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Archivio del Tag ‘Muhammar Gheddafi’

  • Golpe o guerra civile: il regime che vuole cancellare Trump

    Scritto il 06/11/20 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Da noi imperversano, tipo bombardamento di Dresda, le fake news. Le rivediamo finalizzate a seminare terrore e assembramenti in ospedali e pronti soccorsi, tramite fake contagiati e fake decessi da fake Covid (fake=falso). Decessi autentici, invece, da intubazioni, ventilazioni, ovviamente in assenza coatta di parenti, e cure salvavita negate agli oncologici, diabetici, infartuati e depressi. E tutti, convinti che i governanti governino per noi, i medici medichino per noi e i media ci diano notizie vere, abboccano e si adeguano. Negli Usa, operando gli stessi mandanti ed eseguendo gli stessi sicari, la differenza la fa un presidente il quale, bene o male che gli vogliate, tutta questa pantomima la contrasta e ridicolizza. Ma il senso profondo di tutto questo pochi lo sanno. Basterebbe l’eresia di un presidente anti-Cupola, degna dei Catari contro il Papa, perché i signori del Nuovo Ordine Mondiale digital-pandemico, ricorrendo a personaggetti come Greta Thunberg, o a personaggioni come Bergoglio, o ad altri chicchirichì del pollaio, lo sostituiscano come “male assoluto” addirittura a Russia, Cina, Iran. E, nella congiuntura, alla maledetta idrossoclorochina ammazza-virus e vaccino.

  • La fine del mondo, per Severgnini: se Trump viene rieletto

    Scritto il 03/11/20 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    «Se Donald Trump viene rieletto, significa che l’America ha perso la sua speciale innocenza, quella che in tanti ammiravamo, e ha fatto la sua fortuna. Quella che sbuca nei discorsi di Barack Obama e nelle canzoni di Bruce Springsteen, ma era presente anche nell’intuizione di Ronald Reagan o nel decoro coraggioso di John McCain». Parole che Beppe Severgnini, giornalista famosissimo per acuminati bestseller come “Interismi”, ovvero “Il piacere di essere neroazzurri”, ha pubblicato il 1° novembre 2020 sul “Corriere della Sera”, giornale di cui era vicedirettore un certo Federico Fubini, che lo scorso anno ha ammesso di aver nascosto la strage dei bambini in Grecia, provocata dall’austerity, per non compromettere il prestigio dell’Unione Europea. Dalla Luna, o dal pianeta remoto dal quale Severgnini scrive, la Terra è così semplicisticamente infantile da apparire bianca o nera, senza gradazioni cromatiche: i buoni di qua, i cattivi di là. O meglio, il cattivo è uno solo: l’Uomo Nero. Un mostro orribile, che «ha dimostrato la sua inadeguatezza – politica, economica, culturale, morale, psicologica – a ricoprire un ruolo tanto importante».
    Dalla galassia da cui scrive Severgnini, però, a colpire davvero sono i buoni, presentati come i testimonial di una virtù teoricamente incompatibile con la politica: l’innocenza. Il primo è Barack Obama, Premio Nobel alle Buone Intenzioni: l’uomo che il lunedì firmava ordini di morte, esecuzioni remote affidate ai missili montati sui droni. Obama, il “primo presidente nero” che in otto anni non ha fatto niente per riformare la polizia americana, sradicandone i comportamenti razzisti. E’ il “commander in chief” che nel 2011 ha rivendicato l’uccisione di un anziano, in Pakistan, sostenendo – di fronte al mondo – che si trattasse di Osama Bin Laden: la salma crivellata di colpi, trasportata su una portaerei e poi inabissata in mare, lontano dagli occhi e dai fotografi, dopo un (inesistente) “rito islamico”. L’innocente Obama, il buono: quello che ha scatenato focolai di guerra in mezzo mondo, assediato la Russia e gestito il golpe colorato in Ucraina, innescato le ambigue primavere arabe, promosso l’assassinio di Gheddafi. Sempre lui, Obama, è l’uomo che ha spedito in Siria l’altro grande innocente citato da Severgnini, quel John McCain il cui «decoro coraggioso» evidentemente traspare dalle foto che lo ritraggono in compagnia dei futuri tagliagole dell’Isis, incluso il tristemente famoso Al-Baghdadi, rilasciato poco prima dal centro di detenzione americano per jihadisti.
    Ai tempi del turbo-neoliberista Ronald Reagan – altro innocente, avvistato dal pianeta di Severgnini – i dissidenti dell’Unione Sovietica guardavano ancora all’America come porto sicuro; all’epoca dell’innocente Obama, invece, un ragazzo di nome Edward Snowden ha dovuto scappare in Russia, dopo aver rivelato lo spionaggio orwelliano di massa eseguito dalla più vasta agenzia statunitense di intelligence, la Nsa. Strana innocenza, quella che si nasconde nella caccia all’uomo. Ma dev’essere proprio difettosa, la visuale, dal pianeta di Severgnini, se è vero che – parlando di America e di musica pop – si vede benissimo la purezza di Bruce Springsteen ma non quella, ancora più lucida, del suo maestro riconosciuto, Bob Dylan, decano di tutti gli aedi contemporanei e autore del brano-monumento (”Murder Most Foul”) in cui si rappresenta precisamente la mitica “perdita dell’innocenza”, il 22 novembre 1963, con lo scioccante omicidio di John Fizgerald Kennedy, macellato a Dallas sotto il naso dell’apparato di sicurezza più efficiente del pianeta. Analogo spettacolo – l’innocenza massacrata in mondovisione, al cospetto di autorità distratte – quando vennero giù le Torri Gemelle: ma non c’è pericolo che le colonne di fumo, insieme al puzzo della menzogna, potessero essere individuate dal telescopio del nerazzurro Servergnini.
    Dovettero arrossire, i custodi dell’innocenza, quando Colin Powell agitò la sua fialetta di profumo alle Nazioni Unite, o quando le televisioni mostrarono i poveri cormorani inzuppati di petrolio e il pianto della falsa infermiera (in realtà, figlia dell’ambasciatore del Kuwait), in lacrime per la strage dei neonati – mai avvenuta – da parte dei brutali soldati di Saddam. Veri e propri orchi sanguinari: dipinti come untermenschen, sotto-uomini hitleriani, né più né meno come oggi viene presentato il presidente uscente degli Stati Uniti d’America, l’uomo che non si è piegato al “China-virus” e che ha trascorso quattro anni – da vero malvagio qual è – a ritirare truppe, evitare provocazioni, rinunciare a guerre, disinnescare crisi grottesche come quella con la Corea del Nord. «Se Donald Trump viene rieletto, vuol dire che gli Usa hanno scelto di voltare le spalle al pianeta», scrive l’interista astronautico, a cui è riuscita indigesta l’evidente antipatia dell’Uomo Nero per i kapò di Bruxelles, i loro mandanti e la loro sicurezza-colabrodo, in un’Europa trasformata in purgatorio eterno, dove – proprio adesso, guardacaso – si sono rifatti avanti (in Francia, in Austria) i manovali dell’orrore che, qualche anno fa, avevano strettissime relazioni con i gentiluomini siriani e iracheni coi quali si intratteneva amabilmente l’innocente McCain. Bella lezione astronomica, quella impartita ai poveri terrestri: i Trump e i Biden passano, i Severgnini invece restano.
    (Giorgio Cattaneo, “La fine del mondo, per Servergnini: se Trump viene rieletto”, dal blog del Movimento Roosevelt del 3 novembre 2020).

    «Se Donald Trump viene rieletto, significa che l’America ha perso la sua speciale innocenza, quella che in tanti ammiravamo, e ha fatto la sua fortuna. Quella che sbuca nei discorsi di Barack Obama e nelle canzoni di Bruce Springsteen, ma era presente anche nell’intuizione di Ronald Reagan o nel decoro coraggioso di John McCain». Parole che Beppe Severgnini, giornalista famosissimo per acuminati bestseller come “Interismi”, ovvero “Il piacere di essere neroazzurri”, ha pubblicato il 1° novembre 2020 sul “Corriere della Sera”, giornale di cui era vicedirettore un certo Federico Fubini, che lo scorso anno ha ammesso di aver nascosto la strage dei bambini in Grecia, provocata dall’austerity, per non compromettere il prestigio dell’Unione Europea. Dalla Luna, o dal pianeta remoto dal quale Severgnini scrive, la Terra è così semplicisticamente infantile da apparire bianca o nera, senza gradazioni cromatiche: i buoni di qua, i cattivi di là. O meglio, il cattivo è uno solo: l’Uomo Nero. Un mostro orribile, che «ha dimostrato la sua inadeguatezza – politica, economica, culturale, morale, psicologica – a ricoprire un ruolo tanto importante».

  • Nucleare francese: c’è un segreto, dietro alla Torino-Lione?

    Scritto il 17/7/20 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Vuoi vedere che c’è il nucleare francese, dietro alla linea Tav Torino-Lione? Lo ipotizza Mitt Dolcino, interrogandosi sul “mistero” della grande opera più inutile d’Europa: perché insistere nel volerla realizzare a tutti i costi, visto che i maggiori trasportisti (da Marco Ponti in giù) sostengono che sia sostanzialmente superfua? Opera comunque da completare perché ormai iniziata? Non è esatto: sono state realizzate solo le gallerie accessorie, non il tunnel da 57 chilometri che collegherebbe Italia e Francia (doppione perfetto del Traforo del Frejus, sempre in valle di Susa, appena riammodernato – costo, 400 milioni di euro – per tenderlo idoneo al passaggio di treni con a bordo Tir e container “navali” della massima pezzatura). Perché allora incaponirsi tanto nel voler gettare decine di miliardi – in un momento come questo, poi – per una infrastruttura da più parti considerata obsoleta e destinata a restare un binario morto? L’interno del Massiccio dell’Ambin, la montagna che verrebbe traforata, «è saturo di uranio, torio e quindi di radon, con problemi per la salute sia nello scavo che per lo smaltimento della roccia scavata», scrive Dolcino, richiamandosi ai dati ufficiali, geologici, diffusi dal Politecnico di Torino.
    «Nel caso di completamento dell’opera nascerebbe il problema di dover smaltire le migliaia se non milioni di tonnellate di roccia uranifera estratta dal centro della montagna». A dire la verità, aggiunge il blogger, lo studio del Politecnico è ridonante: già negli anni ’70 e ’80 del Novecento la stessa Agip aveva condotto scavi in quell’area, con possibilità di ottenere concessioni per l’estrazione di uranio e torio. «Poi non se ne fece nulla, anche a causa dell’abbandono del nucleare da parte dell’Italia dopo Chernobyl». Proprio la presenza di provate grandi vene di uranio e torio – aggiunge Mitt Dolcino – fanno pensare che sia proprio la Francia a essere interessata all’estrazione del minerale radioattivo, da utilizzare nelle sue centrali, grazie alla roccia estratta dalla galleria. «Ricordate che oggi l’uranio la Francia lo ottiene in larga parte dal Niger, paese sempre più ambito da altri paesi, oltre ad essere stato messo sotto la lente di ingrandimento da parte del governo gialloverde per il cripto-colonialismo francese». Proprio in Niger, aggiunge Dolcino, i francesi sono presenti con la Legione Straniera sin da prima della deposizione di Gheddafi. Fece notizia l’Operazione Barkhane, che si sospetta sia servita a «far giungere immigrati dall’Africa profonda verso le coste libiche, per mandarli finalmente in Italia ma tenendo le frontiere francesi chiuse».
    Evidente il possibile obiettivo del neo-colonialismo francese: «Destabilizzare l’Italia, facendo leva sui cooptati italiani a libro paga di Parigi, per poi conquistare la Penisola come ai tempi di Napoleone». Negli ambienti scientifici, continua Mitt Dolcino, circola da tempo la voce che la Francia «abbia già iniziato la costruzione del laboratorio nucleare sotto il Fréjus, già pianificato da tempo: infatti il tunnel di servizio servirebbe proprio a questo». Le gallerie accessorie per la Torino-Lione sarebbero in realtà infrastrutture pensate per il nucleare francese? «A quando – si domandava Mitt Dolcino, già un anno fa – una richiesta di chiarimenti, nell’aula del Parlamento, sulla presenza di un laboratorio nucleare francese sotto il Fréjus, con scavo pagato dagli italiani? Perché tutto tace? Perché nessuno fa domande ufficiali in riguardo?». Ancoera: «Se la Francia pretende che l’Italia paghi per permettere a Parigi di fare un laboratorio nucleare sotto una grande montagna italiana, evidentemente non è stato chiarito che, nel caso, dovranno contribuire in modo molto più sostanzioso di quanto previsto». In attesa di risposte – mai pervenute – resta un mistero l’insistenza sui cantieri della Torino-Lione, senza che nessuno abbia finora spiegato, in modo convincente, l’utilità di una maxi-opera così costosa e contestata.

