Archivio del Tag ‘nomenklatura’
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Magaldi: solo teatro, nessuno vuol fare guerra a Bruxelles
«Non credete a quelli che gridano “al voto, al voto”: dicono così solo perché sanno benissimo che alle elezioni, tanto presto, non si andrà». Nessuno è sicuro di vincere, né tantomeno poi di saper governare. Qualcuno ce l’ha davvero, un piano? Parla in modo esplicito Gioele Magaldi, autore del bestseller “Massoni” e presidente del “Movimento Roosevelt”: «La prima cosa che un premier italiano dovrebbe fare – dichiara Magaldi a “Colors Radio” all’indomani dell’incarico a Gentiloni – è tramutare in atti precisi quell’abbiare vano, alla luna, da parte di Renzi, “abbasso la tecnocrazia, abbasso l’Europa matrigna”». Abbaiare non basta, servono fatti: «Tipo: riconvocare a Ventotene la Merkel e Hollande, e dir loro: signori, se non rivediamo i trattati, l’Italia ne sospende la validità sul suolo italiano, torniamo alla lira e facciamo quello che ci pare». Magaldi lo afferma «da europeista convinto», che tifa per «un’Europa coesa», e soprattutto «democraticamente legittimata nelle sue istituzioni». Ma quello è il punto di partenza: stracciare i trattati Ue. «Tutto il resto non conta niente, se non c’è una riappropriazione della sovranità monetaria».Gentiloni? «Un personaggio incolore, che non può fare ombra a Renzi, non a caso scelto per questo, dall’ex premier, tra altre mezze calzette del suo ex esecutivo». L’unica buona notizia sarebbe la bocciatura di Padoan: Magaldi si è impegnato in prima persona, anche con una lettera aperta a Mattarella, per invitare il presidente della Repubblica a evitare la nomina di Padoan, «che milita nella Ur-Lodge “Three Eyes”, massima interprete del peggior rigore tecnocratico europeo». Lo stesso Renzi non è mai stato un fan di Padoan: «Gli era stato messo alle costole come cane da guardia, perchè – appunto – contro la tecnocrazia e l’austerity si limitasse ad abbaiare, senza mordere mai». Durerà, Gentiloni? «Impossibile dirlo: basta vedere quanto durò il governo Dini». Renzi, però, vorrebbe votare subito – lui sì. «Anche qui sarei cauto», dice Magaldi. «E’ vero, Renzi vorrebbe affrettare il congresso Pd per ottenere una forte investitura e poi andare al voto, ma vedo in campo diversi progetti, a livello italiano e internazionale, che non coincidono con i desiderata dell’ex premier».Poteri forti, a cui il rottamatore non piace più? Certo, per Renzi, i problemi non vengono dal Pd. «Intanto, non c’era nessuna necessità di dimettersi. E in ogni caso, l’ex primo ministro non esce affatto distrutto dall’esito referendario: ha anzi incassato un notevole consenso personale, anche se poi non è detto che si traduca in voti quando si andrà a elezioni. Poi, comunque, Renzi ha inserito nel governo Gentiloni persone fidate in ruoli vitali». Soprattutto, continua Magaldi, l’ex premier «sa benissimo di aver conquistato il partito per assenza di competitori». La verità è che «il Pd è fatto di vecchie cariatidi, personaggi che hanno meno appeal di una patata bollita». Proprio per questo Renzi ha conquistato la poltrona di segretario. «E la situazione non è cambiata: non è che la gente ha nostalgia di Bersani e di tutti i bersaniani che hanno approvato il Fiscal Compact», durante il governo Monti. «Tra Bersani e Renzi, la maggioranza preferità sempre Renzi, a parte qualche nostalgico di non si sa quali “tempi d’oro” sotto la segreteria Bersani o di altri che l’hanno preceduto. Quindi è ovvio che Renzi stravincerà qualunque congresso».Ma da qui al voto anticipato, ne corre. «Io non mi fiderei di quelli che oggi sembrano scalpitare le elezioni», dice Magaldi, che cita «troppi parlamentari 5 Stelle che, se si votasse prima di settembre, rischierebbero di essere inghiottiti dal nulla da cui sono venuti. E vale anche gli altri che gridano: nessuno ha certezze per il futuro. E poi: sono pronti, a vincere?». Per Magaldi è solo «una pantomima», un gioco teatrale: «Nel momento in cui l’attuale maggioranza dicesse “ok, andiamo a votare”, temo che vedremmo la scenetta comica di questi che oggi gridano “al voto, al voto”, dire “ma no, resta un altro po’, così ti posso fare opposizione e posso scendere in piazza». Per cui, «nessuno scandalo, se la legislatura continua». Non ci sono in vista nemmeno coalizioni convincenti. Un’alleanza tra Lega e grillini? «Impossibile, sono concorrenti». Magaldi si dichiara «da tempo simpatizzante della prospettiva 5 Stelle». Ma, aggiunge, «la realtà concreta è un’altra. E finora è stata molto al di sotto della prospettiva». Soprattutto: «E’ inutile pensare che la soluzione dei problemi degli italiani sarà la durata del governo Gentiloni o l’ascesa al potere della Lega, di Grillo, del centrodestra, se nessuno di costoro si farà artefice del braccio di ferro con l’Ue». Magaldi vede la necessità di «un braccio di ferro cruento, politicamente duro, con cui si devono riscrivere i trattati europei». E insiste: «Se non si comincia da qui, non si va da nessuna parte. Bisogna che sia chiaro. Tutto il resto è latrare di cani e svolazzare di galline».«Non credete a quelli che gridano “al voto, al voto”: dicono così solo perché sanno benissimo che alle elezioni, tanto presto, non si andrà». Nessuno è sicuro di vincere, né tantomeno poi di saper governare. Qualcuno ce l’ha davvero, un piano? Parla in modo esplicito Gioele Magaldi, autore del bestseller “Massoni” e presidente del “Movimento Roosevelt”: «La prima cosa che un premier italiano dovrebbe fare – dichiara Magaldi a “Colors Radio” all’indomani dell’incarico a Gentiloni – è tramutare in atti precisi quell’abbiare vano, alla luna, da parte di Renzi, “abbasso la tecnocrazia, abbasso l’Europa matrigna”». Abbaiare non basta, servono fatti: «Tipo: riconvocare a Ventotene la Merkel e Hollande, e dir loro: signori, se non rivediamo i trattati, l’Italia ne sospende la validità sul suolo italiano, torniamo alla lira e facciamo quello che ci pare». Magaldi lo afferma «da europeista convinto», che tifa per «un’Europa coesa», e soprattutto «democraticamente legittimata nelle sue istituzioni». Ma quello è il punto di partenza: stracciare i trattati Ue. «Tutto il resto non conta niente, se non c’è una riappropriazione della sovranità monetaria».
