcuno, continua Barnard, si è mai reso conto che «la democrazia moderna è nata da gente vomitevole al 90%? (escludiamo uno come Calamandrei e pochi altri)». Barnard cita Konrad Adenauer, cancelliere tedesco della ricostruzione nel dopoguerra: lo definisce «partner degli autori della dittatura Ue di oggi come Schuman, Monnet e De Gaulle», il leader francese “macchiato” dal feroce post-colonialismo in Algeria. Barnard non assolve nemmeno John Fitzgerald Kennedy, in quanto «entusiasta sostenitore dei National Security States in America Latina che significarono, documenti declassificati alla mano, Auschwitz-Birkenau parlati in spagnolo per milioni di latinamericani», sottoposti al “trattamento” degli squadroni della morte. Altiero Spinelli, padre del federalismo democratico europeo? «Un rutto ideologico», che con la sinistra parlava di “Europa delle utopie” ma con la destra “fregava” gli operai della Fiat, con il Pci che «approvava i 100 miliardi di lire regalati agli Agnelli per aprire catene di montaggio a Mosca», destinate a «togliere il lavoro ai meridionali italiani». Per non parlare di Giorgio Napolitano, che “faceva il compagno” con gli italiani, ma alla Fondazione Rockefeller a Bellagio «prometteva profitti da sogno alle multinazionali americane».Conclude Barnard: infatti vedete tutti, oggi, in che razza di democrazie ci troviamo, «dove i referendum (Grecia 2015, Irlanda 2008 e 2009, Italia 2016) contano come peti di una capra». Al contrario, aggiunge, «le mosse per l’interesse pubblico più clamorose dalla storia contemporanea» le stanno facendo personaggi che la tradizione democratica non sanno neppure dove stia di casa, «ma le stanno facendo». Vladimir Putin, per esempio: oggi «ha fatto un passo che Gentiloni, la Merkel, la May, e neppure la Le Pen, avrebbero il coraggio di fare». Ovvero: «Ha semplicemente ordinato ai giganti pubblici russi come Alrosa, Gazprom, Rosneft, Aeroflot, di sborsare almeno la metà dei loro profitti agli investitori». Tradotto: «Putin dice ai super-manager statali di non fare i furbi e di distribuire i loro profitti come dice lui, senza trucchetti e tranelli. Vi sembrerà una cosa strampalata, ma chiedetevi quale percentuale di profitti i giganti statali italiani ridistribuirono allo Stato e ai cittadini investitori dagli anni ’60 a oggi e vi spaventerete. Oggi l’Eni incassa puliti 68,1 miliardi e passa allo Stato di Roma, di fatto l’azionista di maggioranza, meno di 900 milioni».No, dice Putin ai giganti russi: «Adesso cacciate i soldi per il governo e alla grande, poi anche agli investitori privati ma dopo, e il suo governo si aspetta d’incassare una bella cifra da 2,1 miliardi di dollari nel 2017 e poi a crescere, così da rimpolpare un po’ le casse dello Stato e conseguentemente la spesa pubblica». Già Gazprom e Rosneft hanno iniziato a storcere il naso, ma sanno che con Putin non si scherza. «Non sono certo un fan di Vladimir – assicura Barnard – ma immaginate se lo Stato italiano avesse mai imposto questa ridistribuzione a tutto il vecchio e ricchissimo comparto dell’Iri, Eni, Enel, invece di lasciare miliardi ai boiardi di Stato». Nel frattempo, conclude Barnard, «Xi-Jinping sega le gambe all’uomo più ricco della Cina, tal Yao Zhenhua, padrone del gigante assicurativo privato Baoneng, perché incassava troppo sulle spalle dei cittadini. E mentre vedo Putin bastonare i suoi giganti, vedo da noi dei flaccidi piselli, pentastellati inclusi, che certe mosse d’interesse di Stato un pelo drastiche neppure le pensano». Proprio vero: «Se ci tocca di ammirare i “dittatori” oggi, pensate dove è arrivata la democrazia in Occidente».Siamo messi così male, oggi, da essere costretti ad applaudire i “dittatori” delle super-economie emergenti, Pechino e Mosca. Che fanno? Qualcosa di elementare e rivoluzionario, secondo Paolo Barnard: pretendono che i colossi economici finanzino lo Stato, dando modo al governo di sostenere il welfare, la crescita diffusa del benessere. «Io vedo che fra Eurozona, Partito Democratico Usa, e Ppps (le Public Private Partnerships) in Africa, Asia, Sud America, la democrazia che iniziammo a conoscere con Montesquieu nel diciottesimo secolo è diventata oggi una pustola che puzza da far vomitare». Infatti, «per trovare leader capaci ancora di atti che vagamente si avvicinano a qualcosa di democratico bisogna leggere i decreti legge dei “dittatori” delle moderne potenze, come Cina e Russia. Ma vi rendete conto?». Forse, aggiunge Barnard nel suo blog, «sarà perché la democrazia in Usa è nata da un tizio come James Madison, che riteneva che mai, ma veramente mai, il popolo avrebbe dovuto aver voce». O perché la democrazia in Europa «è stata dirottata da uno come Friedrich Von Hayek, che diceva che il welfare, e il voto, erano strumenti che andavano usati solo “per tenere le classi inferiori calme affinché non aggredissero fisicamente le élite meritevoli del comando”».