    Vuoi vedere che c’è il nucleare francese, dietro alla linea Tav Torino-Lione? Lo ipotizza Mitt Dolcino, interrogandosi sul “mistero” della grande opera più inutile d’Europa: perché insistere nel volerla realizzare a tutti i costi, visto che i maggiori trasportisti (da Marco Ponti in giù) sostengono che sia sostanzialmente superflua? Opera comunque da completare perché ormai iniziata? Non è esatto: sono state realizzate solo le gallerie accessorie, non il tunnel da 57 chilometri che collegherebbe Italia e Francia (doppione perfetto del Traforo del Frejus, sempre in valle di Susa, appena riammodernato – costo, 400 milioni di euro – per tenderlo idoneo al passaggio di treni con a bordo Tir e container “navali” della massima pezzatura). Perché allora incaponirsi tanto nel voler gettare decine di miliardi – in un momento come questo, poi – per una infrastruttura da più parti considerata obsoleta e destinata a restare un binario morto? L’interno del Massiccio dell’Ambin, la montagna che verrebbe traforata, «è saturo di uranio, torio e quindi di radon, con problemi per la salute sia nello scavo che per lo smaltimento della roccia scavata», scrive Dolcino, richiamandosi ai dati ufficiali, geologici, diffusi dal Politecnico di Torino.