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Cacciari: arriva la catastrofe, solo il Pd non lo capisce
«Oggi trionfano quelli che chiamate populisti, ma domani sarà molto peggio: vincerà la destra-destra, quella vera, con conseguenze spaventose per l’Europa». Il filosofo Massimo Cacciari, in prima serata, dipinge così il day-after referendario, parlando ai (pochi) renziani moderati, ancora tramortiti dallo tsunami del 4 dicembre. «Sono anni – dice Cacciari, ospite di Lilli Gruber su La7 – che chiedo inutilmente al Pd di fare qualcosa contro la crisi che sta devastando il tessuto sociale italiano, a cominciare dalla stessa base sociale di quel partito». E invece sono arrivati il beffardo Jobs Act e provocazioni continue contro i sindacati, fino all’harakiri finale: una riforma costituzionale assurda, incomprensibile, respinta a furor di popolo da chi si è sentito essenzialmente preso in giro. E la musica non cambia nemmeno dopo la débacle di Renzi: «Ci risiamo con le polemiche di palazzo, i calcoli, le tattiche. Non una sola parola di vera autocritica, da un partito ormai al governo da quattro anni. Cosa intende fare, il Pd, per rispondere alle drammatiche urgenze degli italiani?». Perdurando l’assenza di risposte, Cacciari vede una strada a senso unico: il legittimo voto di protesta aprirà la strada al livido trionfo di una destra intollerante e reazionaria, di cui avere paura.Cacciari sa benissimo che il Pd è un fallimento, «e infatti Renzi ha potuto impadronirsene proprio perché in crisi: fosse stato in buona salute, non avrebbe avuto quello spazio». E il Pd «si è rotto fin dall’inizio, una settimana dopo la sua fondazione», a cui il filosofo (già sindaco di Venezia) collaborò, per poi distaccarsene rapidamente. Cacciari si rifiuta di aderire alla lettura dei critici più intransigenti, secondo cui il centrosinistra in Europa (quindi il Pd in Italia) non è stato “un fallimento, frutto di errori”, ma un complice organico, cooptato dalla destra economica per distruggere i diritti sociali, patrimonio storico della sinistra. Demolire il welfare sarebbe stato impossibile, per governi di centrodestra: occorrevano “collaborazionisti” in grado di mobilitare l’elettorato di sinistra per appoggiare tutte le controriforme degli ultimi anni, dai decreti sul lavoro all’agenda Monti, nel quadro di un “format” europeista modellato dalla finanza e dalle multinazionali con l’obiettivo di sterilizzare le pulsioni sociali dei governi, l’istinto democratico di protezione delle comunità nazionali, verso il tramonto storico dei diritti. «Siamo sull’orlo della catastrofe», dice Cacciari, ben sapendo che il voto del 4 dicembre è l’ultimo avvertimento prima del “diluvio” che minaccia di travolgere tutto.Anziché liquidare il Pd come “gatekeeper”, abbaglio collettivo e specchietto per allodode “di sinistra”, in realtà completamente asservito all’élite, Cacciari insiste sul partito fondato da Veltroni, poi ereditato da Franceschini e Bersani, quindi “occupato militarmente” da Renzi. Nel mirino del filosofo veneziano restano le imbarazzanti nomenklature alla testa di un disegno fallito (o di un grande inganno, a seconda dei punti di vista), ma la prima preoccupazione è per l’elettorato, che rappresenta ancora un patrimonio sociale e culturale che il Pd ha prima congelato, poi illuso, e oggi deluso e tradito. “Smontato” anche quello, secondo Cacciari, cadrà un argine: e i dirigenti del Pd non stanno facendo nulla perché quella diga non crolli. La situazione dell’Italia, sotto il regime Ue, è ormai insostenibile: e dal partito di Renzi, D’Alema e Bersani, non un fiato. I giovani, in massa, hanno votato No al referedum. Ma l’ex Ulivo non ha nulla da dire, di serio, sull’Europa – nulla da proporre, in concreto, per riscrivere (davvero) le regole, costruendo un orizzonte sostenibile, diverso dai salari irrisori, dai lavori precari e neo-schiavistici. Il boato del No ha frastornato tutti, dimissionando Renzi, ma a quanto pare non ha sortito alcun effetto capace di trrasformare il Pd in uno strumento socialmente utile.«Oggi trionfano quelli che chiamate populisti, ma domani sarà molto peggio: vincerà la destra-destra, quella vera, con conseguenze spaventose per l’Europa». Il filosofo Massimo Cacciari, in prima serata, dipinge così il day-after referendario, parlando ai (pochi) renziani moderati, ancora tramortiti dallo tsunami del 4 dicembre. «Sono anni – dice Cacciari, ospite di Lilli Gruber su La7 – che chiedo inutilmente al Pd di fare qualcosa contro la crisi che sta devastando il tessuto sociale italiano, a cominciare dalla stessa base sociale di quel partito». E invece sono arrivati il beffardo Jobs Act e provocazioni continue contro i sindacati, fino all’harakiri finale: una riforma costituzionale assurda, incomprensibile, respinta a furor di popolo da chi si è sentito essenzialmente preso in giro. E la musica non cambia nemmeno dopo la débacle di Renzi: «Ci risiamo con le polemiche di palazzo, i calcoli, le tattiche. Non una sola parola di vera autocritica, da un partito ormai al governo da quattro anni. Cosa intende fare, il Pd, per rispondere alle drammatiche urgenze degli italiani?». Perdurando l’assenza di risposte, Cacciari vede una strada a senso unico: il legittimo voto di protesta aprirà la via al livido trionfo di una destra intollerante e reazionaria, di cui avere paura.
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Barnard: ed ecco l’omicidio perfetto per fermare la Brexit
Citai quel terribile studio, anzi, appello, pubblicato dalla più prestigiosa rivista medica del mondo, il “The Lancet”, che gridava che la Ue della nomenklatura stava ammazzando al ritmo di un bombardamento della Seconda Guerra Mondiale, in Grecia. Vi ricordate i numeri? Migliaia di feti morti prematuri (aumento del 40%), aumento delle infezioni da Hiv del 3.000% (sì, tremila) a causa mancanza di siringhe nelle province, ammalati di tumore lasciati a urlare come cani senza morfina fino alla morte, la vita media retrocessa a livello degli anni ’40. E nessuno può calcolare quanti altri europei sono morti prematuramente a causa di questa catastrofe voluta a tavolino chiamata Maastricht & Eurozona, anche se il fatto che oggi l’11% degli italiani non si può più curare adeguatamente la dice lunga. Ieri è morta una splendida persona, la parlamentare inglese Jo Cox, donna dalle mille battaglie umanitarie ammazzata da un rivoltante pazzoide in strada. Si dice che l’uomo gridasse “Prima la Gran Bretagna!”, era ovviamente un fanatico pro Brexit, e la povera deputata era invece per rimanere nell’Unione. Sospendiamo per un attimo l’emotività e l’orrore per questo osceno incubo.Il fatto indubitabile è che l’opinione pubblica inglese ora con una probabilità vicina al 99% si sposterà verso il voto pro Ue, mentre gli ultimissimi sondaggi davano Brexit davanti. Anche perché la fanfara della nomenklatura strillerà a 8000 decibel che i pro Brexit sono una masnadsa di fascisti, hooligan, medievali nazionalisti, buffoni alla Farage, estremisti pericolosi ecc. Non finirà più di suonare da qui al 23 giugno. Credo – e spero tanto di sbagliarmi, ma no – che dovremo dire addio a Brexit, dire addio cioè alla più straordinaria opportunità della Storia di distruggere la nomenklatura di Bruxelles che, come detto sopra, uccide diecimila volte di più del bastardo cane assassino di Jo Cox. Sono senza parole. E giuro, e guardate che veramente lo scrivo con le dita che mi si stanno rattrappendo fino a spezzarmi le falangi, che non posso levarmi dalla testa l’idea che ho sempre ritenuto l’ultima idea che un giornalista vero debba mai intrattenere nel suo cervello, dopo aver esaurito ogni altra ricerca: il complotto.Cazzo, che caso, mi dice una parte della mia testa, Cameron a febbraio cospira con la mega azienda di private security Serco per far partire una campagna segreta di sputtanamento di Brexit. Tutta la nomenklatura dei peggiori ceffi di Bruxelles fa muro contro Brexit. I neo-nazi di Merkel-Schauble ragliano minacce di fuoco, ma tutto quello che ottengono è che i sondaggi volano sempre più verso il voto per uscire dalla Ue. Poi arriva la riunione del Bilderberg in Germania, e oplà, uno dei volti più belli e umanamente puliti del ‘Rimaniamo in Ue’ viene macellata a pochi giorni dal voto al grido di “Prima la Gran Bretagna!”. Oplà, eh? Ma io non sono un Blondet o un Mazzucco, io faccio un altro mestiere, il giornalista, e senza l’Edward Snowden del caso Cox io ficco il complotto nella spazzatura, e dico solo una cosa. Una morte ora rischia con altissime probabilità di permetterne altre decine di migliaia per decenni per ciò che ho scritto due paragrafi più sopra. Sono senza parole, I’m beyond words.(Paolo Barnard, “Un morto aiuterà a produrne altre decine di migliaia, goodbye Brexit?”, dal blog di Barnard del 17 giugno 2016).Citai quel terribile studio, anzi, appello, pubblicato dalla più prestigiosa rivista medica del mondo, il “The Lancet”, che gridava che la Ue della nomenklatura stava ammazzando al ritmo di un bombardamento della Seconda Guerra Mondiale, in Grecia. Vi ricordate i numeri? Migliaia di feti morti prematuri (aumento del 40%), aumento delle infezioni da Hiv del 3.000% (sì, tremila) a causa mancanza di siringhe nelle province, ammalati di tumore lasciati a urlare come cani senza morfina fino alla morte, la vita media retrocessa a livello degli anni ’40. E nessuno può calcolare quanti altri europei sono morti prematuramente a causa di questa catastrofe voluta a tavolino chiamata Maastricht & Eurozona, anche se il fatto che oggi l’11% degli italiani non si può più curare adeguatamente la dice lunga. Ieri è morta una splendida persona, la parlamentare inglese Jo Cox, donna dalle mille battaglie umanitarie ammazzata da un rivoltante pazzoide in strada. Si dice che l’uomo gridasse “Prima la Gran Bretagna!”, era ovviamente un fanatico pro Brexit, e la povera deputata era invece per rimanere nell’Unione. Sospendiamo per un attimo l’emotività e l’orrore per questo osceno incubo.