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Addio Merkel, euro e Nato: il voto francese cambia il mondo
La Francia al bivio: Atlantico o Eurasia. «Se il 2017 ha tutte le caratteristiche per essere definito “l’anno della frattura”, lo spartiacque tra il vecchio ordine mondiale “liberale” a guida angloamericana e l’avvento di un nuovo assetto internazionale, ebbene, c’è un appuntamento più decisivo degli altri, quello capace di dispiegare tutto il potenziale rivoluzionario dell’anno in corso: le presidenziali francesi». Per un analista geopolitico come Federico Dezzani, il voto transalpino (primo turno, 23 aprile) è «l’appuntamento chiave del 2017, capace di innescare e/o accelerare dinamiche che travalicano i confini dell’Esagono per abbracciare l’intero scacchiere mondiale». Motivo: «Il malessere sociale e le drammatiche condizioni in cui versa l’economia della Francia, pienamente ascrivibile tra i paesi dell’europeriferia, hanno sgretolato il sistema politico transalpino, aprendo lo scenario di un inedito ballottaggio tra populisti di destra e populisti di sinistra: Marine Le Pen contro Jean-Luc Mélenchon». Secondo Dezzani, la sconfitta dei candidati europeisti accelererà la dissoluzione della moneta unica e dell’Unione Europea, compromettendo irreparabilmente l’intera architettura euro-atlantica edificata negli ultimi 70 anni: «Lo speculare rafforzamento della Russia dopo la vittoria di Marine Le Pen e l’ingrossarsi del blocco euroasiatico rischiano di portare il sistema internazionale al carico di rottura».In un’analisi pubblicata sul suo blog, Dezzani colloca le presidenziali francesi in una più ampia cornice geopolitica: «Solo chi nascondesse la testa sotto terra, potrebbe infatti affermare che l’imminente voto sia scollegato dalle rinnovate tensioni tra Nato e Russia e dai venti di guerra nella Corea del Nord». La Francia ripropone il medesimo schema politico che travaglia l’intera Europa: i partiti tradizionali, «legati a doppio filo all’establishment euro-atlantico», riusciranno o meno a respingere l’assalto “populista”, cioè l’avanzata di quei movimenti che predicano ricette economiche e una politica estera diametralmente opposta a quella dell’oligarchia al potere? «La risposta è quasi certamente “no”», sostiene Dezzani. «Di fronte all’eurocrisi scoppiata nel lontano 2009 e progressivamente incancrenitasi avendo mancato l’obiettivo di fondo (strappare il Tesoro Unico europeo e gli Stati Uniti d’Europa)», la Francia «è scivolata giorno dopo giorno verso l’euro-periferia, mostrando l’illusorietà del “motore franco-tedesco”». A collocare il paese «più vicino al Mediterraneo che al Reno» è ormai, «la galoppante crescita del debito pubblico francese, che dall’introduzione dell’euro è passato dal 60% al 97% del Pil», insieme ad altri indicatori sfavorevoli: «Gli alti deficit in funzione anti-ciclica, il cronico disavanzo della bilancia commerciale e la disoccupazione record (quella ufficiale si attesta attorno al 10% della forza lavoro)».Tra Parigi e Berlino, sottolinea Dezzani, c’è ancora una «parità formale», che attualmente scongiura quelle politiche di austerità imposte al resto dell’europeriferia: misure di austerity che potrebbero «innescare esplosive rivolte in una società come quella francese, abituata a ricevere generose prestazioni dallo Stato». Questo però «non impedisce che qualche “riforma strutturale” sia somministrata anche alla Francia: il “Job Act” gallico, la legge El Khomri, provoca reazioni impensabili in Italia, mobilitando sindacati e lavoratori per settimane e paralizzando diversi settori strategici dell’economia». L’assaggio di neoliberismo, il crescere incessante della disoccupazione e la parallela caduta verticale del presidente François Hollande in termini di popolarità, continua Dezzani, sono accompagnati dall’esplosione del terrorismo “islamista” che, avviato nel gennaio 2015 con la strage di Charlie Hebdo, semina morti fino alla strage di Nizza dello scorso luglio: «E’ la classica strategia della tensione utile a “sedare” un’opinione pubblica sul piede di guerra, a causa dell’impoverimento generalizzato e dei tagli allo Stato sociale».La strategia della tensione, però, secondo Dezzani ha fallito: doveva «compattare i francesi attorno al capo di Stato», quell’Hollande che – dopo aver ripeuto che «la France est en guerre» – è il primo presidente, dall’avvento della Quinta Repubblica, a scegliere di “abdicare”, rinunciando a correre per un secondo mandato: «L’obiettivo è quello di arrestare l’avanzata dei “populisti”, relegando il quinquennio di Hollande ad una triste parentesi, e puntando su volti nuovi». Ma ormai, aggiunge Dezzani, la ribellione dell’elettorato è troppo impetuosa per essere incanalata: «Il “filo-russo” François Fillon conquista la candidatura del centro-destra battendo l’esponente dell’establishment, Alain Juppé. Segue quindi una feroce campagna mediatica-giudiziaria per stroncare la corsa di Fillon verso l’Eliseo e lanciare verso il ballottaggio del 7 maggio il centrista e “outisider” Emmanuel Macron, ex-banchiere Rothschild: il calcolo politico si basa sulla convinzione che tutti i voti moderati si coaguleranno attorno all’europeista e filo-atlantico Macron, sancendo così la sconfitta della populista e filo-russa Marine Le Pen».Nella Francia del 2017, però, come nel resto dell’Occidente, i voti “moderati” sono ormai merce rara: «Il malessere diffuso, tre milioni di disoccupati (che salgono a sei considerando i lavoratori iscritti ad un corso di ricollocamento), l’insofferenza generalizzata verso la cricca di privilegiati che ruota attorno all’Eliseo e ai salotti buoni di Parigi, spinge l’elettorato sulle ali estreme dello schieramento politico: la candidatura del centrista Emmanuel Macron, presentato dalla maggior parte dei sondaggi e dei media compiacenti come il presidente in pectore, rischia di sgonfiarsi addirittura al primo turno, schiantandosi contro lo scoglio dell’elettorato». Ferma restando la possibile vittoria di Marine Le Pen, crescono infatti le probabilità che lo sfidante al ballottaggio del 7 maggio non sia l’ex-banchiere di Rothischild, ma il “populista rosso” Jean-Luc Mélenchon: storico esponente dell’ala sinistra del Partito socialista, fondatore del movimento “France insoumise” (la Francia ribelle). «Abile oratore e figura piuttosto carismatica, Mélenchon è la declinazione “giacobina” di Marine Le Pen». Tanti i tratti i comune: tra questi, «l’avversione all’ortodossia finanziaria di Bruxelles, l’intenzione di manovre fiscali espansive in forte deficit, il rifiuto dei dogmi liberisti e l’apertura al protezionismo».In politica estera, Le Pen e Mélenchon condividono anche «l’intenzione di traghettare la Francia fuori dalla Nato», che dimostra «la volontà di riconciliarsi con Mosca superando le varie discrepanze, in primis sulla Siria». Dezzani scommette che sarà Marine Le Pen a uscire vincitrice dal ballottaggio del 7 maggio, sospinta da diversi fattori: la voglia di cancellare la disastrosa presidenza Hollande, la crisi migratoria, l’emergenza-sicurezza nelle città e il vento nazionalista, sempre più forte a livello europeo. «Nelle attuali condizioni in cui versa l’Unione Europea – ragiona Dezzani – è però chiaro che, se dalle urne del 23 aprile dovesse emergere una sfida tra forze anti-sistema di sinistra e di destra, Bruxelles incasserebbe il colpo di grazia anche senza