  • Conquistare il mondo: l’Occidente spara, la Cina compra

    Scritto il 31/5/20 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Se dovessimo sintetizzare ciò che accomuna tutti gli imperi nella storia dell’umanità, potremmo indicare questi punti fermi: la volontà di conquistare il mondo intero e una scusa per poterlo conquistare. Inoltre, chi voleva provare a conquistarlo, ha sempre avuto due problematiche da risolvere: la necessità di tenere sotto controllo una grande massa di persone (le masse, infatti, necessitano di essere controllate, altrimenti il caos e il disordine sociale sarebbe ingestibile); da qui scaturisce un’ulteriore esigenza: la necessità di avere un nemico per tenere unito un popolo, Stato, nazione, o altri gruppi sociali, o di dare uno scopo. L’Impero Romano, è noto, voleva conquistare tutto il mondo conosciuto; i Romani realizzarono uno dei più grandi imperi della storia. Il popolo veniva tenuto buono tramite il cosiddetto “panem et circenses” (valido ancora oggi con strumenti come il calcio, il baseball in Usa, la Tv, ecc.). Il nemico era costituito dai barbari che, in quanto esseri inferiori, potevano essere assoggettati. Alessandro Magno voleva voleva conquistare il mondo, e la scusa era quella di imporre ai territori conquistati la cultura avanzata e superiore dell’Antica Grecia (in realtà pare che conoscesse molto poco la cultura greca, e che fosse uno studente mediocre, allievo del grande Aristotele).
    Gengis Khan divenne il capo di una serie di tribù mongole disunite; aveva bisogno di un nemico, per tenere coesa la gente sotto di lui, e si diede da fare per conquistare tutto il conquistabile, massacrando e distruggendo tutti i popoli che decise di sottomettere. Dopo aver sconfitto i cinesi giurò di unificare tutto il mondo sotto un unico impero. Fondò l’impero più vasto mai conosciuto sulla terra, ma anche il più breve. Uno dei suoi successori, Kublai Khan, conquistò anche la parte merdionale la Cina ma adottò un mezzo singolare, l’unico possibile date le caratteristiche del territorio e della popolazione cinese: si cinesizzò, adottò gli usi e costumi cinesi, e quindi molti non sanno che la dinastia Yuan, che resse la Cina attorno al 1200, era in realtà una dinastia mongola, non cinese. Tamerlano, condottiero turco-mongolo, è considerato uno dei più grandi conquistatori della storia, il cui impero comprendeva l’Asia occidentale e centrale. Si considerava erede di Gengis Khan e aspirava ad emularne le gesta anche lui volendo “conquistare il mondo”. La sua versione dell’Islam, bigotta, crudele e violenta, poco si conciliava con i precetti dell’Islam o la dottrina Sufi dell’amore: egli si considerava la frusta di Allah, mandato a punire gli emiri per le loro ingiustizie. La scusa per invadere l’India nel 1398 fu, ad esempio, che il sultano era troppo tollerante con gli indù.
    L’Unione Sovietica voleva fare la stessa cosa imponendo il comunismo alle nazioni dell’Europa orientale; il capitalismo aveva fatto il suo corso, ed era ora di instaurare un mondo nuovo. Per fare questo utilizzarono due metodi: l’invasione militare, quando potevano, e il tentativo di conquistare gli altri paesi condizionandone la politica (ovverosia finanziando i partiti comunisti dell’Europa). Né più né meno che quello che hanno fatto gli Usa fino ad oggi. L’Europa non può essere considerata un impero unitario, essendosi per secoli divisa in scaramucce tra Francia, Spagna e Inghilterra, ma ai fini del nostro discorso lo considereremo tale, insieme agli Usa (che, non dimentichiamolo, sono stati fondati dai primi coloni europei). Noi europei abbiamo sempre cercato di conquistare il mondo. Siamo andati in Sud America, abbiamo sterminato i nativi e ci siamo impiantati noi. La stessa cosa abbiamo fatto con il Nord America. Secondo Howard Zinn, sono 9 milioni i nativi americani massacrati perché potessimo insediarci noi europei in Nord America piazzandoci un po’ ovunque: gli spagnoli in Florida, inglesi e olandesi al Nord, i francesi in Canada, e via discorrendo. Gli Usa nascono, quindi, dallo sterminio sistematico dei nativi americani, e dallo sterminio di milioni di africani che venivano trasportati come schiavi per lavorare nei campi.
    Hitler, che voleva conquistare il mondo, altro non fece che tentare quello che, da secoli, tentavano inglesi, spagnoli, francesi e olandesi, con la differenza che lui tentò di farlo prima di tutto in Europa, e solo dopo si sarebbe allargato al resto del mondo. Ma di fatto, non tentò nulla di diverso da quello che tentarono tutti, e che continuano a tentare tutti. Una volta eliminata la schiavitù, e consolidato il proprio potere economico, gli Stati Uniti d’America hanno dovuto porsi altri obiettivi: di qui la necessità di esportare la democrazia (esattamente come la Russia che voleva esportare il comunismo, come la Chiesa cattolica voleva esportare il cattolicesimo, come alcuni Stati islamici volevano esportare l’Islam, ecc.) verso i nemici che di volta in volta venivano individuati: Vietnam, Corea, Iraq. Dove non sono arrivati con i cannoni, gli Usa sono arrivati con il controllo politico dei vari Stati, come il finanziamento dei partiti a loro graditi, il sostegno alle varie fazioni terroristiche di destra o sinistra, e così via. Quando non c’era alcun motivo o scusa per la conquista, come nel caso delle isole Hawaii, gli Usa si sono limitati a rovesciarne il governo senza motivo, solo per paura che arrivassero prima gli inglesi, o altri Stati europei. Usa ed Europa, quindi, ai nostri fini li considereremo un modello unitario, e lo definiremo “modello occidentale”.
    I Templari meritano un posto a parte, in questo elenco. Perché anche loro avevano come obiettivo la conquista del mondo allora conosciuto, ma con mezzi e finalità diverse. I Templari volevano abbattere i sovrani assoluti e la Chiesa cattolica, per instaurare un regno di pace, governato da iniziati (cioè da saggi illuminati). Non per niente erano monaci (potere spirituale: saggi, ispirati ad una vita spirituale, in contatto con Dio) e guerrieri (potere temporale). Per instaurare questo governo mondiale non potevano usare la guerra, né potevano dichiarare apertamente il loro intento. Dichiararono formalmente la loro fedeltà alla Chiesa cattolica e al Papa, ma si dettero come unico obiettivo quello di “difendere i pellegrini in Terra Santa”. Questo obiettivo farlocco, in realtà, era la scusa ufficiale per non intervenire mai nelle contese tra i vari sovrani e il Papa, e non prendere mai una vera posizione. Nel frattempo divennero potentissimi, creando commende dal Portogallo alla Terra Santa e un po’ in tutta Europa.
    A un certo punto diventarono più potenti di qualsiasi sovrano europeo e, di lì a poco, sarebbero stati i veri sovrani dell’Europa e della Palestina; ma furono fermati da Filippo il Bello e Clemente V. Il loro sogno di un mondo migliore, di pace, governato da istanze spirituali oltre che materiali, si infranse quando Jacques de Molay venne messo al rogo. Gli eredi delle istanze templari furono i Rosacroce e la massoneria. Anche loro sognavano un mondo unito e di pace, e si diedero da fare per creare quella che furono poi l’Unione Europea e l’Onu, le prime strutture del Nuovo Ordine Mondiale. Anche se la massoneria dichiara apertamente di non volere certo conquistare il mondo, di fatto è quello il suo obiettivo, ben evidente quando essa proclama orgogliosamente di aver organizzato le varie rivoluzioni (Americana, Francese, Russa, l’Unità d’Italia, ecc.) e che tutti gli uomini più influenti al mondo erano massoni. Il progetto è quello di portare la democrazia in tutto il mondo (anche a colpi di cannone, purtroppo) per creare un mondo sempre più libero e democratico.
    Anche per la Cina è necessario un discorso a parte, per capire un po’ più a fondo questo popolo dalla tradizione millenaria e dalla cultura straordinaria. Una delle caratteristiche della Cina è di non aver mai conosciuto, in nessuna epoca, il nostro concetto di “democrazia”. La Cina è sempre stata politicamente uno Stato assoluto, dapprima con i vari imperi e le varie dinastie, per poi passare alla dittatura della Repubblica Popolare. L’unico tentativo di dare una Costituzione e delle riforme che garantissero i diritti della popolazione fu quello dell’ultimo sovrano della dinastia Quing, Guanxu, redatte da Kang Youwei nel 1898, ma il tentativo fu affossato sul nascere: l’imperatore venne arrestato con un vero e proprio colpo di Stato da parte dell’imperatrice Cixi. La seconda caratteristica dell’Impero Cinese è quella di non aver mai cercato di sottomettere gli altri Stati con la violenza. La Cina ebbe guerre con gli Stati confinanti, come è ovvio, specialmente Corea e Giappone, ma complessivamente non ebbe mai la mira di conquistare il mondo con la violenza, a meno che non fosse necessario.
    Questo non perché rispettassero il resto del mondo, ma per una questione culturale; essi si sentivano al centro del mondo, e sentivano loro stessi superiori (come noi europei del resto), e quindi per loro era inevitabile che gli altri Stati si assoggettassero a loro riconoscendone la grandezza. Del resto, grandi lo erano davvero: basti pensare che inventarono la carta secoli prima che la utilizzassimo anche noi; la povere da sparo; il torchio da stampa; e la banconota cartacea ben prima che la utilizzassimo anche noi (durante la dinastia Yuan). Inoltre fin dal secondo secolo d.C. i cinesi inventarono il sistema del concorso pubblico per selezionare i funzionari pubblici più preparati (con 1600 anni di anticipo rispetto a noi). Nel 1271 Kublai Khan, discendente di Gengis Khan (quindi tecnicamente mongolo, non cinese), avendo conquistato la Cina, ne riconobbe l’immenso potenziale culturale e sociale e, anziché distruggerla (come in genere erano soliti fare i mongoli con gli altri nemici), decise di cinesizzarsi egli stesso: diede alla propria dinastia il nome preso dall’I-ching, il Classico dei Mutamenti (dinastia Yuan) e trasferì la capitale a Pechino, ospitando l’imperatore precedente presso di sé e assumendo gli usi e i costumi cinesi.
    Per capire l’atteggiamento della Cina verso gli altri popoli è significativo un aneddoto. Durante la dinastia Ming, gli Stati vicini facevano a gara per dimostrare la loro sottomissione alla Cina, grazie alla generosità dell’imperatore, assolutamente riconoscente verso tutti coloro che si proclamavano sottomessi. Avvenne che molti cinesi si facevano rasare il capo per passare da tibetani e alcuni si spacciavano per ambasciatori di paesi inventati, tanto era conveniente dichiararsi vassalli della Cina. Uno dei problemi che i Ming ebbero fu, paradossalmente, quello di limitare le troppe dimostrazioni di vassallaggio, anche perché alcuni doni provenienti da altri paesi gravavano poi sull’erario per il loro mantenimento (ad esempio avevano centinaia di tigri regalate dai paesi vicini, ed ogni tigre poi divorava due pecore al giorno, senza contare i costi del personale per sorvegliarle). Quando in Cina arrivarono gli europei, ovviamente si rifiutarono di sottomettersi all’Impero (erano loro ad essere superiori, mica i cinesi), e iniziarono i primi problemi, che portarono alla Guerra dell’Oppio tra Inghilterra e Cina, e a tutta una serie di problematiche che ora sarebbe impossibile affrontare.
    La violenza, in Cina, ci fu soprattutto all’interno. Nel corso dei vari secoli, tutti gli imperatori avevano avuto lo stesso problema: come poter tenere sottomesse le masse? La risposta, in genere, era il bagno di sangue. In tempi più moderni il problema della Cina rimase lo stesso. Dapprima la Rivolta dei Boxer, con cui vennero massacrati esponenti perlopiù dell’Occidente, cristiani, musulmani, inglesi; poi venne proclamata nel 1911 la Rivoluzione repubblicana; da quel momento ci furono continue guerre civili (si stima in circa 15 milioni di morti il totale dei cinesi che vennero massacrati in questo periodo), finché venne istituita nel 1949 la Repubblica Popolare Cinese; nel 1966 ci fu la cosiddetta Rivoluzione Culturale di Mao, e anche tutto questo periodo fu un massacro che costò la vita a circa 100 milioni di cinesi, in un bagno di sangue che l’umanità non aveva mai conosciuto neanche ai tempi di Tamerlano o della Seconda Guerra Mondiale. Anche la questione tibetana per loro era prevalentemente interna, perché quella del Tibet era sempre stata una regione assoggettata, o comunque vassalla, della Cina.
    Tralasciando quindi le sporadiche guerre con i confinanti, la Cina ha avuto la guerra prevalentemente al suo interno, ma non è mai andata in Antartide, nelle Hawaii, in Australia, in Africa, dicendo “salve, qui comandiamo noi, ora vi massacriamo tutti perché abbiamo il diritto di uccidervi in nome della superiorità della nostra religione e/o impero”. Se dovessimo fare un paragone, il loro modello di sviluppo nel mondo ricorda più quello dei Templari, che non degli altri imperi (non a caso la tradizione del monaco guerriero da noi fu un’eccezione; tutti i libri concordano su questa particolarità dei Templari, quella di essere insieme monaci e guerrieri; la tradizione del monaco guerriero, invece, in Cina è la norma. I monasteri Shaolin sono luoghi in cui il monaco è anche un guerriero; esattamente come i Templari, anche i monaci Shaolin entravano in azione con i loro mezzi solo per difendere la Cina o l’imperatore, o comunque per difendersi da un pericolo. Più in generale, tutto il Kung Fu è un arte marziale cinese che presuppone però anche una preparazione spirituale oltre che fisica). Ovviamente, ciò che manca all’espansione cinese in Occidente è il fine spirituale proprio dei Templari.
    La Cina, quindi, ha sempre fatto una cosa molto semplice, che è quella che sta facendo adesso: ha comprato gli altri Stati. E’ arrivata in silenzio, dolcemente, e ha comprato tutto quello che poteva, e senza proteste quando qualcuno li ostacolava. Facciamo un esempio. Quando la Guardia di Finanza fece un’importantissima operazione nel porto di Napoli, che era uno degli scali principali per portare la merce in Italia, la Cina – nonostante il duro colpo – non si scompose. In fondo, dal loro punto di vista, noi avevamo fatto ciò che è giusto, rispettando la legge. Spostarono quindi le loro merci in Grecia, comprando il porto del Pireo per 370 milioni di dollari, dando un grosso e concreto aiuto alla Grecia, in crisi grazie alle dissennate politiche imposte dall’Unione Europea. Alla prima occasione però hanno cercato di tornare in Italia con la questione dei porti di Genova e Trieste. Insomma, la voglia di conquistare il mondo è una costante di tutti gli imperi, ma anche di molte organizzazioni religiose, politiche, e fratellanze esoteriche. Questa voglia di conquista, da parte di un po’ tutti, nasce quindi da due esigenze. In primo luogo perché l’essere umano non è pronto a vivere in pace col proprio vicino (sia esso il vicino di casa, il paesino confinante, la squadra di calcio, o la nazione); per evitare quindi che le masse, fuori controllo, creino il caos a livello sociale, ogni governante deve, consciamente o inconsciamente, trovare un nemico esterno e coalizzare le masse contro questo nemico.
    Di volta in volta quindi il nemico può essere l’Islam, il comunismo, i cattivi Stati dittatoriali che meritano di essere puniti (chissà poi perché si decide di punire Gheddafi, ad esempio, ma non la Cina, che pure quanto a dittatura non è seconda a nessuno per privazione dei diritti individuali), l’eresia, la crisi economica, il petrolio, la guerra al terrorismo. Ogni scusa è buona pur di conquistare qualcuno e qualcosa. Insomma, per riassumere, oggi abbiamo due modelli a confronto sullo scenario del mondo: il modello occidentale e quello cinese, entrambi con l’obiettivo di conquistare il mondo. La differenza tra i due modelli è che quello vincente è quello cinese, molto più dolce e persuasivo. Non cannoni, ma soldi. La questione però non è così semplice. Sopra questi due modelli, ci sono i vari gruppi finanziari, che sono al di sopra degli Stati e, attualmente, più potenti di essi, e non hanno alcun modello se non quello economico. Del resto anche la distinzione che noi abbiamo fatto tra due modelli, cinese e occidentale, è semplicistica e non risponde alla realtà. La verità è un po’ più complessa, perché i cambiamenti nella storia della Cina, che partono dalla Rivolta dei Boxer in poi, sono – guarda caso – stati fomentati anche dall’Occidente, che è sempre intervenuto pesantemente nelle questioni politiche ed economiche cinesi.
    Basti pensare che il primo presidente della Repubblica Cinese, Sun Yat-sen, divenne tale proprio dopo un viaggio negli Usa (guarda un po’ che caso). E basti ricordare che la Cina era, fino al 2019, il primo detentore di titoli del debito pubblico americano (attualmente è il Giappone). E, ovviamente, i veri detentori sono i gruppi finanziari, non gli Stati in se stessi. In altre parole, tra Cina e Occidente non è individuabile un confine netto, perché il gioco delle grandi potenze, in realtà, è diretto dall’alto, dall’élite finanziaria globale, con la differenza operativa, tra Cina e Occidente, che una gran parte delle finanze cinesi sono sotto il diretto controllo del governo, mentre da noi i governi (comprese le istituzioni europee) non contano assolutamente nulla, essendo le banche, con la Bce in primis, totalmente indipendenti dal controllo politico e governativo. Se la gran parte dei soldi cinesi è sotto il controllo del governo, una larga parte è in mano ai finanzieri cinesi fuoriusciti dal sistema cinese e arricchitisi grazie alla corruzione dilagante in Cina (non meno che da noi, ovviamente).
    Per capire la commistione di interessi tra Cina e Occidente, basti ricordare che il coronavirus è partito proprio da Wuhan, sede di un laboratorio per la ricerca sui virus, in cui lavoravano sia cinesi che americani che francesi, in un progetto costato 44 milioni di dollari, finanziato da varie organizzazioni anche americane, tra cui la fondazione di Bill Gates. Un intreccio inestricabile di interessi per cui suona ridicolo accusare i cinesi, o Bill Gates, o l’Oms, da qualunque parte provenga l’accusa. Il punto è che le guerre, oggi, ben difficilmente possono essere condotte contro i vari Stati, perché una vera guerra distruggerebbe il mondo conosciuto grazie alla potenza dei vari arsenali militari. Occorre quindi trovare nuovi nemici; la Corea appare abbastanza ridicola come pericolo per minacciare il mondo; al pericolo del terrorismo islamico che attenta alla sicurezza dell’Occidente con coltelli, o autobus lanciati contro la folla, prima o poi non crederà più nessuno. Per controllare le masse occorre quindi utilizzare altri mezzi, e instillare l’idea di pericoli del tutto diversi, rispetto a quelli che venivano paventati fino a qualche decennio fa.
    La situazione attuale nasce quindi dall’esigenza dell’élite finanziaria al potere di controllare le masse. Il nemico è il coronavirus, perché è l’unico modello che può essere accettato da larghe fasce della popolazione, e che accomuna tutti, cristiani, atei, islamici, cinesi. Il mezzo di controllo è l’instaurazione di uno Stato di polizia globale, l’abbassamento del numero della popolazione, e soprattutto l’instupidimento delle persone tramite i mezzi come il 5G e i vaccini (Steiner, ai primi del ’900, aveva previsto che i vaccini sarebbero stati utilizzati come arma di controllo globale). L’individuazione di un nemico globale, il virus, richiede soluzioni globali, al fine di ridisegnare la mappa economica e sociale del mondo. Non è uno scenario nuovo, quindi, quello che si sta profilando, rispetto al passato. La novità è solo la gestione globale e internazionale del potere, e lo scenario su cui si gioca la partita, che è, appunto, globale. La vera soluzione, ancora una volta, non sarà globale, ma individuale. In ogni epoca ci sono state persone che hanno combattuto la società in genere pagando le loro scelte con la vita o con il carcere. Si pensi a Martin Luther King, Nelson Mandela, Lu Xiaobo (Premio Nobel per la Pace per il suo impegno a favore dei diritti civili in Cina), Thomas Sankara (il presidente del Burkina Faso), e tanti altri, spesso sconsciuti alla storia.
    Coloro che sono riusciti a diffondere valori spirituali ad un certo livello sociale, coinvolgendo grandi numeri di persone, sono stati inevitabilmente eliminati dalla scena, come Gandhi o i grandi maestri spirituali dell’umanità (tutti morti avvelenati o assassinati, da Socrate e Pitagora, a Buddha e Maometto, per passare a Steiner, Yogananda, Osho). I maestri spirituali di tutti i tempi, in ogni caso, hanno capito che la vera guerra non è quella contro qualcuno, ma quella contro noi stessi, perché il mondo è sempre stato lo stesso, i meccanismi sono sempre uguali (cambiano solo le forme apparenti della sua manifestazione), e il mondo si può cambiare solo partendo dal cambiamento di noi stessi. Concludo con una frase di Lao Tzu, che viene proprio dalla saggezza cinese, come risposta a chi si domanda come bisogna agire per migliorare la situazione che stiamo vivendo: «Nella vita si dovrebbe agire adottando la semplice Via del Tao: non imponendo i propri desideri al mondo ma seguendo la natura stessa. Eliminando i desideri e lasciando che il Tao pervada l’uomo, si supererà anche la differenza tra buono e cattivo. Ogni attività verrà dal Tao e l’uomo diventerà uno col mondo. Questa è la soluzione di Lao Tzu al problema della felicità».
    (Paolo Franceschetti, “Obiettivo, la conquista del mondo: Cina e Occidente a confronto”, dal blog “Petali di Loto” del 16 maggio 2020).