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La Santa Corruzione nel Paese delle Meraviglie
Nel Paese delle Meraviglie, anche l’ottimismo può sfociare nel patologico, non solo il pessimismo. Il pessimismo diventa depressione, l’ottimismo magari si trasforma nell’euforia tossica del credulone che si esalta nel cibarsi delle spoglie del “mostro” di turno sbattuto in prima pagina, ma ignora che di pagine ce ne sono tante altre. Solo che quelle non gli vengono mostrate. Meglio ancora se il mostro è un personaggio importante, mettiamo il sindaco della capitale d’Italia. In tal modo un sistema marcio riesce nel duplice intento di ristrutturare la propria vacillante impalcatura, e di fare ciò col pieno consenso dei cittadini benché se ne ribaltino le scelte espresse alle urne. Sarebbe anche imbarazzante non porsi neanche un dubbio nel momento in cui all’improvviso tutti i centri di potere locali e nazionali, ivi compreso il partito aspirante (unico?) della nazione, col cappellaio matto in prima fila (indovina chi è), decidono all’unanimità che l’affaire-scontrini è storiella talmente inusitata da reclamare la testa dell’orrendo peccatore. Come se le “cene istituzionali” o presunte tali fossero abitudine esclusiva dell’eresiarca inquilino del Campidoglio.Saremo noi oltremodo scettici, ma una vicenda dai contorni così farseschi non può non farci sospettare che quello senza “amici degli amici” alla lunga fosse proprio l’antieroe condominiale in questione, piuttosto che i suoi inquisitori. I quali probabilmente continueranno a gozzovigliare sulle macerie dell’Urbe, magari con un palazzinaro o un uomo d’apparato in grado di garantire quella pax intrallazzista che con ogni evidenza lo sventurato non aveva la stoffa per garantire. Tutti tranne i pentastellati: loro lo fanno gratis, ça va sans dire. Anche se il loro democratico impegno per sbarazzarsi del turista per caso deve averli distratti da una vicenda come l’acquisizione di RCS da parte di Mondadori che la democrazia – almeno quella delle idee – la mette a repentaglio sul serio (dopotutto a distrarsi su questo sono state tutte le forze politiche e le testate, fra i pochissimi ad informarne i cittadini il rooseveltiano Sergio Di Cori Modigliani tramite il suo blog).Questo a prescindere dall’opinione che si ha in merito alle politiche, alle appartenenze, e a tutte quelle altre valutazioni che possono essere positive, negative, molto negative, ma rientrano comunque nel campo dell’opinabile. A meno che non si arrivi a credere che per ridurre una città come Roma nello stato impietoso in cui si trova siano sufficienti due miseri anni: in tal caso l’opinabile diventa tutto il reale, come in Alice nel Paese delle Meraviglie, con la differenza che dalla tana del Bianconiglio non se ne esce più.(Gianluca Lorefice, “La Santa Corruzione nel Paese delle Meraviglie”, dal blog del Movimento Roosevelt del 10 ottobre 2015).Nel Paese delle Meraviglie, anche l’ottimismo può sfociare nel patologico, non solo il pessimismo. Il pessimismo diventa depressione, l’ottimismo magari si trasforma nell’euforia tossica del credulone che si esalta nel cibarsi delle spoglie del “mostro” di turno sbattuto in prima pagina, ma ignora che di pagine ce ne sono tante altre. Solo che quelle non gli vengono mostrate. Meglio ancora se il mostro è un personaggio importante, mettiamo il sindaco della capitale d’Italia. In tal modo un sistema marcio riesce nel duplice intento di ristrutturare la propria vacillante impalcatura, e di fare ciò col pieno consenso dei cittadini benché se ne ribaltino le scelte espresse alle urne. Sarebbe anche imbarazzante non porsi neanche un dubbio nel momento in cui all’improvviso tutti i centri di potere locali e nazionali, ivi compreso il partito aspirante (unico?) della nazione, col cappellaio matto in prima fila (indovina chi è), decidono all’unanimità che l’affaire-scontrini è storiella talmente inusitata da reclamare la testa dell’orrendo peccatore. Come se le “cene istituzionali” o presunte tali fossero abitudine esclusiva dell’eresiarca inquilino del Campidoglio.
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L’ultima di Nichi: nuova sinistra, zero idee e fedeltà all’Ue
Volete ridere? Per creare il “nuovo soggetto politico di sinistra”, di cui l’Italia ha bisogno come il pane, a farsi avanti è Nichi Vendola. Tradotto: Sel si candida ad aggregare i fuoriusciti del Pd, Rifondazione e qualche transfuga del M5S, per poi mendicare poltrone al riparo del Pd e della fedeltà al regime Ue-Nato. «La novità starebbe nel fatto che questa volta non si tratterebbe di un “improvvisato cartello elettorale” ma di un soggetto unitario, insomma un nuovo partito», diverso cioè dall’album degli orrori degli ultimi anni (Sinistra Europea, Sinistra Arcobaleno, Rivoluzione Civile, L’Altra Europa con Tsipras). Aldo Giannuli, politologo ed ex dirigente del Prc prima della scissione vendoliana, oscilla tra ilarità e sconforto: «Capisco che Sel sia l’unico di questi gruppi ad avere un minimo di organizzazione nazionale e un gruppo parlamentare, e capisco che Sel si collochi al centro fra Rifondazione e i fuorusciti del Pd, ma la politica? Dico: la politica dov’è?». La proposta di Nichi? Zero assoluto, con un’aggravante: guardare ancora con fiducia a Bruxelles e alla Bce che hanno fatto a fette la Grecia. «Le varie sinistre arcobaleno non sono fallite per chissà qualche congiunzione astrale, ma perché non avevano niente da dire». E infatti, ci risiamo.Il metodo è quello di sempre, accusa Giannuli: lunghi elenchi di nomi, «gruppetti e gruppettini, defilè di vecchie stelle del varietà e di generali senza esercito», ma quanto a idee siamo allo zero assoluto. «Sul fisco che diciamo? Zero. Dobbiamo restare nella Nato? Zero. Quali politiche occupazionali vogliamo promuovere? Non pervenuto. Come rilanciare l’industria in Italia? Zero. Quale politica della ricerca? Zero. Quale riforma della giustizia? Zero. E voi volete fare così un nuovo partito? A me hanno sempre insegnato che prima ci si dà una politica e dopo si cerca di costruire lo strumento adatto a realizzarla». Ma Vendola riesce a fare anche peggio, provando a riesumare lo zombie dell’europeismo: «Vogliamo sentire parole di rilancio del sogno dell’Europa federale. E’ necessario conferire più poteri alla Bce», affinché questo soggetto diventi «prestatore di ultima istanza, impedendo che il sistema creditizio internazionale si comporti come un usuraio nei confronti dei popoli del sud dell’Europa»Quindi, deduce Giannuli, «non solo Vendola pensa che il cadavere della Ue debba restare insepolto, ma per “rivitalizzarlo” si affida ai finanzieri della Bce che sono quelli che stanno strangolando la Grecia e che, per Vendola, “devono avere più poteri” (perbacco!). E per fare questa minchiata (scusatemi il termine) c’è bisogno di fare un nuovo partito di sinistra?». Siamo a posto: «Che Vendola capisca di economia come io di dialetti esquimesi era cosa nota – premette Giannuli – ma lui pensa che se Draghi non emette liquidità con il sifone del selz è perché ha pochi poteri. Non gli viene in testa che l’euro è una moneta che ha come obiettivo prioritario la stabilità, e che dunque i tedeschi non permetterebbero mai di fare quello che lui sogna e che neanche Draghi vuole più di tanto. Dunque, la somma algebrica della sua relazione è la seguente: 0+ 0 +0 + 0 + 1 sbagliato». Sicché, «sulla base di questo programma, per quale motivo la gente dovrebbe votare questo ennesimo accrocchio di ceti politici di sinistra?».Bene che vada, continua Giannuli, verrà fuori il solito partitino del 4-5% che, «dopo un po’ di smorfie, si adatterà a fare il cespuglio del Pd, sempre che Renzi ce lo voglia». E per di più «dopo una lunghissima serie di fallimenti implacabili e in una situazione internazionale molto peggiore del passato». Appello: «Caro Nichi, non ti sei accorto che il tuo partito nasce morto ed è già stato sconfitto? E’ stato sconfitto definitivamente ad Atene. Auguri». Prima di chiudere, Giannuli – che si dichiara “uno dei più antichi filologi” della “poetica” di Vendola – si diverte a fornire «all’ignaro lettore» quella che definisce «l’esatta versione in prosa di alcuni passaggi del suo alato discorso», all’assemblea nazionale di Sel. Dice il leader: «Sel non si scioglie, ma investe il suo patrimonio per rinascere in una cosa più grande». Traduzione: Sel si pone come soggetto centrale che aggrega gli altri. «Basta con i cartelli elettorali e gli accrocchi di ceto politico», insiste Nichi. Traduzione di Giannuli: gli altri sì, si devono sciogliere, mentre Sel, che aspira ad essere il pezzo più importante del costituendo nuovo partito, ambisce ad essere il principale azionista, quindi farà le liste senza garantire nessun altro partecipante.Vendola evoca una nuova sinistra di governo, plurale, inclusiva, moderna che sappia anche «inventarsi nuove leadership» e che sia «costruita con le nuove generazioni»? In realtà vuol dire: un partito che cercherà spiragli per ottenere qualche poltrona, e non ha nessuna intenzione di restare all’opposizione. «E che ci darà nuovi Pisapia, Doria, Boldrini…». Quanto alla leadership, ci sarà un ricambio generazionale. Quando? “Dopo”, ovviamente, amche se Nichi annuncia: «Possiamo congedarci definitivamente dall’epoca della sinistra del rancore e dei risentimenti». Traduzione: “Ferrero, non ti montare la testa che non conterai niente”. E infine: «Dobbiamo confrontarci ora per far nascere una nuova, grande stagione referendaria». Magnifico, molto democratico. Traduzione di Giannuli: “Non sappiamo su cosa, ma indiremo qualche referendum per fare un po’ di campagna promozionale”.Volete ridere? Per creare il “nuovo soggetto politico di sinistra”, di cui l’Italia ha bisogno come il pane, a farsi avanti è Nichi Vendola. Tradotto: Sel si candida ad aggregare i fuoriusciti del Pd, Rifondazione e qualche transfuga del M5S, per poi mendicare poltrone al riparo del Pd e della fedeltà al regime Ue-Nato. «La novità starebbe nel fatto che questa volta non si tratterebbe di un “improvvisato cartello elettorale” ma di un soggetto unitario, insomma un nuovo partito», diverso cioè dall’album degli orrori degli ultimi anni (Sinistra Europea, Sinistra Arcobaleno, Rivoluzione Civile, L’Altra Europa con Tsipras). Aldo Giannuli, politologo ed ex dirigente del Prc prima della scissione vendoliana, oscilla tra ilarità e sconforto: «Capisco che Sel sia l’unico di questi gruppi ad avere un minimo di organizzazione nazionale e un gruppo parlamentare, e capisco che Sel si collochi al centro fra Rifondazione e i fuorusciti del Pd, ma la politica? Dico: la politica dov’è?». La proposta di Nichi? Zero assoluto, con un’aggravante: guardare ancora con fiducia a Bruxelles e alla Bce che hanno fatto a fette la Grecia. «Le varie sinistre arcobaleno non sono fallite per chissà qualche congiunzione astrale, ma perché non avevano niente da dire». E infatti, ci risiamo.