conoscere il verdetto finale delle presidenziali francesi». Si tratta pur sempre di «istituzioni europee così lacerate da assistere inermi alla ribellione degli Stati alla politica migratoria comune, alla puntuale disapplicazione di norme fino a poco tempo fa presentate come ineludibili (Fiscal Compact e bail-in), al tramonto di qualsiasi ulteriore integrazione necessaria a garantire la sopravvivenza dell’euro (in primis la garanzia unica sui depositi)».L’affermazione dei “populisti” Le Pen e Mélenchon al primo turno, continua Dezzani, «sancirebbe la rottura definitiva del motore franco-tedesco da tempo in panne». Rottura che, «aprendo una drammatica faglia nel cuore dell’Europa, porterebbe al collasso finale le già pericolanti istituzioni di Bruxelles». Al che, la dissoluzione dell’Unione Europea e il simultaneo ricollocamento di Parigi su posizioni filo-russe «sarebbero un vero terremoto geopolitico, scuotendo alle fondamenta l’intera architettura politico-militare consolidatasi in Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale: le istituzioni di Bruxelles, sinonimo di Ue ma anche di Nato, sono infatti lo strumento con cui l’impero angloamericano ha prima blindato, e poi allargato, la testa di ponte sul continente euroasiatico, conquistata con due guerre mondiali». Scopo strategico del blocco Ue-Nato, infatti, «è attrarre verso l’Atlantico il maggior numero possibile di potenze europee», impedendo «il sorgere di qualsiasi alleanza tra la Russia e l’Europa occidentale». Il terremoto sovranista francese, quindi, stravolgerebbe «la settantennale strategia dell’establishment atlantico sul Vecchio Continente, incentratala sulla cooperazione franco-tedesca con la benedizione di Londra e Washington, e sul progressivo ampliamento verso est delle organizzazioni “transatlantiche”».Si materializzerebbe così il peggior scenario possibile per gli strateghi angloamericani, tratteggiato da Zbigniew Brzezinski nel suo libro “La Grande Scacchiera”, del 1997: vedremmo all’opera «una Francia nazionalista che, oppressa dall’egemonia della Germania schierata su posizioni filo-atlantiche, parte alla riconquista del primato continentale alleandosi con la Russia e riconoscendo a quest’ultima una legittima zona d’influenza nell’Est europeo». Sarebbe, in sostanza, «un patto franco-russo», progettato «per ridimensionare la Germania» e ridimensionare l’egemonia Usa sull’Europa. «Il quadro – aggiunge Dezzani – si farebbe ancora più drammatico per gli strateghi angloamericani se la Francia “nazionalista” non si saldasse soltanto alla Russia, ma al blocco euro-asiatico, che comprende anche la Cina e l’Iran e si irrobustisce giorno dopo giorno: la Francia, anziché lavorare per la caduta di Assad e il puntellamento del regime filo-saudita in Yemen, passerebbe così ad una condizione di neutralità o larvata ostilità nei confronti degli alleati regionali di Washington e Londra, compromettendo ulteriormente l’opera angloamericana di “contenimento” delle potenze euro-asiatiche».Gli Usa a quel punto, «espulsi dalla massa continentale anche grazie alla cooperazione francese, perderebbero automaticamente lo status di superpotenza mondiale». Per Dezzani, stiamo assistendo al manifestarsi di «una doppia minaccia mortale per l’impero angloamericano: il saldarsi della coalizione tra Russia, Cina e Iran, unito al nascere di un’intesa franco-russa». Si tratta di «quattro potenze distinte, unite dalla comune volontà di archiviare l’egemonia degli Usa e dell’oligarchia atlantica, per ridisegnare l’assetto mondiale». Meglio si spiega, quindi, «il clima di elevata tensione internazionale, caratterizzato dal precipitare delle relazioni russo-americane e dai concomitanti venti di guerra in Corea». La posta in gioco, insiste Dezzani, «supera i confini dell’Esagono». La probabile vittoria di Marine Le Pen «è in grado di compromettere ulteriormente la presa angloamericana sull’Europa, a beneficio di Mosca e delle altre potenze continentali». Attenzione: questo scenario «lascia supporre un ulteriore aumento della tensione in vista del ballottaggio del 7 maggio e negli immediati mesi successivi al voto: più la Ue si sfalda e il blocco euroasiatico si ingrossa, maggiori sono i rischi che il sistema internazionale raggiunga il carico i rottura, imprimendo agli eventi quella drammatica svolta che si sarebbe evitata soltanto se Donald Trump avesse mantenuto le promesse neo-isolazioniste della campagna elettorale».La Francia al bivio: Atlantico o Eurasia. «Se il 2017 ha tutte le caratteristiche per essere definito “l’anno della frattura”, lo spartiacque tra il vecchio ordine mondiale “liberale” a guida angloamericana e l’avvento di un nuovo assetto internazionale, ebbene, c’è un appuntamento più decisivo degli altri, quello capace di dispiegare tutto il potenziale rivoluzionario dell’anno in corso: le presidenziali francesi». Per un analista geopolitico come Federico Dezzani, il voto transalpino (primo turno, 23 aprile) è «l’appuntamento chiave del 2017, capace di innescare e/o accelerare dinamiche che travalicano i confini dell’Esagono per abbracciare l’intero scacchiere mondiale». Motivo: «Il malessere sociale e le drammatiche condizioni in cui versa l’economia della Francia, pienamente ascrivibile tra i paesi dell’europeriferia, hanno sgretolato il sistema politico transalpino, aprendo lo scenario di un inedito ballottaggio tra populisti di destra e populisti di sinistra: Marine Le Pen contro Jean-Luc Mélenchon». Secondo Dezzani, la sconfitta dei candidati europeisti accelererà la dissoluzione della moneta unica e dell’Unione Europea, compromettendo irreparabilmente l’intera architettura euro-atlantica edificata negli ultimi 70 anni: «Lo speculare rafforzamento della Russia dopo la vittoria di Marine Le Pen e l’ingrossarsi del blocco euroasiatico rischiano di portare il sistema internazionale al carico di rottura».
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Chomsky: ho paura, questa élite vuole ricorrere all’atomica
Donald Trump sa di non avere nessuna speranza di premiare i milioni di elettori che avevano creduto in lui. Per questo gioca l’ultima carta e indossa i panni dello sceriffo: per distrarre il pubblico, bombardando il mondo. Ma il gioco è pericoloso: tra una provocazione e l’altra, con il solito corredo di notizie false come le responsabilità di Assad sull’uso dei gas contro la popolazione siriana, la Russia stavolta potrebbe reagire. Mosca potrebbe sparare per prima i suoi missili a testata atomica contro l’America, prima che sia troppo tardi. Mai, nella sua storia, l’umanità ha corso un pericolo così grande. Lo afferma Noam Chomsky in un’intervista concessa al “Manifesto”, nella quale esprime la massima preoccupazione per i giorni che stiamo vivendo. La sua tesi: l’élite è semplicemente “impazzita”. E il terrore di perdere il potere può spingerla verso la catastrofe nucleare. Gli oligarchi sanno di non avere più alcuna possibilità di recuperare il consenso perduto, come dimostra il fallimento della loro ultima creazione illusionistica, Donald Trump. E allora premono sulla guerra: la vogliono davvero, come unica soluzione per mantenere il controllo totale sull’umanità.Ad aggravare il quadro, aggiunge Chomsky, intervistato da Patricia Lombroso, sarebbe la rottura dello storico equilibrio missilistico tra Usa e Russia, provocata dal colossale programma di riarmo nucleare varato anni fa