    Se dovessimo sintetizzare ciò che accomuna tutti gli imperi nella storia dell’umanità, potremmo indicare questi punti fermi: la volontà di conquistare il mondo intero e una scusa per poterlo conquistare. Inoltre, chi voleva provare a conquistarlo, ha sempre avuto due problematiche da risolvere: la necessità di tenere sotto controllo una grande massa di persone (le masse, infatti, necessitano di essere controllate, altrimenti il caos e il disordine sociale sarebbe ingestibile); da qui scaturisce un’ulteriore esigenza: la necessità di avere un nemico per tenere unito un popolo, Stato, nazione, o altri gruppi sociali, o di dare uno scopo. L’Impero Romano, è noto, voleva conquistare tutto il mondo conosciuto; i Romani realizzarono uno dei più grandi imperi della storia. Il popolo veniva tenuto buono tramite il cosiddetto “panem et circenses” (valido ancora oggi con strumenti come il calcio, il baseball in Usa, la Tv, ecc.). Il nemico era costituito dai barbari che, in quanto esseri inferiori, potevano essere assoggettati. Alessandro Magno voleva voleva conquistare il mondo, e la scusa era quella di imporre ai territori conquistati la cultura avanzata e superiore dell’Antica Grecia (in realtà pare che conoscesse molto poco la cultura greca, e che fosse uno studente mediocre, allievo del grande Aristotele).

  • Paura e morte, la dittatura della superpotenza democratica

    Scritto il 01/3/20 • nella Categoria: idee • (1)

    Il dittatore della Nato, Erdogan, ora fa a botte a viso aperto con la Siria, protetta dalla Russia. Nemmeno la Siria è la patria della democrazia, ma almeno non minaccia di precipitare anche l’Italia in qualche guerra. La Siria, come narrato dal generale clintoniano Wesley Clark, era – con la Libia, l’Iraq, l’Afghanistan e l’Iran – tra gli obiettivi imperiali della superpotenza democratica. Sarebbe stata devastata, dalla potenza democratica e dai suoi tentacoli, per una serie di ragioni. Perché si era rifiutata di ospitare un gasdotto scomodo per l’egemonia energetica russa. E perché il governo di Damasco continua, imperterrito, a chiamare Territori Occupati le regioni della Cisgiordania che Israele ha rubato ai palestinesi, in barba alle inutili disposizioni delle Nazioni Unite. Soprattutto, il regime di Assad è laico, avanzato, progredito, largamente sostenuto dalla maggioranza della popolazione: è l’ultimo residuo del partito Baath, il fantasma del socialismo panarabo sorto con il sovranismo egiziano di Nasser, durante la decolonizzazione, e sopravvissuto con Saddam Hussein, il despota già alleato dell’impero democratico ma poi abbandonato, sconfitto e infine impiccato dalla superpotenza che ha arrostito donne e bambini con il fosforo bianco nella fornace di Fallujah, violando qualsiasi convenzione Onu sull’uso delle armi di distruzione di massa, in questo caso scatenate anche contro l’inerme popolazione civile.
    Nel 2020, tecnicamente, in molte regioni del mondo la parola democrazia non significa niente, nella migliore delle ipotesi (nella peggiore, equivale al rituale ricorrente di bombardamenti, guerre, milioni di esuli e rifugiati, tra inconfessabili calcoli economici e reciproche convenienze, tacitamente stipulate da oligarchie formalmente nemiche ma in realtà alleate, sottobanco). Il capolavoro della superpotenza democratica, in Medio Oriente, negli ultimi anni è stata la sua micidiale doppiezza: massimo appoggio alla peggiore di tutte le dittature dell’area, l’Arabia Saudita, e guerra sporca contro ogni altro attore della regione, destabilizzato dalle rivoluzioni colorate o brutalmente devastato attraverso bande armate di tagliagole. Lo spettacolo della democrazia atlantica in versione mediorientale lo hanno lungamente scontato, sulla loro pelle, prima gli iracheni e poi i siriani. Questi ultimi, in particolare, sono stati letteralmente assaliti dalle milizie terroristiche organizzate, protette, armate e finanziate dalla superpotenza democratica e dai suoi camerieri regionali. I tagliagole hanno seminato orrore, terrore e morte, fino a quando non è intervenuta la Russia. Liberata la Siria e restituito il territorio ai siriani, il turco Erdogan – uno dei manovali terroristici reclutati dalla superpotenza democratica – ora non accetta il verdetto militare, e prova a negare ai siriani il diritto a una vittoria compiutamente definitiva.
    Un vero e proprio eroe del riscatto nazionale siriano, il generale Qasem Soleimani – numero due del regime teocratico di Teheran, fiero avversario dell’Isis prima in Iraq e poi in Siria – è stato assassinato in modo brutale, a tradimento, con un raid terroristico a suon di missili ordinato dalla superpotenza democratica. La colpa di Soleimani? Una: era abile, stimato, autorevole. Legato all’oligarchia medievale dell’Iran, credeva nell’espansione della Mezzaluna Sciita come contrappeso geopolitico alla legge del taglione imposta dalla superpotenza democratica. Soleimani ha fatto la fine di Saddam, di Gheddafi, e di chiunque altro si opponesse – a vario titolo – alla spietata dittatura della superpotenza democratica. La cosiddetta opinione pubblica, nella patria mondiale della democrazia, è dominata da quattro famiglie, cui fanno capo centinaia di reti televisive. Un unico telegiornale, declinato in più modi, trasmette – 24 ore su 24 – le stesse notizie, distillate dalle medesime fonti. Ogni quattro anni, naturalmente, si vota. George Walker Bush divenne presidente a tavolino, per decreto, grazie a clamorosi brogli in Florida. Il suo successore, Barack Obama, aveva promesso – mentendo – di cambiare le regole del gioco: è stato il presidente che ha fatto assassinare più persone, nel mondo, attraverso gli omicidi mirati affidati ai droni.
    Obama, che ha dichiarato di aver ucciso anche Osama Bin Laden (spegnendo così il clamore sulle indiscrizioni riguardanti la sua vera origine – si sospettava che non fosse nato alle Hawaii, ma in Africa, cosa gli avrebbe impedito di candidarsi alla Casa Bianca) è stato anche il presidente che, dopo aver amnistiato i bari di Wall Street, si è inventato i Russiagate contro Putin, ha spintonato l’Europa per imporre le sanzioni alla Russia, ha fatto spiare anche il telefono privato di Angela Merkel. Poi la superpotenza democratica ha voltato pagina, con una nuova entusiasmante sfida elettorale: da una parte la cannibale Hillary Clinton, dall’altra il rozzo Donald Trump. Ora sono tutti d’accordo, ai piani alti, nel tagliare le unghie alla Cina: erano stati loro a delocalizzare in Asia (in paesi senza democrazia) la grande industria americana, ma adesso – visto che la Cina ha superato il maestro – pensano sia giunta l’ora di fare retromarcia, e intanto si godono le delizie del coronavirus. Nel frattempo, tra poco si rivota. Un candidato, Bernie Sanders, spara a zero sugli abusi razzisti del governo israeliano e si schiera con i palestinesi. Secondo tutti i bookmaker, non ha nemmeno una possibilità su mille di diventare il nuovo presidente della superpotenza democratica. Ecco il gioco: post-democrazia contro non-democrazia. Trovare la differenza.
    (Giorgio Cattaneo, 1° marzo 2020).