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Sofri consulente alla giustizia: arrivati al fondo, si scava
Renzi non è un inetto. Renzi ha alcuni obiettivi da perseguire. Alcuni mandati, alcuni compiti da eseguire. La distruzione del tessuto sociale, la distruzione dell’assetto democratico e la distruzione dello Stato di Diritto. Era già chiaro dall’inizio, con la revisione dell’articolo 416 ter del Codice Penale. Una norma “perfetta” l’avrebbe definita il Procuratore Generale Lombardi. Così, almeno, continua a ripetere la presidente della Commissione Antimafia Bindi. Cieca e sorda rispetto agli effetti che questa “riforma” sta producendo. Una riforma che costringe alla scarcerazione indagati per voto di scambio. Era chiaro dall’inizio, con la cosidetta “depenalizzazione dei reati minori”: 112 reati che non costituiscono più reato penale. Alcuni odiosissimi, come lo stalking, lo stupro e ovviamente evasione fiscale e falsi in bilancio. Nel volgere di un anno sono stati più volte “attenzionati” gli argomenti “evasione fiscale” e “falso in bilancio”. Ogni volta alleggerendo ora la pena e ora il reato per arrivare alla nuova “legge anticorruzione” e alla fine è stato creato un sistema per cui, di fatto, il falso in bilancio non esiste più.Ovviamente non può mancare l’antiriciclaggio. La storia della impunibilità se l’autoriciclaggio avviene per “utilità personale” è tutta da ridere. E mentre per i “reati da poveracci” nulla cambia, i “colletti bianchi” e la casta politica sono al sicuro. Per buona misura, poi, viene introdotta la responsabilità civile diretta dei giudici. Uno strumento perverso per cui chi ha disponibilità di denaro, di fatto condiziona la libertà di giudizio del giudice. Una giustizia sempre più elitaria che i continui aumenti dei contributi unificati rendono inaccessibile al cittadino comune che chiede giustizia. Il contributo aumenta con la “legge di stabilità 2015”, ma era già aumentato a giugno 2014. Una condizione medioevale in cui sussistono diversi piani di giustizia. Una giustizia riservata ai potenti e un’altra (quasi vessatoria, basti pensare al sistema tributario e a Equitalia, che di “equo” non ha nulla) che investe (è il caso di dirlo) i comuni cittadini. Ma non è sufficiente. Occorre, adesso, rimuovere anche il “senso di Giustizia”. Occorre instillare il convincimento (fondato, peraltro) di vivere in un paese in cui è l’ingiustizia ad essere premiata.Ecco, quindi, parlamentari indagati e per i quali viene richiesta autorizzazione all’arresto e sottosegretari indagati, in faccende estremamente contigue a “mafia capitale”, attorno ai quali si sollevano muri di ipocrita garantismo. Ecco Poletti che “legittimamente” va a cena con Buzzi e capi mafia sostenendo che “non sapeva”. Ecco le candidature della Paita in Liguria, di De Luca in Campania, che viene candidato CONTRO legge, ma per il quale, pur rischiando blocchi istituzionali inimmaginabili vengono studiati metodi per consentirgli l’insediamento per consentirgli di nominare la Giunta e governare per il tramite di un vice presidente fantoccio. E non dimentichiamo Poziello (candidato e poi eletto sindaco di Giugliano) anch’egli rinviato a giudizio e sostenuto, manco a dirlo, da De Luca.Quando pensi di aver toccato il fondo, ecco che dal cappello renziano esce un altro coniglio che fa apparire acqua fresca lo scandalo precedente. Serve ad abituarci, a costruire una cultura della illegalità. Con un decreto del 19 giugno, infatti, il ministro Orlando ha nominato Adriano Sofri “consulente” per la riforma carceraria: “Responsabile di istruzione e cultura negli Stati generali delle carceri”. Adriano Sofri consulente del Ministero di Giustizia. Chi sia Adriano Sofri lo spiega il “Corriere.it”. Sofri. Il mandante dell’omicidio del commissario Calabresi. Sofri. È il “renzismo bellezza”. Adriano Sofri, infatti, è il suocero di Daria Bignardi. Il padre di quel Luca Sofri che appella Matteo Renzi con “ciao, capo”.(Stefano Ali, “Sofri consulente del ministero Giustizia, giunti al fondo si scava”, dal blog “Il Capello Pensatore” del 24 giugno 2015).Renzi non è un inetto. Renzi ha alcuni obiettivi da perseguire. Alcuni mandati, alcuni compiti da eseguire. La distruzione del tessuto sociale, la distruzione dell’assetto democratico e la distruzione dello Stato di Diritto. Era già chiaro dall’inizio, con la revisione dell’articolo 416 ter del Codice Penale. Una norma “perfetta” l’avrebbe definita il Procuratore Generale Lombardi. Così, almeno, continua a ripetere la presidente della Commissione Antimafia Bindi. Cieca e sorda rispetto agli effetti che questa “riforma” sta producendo. Una riforma che costringe alla scarcerazione indagati per voto di scambio. Era chiaro dall’inizio, con la cosidetta “depenalizzazione dei reati minori”: 112 reati che non costituiscono più reato penale. Alcuni odiosissimi, come lo stalking, lo stupro e ovviamente evasione fiscale e falsi in bilancio. Nel volgere di un anno sono stati più volte “attenzionati” gli argomenti “evasione fiscale” e “falso in bilancio”. Ogni volta alleggerendo ora la pena e ora il reato per arrivare alla nuova “legge anticorruzione” e alla fine è stato creato un sistema per cui, di fatto, il falso in bilancio non esiste più.