da Barack Obama. Secondo il grande intellettuale americano, oggi la dotazione balistica degli Stati Uniti sarebbe superiore rispetto a quella di Mosca. E i russi, che sanno di essere minacciati, potrebbero decidere di sferrare per primi un attacco nucleare preventivo, prima che la loro deterrenza venga definitivamente cancellata dall’ipotetica supremazia atomica statunitense. Uno scenario da apocalisse, confermato da un altro acuto analista indipendente come Paul Craig Roberts, secondo cui i russi – che a suo parere non dispongono affatto di un arsenale inferiore a quello americano – potrebbero comunque scegliere di colpire per primi, dato che gli Usa e la Nato li stanno letteralmente assediando, in modo sempre più subdolo, ormai anche alle frontiere della Federazione Russa, sul Baltico e nell’Europa orientale.Altri osservatori, come il francese Thierry Meyssan, sono meno pessimisti: tendono a pensare che Trump stia essenzialmente “facendo teatro”. Per Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, l’eventuale bluff muscolare di Trump avrebbe lo scopo di illudere (e tacitare, a suon di commesse miliardarie) l’apparato militare-industriale che fa capo al potentissimo clan dei Bush. Lo stesso Carpeoro, tuttavia, non si nasconde la pericolosità del potere oligarchico mondiale ormai pronto a tutto, come dimostra l’auto-terrorismo targato Isis. Sullo sfondo, la situazione allarmante del pianeta: «Gli oligarchi sanno che le risorse terrestri si stanno esaurendo, a cominciare dalle fonti energetiche, e ciascun gruppo sgomita per prepararsi a imporre il suo Piano-B». Lo stesso Giulietto Chiesa teme gli effetti della doppia crisi in atto: la pericolosità di un’America in declino, arginata da Russia e Cina, in un mondo che non sa come affrontare né l’esplosione demografica, né l’incombente catastrofe climatica, che secondo l’Onu sta già innescando esodi mai visti prima, nella storia. Tante angolazioni diverse, molte analisi e una sinistra caratteristica comune: l’assenza di soluzioni, in vista.Nella sua visione, Chomsky si concentra sulla politica estera Usa: «Le aggressioni unilaterali da parte degli Stati Uniti in Siria e in Afghanistan – afferma – sono state preparate a tavolino da questa nuova amministrazione, incurante del crimine commesso, che viola tutte le norme del diritto internazionale». Obiettivo: nient’altro che «uno show rivolto all’opinione pubblica in attesa della promessa “America First”». Dietro la propaganda di Trump, Noam Chomsky vede un «progetto selvaggio di smantellamento, passo dopo passo, dell’intera legislazione federale istituita 70 anni fa per proteggere l’intera popolazione americana dalla logica dei profitti immediati e dalla massima concentrazione del potere». Operazione abilmente nascosta dallo “sceriffo” Trump, che prova a rassicurare gli americani «con questo messaggio diretto: i brillanti risultati conseguiti dai nostri uomini del Pentagono nelle ultime otto settimane sono superiori a quanto conseguito durante gli ultimi otto anni dalla presidenza Obama». E ancora: «Siamo in grado di effettuare operazioni coraggiose. Insomma, ecco il nuovo sceriffo che dimostra di essere l’uomo forte che voi volete. E che ha dato mano libera a chi voleva intraprendere le cosiddette azioni coraggiose. Come quella di sganciare la superbomba in Afghanistan senza aver neppure idea quale territorio abbiamo distrutto, né di quanti civili abbiamo ucciso».Paradossalmente – ma non è una novità – negli Stati Uniti «l’applauso è stato univoco e totale anche da parte dei democratici, visto che in Siria il nuovo sceriffo Trump ha inviato un messaggio alla comunità internazionale per dimostrare che l’America è ancora una superpotenza che sa reagire con la nuova forza dell’“America First”». Passo dopo passo, continua Chomsky, «dietro le quinte viene approvata una legislazione che toglie ogni speranza alla popolazione americana nel rivendicare i benefici di protezione sociale ed economica istituiti 70 anni fa». Per l’insigne linguista, «è questa l’organizzazione di potere più pericolosa nella storia del mondo». Una “cupola” che, «per continuare ad avere più profitti e sempre più potere, è capace anche di usare l’arma nucleare. Sino alla distruzione dell’umanità». Secondo Chomsky, grazie al riarmo nucleare finanziato in silenzio da Obama, oggi «l’arsenale atomico statunitense ha raggiunto un livello da strategia atomica avanzata e radicale, tale da poter annientare la deterrenza dell’arsenale atomico russo». E dato che Mosca non ne è certo all’oscuro, «con l’intensificarsi della tensione diretta, specialmente nei paesi baltici ai confini della Russia», tutto questo «determina il rischio di un confronto nucleare diretto con la Russia».Se così stanno le cose, secondo Chomsky, si sono «assottigliati i margini per la sicurezza mondiale» e ci stiamo pericolosamente avvicinando a una catastrofe nucleare provocata dalla “mutual destruction”, la distruzione reciproca. Si è infatti «messa in moto una situazione in base alla quale la Russia, con l’intensificarsi delle provocazioni degli Stati Uniti, possa decidere di sferrare un “preemptive strike”», un colpo preventivo nucleare, «nella speranza di sopravvivere, dal momento in cui non ha più la capacità di un arsenale deterrente». Per Chomsky, «ci troviamo in una situazione gravissima e pericolosa», dove «il rischio è dato dalle reazioni imprevedibili di Trump», sempre più debole sul piano della politica interna, e quindi preoccupatissimo. «Un Trump che, se non sarà in grado di mantenere le promesse di cambio fatte alla “working class” a cui si è riferito in campagna elettorale (e che sarà la prima vittima della sua presidenza), prima o poi seguirà un dilagare di accuse di terrorismo islamico verso gli immigrati per giustificare misure repressive eccezionali e nuovi bandi. Prefabbricando prove di un attacco all’America, tanto da giustificare il ricorso all’arma nucleare». I missili in Siria e la superbomba Moab sganciata in Afghanistan? «Sono l’esemplificazione dell’America di Trump pronta a ritorsioni militari che superano ogni più perversa immaginazione. Un disegno politico che è prassi storica, per questo paese, sin dai tempi della Guerra Fredda».Donald Trump sa di non avere nessuna speranza di premiare i milioni di elettori che avevano creduto in lui. Per questo gioca l’ultima carta e indossa i panni dello sceriffo: per distrarre il pubblico, bombardando il mondo. Ma il gioco è pericoloso: tra una provocazione e l’altra, con il solito corredo di notizie false come le responsabilità di Assad sull’uso dei gas contro la popolazione siriana, la Russia stavolta potrebbe reagire. Mosca potrebbe sparare per prima i suoi missili a testata atomica contro l’America, prima che sia troppo tardi. Mai, nella sua storia, l’umanità ha corso un pericolo così grande. Lo afferma Noam Chomsky in un’intervista concessa al “Manifesto”, nella quale esprime la massima preoccupazione per i giorni che stiamo vivendo. La sua tesi: l’élite è semplicemente “impazzita”. E il terrore di perdere il potere può spingerla verso la catastrofe nucleare. Gli oligarchi sanno di non avere più alcuna possibilità di recuperare il consenso perduto, come dimostra il fallimento della loro ultima creazione illusionistica, Donald Trump. E allora premono sulla guerra: la vogliono davvero, come unica soluzione per mantenere il controllo totale sull’umanità.