    Il dittatore della Nato, Erdogan, ora fa a botte a viso aperto con la Siria, protetta dalla Russia. Nemmeno la Siria è la patria della democrazia, ma almeno non minaccia di precipitare anche l’Italia in qualche guerra. La Siria, come narrato dal generale clintoniano Wesley Clark, era – con la Libia, l’Iraq, l’Afghanistan e l’Iran – tra gli obiettivi imperiali della superpotenza democratica. Sarebbe stata devastata, dalla potenza democratica e dai suoi terminali, per una serie di ragioni. Perché si era rifiutata di ospitare un gasdotto scomodo per l’egemonia energetica russa. E perché il governo di Damasco, imperterrito, continuava (e continua) a chiamare Territori Occupati le regioni della Cisgiordania che Israele ha rubato ai palestinesi, in barba alle inutili disposizioni delle Nazioni Unite. Soprattutto, il regime di Assad è laico, avanzato, progredito, largamente sostenuto dalla maggioranza della popolazione: è l’ultima residua incarnazione del partito Baath, il fantasma del socialismo panarabo sorto con il sovranismo egiziano di Nasser, durante la decolonizzazione, e sopravvissuto con Saddam Hussein, il despota già alleato dell’impero democratico ma poi abbandonato, sconfitto e infine impiccato dalla superpotenza che ha arrostito donne e bambini con il fosforo bianco nella fornace di Fallujah, violando qualsiasi convenzione Onu sull’uso delle armi di distruzione di massa, in quel caso scatenate anche contro l’inerme popolazione civile.

  • Usa e Germania ci vendevano il programma con cui spiarci

    Scritto il 21/2/20 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Quando nel 1986 Ronald Reagan ordinò di bombardare Tripoli, come rappresaglia per l’attentato terroristico alla discoteca berlinese La Belle dov’erano stati uccisi due soldati americani, il presidente annunciando l’attacco disse che gli Stati Uniti avevano prove «precise, dirette e irrefutabili» della responsabilità dei servizi libici. L’ambasciata di Gheddafi a Berlino Est aveva ricevuto l’ordine per l’attacco una settimana prima. E il giorno dopo l’esplosione della bomba, la stessa ambasciata «aveva informato Tripoli del successo della missione». Era chiaro che gli Usa avevano intercettato e decrittato le comunicazioni tra la Libia e la stazione tedesca. Ma quella di Reagan «fu una gaffe madornale, che mise a rischio e in parte danneggiò la più vasta e intrusiva operazione di spionaggio mai messa in campo dalla Cia, il servizio segreto americano». Lo scrive Paolo Valentino sul “Corriere della Sera”: «Per oltre cinquant’anni, una sola compagnia svizzera fornì a oltre cento paesi di tutto il mondo gli strumenti per gestire le loro comunicazioni riservate con spie, militari e missioni diplomatiche». La Crypto Ag, questo il suo nome, aveva iniziato a costruire “macchine cifranti” per gli Usa già durante la Seconda Guerra Mondiale, diventando poi leader del mercato e compiendo con successo negli anni la transizione dalla meccanica all’elettronica.
    Tra i suoi clienti, nazioni democratiche e dittature: l’Iran prima e dopo la rivoluzione khomeinista, paesi del Terzo Mondo o Stati rivali fra di loro come India e Pakistan, e perfino il Vaticano. «Quello che nessuno ha mai saputo fino ad oggi – scrive Valentino – è che la Crypto Ag era segretamente di proprietà della Cia in società con la Bnd, i servizi segreti tedesco-occidentali». Gli 007 di Bonn «manipolavano sistematicamente le apparecchiature, in modo da poter poi facilmente rompere i codici usati dai vari paesi per mandare i loro messaggi segreti e leggerli». Negli Anni ‘80, aggiunge il “Corriere”, gli strumenti di Crypto consentivano di decodificare il 40% di tutti i cablo diplomatici e le altre comunicazioni intercettate dai servizi Usa. A rivelarlo, scrive sempre Valentino, è uno straordinario pezzo di giornalismo investigativo, realizzato insieme dal “Washington Post” e dalla “Zdf”, la seconda rete televisiva pubblica tedesca, basato su documenti interni sia della Cia che del Bnd, che raccontano sin dalle origini tutti i dettagli dell’operazione, all’inizio denominata Thesaurus e poi ribattezzata Rubicon.
    «E’ stato il colpo d’intelligence del secolo», si legge negli atti americani: «I governi stranieri pagavano senza saperlo milioni di dollari agli Stati Uniti e alla Germania Ovest per il privilegio di avere le loro più segrete comunicazioni lette dai nostri servizi». Non tutti però abboccavano alle lusinghe di Crypto Ag: «Nel clima di sospetto della Guerra Fredda, i paesi leader del campo rivale, l’Urss e la Cina, non furono mai clienti della premiata compagnia, svizzera solo di nome». Ma la lista di chi usava le apparecchiature truccate, «pagandole milioni di dollari e facendo fare grassi profitti alle due intelligence», comprendeva anche i più stretti alleati occidentali e membri della Nato: Spagna, Grecia, Turchia e ovviamente l’Italia. A partire dal 1970, racconta il “Washington Post”, fu la National Security Agency, l’intelligence militare americana, a prendere il controllo di tutte le operazioni di Crypto insieme ai partner tedeschi, «comprese le assunzioni, la scelta delle tecnologie, il sabotaggio degli algoritmi, la promozione delle campagne di vendita a clienti precisi».
    Tra il 1970 e il 1975, prosegue il “Corriere”, le vendite annuali di Crypto Ag esplosero: da 15 milioni, passarono a 51 milioni di franchi svizzeri. «Ascoltarono e decrittarono di tutto: i mullah iraniani durante al crisi degli ostaggi del 1979, le comunicazioni dei militari argentini durante la guerra delle Falkland nel 1982 debitamente girate agli inglesi, gli ordini per le campagne omicide delle dittature latino-americane come l’assassinio del leader socialista cileno Orlando Letelier, ucciso nel 1976 in piena Washington dagli agenti di Pinochet. Non ultimo, le comunicazioni del presidente egiziano Anwar Sadat col Cairo durante i negoziati di Camp David tra Egitto e Israele nel 1972». Per inciso, annota Valentino, la famosa gaffe di Reagan sulla Libia insospettì gli iraniani, che erano a conoscenza del fatto che anche i libici usassero la tecnologia svizzera per le comunicazioni segrete. Qualche anno dopo, gli ayatollah arrestarono a Teheran uno dei rappresentanti di Crypto Ag, un cittadino tedesco, e lo rilasciarono solo nove mesi dopo, dietro il pagamento di un riscatto di un milione di dollari: soldi forniti in segreto proprio dal Bnd, l’intelligence di Bonn, dopo che la Cia si era rifiutata di pagare, invocando la linea americana di non versare mai riscatti per ostaggi.
    Le due documentazioni, messe a confronto dai reporter del “Post” e della televisione di Berlino, rivelano incomprensioni e polemiche tra tedeschi e americani: i primi attenti soprattutto all’aspetto economico della joint venture, che portava milioni di dollari in cassa, gli altri mai stanchi di «ricordare che si trattava di un’operazione di spionaggio». Inoltre i tedeschi erano basiti di fronte alla determinazione e all’entusiasmo dei colleghi Usa nello «spiare su tutti gli alleati». Testualmente: «Gli americani si comportano con i paesi alleati esattamente come con quelli del Terzo Mondo», è la frase di Wolbert Smidt, già direttore del Bnd, citata nei documenti tedeschi. La collaborazione clandestina si concluse nel 1990, finita la Guerra Fredda, quando il governo tedesco ordinò al Bnd di uscire da Crypto Ag: «La Cia, semplicemente, acquistò le quote tedesche e continuò il vecchio andazzo». Crypto Ag non esiste più, ma i suoi prodotti sono venduti ancora oggi a una dozzina di paesi. La vecchia compagnia – conclude Valentino – è stata smembrata nel 2018, «liquidata da azionisti la cui identità rimane ben nascosta dalle leggi del Liechtenstein». Al suo posto ci sono due società: CyOne Security e Crypto International. «Entrambi affermano di non avere alcuna connessione con il mondo dell’intelligence. Ma questa è un’altra storia».

    Quando nel 1986 Ronald Reagan ordinò di bombardare Tripoli, come rappresaglia per l’attentato terroristico alla discoteca berlinese La Belle dov’erano stati uccisi due soldati americani, il presidente annunciando l’attacco disse che gli Stati Uniti avevano prove «precise, dirette e irrefutabili» della responsabilità dei servizi libici. L’ambasciata di Gheddafi a Berlino Est aveva ricevuto l’ordine per l’attacco una settimana prima. E il giorno dopo l’esplosione della bomba, la stessa ambasciata «aveva informato Tripoli del successo della missione». Era chiaro che gli Usa avevano intercettato e decrittato le comunicazioni tra la Libia e la stazione tedesca. Ma quella di Reagan «fu una gaffe madornale, che mise a rischio e in parte danneggiò la più vasta e intrusiva operazione di spionaggio mai messa in campo dalla Cia, il servizio segreto americano». Lo scrive Paolo Valentino sul “Corriere della Sera”: «Per oltre cinquant’anni, una sola compagnia svizzera fornì a oltre cento paesi di tutto il mondo gli strumenti per gestire le loro comunicazioni riservate con spie, militari e missioni diplomatiche». La Crypto Ag, questo il suo nome, aveva iniziato a costruire “macchine cifranti” per gli Usa già durante la Seconda Guerra Mondiale, diventando poi leader del mercato e compiendo con successo negli anni la transizione dalla meccanica all’elettronica.