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Grecia: 10.000 suicidi in 5 anni, l’ultimo quello di mio figlio
Theodoros Giannaros tiene gli occhi fissi sul computer e una sigaretta tra le dita. Guarda le immagini di alberi, di spiagge. È talmente assorto da non accorgersi che la cenere sta coprendo la tastiera. Compare l’immagine di un giovane. Bello, sorridente. «È mio figlio, si è tolto la vita pochi giorni fa. Aveva 26 anni. Quando l’ho saputo non sono riuscito a fare altro che questo video». Atene, Ospedale Elpis: un complesso di palazzine bianche nel centro della città. È un giorno festivo, ma il dottor Giannaros si fa trovare nel suo ufficetto di direttore. Siede lì dal 2010. È un biologo molecolare, specializzato in genetica. Ha studiato a Karlsruhe, in Germania, a San Francisco e a Vienna. Da anni è un punto di riferimento assoluto per tutta la Grecia. Quando interviene sui giornali o in tv nessuno si permette di contraddirlo. Fruga ancora nel pacchetto di nazionali, tira fuori l’ennesima sigaretta e un’altra sassata: «Mio figlio è solo l’ultimo di una lista interminabile. Da quando è iniziata la crisi in questo paese si sono suicidate 10 mila persone. Sì, ha capito bene: 10 mila. È come se una grande città fosse stata cancellata dalla carta geografica della nazione».Giannaros ha un passato nelle truppe speciali: mostra le foto delle sue ultime missioni, in mimetica, immerso in un fiume fino alle ginocchia. È come se avesse bisogno di una pausa, vuole raccontare ancora qualcosa della sua famiglia, degli altri due figli, 24 e 28 anni. «Anche il più piccolo è un soldato». Lo dice con un sottinteso chiaro: lui si è salvato. Ma quanti sono i giovani senza speranza? Le statistiche si afflosciano come svuotate di senso al cospetto della forza, della dignità di quest’uomo. «Appena arrivato qui incontravo pazienti che mi chiedevano: ma quanto devo pagare per operarmi qui? Quanto per una lastra? Nulla, rispondevo, questo è un ospedale pubblico. Poi mi sono fatto portare il registro delle prenotazioni e ho capito. La lista d’attesa risultava sempre infinita, ma con una buona “fakelaki” si poteva comodamente saltare la fila». “Fakelaki”, la bustarella. «In cortile ho fatto mettere dei cartelli con una busta sbarrata con una grande x rossa. Significa che qui non si accettano tangenti».Le parole del più atipico dei manager conducono nell’antro della crisi. I ragionamenti sulla sostenibilità del debito lasciano il posto alla scarsità di siringhe, bisturi, persino guanti per la sala operatoria. «Abbiamo sviluppato un network di scambi tra le diverse cliniche. Andiamo avanti anche grazie a donazioni in arrivo dalla Svizzera, dall’Austria, dalla Germania». Theodoros accende un’altra sigaretta. Aspira profondamente, poi scarica fumo e una lunga invettiva. Contro le vecchie classi politiche, le dieci famiglie che hanno monopolizzato l’economia del paese, le «idiote» prescrizioni della “Troika”, il Fondo Monetario, la Bce, la Commissione Europea, Angela Merkel. Spera che Alexis Tsipras possa raggiungere qualche risultato, «ma deve avere dietro tutti i partiti, tutta la Grecia. Questo è l’unico modo che abbiamo per sopravvivere». Già, «sopravvivere».«Penso continuamente a quei 10 mila morti che abbiamo seppellito nel silenzio. Penso a mio figlio. E penso che se in Germania un cane muore in malo modo, ecco che il caso finisce sui giornali, se ne dibatte in tv. Ma avete mai sentito parlare dei nostri giovani, dei nostri anziani che si sono suicidati? La guerra civile della Jugoslavia ha fatto 20 mila morti. Quella, però, era una guerra. Che cos’è, invece, questa nostra strage? È una domanda a cui non so rispondere, posso solo dire che in questo momento mi vergogno di essere un europeo». Forse è arrivato il momento di andare. Ma Theodoros ha ancora qualcosa da dire: «In questi anni sono stato corteggiato da tutti i partiti, avrei potuto fare il ministro cento volte. Invece ho sempre voluto restare un uomo libero e mi sono fatto un mare di nemici. Continuo a stare qui, a lavorare per 1.400 euro al mese, cinque volte meno di qualche anno fa. Non posso permettermi la macchina, viaggio in scooter e giro con una pistola. Prima che mio figlio se ne andasse così, mi sentivo anche un privilegiato».(Giuseppe Sarcina, “Grecia: il conto della disperazione? Diecimila suicidi in 5 anni, l’ultimo quello di mio figlio”, dal sito del “Corriere della Sera” del 10 giugno 2015).Theodoros Giannaros tiene gli occhi fissi sul computer e una sigaretta tra le dita. Guarda le immagini di alberi, di spiagge. È talmente assorto da non accorgersi che la cenere sta coprendo la tastiera. Compare l’immagine di un giovane. Bello, sorridente. «È mio figlio, si è tolto la vita pochi giorni fa. Aveva 26 anni. Quando l’ho saputo non sono riuscito a fare altro che questo video». Atene, Ospedale Elpis: un complesso di palazzine bianche nel centro della città. È un giorno festivo, ma il dottor Giannaros si fa trovare nel suo ufficetto di direttore. Siede lì dal 2010. È un biologo molecolare, specializzato in genetica. Ha studiato a Karlsruhe, in Germania, a San Francisco e a Vienna. Da anni è un punto di riferimento assoluto per tutta la Grecia. Quando interviene sui giornali o in tv nessuno si permette di contraddirlo. Fruga ancora nel pacchetto di nazionali, tira fuori l’ennesima sigaretta e un’altra sassata: «Mio figlio è solo l’ultimo di una lista interminabile. Da quando è iniziata la crisi in questo paese si sono suicidate 10 mila persone. Sì, ha capito bene: 10 mila. È come se una grande città fosse stata cancellata dalla carta geografica della nazione».
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Renzi ha dimezzato i suoi voti: va rottamato, in tre mosse
Se nel Pd c’è ancora qualche testa pensante anche vagamente sensibile ai valori di “libertà e giustizia” che definiscono la sinistra (due condizioni che escludono d’emblée Bersani, D’Alema e compagnia cantando) già avrà individuato il “che fare”. In tre mosse. Primo: far cadere Renzi in una delle numerose fiducie che sarà costretto a porre per far passare in Parlamento le sue pimpanti controriforme. Secondo: chiedere allora un immediato congresso del Pd, con le stesse modalità e procedure che portarono Renzi a impadronirsi del partito, partecipazione/iscrizione dei cittadini anche al momento del gazebo, ecc. Terzo, in contrapposizione a Renzi candidare per la segreteria del Pd Maurizio Landini, e parallelamente chiedere al presidente Mattarella che al posto del governo sfiduciato, anziché sciogliere le camere, venga insediato un governo di “tregua repubblicana”, affidato tutto a personalità della società civile e capace di ottenere le convergenze autonome di parlamentari Pd, M5S e altri “volenterosi” sul programma e la credibilità dei ministri preposti a realizzarlo.La razionalità di questo “che fare” non è difficile da riscontrare. Renzi si accinge a completare la distruzione del Pd mutandolo in comitato elettorale personale, intenzione che del resto non aveva mai occultato. La sua politica, per profonda convinzione, è quella di realizzare la contro-rivoluzione di liberismo autocratico vagheggiata da Berlusconi ma restata in panne per i conflitti d’interesse e i crimini nell’armadio (sfociati finalmente in una condanna definitiva, dopo le tante sventate da leggi ad hoc e inciuci) e soprattutto per l’ondata di lotte civili, sociali, d’opinione, con cui la parte migliore della società civile ha saputo fare argine. In realtà il progetto politico di Renzi è la marchionizzazione del paese e delle istituzioni, e la contro-riforma della scuola ne costituisce la più luttuosa evidenza.Renzi è in questo momento debolissimo, malgrado il fumo negli occhi della quasi totalità dei mass media (mai come oggi a “bacio della pantofola” verso l’establishment: ma il “marchionnismo” non è anche questo?). In un anno ha perso la metà dei consensi. La metà, il 50%, un voto su due rispetto al bottino elettorale delle europee, ci rendiamo conto?! Si è letto che sono due milioni di voti, ma nelle sette regioni in cui si è votato. In proiezione nazionale sono cinque milioni e mezzo. Non un’emorragia, un dissanguamento da mattatoio. In un solo anno: quello che passa tra la fiducia dei cittadini al renziano dire, mirabolante, e il giudizio sul renziano fare, miserabile. Perdere in un anno un voto su due non è una “non sconfitta” o una “non vittoria”, è un tracollo, una disfatta, una gogna e rottamazione civica impietosa.Che quanto resti di “opposizione” nel Pd non colga l’attimo dimostrerebbe definitivamente che è ormai ridotta al livello del saracino Alibante di Toledo che “del colpo non accorto / Andava combattendo ed era morto” (Francesco Berni, “L’Orlando innamorato”, LII, 60). Se a questa “opposizione” resta invece ancora un barlume di “spiriti animali”, lucidità vuole che senza coltivare patetici propositi di riprendersi la ditta, decida di uscire di scena con un ultimo gesto di vitalità anziché nel vociare strozzato di un melmoso affondare. Alla vecchia nomenklatura non è data la rivincita, la vendetta sì. A Landini, l’unica vendetta a disposizione di questi burocrati che nessuno rimpiange, può riuscire, da posizioni opposte, di società civile “giustizia e libertà”, l’Opa sul Pd che è riuscita a Renzi or non è guari. La nemesi è nelle possibilità della situazione attuale, ma implica lucidità in tutti i soggetti qui evocati, e razionalità e coraggio sono i pregi che da più tempo latitano presso quanti si dichiarano di sinistra.(Paolo Flores d’Arcais, “Come rottamare Renzi, in tre mosse”, da “Micromega” del 2 giugno 2015).Se nel Pd c’è ancora qualche testa pensante anche vagamente sensibile ai valori di “libertà e giustizia” che definiscono la sinistra (due condizioni che escludono d’emblée Bersani, D’Alema e compagnia cantando) già avrà individuato il “che fare”. In tre mosse. Primo: far cadere Renzi in una delle numerose fiducie che sarà costretto a porre per far passare in Parlamento le sue pimpanti controriforme. Secondo: chiedere allora un immediato congresso del Pd, con le stesse modalità e procedure che portarono Renzi a impadronirsi del partito, partecipazione/iscrizione dei cittadini anche al momento del gazebo, ecc. Terzo, in contrapposizione a Renzi candidare per la segreteria del Pd Maurizio Landini, e parallelamente chiedere al presidente Mattarella che al posto del governo sfiduciato, anziché sciogliere le camere, venga insediato un governo di “tregua repubblicana”, affidato tutto a personalità della società civile e capace di ottenere le convergenze autonome di parlamentari Pd, M5S e altri “volenterosi” sul programma e la credibilità dei ministri preposti a realizzarlo.