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Craig Roberts: Putin si difenderà usando la bomba atomica
Fine del film: la Russia, insieme alla Cina, si sta preparando a subire un attacco nucleare da parte degli Usa. E non starà certo a guardare. E’ la conclusione cui giunge un allarmatissimo Paul Craig Roberts, di fronte all’escalation in atto: i missili sulla Siria, le minacce a Mosca e quelle rivolte alla Corea del Nord. «I dirigenti russi, che a differenza dei bugiardi occidentali dicono la verità, hanno dichiarato in modo chiaro che la Russia non combatterà più una guerra nel proprio territorio», scrive Craig Roberts. «I russi non potevano specificarlo più chiaramente: provocate una guerra, dicono, e vi distruggiamo nel vostro territorio». Aggiunge l’ex viceministro di Reagan: «Washington è così arrogante e perduta nella sua hybris, da non capire che anni di bugie cristalline sulle intenzioni e azioni della Russia e dei russi hanno convinto la Russia che Washington stia preparando le popolazioni degli Stati Uniti e dei popoli prigionieri di Washington, nell’Europa dell’Ovest e dell’Est, nonché in Canada, Australia e Giappone, a un primo colpo nucleare Usa contro la Russia». Bombe atomiche: «C’è l’Arnageddon nucleare all’orizzonte?».I già pubblicati piani di guerra degli Stati Uniti contro Pechino «hanno convinto la Cina della stessa cosa», scrive Craig Roberts sul suo blog, in un post tradotto da Pino Cabras per “Megachip”. «Se non è per la guerra, a che altro s’indirizza il cambiamento della dottrina di guerra negli Stati Uniti?». George W. Bush, ricorda l’analista americano, aveva abbandonato il ruolo “stabilizzatore” delle armi nucleari – l’equilibrio missilistico della deterrenza incrociata – per «spostarle da una funzione di rappresaglia a quella di un “primo attacco” nucleare». La nota teoria del “first strike”, un colpo missilistico a sorpresa. Poi, sempre Bush junior «si è tirato fuori dal trattato anti-missili balistici stipulato dal presidente Richard Nixon». Così, ora, «abbiamo siti missilistici Usa posizionati lungo i confini della Russia». In più, «raccontiamo ai russi la menzogna che i missili sono intesi a prevenire un attacco nucleare iraniano con missili balistici intercontinentali (Icbm) contro l’Europa». E questa menzogna, coninua Craig Roberts, «è raccontata e accettata dai burattini in Europa, nonostante il fatto, ben noto e incontestabile, che l’Iran non possieda né armi nucleari né Icbm». Ma i russi non lo accettano: «Sanno che è un’altra menzogna di Washington».Così, «quando la Russia ascolta queste flagranti, palesi, evidenti bugie, sa che Washington intende un attacco nucleare preventivo contro la Russia», scrive Craig Roberts. «La Cina ha raggiunto le stesse conclusioni». Quindi, ecco la situazione: «Due paesi con forze nucleari si aspettano che i pazzi furiosi che governano l’Occidente stiano per attaccarli con le armi nucleari». E cosa stanno facendo, Russia e Cina? «Si stanno preparando per distruggere il malefico Occidente, un assortimento di bugiardi e criminali di guerra, di cui il mondo non ne ha mai sperimentato di simili in precedenza». E sono gli Stati Uniti, cioè la “superpotenza” che «dopo 16 anni è ancora incapace di sconfiggere poche migliaia di Taliban armati di armi leggere in Afghanistan», a rischiare grosso. «Putin ha dimostrato straordinaria pazienza, riguardo alle menzogne e provocazioni di Washington». Ma, avverte Craig Roberts, il capo del Cremlino «non può rischiare la Russia fidandosi di Washington, di cui nessuno può fidarsi: né il popolo americano, né il popolo russo, né popolo alcuno». Allarme rosso, dunque, visto che i media mainstream – che Roberts chiama “presstitutes”, stampa prostituita al potere – sono tutti saltati «sul carro della propaganda dello Stato Profondo», insieme alla “sinistra” liberal-progressista, anch’essa «complice della marcia verso l’Armageddon».Perfettamente inutile aspettarsi qualche segnale positivo da parte di Donald Trump, che spedisce a Mosca il segretario di Stato, Rex Tillerson, con la faccia tosta di accusare la Russia dopo aver architettato l’attacco coi gas, in Siria, allo scopo di strappare Damasco alla tutela dei russi, vincitori sull’Isis armato dall’Occidente. «Un nuovo folle alla Casa Bianca ha sostituito il vecchio folle», conclude Craig Roberts. «Neanche 100 giorni in carica, e Trump è già un criminale di guerra insieme al resto del suo governo guerrafondaio». Stephen Cohen, «uno dei pochi americani rimasti informati sulla Russia», ha detto che Mosca si sta «preparando alla guerra calda», temendo che «i pazzi di Washington» intendano colpirla per primi con la bomba atomica. Insiste Craig Roberts: Russia e Cina spareranno i loro missili un minuto prima. E sarà la catastrofe. Pericolo massimo, anche e soprattutto perché nessuno ne parla. «Quando osservate il presidente e il governo a Washington, i governi europei (specie gli idioti a Londra), i governi canadese e australiano, potete solo meravigliarvi della totale stupidità della “leadership occidentale”. Stanno implorando la fine del mondo. E i puttanoni del giornalismo lavorano alacremente per trascinarci alla fine della vita». Craig Roberts è preoccupatissimo: «E’ in preparazione la scomparsa di enormi masse, tra i popoli occidentali. Ma non arrivano ad accorgersene, essendo protette dalla loro spensieratezza».Fine del film: la Russia, insieme alla Cina, si sta preparando a subire un attacco nucleare da parte degli Usa. E non starà certo a guardare. E’ la conclusione cui giunge un allarmatissimo Paul Craig Roberts, di fronte all’escalation in atto: i missili sulla Siria, le minacce a Mosca e quelle rivolte alla Corea del Nord. «I dirigenti russi, che a differenza dei bugiardi occidentali dicono la verità, hanno dichiarato in modo chiaro che la Russia non combatterà più una guerra nel proprio territorio», scrive Craig Roberts. «I russi non potevano specificarlo più chiaramente: provocate una guerra, dicono, e vi distruggiamo nel vostro territorio». Aggiunge l’ex viceministro di Reagan: «Washington è così arrogante e perduta nella sua hybris, da non capire che anni di bugie cristalline sulle intenzioni e azioni della Russia e dei russi hanno convinto la Russia che Washington stia preparando le popolazioni degli Stati Uniti e dei popoli prigionieri di Washington, nell’Europa dell’Ovest e dell’Est, nonché in Canada, Australia e Giappone, a un primo colpo nucleare Usa contro la Russia». Bombe atomiche: «C’è l’Arnageddon nucleare all’orizzonte?».