  • Perché ci odiano: i primi terroristi siamo noi, da sempre

    Scritto il 11/1/20 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    C’è una ragione all’odio che ha innescato i terribili attacchi terroristici da parte di cellule impazzite del mondo arabo? Oppure sono solo frutto di ‘fanatismo’? Nel 1986 la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja sentenziò che gli Stati Uniti sono colpevoli di terrorismo, cioè di uso illegale della forza ai danni del Nicaragua. Come scrissi in “Il terrorismo dell’1%”, un paragrafo di un mio libro, “99%”, la sentenza si ebbe perché il presidente Reagan, a partire dal 1981, attraverso il finanziamento e l’addestramento delle cosiddette squadre della morte denominate Contras voleva rovesciare il governo sandinista. Il Nicaragua fu oggetto di veri e propri atti di terrorismo; fu costantemente attaccato nelle sue strutture vitali, furono uccisi funzionari, attaccati depositi di petrolio, si voleva mettere in ginocchio un paese solo perché accusato di essere guidato da un governo filo-comunista. Occorrerebbe domandarsi cosa sarebbe successo se fosse stato il Nicaragua ad attaccare così gli Stati Uniti. In che modo avrebbe risposto Reagan? L’amministrazione sandinista si limitò a denunciare gli Usa alla Corte dell’Aia e il tribunale mondiale riconobbe le colpe americane.
    Tra il 1991 e il 2000, secondo il prestigioso “The Lancet”, le sanzioni imposte dall’Onu all’Iraq hanno causato la morte di 567.000 bambini al di sotto dei cinque anni. Una cifra forse sovrastimata; tuttavia Madeleine Albright, l’allora ambasciatrice statunitense alle Nazioni Unite e poi segretario di Stato americano, alla domanda se ne fosse valsa la pena che 500.000 bambini iracheni fossero lasciati morire, rispose: «Penso che questa sia una scelta molto dura, ma il prezzo, pensiamo che il prezzo ne valga la pena». Come si è domandato Paolo Barnard nel suo libro “Perché ci odiano?”, che cosa avremmo provato noi italiani se un ambasciatore arabo avesse dichiarato pubblicamente che la strage dei nostri bambini era un prezzo che il mondo mussulmano considerava accettabile infliggerci? Saddam Hussein, nonostante l’embargo, decise di non cedere e fare patti che avrebbero reso i pozzi petroliferi iracheni controllati dalle multinazionali straniere. Quindi, come era accaduto a Panama con Omar Torrijos e in Ecuador con Jamie Roldos, presidenti che, come è stato ben spiegato da John Perkins in “Confessioni di un sicario dell’economia”, si erano rifiutati di far colonizzare il proprio paese e per questo entrambi furono assassinati; anche con Saddam furono usate le maniere forti.
    Secondo uno studio della Brown University in Afghanistan i civili uccisi sono stati 12.000, 35.000 in Pakistan. L’ultima guerra in Iraq ha causato l’uccisione di almeno 125.000 civili, due milioni di rifugiati e lasciato il territorio in una condizione di anomia dove gli attentati sono pane quotidiano. Una divisione tra bande che giova agli Usa che controlla i pozzi petroliferi, vero fine della guerra. Dick Cheney, vice presidente Usa, era a capo della Halliburton, un’azienda che tratta con il petrolio. Cheney fu uno dei più agguerriti sostenitori della guerra in Iraq ‘giustificata’ con lo spauracchio delle armi di distruzione di massa mai trovate. I talebani, Saddam, Gheddafi e lo stesso Bin Laden: uomini prima sostenuti e poi eliminati allorquando si sono ribellati sono stati tacciati di terrorismo e per questo sostituiti. Le pubblicazioni editoriali negli ultimi anni sono state numerose; sento di consigliare, oltre quella sopra citata, anche i testi di Noam Chomsky, studioso di cui ho già scritto, e di Massimo Fini. La lettura critica, alternativa a quella mainstream, deve spingere il lettore a farsi delle domande.
    La prima è: che differenza c’è tra le vittime civili causate dagli aerei B-52 che dall’altezza di 9.000 metri sganciano ordigni che in Medio Oriente disintegrano interi quartieri e gli attentati di matrice mussulmana in Occidente? Inoltre, senza porre giustificazioni, ma siamo sicuri che non ci sia un’attinenza tra gli attacchi all’Occidente con le torture, le umiliazioni subite dal mondo islamico ad Abu Ghraib, per non parlare del genocidio palestinese che l’estate scorsa ha causato l’uccisione di almeno 1.550 civili palestinesi? «Sono convinto che il problema del terrorismo non si risolverà uccidendo i terroristi ma eliminando le ragioni che li rendono tali». Queste sono le parole di Tiziano Terzani, autore di “Lettere contro la guerra”. Unica certezza è che il terrorismo genera nuove forme di terrorismo, e queste nuove forme di terrorismo ne generano a loro volta delle altre, fino a creare tanti anelli di una catena che lega l’umanità alla stupida legge del taglione.
    (Gianluca Ferrara, “‘Perché ci odiano?’ di Paolo Barnard: le ‘ragioni’ culturali dei terroristi”, dal “Fatto Quotidiano” del 4 aprile 2015; all’epoca, Ferrara era già senatore dei 5 Stelle, carica che riveste tuttora. Il bestseller segnalato, “Perché ci odiano”, scritto da Barnard nel 2006 per Rizzoli-Bur, è basato su prove, testimonianze e documenti, al di là delle menzogne ufficiali del mainstream media. In anni di ricerche e viaggi, l’autore «ha utilizzato fonti “non sospette”, cioè quelle ufficiali americane, inglesi e israeliane, che dimostrano come il terrorismo sia stata l’arma principale di questi paesi per imporre un loro ordine mondiale, da decenni: da quando gli israeliani si resero protagonisti di una vera pulizia etnica contro i palestinesi, e gli americani (con gli inglesi) sostennero le controrivoluzioni in Indonesia, in Guatemala, in America Latina. Con l’aggiunta dei russi in Cecenia: una lunga lista di esempi riguardo i quali non si può restare indifferenti»).

    C’è una ragione all’odio che ha innescato i terribili attacchi terroristici da parte di cellule impazzite del mondo arabo? Oppure sono solo frutto di ‘fanatismo’? Nel 1986 la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja sentenziò che gli Stati Uniti sono colpevoli di terrorismo, cioè di uso illegale della forza ai danni del Nicaragua. Come scrissi in “Il terrorismo dell’1%”, un paragrafo di un mio libro, “99%”, la sentenza si ebbe perché il presidente Reagan, a partire dal 1981, attraverso il finanziamento e l’addestramento delle cosiddette squadre della morte denominate Contras voleva rovesciare il governo sandinista. Il Nicaragua fu oggetto di veri e propri atti di terrorismo; fu costantemente attaccato nelle sue strutture vitali, furono uccisi funzionari, attaccati depositi di petrolio, si voleva mettere in ginocchio un paese solo perché accusato di essere guidato da un governo filo-comunista. Occorrerebbe domandarsi cosa sarebbe successo se fosse stato il Nicaragua ad attaccare così gli Stati Uniti. In che modo avrebbe risposto Reagan? L’amministrazione sandinista si limitò a denunciare gli Usa alla Corte dell’Aia e il tribunale mondiale riconobbe le colpe americane.

  • Cabras a Salvini: per gli sciiti, Soleimani era come Garibaldi

    Scritto il 07/1/20 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Per rendersi conto – da italiani – dell’impatto morale e politico dell’assassinio deciso da Donald Trump e dai suoi falchi, potremmo paragonare il generale Qasem Soleimani alla forza iconica celebratissima di un Giuseppe Garibaldi, ma senza gli sbiadimenti e le annacquature dei secoli che passano. Un Garibaldi contemporaneo, dunque, con l’audacia propria del militare di razza, ma dotato anche di un’aura da predestinato – percepita a livello popolare in molti paesi – assimilabile a quella di un difensore della giustizia disinteressato, una sorta di Paolo Borsellino del mondo sciita. Per le caratteristiche dello sciismo contemporaneo – molto propenso ad attualizzare nella Storia di oggi le proprie tradizioni e la propria identità più profonda – un’altra figura eroica e martire diventa un’indispensabile termine di paragone: l’Imam Hussein. Il che crea una saldatura dalla forza inimmaginabile tra fede e passione politica rispetto alle inaridite passioni occidentali. Donald Trump non ha decapitato una forza. Nell’ascoltare il suo partito della guerra ha invece appiccato, come i suoi predecessori, un incendio che non saprà spegnere, perché circonda il Medio Oriente di basi militari ma non lo capisce.
    Un incendio che costerà lutti e caos, e che va fermato spegnendo anche le complicità dei mentecatti. Fra questi includo quel Salvini che si dimostra una volta di più un sovranista di cartone con l’anima del vassallo che si vende per un piatto di lenticchie ai padroni da lui cercati spasmodicamente, un irresponsabile impreparato che mette da subito in pericolo migliaia di militari italiani in Libano e in Iraq. Occorre risollevare la capacità di analisi, mettere da parte i sovranisti di cartone e i bacia-pantofole, e capire immediatamente qual è il nostro preminente interesse nazionale in un momento di così gravi tensioni internazionali. L’epoca del comando unilaterale ha superato ogni soglia di pericolo. Va evitata ogni escalation del conflitto, a partire dai rischi di guerra civile in Iraq e in tutta la Mezzaluna sciita. Potrà riuscirci solo un sistema di relazioni multilaterali che coinvolga tutte le capitali che contano, con cui parlare e da far parlare immediatamente.
    (Pino Cabras, “Capire la gravità di un omicidio politico. Mettiamo da parte i sovranisti di cartone”, da “Megachip” del 4 gennaio 2020. Storico collaboratore di Giulietto Chiesa, Cabras è stato eletto deputato nel 2018 con i 5 Stelle ed è membro della commissione affari esteri della Camera. Ha pubblicato svariati saggi, tra cui “Balducci e Berlinguer. Il principio della speranza”, edito da La Zisa nel 1995, nonché “Strategie per una guerra mondiale. Dall’11 settembre al delitto Bhutto”, pubblicato da Aìsara nel 2008. Insieme allo stesso Chiesa, per Ponte alle Grazie, nel 2012 ha pubblicato “Barack Obush. La liquidazione di Osama, l’intervento in Libia, la manipolazione delle rivolte arabe, la guerra all’Europa e alla Cina: colpi di coda di un impero in declino”. Veemente, lo scorso anno, la sua denuncia delle violenze scatenate a Caracas dai seguaci di Juan Guaidò, appoggiato dagli Usa, nel tentativo di rovesciare il presidente venezuelano Nicolas Maduro).

    Per rendersi conto – da italiani – dell’impatto morale e politico dell’assassinio deciso da Donald Trump e dai suoi falchi, potremmo paragonare il generale Qasem Soleimani alla forza iconica celebratissima di un Giuseppe Garibaldi, ma senza gli sbiadimenti e le annacquature dei secoli che passano. Un Garibaldi contemporaneo, dunque, con l’audacia propria del militare di razza, ma dotato anche di un’aura da predestinato – percepita a livello popolare in molti paesi – assimilabile a quella di un difensore della giustizia disinteressato, una sorta di Paolo Borsellino del mondo sciita. Per le caratteristiche dello sciismo contemporaneo – molto propenso ad attualizzare nella Storia di oggi le proprie tradizioni e la propria identità più profonda – un’altra figura eroica e martire diventa un’indispensabile termine di paragone: l’Imam Hussein. Il che crea una saldatura dalla forza inimmaginabile tra fede e passione politica rispetto alle inaridite passioni occidentali. Donald Trump non ha decapitato una forza. Nell’ascoltare il suo partito della guerra ha invece appiccato, come i suoi predecessori, un incendio che non saprà spegnere, perché circonda il Medio Oriente di basi militari ma non lo capisce.