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Grazie a Renzi, il prossimo leader dell’Italia sarà Salvini
Signor Nessuno, chiacchierone, vacuo e inattendibile. Promesse non mantenute, tranne quelle fatte all’élite internazionale di potere. Riforme pericolose, interpretate da una nomenklatura incolore, sottomessa, imbarazzante. Dopo appena un anno, il pessimo Matteo Renzi ha già stancato gli italiani. Non è riuscito a fermare i grillini, e – peggio – sta spalancando praterie all’ipotetico leader del futuro prossimo, Matteo Salvini, vero vincitore delle elezioni regionali 2015. Lo sostiene Andrea Scanzi, all’indomani dello schiaffone che gli elettori hanno rifilato al Pd, che ha perso il 15% dei consensi, 2 milioni di voti in meno rispetto alle europee. «Renzi ha già il fiatone. Da vecchio democristiano quale è, dirà di avere vinto anche quando ha perso. In realtà ha preso una botta in fronte (quella fronte così inutilmente spaziosa) così grande che ancora deve accorgersene». E’ difficile perdere quando si vince 5-2: è proprio un controsenso logico palese. «Renzi però ce l’ha fatta», scrive Scanzi. Quattro regioni erano scontate (Toscana, Marche, Umbria, Puglia), eppure in Umbria «il Pd ha rischiato tanto». Inoltre, i candidati in queste Regioni «non erano renziani della prima ora», ma più spesso politici «talora anche poco ortodossi (Emiliano, Rossi)», già in pista molto prima di Renzi.«L’unica vittoria pienamente renziana è quella in Campania con De Luca, e io non me ne vanterei», annota Scanzi sul “Fatto Quotidiano”. I due candidati veramente renziani sono quelli che le hanno buscate, Alessandra Moretti (Veneto) e Raffaella Paita (Liguria), «entrambe “impresentabili”, anche se per motivi diversi». La Moretti «ha inanellato gaffe su gaffe e incarna la totale impreparazione delle droidi renzine». La Paita «è molto peggio: prosecuzione dichiarata del burlandismo, finta nuova, indagata. Il gattopardismo 2.0 ai livelli più deleteri». Il premier, continua Scanzi, aveva puntato tutto su Moretti («con tanto di video in auto agghiacciante») e Paita («inviandole le Charlie’s Angels del renzismo: Boschi, Madia, Pinotti, Serracchiani»). E naturalmente «se n’è fregato, come sempre, delle critiche. I risultati si sono visti». La Moretti, in particolare, «ha ottenuto un risultato straordinario: Zaia ha preso più del doppio dei suoi voti». Tutto era perfetto per lei: l’appoggio dei media, la rottura tra Zaia e Tosi, l’investitura del Gran Capo. «Macché. Le ha prese come se piovesse. La Moretti aveva promesso, in un tweet leggendario, che avrebbero vinto 7-0 e il suo sarebbe stato il golden gol».Poi, la Liguria: «Perdere con Toti pareva impossibile a tutti, ma Renzi ce l’ha fatta». Toti è stato sottovalutato da tutti, scrive Scanzi. «Anche negli studi televisivi, quando gli espertoni e i parlamentari (anche del Pd) ne parlavano, il loro riassunto fuori onda era: “La Paita è improponibile, ma vincerà perché Toti è un signor nessuno, al limite arriva secondo il Movimento 5 Stelle”». Vecchio problema: «L’intellighenzia tende a ritenere invotabili quelli che reputa antipatici. Tipo Toti. La solita autoreferenzialità. E nel frattempo la destra, abituata a turarsi il naso, vince». Molti, a sinistra, «anche tra i parlamentari di Sel», partito che pure in Veneto appoggiava la Moretti, «pur di non veder vincere Paita e Moretti, hanno votato Toti e Zaia». Una Waterloo, che ribadisce «quanto quelle due scelte siano state scriteriate». E così, sono gli altri a festeggiare: come il M5S, entrato nella “seconda fase”, con candidati autonomi da Grillo e Casaleggio. Il Movimento 5 Stelle è ormai la seconda forza nazionale. «Renzi ha fallito anche qui: nel non ammazzare politicamente l’unica forza che teme realmente. Lo aveva promesso e non ce l’ha fatta».Poi ci sono i presunti “sabotatori”, la lista di sinistra messa in piedi in Liguria da Civati e Cofferati. «Come fece a suo tempo la Bresso in Piemonte, i renziani – tipo la Serracchiani – hanno incolpato Pastorino e i civatiani per la (meravigliosa) sconfitta della Paita in Liguria». Alibi piuttosto comodo. «Questa “nuova” classe politica, tanto dannosa quanto caricaturale – scrive Scanzi – si caratterizza per un’arroganza carnivora smisurata. Prima ti cacciano dalle commissioni o magari dal partito; ti trattano come paria, ti bastonano ogni giorno: poi, se qualcuno nel Pd osa ribellarsi, si arrabbiano perché i sottoposti hanno osato alzare la testa». Ma non tutti sono come Bersani, «che si è ridotto a fare pure lui il testimonial della Paita nonostante le continue mazzate ricevute dai renziani». La Paita ha perso? Colpa sua e di chi l’ha candidata. E ora, chi passerà all’incasso è il trucido Salvini, in totale ascesa: ha un consenso ormai trasversale, ha sfondato anche al centro ed è il vero leader del centrodestra. Se deciderà di presentarsi con tutte le forze del centrodestra, «può eccome vincere le elezioni». Superato il Rubicone, insomma: «Fino a ieri il goffo bulletto Renzi poteva fare il gradasso» e minacciare il voto anticipato, certo di vincere. Oggi non è più così, perché «sono cambiati i rapporti di forza». E l’Italicum, «nato per uccidere il M5S», dato che premia i partiti e non le coalizioni «paradossalmente potrebbe aiutare proprio i 5 Stelle».Signor Nessuno, chiacchierone, vacuo e inattendibile. Promesse non mantenute, tranne quelle fatte all’élite internazionale di potere. Riforme pericolose, interpretate da una nomenklatura incolore, sottomessa, imbarazzante. Dopo appena un anno, il pessimo Matteo Renzi ha già stancato gli italiani. Non è riuscito a fermare i grillini, e – peggio – sta spalancando praterie all’ipotetico leader del futuro prossimo, Matteo Salvini, vero vincitore delle elezioni regionali 2015. Lo sostiene Andrea Scanzi, all’indomani dello schiaffone che gli elettori hanno rifilato al Pd, che ha perso il 15% dei consensi, 2 milioni di voti in meno rispetto alle europee. «Renzi ha già il fiatone. Da vecchio democristiano quale è, dirà di avere vinto anche quando ha perso. In realtà ha preso una botta in fronte (quella fronte così inutilmente spaziosa) così grande che ancora deve accorgersene». E’ difficile perdere quando si vince 5-2: è proprio un controsenso logico palese. «Renzi però ce l’ha fatta», scrive Scanzi. Quattro regioni erano scontate (Toscana, Marche, Umbria, Puglia), eppure in Umbria «il Pd ha rischiato tanto». Inoltre, i candidati in queste Regioni «non erano renziani della prima ora», ma più spesso politici «talora anche poco ortodossi (Emiliano, Rossi)», già in pista molto prima di Renzi.