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Conflitto mondiale in arrivo? Meyssan: no, è solo teatro
E’ ufficiale: non si capisce più niente, della pericolosa tensione che sta scuotendo il mondo, con epicentro – tanto per cambiare – il Medio Oriente. Sul “Giornale”, Marcello Foa si allarma seriamente: Donald Trump avrebbe appena mobilitato 150.000 riservisti: «Per fare cosa? Un attacco in grande stile alla Siria? Colpire prima Damasco e poi Teheran? In Corea del Nord? Purtroppo la sciagurata svolta di Donald Trump – che si è arreso ai neoconservatori facendo propria l’agenda strategica che in campagna elettorale aveva promesso di combattere – autorizza qualunque ipotesi. Anche quella più drammatica e sconvolgente di una guerra alla Russia di Putin». Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, offre (da mesi) una lettura diversa: quella di Trump, «membro della cordata anti-Bush», sarebbe sempre stata soltanto una tragica farsa, che rivela la guerra interna, ai piani alti, tra gli oligarchi del pianeta: «Sanno che le risorse energetiche stanno finendo, quindi sgomitano per conquistarsi un posto in prima fila da cui sperano di attuare un Piano-B, ciascuno il suo». E, a proposito di “teatro”, dalla Siria un reporter come Thierry Meyssan avverte: l’offensiva anti-siriana, e quindi anti-russa, è solo apparente, affidata a missili “di cartone”, appositamente fuori bersaglio.Se sul suolo siriano sono potuti cadere 59 Tomahawk, scrive Meyssan su “Megachip”, è solo perché Mosca ha “spento” le batterie degli S-400, i suoi missili anti-missile, consentendo cioè a Trump di compiere la sua “performance teatrale”, che rappresenta un disperato tentativo di recuperare consenso interno, dopo i recenti rovesci. Non la pensa così Paul Craig Roberts, già viceministro di Reagan, che – in campagna elettorale – difese la dignità delle istanze di Trump (la distensione con la Russia) denunciando il bellicismo “politically correct” della Clinton, strumento dei “falchi” neocon. Per Craig Roberts, quella di Trump non è cosmesi tattica: si tratta di una svolta vera e propria, che dimostrerebbe la resa del neopresidente all’establishment di Washington, quello che lavora per il “regime change” anche a Mosca, dove spera di rovesciare Putin, che è sotto assedio da anni: la guerra in Siria, quella in Ucraina, le sanzioni alla Russia. Meyssan, al contrario, sostiene che la partita non è ancora chiusa: le «troppe, strane incongruenze» dell’affaire siriano dimostrerebbero che il gruppo di Trump, sottobanco, sta giocando una sfida doppia: cercare di tener buoni i neocon, con concessioni di facciata per salvare la sua poltrona (e forse la sua stessa vita), e sparigliare le carte mettendo in crisi, alla fine, il “partito dell’Isis”, che ha il cervello a Washington e i tentacoli in Medio Oriente.Secondo Meyssan, Trump non ha «improvvisamente cambiato bandiera». Al contrario, asarebbe in corso una complessa pretattica. Lo dimostrerebbero svariati indizi. Tanto per cominciare, al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, l’argomento di un attacco chimico perpetrato da Damasco non era sostenuto dal rappresentante del segretario generale, che infatti ha sottolineto «l’impossibilità, in questa fase, di sapere come questo attacco avrebbe potuto aver luogo». L’unica fonte sono gli “Elmetti Bianchi”, «vale a dire un gruppo di Al Qaeda a cui l’M16 britannico sovrintende ai fini della sua propaganda». Inoltre, aggiunge Meyssan, «tutti gli esperti militari sottolineano che i gas da combattimento devono essere dispersi tramite tiri d’obice e mai, assolutamente mai, tramite bombardamenti aerei». L’attacco americano alla base siriana? «Si è caratterizzato per la sua brutalità apparente: i 59 missili Bgm-109 Tomahawk avevano una capacità combinata equivalente a quasi il doppio della bomba atomica di Hiroshima. Tuttavia, l’attacco è stato anche caratterizzato dalla sua inefficienza: sebbene vi siano stati dei martiri caduti nel tentativo di spegnere un incendio, i danni sono risultati essere così poco importanti che la base funzionava nuovamente già all’indomani».Per Meyssan, è inevitabile constatare sia il fatto questa operazione «è solo una messa in scena: in questo caso, possiamo capire meglio il fatto che la difesa aerea russa non abbia reagito». Ciò implica che «i missili anti-missile S-400, il cui funzionamento è automatico, sono stati disattivati volontariamente in anticipo». Motivazione? «Tutto è accaduto come se la Casa Bianca avesse immaginato uno stratagemma inteso a condurre i suoi alleati in una guerra contro gli utilizzatori di armi chimiche, vale a dire contro i jihadisti. Infatti, fino ad oggi, secondo le Nazioni Unite, i soli casi documentati di uso di tali armi in Siria e in Iraq sono stati attribuiti a loro». Nel corso degli ultimi tre mesi, continua Meyssan, gli Stati Uniti hanno rotto con la politica del repubblicano George Bush Jr. (che firmò la dichiarazione di guerra del “Syrian Accountablity Act”) e di Barack Obama (che sostenne le “primavere arabe”, ossia la riedizione della “Grande rivolta araba del 1916”, organizzata dai britannici). «Tuttavia – aggiunge Meyssan – Donald Trump non era riuscito a convincere i suoi alleati, in particolare tedeschi, britannici e francesi». E ora, «saltando su quel che sembra essere un cambiamento radicale nella politica Usa, Londra ha fatto molte dichiarazioni contro la Siria, la Russia e l’Iran. E il suo ministro degli esteri, Boris Johnson, ha cancellato la sua visita a Mosca».Ma attenzione, ragiona Meyssan: «Se Washington ha cambiato la sua politica, per quale motivo il segretario di Stato Rex Tillerson ha tuttavia confermato la sua visita a Mosca? E perché dunque il presidente Xi Jinping, che si trovava a essere ospite del suo omologo statunitense durante il bombardamento di Chayrat, ha reagito in modo così molle, laddove il suo paese ha fatto uso per ben 6 volte del suo diritto di veto al fine di proteggere la Siria al Consiglio di sicurezza?». Non solo. «In mezzo a questo unanimismo oratorio e a queste incongruenze di fatto – osserva Meyssan – il vice consigliere del presidente Trump, Sebastian Gorka, moltiplica i messaggi che vanno in direzione contraria. Assicura che la Casa Bianca considera sempre il presidente Assad come legittimo e i jihadisti come il nemico». Gorka, spiega Meyssan, «è uno stretto amico del generale Michael T. Flynn che aveva concepito il piano di Trump contro i jihadisti in generale e Daesh in particolare». Come dire: non fatevi incantare dal “teatro” in corso: la verità è molto lontana dalla versione che campeggia nelle prime pagine. All’Onu, la Bolivia ha persino formulato il sospetto che l’attacco coi gas, in Siria, non sia neppure avvenuto. Tempo fa, la Russia esibì la sua potenza missilistica con il lancio di missili Kalibr, supersonici e “invisibili”: partiti da navi nel remoto Mar Caspio, centrarono al millimero tutti gli obiettivi. Il 7 aprile, dal vicinissimo Mediterraneo, gli Usa hanno sparato 59 Tomahawk su una base aerea, senza nemmeno danneggiarne la pista. Strano, no?E’ ufficiale: non si capisce più niente, della pericolosa tensione che sta scuotendo il mondo, con epicentro – tanto per cambiare – il Medio Oriente. Sul “Giornale”, Marcello Foa si allarma seriamente: Donald Trump avrebbe appena mobilitato 150.000 riservisti: «Per fare cosa? Un attacco in grande stile alla Siria? Colpire prima Damasco e poi Teheran? In Corea del Nord? Purtroppo la sciagurata svolta di Donald Trump – che si è arreso ai neoconservatori facendo propria l’agenda strategica che in campagna elettorale aveva promesso di combattere – autorizza qualunque ipotesi. Anche quella più drammatica e sconvolgente di una guerra alla Russia di Putin». Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, offre (da mesi) una lettura diversa: quella di Trump, «membro della cordata anti-Bush», sarebbe sempre stata soltanto una tragica farsa, che rivela la guerra interna, ai piani alti, tra gli oligarchi del pianeta: «Sanno che le risorse energetiche stanno finendo, quindi sgomitano per conquistarsi un posto in prima fila da cui sperano di attuare un Piano-B, ciascuno il suo». E, a proposito di “teatro”, dalla Siria un reporter come Thierry Meyssan avverte: l’offensiva anti-siriana, e quindi anti-russa, è solo apparente, affidata a missili “di cartone”, appositamente fuori bersaglio.