  • Patto col diavolo: perché Trump ha ucciso il nemico dell’Isis

    Scritto il 06/1/20 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    Un colpo al cerchio e uno alla botte: prima Al-Baghdadi, poi il maggiore nemico dell’Isis. Gianfranco Carpeoro accusa Donald Trump di aver ceduto ai veri sponsor del terrorismo islamico, nel decretare l’uccisione del generale Qasem Soleimani. Assassinando a Baghdad il leader iraniano, che aveva combattuto in modo determinante in Siria contro le milizie jihadiste, il capo della Casa Bianca ha provato a placare la rabbia degli azionisti occulti dell’Isis annidati nel Deep State americano, furibondi con Trump per la recente eliminazione del loro uomo, il “califfo” dello Stato Islamico. Lo stesso Carpeoro punta il dito contro la superloggia “Hathor Pentalpha”, fondata dai Bush, nella quale avrebbero segretamente militato sia Osama Bin Laden che Ibrāhīm al-Badrī, meglio noto come Abu Barkr Al-Baghdadi, estremista islamico stranamente rilasciato nel 2009 dal centro di detenzione iracheno di Camp Bucca perché potesse poi assumere la guida del sanguinario Califfato. Sarebbe il caso che qualcuno spiegasse a Matteo Salvini, entusiasta dell’omicidio di Soleimani, che Trump ha fatto uccidere il nemico numero uno del terrorismo islamico, l’uomo più temuto dall’Isis. E l’ha fatto per garantirsi il supporto della peggior destra reazionaria americana, in vista delle elezioni presidenziali di novembre. Il sangue di Soleimani allontanerà il pericolo di impeachment?
    Avvocato di lungo corso, Carpeoro (all’anagrafe, Pecoraro) è un eminente studioso di simbologia, autore di romanzi sui Rosa+Croce e di saggi particolamente scomodi. Nel libro “Il compasso, il fascio, la mitra” ha messo in luce i rapporti inconfessabili tra fascismo, massoneria e Vaticano, svelando retroscena inediti grazie ad archivi massonici riservati: per esempio, nel libro si spiega come l’omicidio Matteotti fu organizzato dal faccendiere massone Filippo Naldi, dopo che Matteotti (a sua volta massone) aveva scoperto, a Londra, che era stato il Re, Vittorio Emanuele III, il maggior beneficiario della maxi-tangente versata dalla Standard Oil dei Rockefeller per ottenere il monopolio delle forniture di petrolio per l’Italia fascista. In un altro saggio, “Dalla massoneria al terrorismo”, Carpeoro rivela il codice simbolico interamente massonico (e non islamico) nascosto dietro agli attentati dell’Isis in Europa, messi a segno con la copertura di servizi segreti compiacenti. Strategia della tensione: al vertice della sovragestione, osserva Carpeoro, c’è un’élite supermassonica reazionaria imbevuta di suprematismo, incluso quello riflesso nella teoria della “sinarchia” elaborata a fine ‘800 dal marchese francese Saint-Yves d’Alveydre, secondo cui solo un’oligarchia “illuminata” ha il diritto-dovere di decidere per il popolo, incapace di autogovernarsi in modo democratico.
    Questa “filosofia” è stata incarnata nel secondo ‘900 da potentissime superlogge come la “Three Eyes” di Kissinger, grande regista del golpe cileno contro Salvador Allende. Un quarto di secolo dopo, lo stesso giorno – l’11 settembre – sono crollate le Torri Gemelle: atto d’inizio della “guerra infinita” che, dopo la caduta dell’Urss, ha letteralmente terremotato il pianeta, e in particolare il Medio Oriente. In prima linea, tra gli sponsor del “neoterrorismo” ci sarebbe la superloggia “Hathor Pentalpha” fondata da Bush padre nel 1980, reclutando anche importanti politici europei come l’inglese Tony Blair (da cui le inesistenti “armi di distruzione di massa” di Saddam) e il francese Nicolas Sarkozy, protagonista della fine di Gheddafi. Nella “Hathor” militerebbe anche il turco Erdogan, fino a ieri grande protettore dell’Isis in Siria, tra i massimi padrini di Al-Baghdadi. E sarebbe stata proprio la “Hathor”, secondo Carpeoro, a premere su Trump dopo l’uccisione del “califfo”, per eliminare il prestigioso generale Soleimani, eroe nazionale dell’Iran e bestia nera dei terroristi islamici. In cambio, i boss della “Hathor” avrebbero garantito a Trump il loro appoggio, a partire dalle incognite dell’impeachment al Senato. Una mossa determinante, quindi, che permetterebbe a Trump di incassare anche l’appoggio dell’inflente “lobby ebraica”, che spinge da sempre per ridimensionare l’Iran.
    Secondo Carpeoro, i poteri opachi che agiscono all’ombra della Casa Bianca e controllano gangli vitali della politica statunitense starebbero riorganizzando e rifinanziando l’Isis, dopo la pesante sconfitta che il terrorismo ha subito in Siria a opera della Russia e delle forze speciali iraniane del generale Soleimani. Prima o poi, sostiene sempre Carpeoro, verranno allo scoperto le prove del fatto che la medesima cupola di potere, incarnata dalla “Hathor Pentalpha”, ha direttamente organizzato il maxi-attentato dell’11 Settembre. Ma il momento della verità sembra rinviato, e nel frattempo tornano a moltiplicarsi gli attentati-kamikaze, per ora su scala ridotta. Alla vigilia di capodanno, è stato Trump ad avvertire i russi di un maxi-attentato in preparazione a San Pietroburgo, che avrebbe potuto provocare una strage di vaste proporzioni. Lo stesso Trump, che si è vantato dell’eliminazione di Al-Baghdadi, è però “costretto” oggi a rivendicare anche l’uccisione di Soleimani, che gli sarebbe stata imposta proprio da quel Deep State che, a quanto pare, ha ancora intenzione di utilizzare il terrorismo “false flag” targato Isis per i suoi inconfessabili obiettivi geopolitici e affaristici. La “Hathor” avrebbe dunque il potere di piegare all’occorenza anche la Casa Bianca, contando comunque sul cinico opportunismo di Trump: è un patto col diavolo, quello che lo scodinzolante Salvini finge di scambiare per fermezza.

    Un colpo al cerchio e uno alla botte: prima Al-Baghdadi, poi il maggiore nemico dell’Isis. Gianfranco Carpeoro accusa Donald Trump di aver ceduto ai veri sponsor del terrorismo islamico, nel decretare l’uccisione del generale Qasem Soleimani. Assassinando a Baghdad il leader iraniano, che aveva combattuto in modo determinante in Siria contro le milizie jihadiste, il capo della Casa Bianca ha provato a placare la rabbia degli azionisti occulti dell’Isis annidati nel Deep State americano, furibondi con Trump per la recente eliminazione del loro uomo, il “califfo” dello Stato Islamico. Lo stesso Carpeoro punta il dito contro la superloggia “Hathor Pentalpha”, fondata dai Bush, nella quale avrebbero segretamente militato sia Osama Bin Laden che Ibrāhīm al-Badrī, meglio noto come Abu Barkr Al-Baghdadi, estremista islamico stranamente rilasciato nel 2009 dal centro di detenzione iracheno di Camp Bucca perché potesse poi assumere la guida del sanguinario Califfato. Sarebbe il caso che qualcuno spiegasse a Matteo Salvini, entusiasta dell’omicidio di Soleimani, che Trump ha fatto uccidere il nemico numero uno del terrorismo islamico, l’uomo più temuto dall’Isis. E l’ha fatto per garantirsi il supporto della peggior destra reazionaria americana, in vista delle elezioni presidenziali di novembre. Il sangue di Soleimani allontanerà il pericolo di impeachment?

  • Dezzani: l’Italia fu sabotata, partendo da piazza Fontana

    Scritto il 29/12/19 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    A distanza di cinquant’anni dalla strage di Piazza Fontana, l’Italia è ancora sovrastata dalla stessa cappa di disinformazione: la “strategia della tensione” che, portata avanti dallo Stato o perlomeno da ampi settori dello Stato, avrebbe dovuto facilitare una “svolta a destra” della politica, fermando l’avanzata del Pci nel mondo bipolare della Guerra Fredda. La strage di Piazza Fontana fu invece l’inizio di una campagna destabilizzante contro l’Italia che, dalla Libia alla Somalia, stava guadagnando molte posizioni internazionali cavalcando il “terzomondismo”. Le bombe cessarono nei primi anni ‘90 perché, distrutti la Prima Repubblica e lo Stato imprenditore, non servivano più. Il 12 dicembre di cinquant’anni fa il salone della centralissima Banca Nazionale dell’Agricoltura fu devastato da un ordigno esplosivo: 17 morti ed un’ottantina di feriti segnavano l’inizio dei cosiddetti “anni di piombo”. La strage di piazza ha tre livelli di interpretazione: salendo dall’uno all’altro, ci si avvicina sempre di più alla verità. Il primo livello, presto abbandonato già in quegli anni, è quello della strage “anarchica”, compiuta dal ballerino e bakuninista Pietro Valpreda.
    Il secondo livello è quello della strage “nera” compiuta da Ordine Nuovo, avvalendosi di ampie connivenze negli uffici dello Stato, in primis l’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno con allora a capo Federico Umberto D’Amato. Tale livello è quello tuttora dominante: la cosiddetta “strategia della tensione”, per spaventare l’opinione pubblica, preparare il terreno per una svolta a destra (mai arrivata) e arrestare l’avanzata del Pci che, se fosse arrivato al potere, avrebbe messo in forse (ma sarà poi vero?) la collocazione dell’Italia nello schieramento occidentale, portando il paese fuori dalla Nato. Il terzo livello è quello su cui abbiamo più volte scritto, in primis ricordando la triste fine di Aldo Moro che, lungi dall’essere un apatico e rassegnato meridionale, era in realtà una delle mente più fini e audaci della politica estera italiana. Il terzo livello colloca infatti la strage di Piazza Fontana all’interno dello scenario internazionale dell’epoca: come Piazza Fontana, anche tutti gli altri “misteri di Italia” trovano la loro spiegazione razionale negli equilibri del periodo e, in particolare, nella condotta italiana tra Malta, Libia, Somalia e Urss.
    Questo sarà un lavoro veloce e quindi ricorreremo a tanti ritagli di giornale. Agosto 1969: Aldo Moro entra alla Farnesina, all’interno dell’esecutivo di Mariano Rumor. Agli esteri, Moro rimane per i tre anni successivi. Tre anni decisivi per la politica estera italiana, considerati che gli ultimi “dividendi” della politica di allora sono stati incassati fino al 2011, soltanto otto anni fa, quando Muammur Gheddafi è stato prima rovesciato con un intervento Nato e poi brutalmente assassinato. È infatti proprio in Libia che deve essere collocato l’inizio del “terzo livello” della strage di Piazza Fontana. Primi di settembre 1969: un colpo di Stato “filo-nasseriano” rovescia re Idris, installato sul trono di Libia dagli inglesi dopo la guerra. L’incruento putsch gode del pieno appoggio dell’Italia che, in quella fase, cavalca il nazionalismo arabo ed in particolare il nasserismo per guadagnare posizioni ai danni di inglesi e francesi. Una delle prime mosse dei “giovani ufficiali libici”, tra cui emerge ben presto un trentenne Muammur Gheddafi, è quella infatti di rescindere il trattato di sicurezza firmato con Londra nel 1953, obbligando gli inglesi a lasciare il paese.
    Gli americani fanno buon viso a cattivo gioco, vuoi perché la nuova Libia si mantiene equidistante tra i due blocchi, vuoi perché “la quarta sponda” è sempre stata marginale nella geopolitica del Mediterraneo, vuoi perché sono anni davvero difficili per la superpotenza americana, alle prese col Vietnam ed un’economia claudicante. L’Italia non lascia, ma raddoppia: a distanza di pochi mesi soltanto, la Somalia, che si stava spostando su posizioni sempre più filo-atlantiche, è teatro di un colpo di Stato: il presidente Abdirashid Shermarke è assassinato e tra le file dei “congiurati” emerge ben presto Mohammed Siad Barre, uscito dalla scuola allievi sottoufficiali carabinieri di Firenze.
    Come la Libia, anche la Somalia rientra dunque “nella sfera d’influenza italiana”, portandosi anch’essa su posizioni non allineate e ammiccando discretamente all’Urss. In neanche tre mesi l’Italia ha messo a segno due grandi risultati ed un terzo l’avrebbe conseguito negli anni successivi, sostenendo Dom Mintoff a Malta. Che fare? Semplice, si ricorre al terrorismo, per tarpare le ali alla risorgente Italia. E si noti, per uscire dal solito provincialismo che affligge la modestissima “intellighenzia” italiana, che la medesima “strategia della tensione” con fini destabilizzanti è usata anche contro Germania e Giappone che, però, possono vantare una solidità delle istituzioni ed una tenuta sociale sconosciute all’Italia. Si arriva così a Piazza Fontana, che avrebbe dovuto avere anche uno strascico di sangue nella capitale. E, si noti, l’attentato coincide con lo stesso giorno in cui si aprono a Mosca le trattative per il rinnovo dell’accordo commericiale italo-sovietico.
    Inizia quindi la strategia della tensione volta non a impedire la conquista del potere da parte del Pci, ma a tenere perennemente sotto scacco l’Italia che, forte di una classe dirigente di livello e dell’economia mista ereditata dal fascismo, proseguirà comunque la difesa degli interessi nazionali: nonostante il terrorismo “nero”, le Brigate Rosse, i “palestinesi”, Lotta Continua, etc. etc. Le bombe cesseranno solo nel 1993 quando, complice l’avvento del mondo unipolare, gli angloamericani saranno finalmente liberi di liquidare la Prima Repubblica (archiviando due correnti politiche, quella cattolica e quella socialista, che tanto avevano dato all’Italia) e smantellare lo Stato imprenditore. Se la Francia è stata oggetto di una violenta serie di attentati negli ultimi anni, tutto invece tace nel nostro paese: perché, semplicemente, non servono le stragi per indirizzare la navicella Italia verso la tempesta perfetta.
    (Federico Dezzani, “Quella sera in piazza Fontana, oltre la strategia della tensione”, dal blog di Dezzani del 12 dicembre 2019).