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Elezioni 2015, siamo al day-after di un sistema che muore
Il mio motto “Chi va a votare avvelena anche te, digli di smettere” ha trovato un altro 10% di cittadini stanchi di sedersi al tavolo assieme ai bari. Questa inesorabile costante avanzata verso la contestazione globale del sistema di rappresentanza fasulla che ci opprime da quaranta anni (iniziò nel ’76 col 14% di astenuti dal voto) questa volta ha fatto presa in particolare nelle cosiddette Regioni rosse dopo aver trionfato nelle scorse elezioni nelle zone in cui l’elettorato è stato tradizionalmente ostile al centro-sinistra. Anche il cemento armato della gestione clientelare dei governi a guida Pci-Pds-Ds-Pd ha mostrato di non reggere alla infiltrazione dell’acqua cheta dei cittadini che, sempre più numerosi, ripudiano i vecchi idoli e fanno crollare gli altari. Il paese sente di non essere governato e si ribella astenendosi dal partecipare ai ludi elettorali in maniera sempre più massiccia e sprezzante. La disaffezione porta l’anarchia in ogni aspetto della vita associata. La mini-astuzia ministeriale di far votare i cittadini a cavallo della festa della Repubblica e i soldi spesi per la campagna pubblicitaria di partecipazione non hanno funzionato.È un dialogo tra sordi. Il sistema sanitario veneto era già in pareggio prima della elezione dell’enologo Zaia (è l’eredità amministrativa austroungarica) e nessuno crede veramente che l’ennesimo cappone del pollaio di Berlusconi farà miracoli in Liguria. I successi dei provocatori Salvini e Grillo sono il sintomo di una malattia, non la cura. Gli italiani aspettano una NUOVA REPUBBLICA che stronchi la selezione a rovescio della classe dirigente che viene attuata a partire dal 1958 con la riforma Fanfani che aprì la porta delle candidature agli impiegati di partito. La disaffezione verso il sistema ha investito anche l’Europa che era la sola idea nuova scaturita dalle rovine della guerra mondiale. Ora è rappresentata da un vecchietto di modesta statura fisica e intellettuale, incapace di assorbire la crisi greca (tutta la Grecia rappresenta meno del 2% del prodotto lordo europeo: chi non può assorbire una perdita del 2%?).L’Europa non fa più figli e non vuole adottare quelli provenienti da altri continenti vicini. Li lasciamo annegare mentre noi anneghiamo in solitudine nei nostri eccessi di liquidità che non sappiamo più impiegare che per comprare obbligazioni di banche sclerotizzate. Le Regioni italiane non servono ad altro che ad arricchire alcune centinaia di impiegati delle segreterie di finti partiti che cercheranno di riempirsi le tasche prima del naufragio che sanno inevitabile. Saranno anche più avidi dei predecessori. Giolitti rimproverò Mussolini alla Camera, dicendo «questo governo mangia troppo», e Mussolini di rimando: «Anche ai suoi tempi si mangiava». Risposta di Giolitti: «Sì, ma si sapeva stare a tavola». Bei tempi.(Antonio De Martini, “Il day after di un sistema che muore”, dal “Corriere della Collera” del 1° giugno 2015).Il mio motto “Chi va a votare avvelena anche te, digli di smettere” ha trovato un altro 10% di cittadini stanchi di sedersi al tavolo assieme ai bari. Questa inesorabile costante avanzata verso la contestazione globale del sistema di rappresentanza fasulla che ci opprime da quaranta anni (iniziò nel ’76 col 14% di astenuti dal voto) questa volta ha fatto presa in particolare nelle cosiddette Regioni rosse dopo aver trionfato nelle scorse elezioni nelle zone in cui l’elettorato è stato tradizionalmente ostile al centro-sinistra. Anche il cemento armato della gestione clientelare dei governi a guida Pci-Pds-Ds-Pd ha mostrato di non reggere alla infiltrazione dell’acqua cheta dei cittadini che, sempre più numerosi, ripudiano i vecchi idoli e fanno crollare gli altari. Il paese sente di non essere governato e si ribella astenendosi dal partecipare ai ludi elettorali in maniera sempre più massiccia e sprezzante. La disaffezione porta l’anarchia in ogni aspetto della vita associata. La mini-astuzia ministeriale di far votare i cittadini a cavallo della festa della Repubblica e i soldi spesi per la campagna pubblicitaria di partecipazione non hanno funzionato.
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Il Pd perde il 15%, dalle urne uno schiaffo al golpe di Renzi
La metà degli elettori è stata casa. Gli altri hanno assestato uno schiaffo al Bomba. Media ponderata del voto di ieri: il Pd come partito perde il 15%, con il carrozzone delle liste di amici ed amici degli amici cala di circa il 9%. Dunque, mister 40,8 non c’è più. Su questo, in realtà, non avevamo dubbi. Restava invece da stabilire di quanto il Bomba si sarebbe sgonfiato rispetto a quel dato delle europee. Un dato gridato a gran voce, per tutto un anno, per zittire avversari e critici di ogni credo e tendenza. Ora lo sappiamo: si è sgonfiato di molto. Questi numeri ci vengono da una media ponderata dei voti di ieri. Il calcolo è stato fatto sulla base delle percentuali ottenute dal Pd, in confronto con quelle raggiunte un anno fa alle europee. I vari cali regionali (il partito di Renzi ha perso consensi ovunque) sono stati poi “pesati” in rapporto agli elettori delle varie regioni, in modo da ricavarne una proiezione nazionale. Perché questo calcolo? Perché è quello politicamente più significativo. Quello che misura la febbre al consenso renziano dopo 15 mesi di governo.Certo, è più facile – e soprattutto più comodo per il Bomba – fare il calcolo delle regioni vinte. Vantandosi così di un 5-2 che non rende affatto conto dell’autentico tracollo di consensi che si è verificato. Lo avevamo scritto giovedì scorso: «In realtà non conterà solo il numero di Regioni conquistate, conterà anche il totale dei voti ottenuti. Anzi, sarà soprattutto quel dato a dirci di quanto si è sgonfiato il famoso 40,8% delle europee». Questo era, ed è, il dato decisivo. Ci sarà tempo per ritornare su altri aspetti rilevanti di queste elezioni, dall’aumento dell’astensionismo, all’ottimo risultato di M5S, alla forte avanzata della Lega, ai miseri dati della sinistra (ex?) arcobalenica. Ora è importante concentrarsi sul Pd, sul partito che, attraverso una legge elettorale truffaldina, sta tentando di costruire un autentico regime imperniato sulla concentrazione di ogni potere nelle mani del suo bulimico leader. Questo disegno autoritario ha ieri subito uno stop, quantomeno in termine di consensi. Uno stop non ancora decisivo, ma un segnale assai più netto di quanto si poteva immaginare.Entriamo nel dettaglio, vedendo anzitutto quanto ha perso il Pd in ogni regione: Liguria -16,10%, Veneto -20,63%, Campania -16,04%, Puglia -13,91%, Toscana -10,0%, Marche -9,91%, Umbria -12,76%. Come si vede il dato è omogeneo da nord a sud. La perdita è a due cifre pressoché ovunque. Particolarmente significativo, oltre alla debacle della Liguria, il tracollo della renziana Moretti in Veneto. La media ponderata di questi dati regionali ci da un calo generale del 15%, che proiettato a livello nazionale porterebbe il partito renziano ad un 26% (40,8-15,0=25,8) dal sapore decisamente bersaniano. Naturalmente questi calcoli faranno imbestialire i piddini. I quali ci ricorderanno, come facevano scompostamente ieri sera in Tv, che i loro candidati si sono avvalsi di liste di supporto in qualche modo riconducibili al loro partito, e che quindi i voti di queste liste vanno sommati a quelli del Pd. Ora, in realtà ci sarebbero molte cose da dire su questa pratica acchiappavoti. Come ci sarebbe da dubitare sul fatto che si tratti sempre ed ovunque di voti piddini in libera uscita. E magari ci sarebbe da ironizzare sui candidati apertamente fascisti di certe liste a sostegno in Campania…Ma lasciamo stare. Dato che noi siamo assai meno scomposti dei tirapiedi renziani mandati in video ieri sera nel disperato tentativo di nascondere la realtà delle cose, abbiamo sommato al Pd tutti i voti di queste listarelle di comodo. Ed ecco i cali che abbiamo così ottenuto: Liguria -11,35%, Veneto -16,80%, Campania -7,03%, Puglia -1,64%, Toscana -8,29%, Marche – 4,97%, Umbria -12,76%. La media ponderata di questi dati ci da un calo generale dell’8,8%. Un dato assai pesante per il Pd, nonostante il generosissimo metodo applicato. Abbiamo infatti sommato al Pd non solo i voti ottenuti dalle “liste del presidente”, ma anche quelli delle altre liste di supporto che non avessero un chiaro simbolo di partito. Questo non per regalare qualcosa ai renziani, bensì per togliergli ogni argomento a difesa. Cosa ci dicono questi risultati? Essi ci dicono che Renzi è battibile. Che il suo disegno autoritario può essere ancora fermato. Che la cosiddetta “luna di miele” del governo è davvero finita. Che