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Buoni e Cattivi, la fiaba della guerra per il Fatto Quotidiano
«Uno spettro si aggira in Medio Oriente. E’ quello della tentazione. La tentazione, cioè, della guerra. Non più “prove di Terza Guerra Mondiale”, come è stato detto. Lo scenario è drammatico, i primi a capirlo sono i mercati finanziari che infatti hanno cominciato a soffrire». A scrivere è Leonardo Coen, sul “Fatto Quotidiano”, all’indomani del raid missilistico ordinato da Trump sulla base area siriana da cui, secondo gli Usa, sarebbero decollati aerei con bombe al gas Sarin destinate a far strage della popolazione di Idlib. Non ci sono ancora prove certe: per il “Fatto Quotidiano” non è importante? Poi, continua Coen, «ad inquietare e ricordare come certe situazioni di oggi assomiglino molto all’inanità del 1938 verso Hitler e alle sue mire d’espansione, c’è il silenzio di Cina ed Europa, che sembrano convitati di pietra». Suggestivo parallelismo: il giornalista del “Fatto” paragona nientemeno che Adolf Hitler, fondatore del nazismo e capo dell’allora maggior potenza militare europea, al presidente di un piccolo paese mediorientale come la Siria, che – come è a tutti noto (tranne che al “Fatto Quotidiano”?) – da cinque anni tenta di sopravvivere all’assalto di sanguinarie milizie terroriste finanziate e protette dall’Occidente.Cina ed Europa, i “convitati di pietra”, secondo Coen «si accontentano di formali condanne appellandosi ai diritti umani». Mosca e Washington? «Per ora si confrontano, ma ancora non si affrontano. Non possono. E’ un braccio di ferro troppo rischioso. E forse, sia per gli Stati Uniti, sia per la Russia, è venuto il tempo di liquidare il dittatore di Damasco e il suo regime criminale». Voilà: il presidente (eletto) diventa “dittatore”, naturalmente a capo di un “regime criminale”: nulla a che vedere con gli altri regimi, amici dell’Occidente, notoriamente campioni in tema di diritti umani: Giordania, Arabia Saudita, Qatar, Turchia e via inorridendo. Ma forse non è il caso di ricordarlo ai lettori del “Fatto”. Meglio il perfido Bashar Assad, che «per la Russia, è un alleato che la scredita e la impiomba». E per l’America, è «l’occasione buona per ricollocarsi in Medio Oriente, e dimostrare che non si è abbassata la guardia». Ricollocarsi in Medio Oriente? Viene da chiedersi dove fosse, Leonardo Coen, quando si scatenavano le “rivoluzioni colorate” in tutti i paesi arabi dopo lo storico discorso di Obama al Cairo. Dov’era, Coen, quando gli americani spianavano la Libia e facevano scannare Gheddafi? Non l’hanno vista, alla redazione del “Fatto”, la foto-ricordo di John McCain in Siria, in intimità con il “califfo” Al-Baghdadi?La narrazione che il “Fatto” offre in questo caso sembra di tipo lunare, genere fantasy. «Così, Trump minaccia. E agisce. Putin minaccia, ma non può agire. Entrambi, giocano una mano di poker: per capire chi bluffa di più. Il magnate americano rischia il salto nel buio. Putin sventola il pericolo del suo “ombrello” militare in Siria. La flotta del Mar Nero è in preallarme. Quella del Baltico, pure. I missili di Kaliningrad, l’enclave russa tra Polonia e Lituania – cioè in piena Unione Europea – sono puntati sulle capitali del Vecchio Continente. L’Alleanza Atlantica è già in allerta». E’ tutto vero, naturalmente. Ma è come spiegare la pioggia senza citare le nuvole. Primo round: nel 2013 gli Usa cercano di far cadere Assad per poter poi minacciare direttamente l’Iran, ma Putin glielo impedisce schierando la flotta russa a difesa della Siria. Secondo round: Washington “risponde” organizzando il golpe in Ucraina con l’intento di sfrattare Mosca dal Mar Nero, ma – di nuovo – Putin riesce a tenersi la Crimea. Terzo round: furioso per le sconfitte a catena, Obama dispone un mostruoso dispiegamento militare in Est Europa a ridosso della frontiera russa, senza precedenti nella storia recente. Al che, ai russi non resta – come contromossa difensiva – che la base missilistica di Kalilingrad. Missili russi puntati sull’Europa? Mai quanto quelli che l’America ha puntato contro la Russia, trasformando la Romania in una rampa di lancio. Possibile che ai lettori del “Fatto” non interessi?«In verità», continua Coen, «Trump ha riscoperto – o meglio, il Pentagono – il ruolo di gendarme globale degli Stati Uniti». Trump, il Pentagono: i Buoni. E Putin, il Cattivo? «E’ rimasto platealmente vittima delle sue ambizioni imperiali», scrive Coen, come se, evidentemente, le uniche “ambizioni imperiali” ammissibili – e davvero imperiali, lontane mille miglia dalle proprie frontiere – fossero quelle americane. Il presidente russo è rimasto addirittura «invischiato nelle complesse trame che ha tessuto per riassegnare al suo paese il ruolo di superpotenza perduto dopo la caduta del Muro di Berlino e lo sbriciolamento dell’Unione Sovietica». Non si premura di rammentare ai suoi lettori, il giornalista del “Fatto”, che – prima di mettere il naso fuori dalla Russia – Putin ha dovuto innanzitutto spegnere l’incendio della Cecenia, acceso dalla Cia, e poi quello dell’Ossezia del Sud, devastata dalla Georgia su mandato di George W. Bush. Due focolai micidiali: uno nella Federazione Russa, l’altro sulla porta di casa. Succedeva nel 2008: non così tanto tempo fa, specie se si hanno a cuore le fatali vicende del lontano 1938.“Il Fatto”, però, non è prodigo di spiegazioni. Sembra preferire il racconto lineare, unilaterale e semplificato, rassicurante. «In apparenza, dunque, l’imprevedibile Donald ha cambiato di colpo tattica nei confronti dell’amico Vladimir. E ha ritirato la mano tesa, che tanto aveva turbato i sonni dei patrioti Usa». I missili di Trump, continua Coen, «hanno sparigliato le carte della grande partita internazionale: il mondo si è diviso in due, come ai tempi della Guerra Fredda. “Sostegno totale” degli alleati degli Stati Uniti. Condanna dei suoi avversari. Le cancellerie hanno rispolverato il lessico dei blocchi contrapposti». Leonardo Coen sembra pefettamente al corrente dell’accaduto: «Assad, insistono i russi, è innocente (per forza: sono loro che l’armano e lo proteggono). I gas, una balla. I russi negano l’evidenza e le testimonianze: tutto il mondo ha visto gli effetti del gas. E questo li ha moralmente isolati». Ecco, infatti: tutto il mondo ha visto gli effetti dei gas, ma nessuno al mondo, per ora, può provare che li abbia sganciati Assad. Solo che, a quanto pare, l’identità del vero killer non è importante. Nemmeno se, come già accadde nel 2013, poi si scoprisse che l’assassino non è “il dittatore”, ma i suoi avversari?