    A distanza di cinquant’anni dalla strage di Piazza Fontana, l’Italia è ancora sovrastata dalla stessa cappa di disinformazione: la “strategia della tensione” che, portata avanti dallo Stato o perlomeno da ampi settori dello Stato, avrebbe dovuto facilitare una “svolta a destra” della politica, fermando l’avanzata del Pci nel mondo bipolare della Guerra Fredda. La strage di Piazza Fontana fu invece l’inizio di una campagna destabilizzante contro l’Italia che, dalla Libia alla Somalia, stava guadagnando molte posizioni internazionali cavalcando il “terzomondismo”. Le bombe cessarono nei primi anni ‘90 perché, distrutti la Prima Repubblica e lo Stato imprenditore, non servivano più. Il 12 dicembre di cinquant’anni fa il salone della centralissima Banca Nazionale dell’Agricoltura fu devastato da un ordigno esplosivo: 17 morti ed un’ottantina di feriti segnavano l’inizio dei cosiddetti “anni di piombo”. La strage di piazza ha tre livelli di interpretazione: salendo dall’uno all’altro, ci si avvicina sempre di più alla verità. Il primo livello, presto abbandonato già in quegli anni, è quello della strage “anarchica”, compiuta dal ballerino e bakuninista Pietro Valpreda.

  • Rizzo: senza l’euro stavamo meglio, l’Ue opprime gli italiani

    Scritto il 06/12/19 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    «Quello che è successo in Europa dipende dall’aver anticipato la parte monetaria rispetto a quell’unificazione politica mai arrivata», dice qualcuno. In realtà non si è trattato di un errore, ma di un qualcosa di voluto e premeditato dai grandi poteri. La ricchezza di metà del pianeta è concentrata nelle mani di pochissimi, e questo si ripercuote nella vita di tutti noi. Quello che non funziona, dalla sanità al sociale, dipende da questo. Siamo obbligati ad avere il pareggio di bilancio in Costituzione, i padri costituenti si rivolteranno nella tomba. Sono dinamiche volute dalla grande economia e appoggiate da una politica supina prima, e supina oggi. Il Movimento 5 stelle e la Lega hanno raccolto i voti sulla critica serrata all’Ue e poi si sono rimangiati tutto. Sono andati lì per battere i pugni e sono tornati con le ginocchia sbucciate, perché a Bruxelles si sono inginocchiati. La Bce e il Fmi, Mario Draghi e Christine Lagarde, contano più del presidente del Consiglio italiano: ma li ha per caso eletti qualcuno? Queste organizzazioni sovranazionali contano più dei governi: siamo nel mondo della globalizzazione capitalista, dove un’impresa è più forte dello Stato. La Apple si è rifiutata di decriptare lo smartphone di un terrorista. Una cosa impensabile, alcuni decenni fa. La dittatura finanziaria ed economica è la peggior cosa che esista.
    Non può essere un singolo paese, da solo, a ribellarsi alla dittatura dei mercati. L’Italia non ha mai avuto una sovranità effettiva, e non appena le personalità importanti sono uscite dalla falsariga di ciò che era determinato per il paese, sono state fatte fuori (Mattei, Craxi per Sigonella, Berlusconi per le vicende di Gheddafi e Putin). In Italia abbiamo centinaia di bombe atomiche e non sappiamo dove sono, anche andando al governo non potremmo farci niente. Bisogna riunire i popoli. Non bisogna contrapporre gli italiani ai tedeschi o agli spagnoli, ma unificare la maggioranza dei popoli. Potremmo lavorare meno e lavorare tutti. La ricchezza potrebbe essere redistribuita, visto che il progresso tecnologico ci permetterebbe di vivere meglio. La moneta è un accordo tecnico. L’euro è stato costruito a tavolino: gli italiani l’hanno provato sulla loro pelle. Quello che costava mille lire costa un euro, ma gli stipendi non sono raddoppiati. Da quando c’è l’euro le cose vanno peggio, nel nostro paese. C’è chi dice: sarebbero andate ancora peggio, senza la moneta unica, ma non c’è la prova di questo. Quando un lavoratore prendeva due milioni di euro stava bene, oggi con mille euro è al palo.
    Arriveremo al 2030 dove l’1% della popolazione avrà la ricchezza dei due terzi del mondo: stiamo andando verso una società neomedievale. A New York si stanno costruendo dei grattacieli antimissile. Larga parte del pianeta sarà disastrato dal punto di vista ambientale e della sicurezza, ma allo stesso tempo ci saranno delle isole felici blindate. Già oggi ci sono appartamenti venduti a 100 milioni di dollari per 100 metri quadrati, cifre mostruose. Nel resto del mondo moriremo tutti di fame. Lo Stato è forte: ogni anno ha 850 miliardi da spendere. La crisi del governo gialloverde con l’Ue era relativa a circa 15 miliardi, tra “quota 100″ e reddito di cittadinanza (una piccola parte). Possiamo decidere cosa spendere. Serve un piano nazionale di messa a punto del nostro territorio. Potremmo assumere giovani geometri, ingegneri, architetti per evitare di pagare i danni da alluvioni e calamità naturali. Questa società è basata solo sul profitto, ma sulla salute non si può guadagnare. La sanità privata serve a chi la fa, non all’utenza. L’istruzione e i trasporti dovrebbero essere pubblici: hanno fatto apposta, a distruggerli, per favorire la loro privatizzazione. L’Europa dei popoli purtroppo oggi non esiste, esiste solo l’Europa dell’euro e delle grandi banche. Non dobbiamo essere dipendenti da Bruxelles, per fare una riforma. Bisogna uscire dall’Ue in un processo collettivo, rivoluzionario, che coinvolga i popoli. Quello italiano non è mai stato troppo avvezzo alle rivoluzioni, ma potrebbe anche imparare molto presto.
    (Marco Rizzo, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti nella video-intervista “Una rivoluzione dei popoli per uscire dall’euro”, pubblicata sul canale video di “Money.it” il 23 gennaio 2019).

    «Quello che è successo in Europa dipende dall’aver anticipato la parte monetaria rispetto a quell’unificazione politica mai arrivata», dice qualcuno. In realtà non si è trattato di un errore, ma di un qualcosa di voluto e premeditato dai grandi poteri. La ricchezza di metà del pianeta è concentrata nelle mani di pochissimi, e questo si ripercuote nella vita di tutti noi. Quello che non funziona, dalla sanità al sociale, dipende da questo. Siamo obbligati ad avere il pareggio di bilancio in Costituzione, i padri costituenti si rivolteranno nella tomba. Sono dinamiche volute dalla grande economia e appoggiate da una politica supina prima, e supina oggi. Il Movimento 5 stelle e la Lega hanno raccolto i voti sulla critica serrata all’Ue e poi si sono rimangiati tutto. Sono andati lì per battere i pugni e sono tornati con le ginocchia sbucciate, perché a Bruxelles si sono inginocchiati. La Bce e il Fmi, Mario Draghi e Christine Lagarde, contano più del presidente del Consiglio italiano: ma li ha per caso eletti qualcuno? Queste organizzazioni sovranazionali contano più dei governi: siamo nel mondo della globalizzazione capitalista, dove un’impresa è più forte dello Stato. La Apple si è rifiutata di decriptare lo smartphone di un terrorista. Una cosa impensabile, alcuni decenni fa. La dittatura finanziaria ed economica è la peggior cosa che esista.

  • Al-Baghdadi, Us Navy, baby-schiavi liberati e guerre stellari

    Scritto il 28/10/19 • nella Categoria: segnalazioni • (4)

    Non sono ancora notizie vere e proprie, ma sono teoricamente enormi: difficili persino da commentare. «Vere? Non saprei. Ma, se lo fossero, potremmo assistere – addirittura nei prossimi giorni – a fatti clamorosi e inattesi, a livello geopolitico, per una volta di segno positivo anziché negativo». La “profezia” di Tom Bosco, redattore dell’edizione italiana della rivista australiana “Nexus”, è datata 22 ottobre. Appena cinque giorni dopo, nel mondo è rimbalzata la notizia delle notizie: l’uccisione del capo dell’Isis, Abu Bakr Al-Baghdadi, nei dintorni di Idlib, in una Siria ampiamente liberata dalla poderosa operazione militare avviata a fine 2016 dalla Russia di Putin. Autori dell’accerchiamento finale di Al-Baghdadi: gli Usa, sotto la regia di Trump. E le “notizie enormi” evocate da Bosco appena cinque giorni prima, a “Border Nights”? Devastanti: una raccapricciante, l’altra fantascientifica. La prima: forze della Us Navy – la stessa arma che ha appena ammesso l’esistenza degli Ufo – circa venti giorni fa avrebbero «liberato 2.1000 bambini detenuti in stato di schiavitù in bunker sotterranei, in California». La seconda “notizia”, di fonte tedesca: nei giorni seguenti, precisamente tra il 19 e il 21 ottobre, si sarebbe svolta nei nostri cieli una decisiva battaglia aerospaziale, con astronavi gigantesche. Esito: i “buoni” avrebbero sconfitto i “cattivi”. Di qui la deduzione di Bosco: se queste voci fossero veritiere, potremmo assistere a eventi geopolitici sbalorditivi in senso positivo.

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