anche il più servile sostegno mediatico mai ottenuto da una forza politica nell’Italia repubblicana non è sufficiente a frenare l’emorragia di consensi. Non è tutto, ma è molto.Naturalmente i risultati di ieri non rendono Renzi meno pericoloso di prima. Anzi, per certi aspetti, lo rendono ancora più pericoloso. A capo del governo, a capo del Pd, con il sostegno del potere economico, con una stampa allineata, con una legge elettorale ritagliata su misura, egli non vorrà certo fermarsi nella sua opera distruttrice della democrazia e di ogni diritto sociale. E, d’altronde, dal voto delle regionali non emerge ancora l’alternativa di cui c’è bisogno. Emerge però un grande spazio, basti pensare alla crescita enorme dell’astensionismo. E’ in questo quadro che si dovrà approntare da subito una strategia ed una tattica per battere Renzi all’appuntamento decisivo del referendum sulla controriforma costituzionale. Quel che è certo è che non siamo in una fase stabilizzazione del consenso. Al contrario, le oscillazioni che si verificano ad ogni elezione mostrano proprio la ricerca, necessariamente confusa, di una via d’uscita dall’attuale situazione. Chi emergerà in questo quadro è dunque facile da prevedersi: emergerà, e forse vincerà, chi saprà proporsi con un progetto di alternativa al tempo stesso radicale e credibile. Di sicuro la partita è aperta. Lo schiaffo subito da Renzi non è un ko, ma è un colpo molto forte al suo disegno autoritario. Da queste elezioni non potevamo aspettarci miglior notizia.(Nb – Quando questo articolo è stato scritto – tra le 8 e le 9 di questa mattina – lo scrutinio non era ancora terminato in tutte le regioni. Qualche modestissima variazione delle percentuali è perciò ancora possibile in Campania e Puglia. Ma si tratterà in ogni caso di variazioni del tutto trascurabili).(Leonardo Mazzei, “Mister 40,8% si affloscia”, da “Sollevazione” del 1° giugno 2015).La metà degli elettori è stata casa. Gli altri hanno assestato uno schiaffo al Bomba. Media ponderata del voto di ieri: il Pd come partito perde il 15%, con il carrozzone delle liste di amici ed amici degli amici cala di circa il 9%. Dunque, mister 40,8 non c’è più. Su questo, in realtà, non avevamo dubbi. Restava invece da stabilire di quanto il Bomba si sarebbe sgonfiato rispetto a quel dato delle europee. Un dato gridato a gran voce, per tutto un anno, per zittire avversari e critici di ogni credo e tendenza. Ora lo sappiamo: si è sgonfiato di molto. Questi numeri ci vengono da una media ponderata dei voti di ieri. Il calcolo è stato fatto sulla base delle percentuali ottenute dal Pd, in confronto con quelle raggiunte un anno fa alle europee. I vari cali regionali (il partito di Renzi ha perso consensi ovunque) sono stati poi “pesati” in rapporto agli elettori delle varie regioni, in modo da ricavarne una proiezione nazionale. Perché questo calcolo? Perché è quello politicamente più significativo. Quello che misura la febbre al consenso renziano dopo 15 mesi di governo.
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Partiti fantasma, a pezzi, per una democrazia senza popolo
Non è esagerato parlare di partiti in pezzi: divisi e già scissi di fatto, sebbene formalmente si esiti ancora a lacerare l’involucro dell’unità. Osservando quanto accade in vista delle elezioni regionali di fine maggio, lo spettacolo è quello di una scomposizione di forze politiche e alleanze: la conseguenza fisiologica di uno sgretolamento progressivo delle identità, dei blocchi sociali, delle nomenklature. In pochi anni, non solo i «cartelli» elettorali sono invecchiati come se ne fossero passati dieci. La dimensione locale della politica ha subito un’involuzione che la fa apparire quasi impazzita. È il prodotto della subalternità del sistema dei partiti ad interessi che lo dominano e lo umiliano; e dell’impoverimento culturale di piccole tribù autoreferenziali che sommano i difetti del dilettantismo a quelli del professionismo del potere. Le tante inchieste della magistratura che convergono sulle cosiddette classi dirigenti locali confermano questa deriva. E fanno apparire molti Comuni e Regioni come epicentri di un’economia studiatamente inefficiente, funzionale al malaffare.Lo iato tra livello nazionale e “periferia” non potrebbe essere più vistoso, dal Veneto alla Puglia. Ma rischia di suggerire una contrapposizione tra due fenomeni in realtà speculari. L’esplosione dei legami dentro e tra i partiti non è soltanto la certificazione del fallimento di un’idea di federalismo. Riflette anche le scissioni sociali che sono avvenute in questi anni in un’Italia affacciata sul vuoto dell’azione politica. Sono la versione minore e moltiplicata delle migrazioni parlamentari registrate in questi anni alle Camere: indizi di un malessere ormai cronico. Le spaccature e le riaggregazioni locali nel centrodestra, nella Lega, perfino nel Pd, imitano alla perfezione i conflitti alla Camera e al Senato. Replicano “cambi di casacca” che non sono solo frutti dell’opportunismo: rivelano un trasversalismo privo di nobiltà, e alimentato da identità debolissime e stralunate. Il cemento è il micro-interesse, e tanti micro-narcisismi collettivi che rendono difficile qualunque aggregazione forte e duratura.La domanda è se e chi riuscirà a ricompattare questo magma centrifugo. In apparenza, il modello verticale di Matteo Renzi lo sta facendo. Ma la distanza tra il premier o il capo della Lega, Matteo Salvini, o Beppe Grillo, i tre oggi in auge, e il caotico agitarsi di anonimi candidati regionali, non esalta solo la loro capacità di leadership. Finisce anche per sottolineare i loro limiti: quasi l’impossibilità, oltre che l’incapacità, di trasformare dall’alto una realtà prosaicamente mediocre e fuori controllo. La politica nazionale inspira a pieni polmoni i miasmi locali anche perché non appare in grado di trasmettere messaggi forti di rinnovamento come quelli che si sforza di offrire all’Europa. Il risultato è che a vincere sembra sia la “periferia” non governata, immutabile e misteriosa nei suoi gangli più oscuri: quelli che solo la magistratura finora tende a portare alla luce, delegittimando partiti che arrivano sempre dopo; e che mostrano riflessi difensivi automatici, lasciando ai giudici una supplenza di fatto che assume contorni ambigui e mostra limiti oggettivi, seguendo logiche non politiche. Sono fenomeni che corrodono quotidianamente la credibilità degli eletti, e si proiettano sulle scelte nazionali.Vedremo come si evolverà la campagna elettorale. Ma il turbinìo di liste, unioni e rotture trasmette una pessima impressione. Il crollo della partecipazione a livello locale che si è registrato negli ultimi anni non è un segno di modernità “all’americana”: anche per la rapidità con la quale sta avvenendo, suona come la risposta patologica ad una rappresentanza inadeguata e malata. Se si dovesse confermare a maggio, significherebbe un rifiuto di metodi e di formazioni non disinvolti ma, appunto, ormai percepiti come “impazziti”. Sarebbe una sconfitta che nessuna riforma elettorale, né la prevalenza di uno schieramento sull’altro, potrebbero attenuare o nascondere. Il guaio maggiore, tuttavia, non sarebbe il fallimento di una politica locale che per paradosso oggi fornisce tanti governanti, premier compreso; né la scissione di alcuni partiti, ridotti a gusci di identità irriconoscibili. Il rischio vero è quello della scissione tra l’elettorato e chi non è in grado di offrirgli una scelta degna di questo nome. Sarebbe la premessa di una pericolosa democrazia con sempre meno popolo.(Massimo Franco, “Piccole miserie locali”, dal “Corriere della Sera” del 15 aprile 2015).Non è esagerato parlare di partiti in pezzi: divisi e già scissi di fatto, sebbene formalmente si esiti ancora a lacerare l’involucro dell’unità. Osservando quanto accade in vista delle elezioni regionali di fine maggio, lo spettacolo è quello di una scomposizione di forze politiche e alleanze: la conseguenza fisiologica di uno sgretolamento progressivo delle identità, dei blocchi sociali, delle nomenklature. In pochi anni, non solo i «cartelli» elettorali sono invecchiati come se ne fossero passati dieci. La dimensione locale della politica ha subito un’involuzione che la fa apparire quasi impazzita. È il prodotto della subalternità del sistema dei partiti ad interessi che lo dominano e lo umiliano; e dell’impoverimento culturale di piccole tribù autoreferenziali che sommano i difetti del dilettantismo a quelli del professionismo del potere. Le tante inchieste della magistratura che convergono sulle cosiddette classi dirigenti locali confermano questa deriva. E fanno apparire molti Comuni e Regioni come epicentri di un’economia studiatamente inefficiente, funzionale al malaffare.