«Certo – concede Coen – la politica e la guerra se ne fregano dell’etica e della morale. Ma al tempo dell’informazione istantanea e globale, la menzogna tanto può essere utile – vedi in caso di elezioni – quanto può diventare micidiale, con le immagini cruente ed atroci dei bimbi sarinizzati». Vero, anche questo: tutto dipende però da chi la impugna, “la menzogna”. Quanto al «nuovo repentino cambio d’atteggiamento di Trump», anche su questo Leonardo Coen ha le idee chiarissime: il presidente americano «ha dovuto arrendersi allo stato delle cose: gli interessi geopolitici Usa non collimano con quelli russi». Perlomeno, «non fin quando al Cremlino ci sarà il clan putiniano, nemico della libertà d’opinione, e il potere resterà saldo in mano agli ex uomini del Kgb». E così l’album dei Cattivi è al completo. E se i russi – quasi 150 milioni di persone – sostengono all’85% un capoclan del Kgb, significa semplicemente che sono cretini? Centocinquanta milioni di cretini?Ma non è tutto: Coen informa i suoi lettori che «Trump ha cozzato contro il mondo reale: quello dei fatti, non delle verità truccate dal suo guru Stephen Bannon, ed ex direttore del sito dell’ultradestra suprematista Breitbart News, messo (finalmente) in un angolo». Bannon, altro membro d’onore del club dei Cattivi, era – per inciso – lo stratega della distensione con Mosca: via lui, infatti, ecco i missili (buoni, ovviamente). Ma, “sistemato” Bannon, l’offensiva (giornalistica) nei confronti di Putin non è ancora esaurita: «Pensava di essere il più astuto del reame, di poter contare per quel che riguardava la Siria di una certa libertà di manovra, forte anche del fatto che in Occidente c’erano movimenti estremisti anti-Ue a lui favorevoli. Invece – scrive Coen – è rimasto intrappolato dalla sua sicumera». Ben gli sta: «I gas che hanno ammazzato decine di bimbi a Khan Sheikhoun hanno dissipato in pochi minuti il paziente lavorìo militare e diplomatico del presidente russo». Non solo: «Persino il nuovo alleato turco Erdogan lo ha clamorosamente contraddetto, invocando addirittura la collera di Allah per l’ignobile azione attribuita ad Assad, o a qualche suo generale, il che non cambia la sostanza». Erdogan, cioè la Turchia (Nato) che ha protetto l’Isis nell’invasione della Siria: nemmeno questo ai lettori interessa?In più, Coen esibisce altre granitiche certezze sul bombardamento con i gas: «Gli americani avevano acquisito le prove – stavolta non inventate da Bush e Blair come al tempo della guerra in Iraq ma documentate dai satelliti – che l’attacco chimico proveniva da un aereo siriano». Le prove, ecco: ma dove sono? Ok, le hanno “acquisite gli americani”. Come le altre volte, in Siria e in Iraq? No, stavolta sono prove vere, “documentate dai satelliti”. Garantisce il “Fatto Quotidiano”. Che si diverte, ancora, a spese di Putin: mentre i Buoni “acquisivano le prove”, dunque, «lo zar si affannava a dire che si trattava di “fake news”, di balle». Chiosa Coen: «Beffardo contrappasso, l’ex tenente colonnello del Kgb che denuncia la disinformatija americana…». E ancora: «Assad è il responsabile di tutto ciò». Chi lo sostiene? Lo dicono «all’unisono» Hollande e la Merkel. Una garanzia: Hollande ha silenziato le indagini su Charlie Hebdo imponendo il segreto militare, dopo che erano emersi collegamenti tra il commando dell’Isis e i servizi francesi, mentre la Merkel, risultata coinvolta nel golpe neonazista di Kiev, ha approvato il piano Obama per militarizzare le frontiere europee con la Russia.«I missili Usa – scrive ancora Coen – sono “un avvertimento”, e pure una forma di “condanna” del “regime criminale” di Assad». La situazione: «Con Washington stanno Arabia Saudita e Giappone, Israele offre il suo “totale” sostegno, sperando che “questo messaggio forte” possa essere inteso da Teheran e da Pyongyang, ha dichiarato il premier Benyamin Netanyahu», campione del mondo in carica riguardo all’uso di armi di distruzione di massa sulla popolazione civile, il fosforo bianco sganciato su Gaza (oltre 1.300 morti, secondo l’Onu, inclusi donne e bambini). E la Turchia, cioè la base logistica settentrionale dell’operazione-Isis contro Damasco? «Ankara vorrebbe una zona “d’esclusione aerea” in Siria, considera che i missili siano stati una buona medicina». Meglio tornare al lessico calcistico: «Il Pentagono ha battuto il Cremlino? La “punizione” americana per la strage provocata dall’attacco chimico che ha un valore soprattutto dimostrativo, trova consenso nella pubblica opinione statunitense e anche in quella mondiale, scossa dall’atrocità del tiranno di Damasco. Assad si è scavato la fossa». Vinceranno i Buoni, è ovvio. E buonanotte, a tutti i lettori. Sogni d’oro.«Uno spettro si aggira in Medio Oriente. E’ quello della tentazione. La tentazione, cioè, della guerra. Non più “prove di Terza Guerra Mondiale”, come è stato detto. Lo scenario è drammatico, i primi a capirlo sono i mercati finanziari che infatti hanno cominciato a soffrire». A scrivere è Leonardo Coen, sul “Fatto Quotidiano”, all’indomani del raid missilistico ordinato da Trump sulla base area siriana da cui, secondo gli Usa, sarebbero decollati aerei con bombe al gas Sarin destinate a far strage della popolazione di Idlib. Non ci sono ancora prove certe: per il “Fatto Quotidiano” non è importante? Poi, continua Coen, «ad inquietare e ricordare come certe situazioni di oggi assomiglino molto all’inanità del 1938 verso Hitler e alle sue mire d’espansione, c’è il silenzio di Cina ed Europa, che sembrano convitati di pietra». Suggestivo parallelismo: il giornalista del “Fatto” paragona nientemeno che Adolf Hitler, fondatore del nazismo e capo dell’allora maggior potenza militare europea, al presidente di un piccolo paese mediorientale come la Siria, che – come è a tutti noto (tranne che al “Fatto Quotidiano”?) – da cinque anni tenta di sopravvivere all’assalto di sanguinarie milizie terroriste finanziate e protette dall’Occidente.