Archivio del Tag ‘Nord Europa’
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Mai successo prima: Bot a zero (in attesa del grande botto)
La notizia è da prima pagina. Ma siccome nessuno sa bene come trattarla quasi tutti spingono il tasto “ottimismo” e fanno finta di non vedere l’altra faccia della medaglia. Partiamo dunque dalla notizia semplice semplice: ieri il ministero del Tesoro (ora accorpato a quello dell’Economia) ha collocato Bot a scadenza di sei mesi a un tasso di interesse pari a zero. In pratica, il Tesoro chiede un prestito sui mercati e tra sei mesi non pagherà nulla come “retribuzione del capitale”, limitandosi a restituire la cifra ricevuta. L’Italia non è l’unico paese europeo a godere di questa eccezionale situazione finanziaria. Tutti i paesi del Nord Europa (Germania, Olanda, Finlandia, ecc), più paesi fuori dell’euro come Svizzera, Svezia e Danimarca, sono da qualche mese in una situazione ancora migliore perché possono addirittra restituire meno di quel che hanno ricevuto in prestito, visto che pagano interessi sia pur infinitesimamente negativi: -0,2%. Se si spinge il tasto “evviva” il quadro è splendido: un paese in queste condizioni può rifinanziare il proprio debito gratis, o addirittura guadagnandoci, togliendo così un peso enorme dai conti pubblici (chiamato “servizio del debito”, ossia interessi).Anche la spiegazione tecnica resta semplice: tutto merito della Bce, che da due mesi ha messo in moto il quantitative easing, cominciando ad acquistare sui mercati titoli di Stato dei paesi europei (ma non della Grecia, che invece non può rifinanziarsi perché altrimenti dovrebbe pagare interessi al di sopra del 20%). La domanda che apre la porta sul “lato oscuro” è altrettanto semplice: perché un investitore (una banca, un fondo di investimento, o persino un normale cittadino con qualche risparmio da parte) accetta di prestare i propri soldi sapendo in anticipo che non ci guadagnerà nulla o addirittura ci rimetterà qualcosina? Qui il lettore ci deve perdonare, ma siamo obbligati – come tutti quelli che cercano la risposta a questa domanda – ad addentrarci nei “massimi sistemi”. Non lo facciamo per motivi ideologici o passione teorica, ma per le identiche ragioni addotte da uno degli editorialisti di punta de “Il Sole 24 Ore”, Alessadro Plateroti: «Per gli economisti della scuola classica, il fenomeno è scioccante: non solo è definitivamente tramontato il cosiddetto “Lzb”, o Level Zero Boundary, il livello di supporto dei tassi che si pensava non sarebbe mai stato raggiunto e infranto, ma si è entrati in un territorio finanziario inesplorato, pieno di bolle finanziarie, insidie sistemiche e incognite macroeconomiche».«“Nella storia d’Europa – ha commentato Ambrose Evans Pritchard, noto commentatore economico inglese – dobbiamo tornare al Quattordicesimo secolo, quando il depauperamento delle miniere d’argento provocò una lenta contrazione monetaria, seguita dal default di Edoardo III sul debito contratto con le banche italiane e dall’epidemia della Morte Nera, innescando un devastante processo deflazionistico”. Frasi da apocalisse, certamente esagerate nei toni e negli obiettivi, ma anche suggestive e soprattutto indicative della confusione che regna sui mercati, dei timori sui rischi generati dalle “bolle” (ecco l’analogia con la peste in Europa…) e soprattutto della difficoltà di prevedere gli effetti collaterali della manovra della Bce». Il “livello zero” di rendimento del denaro, in regime capitalistico, è un limite concettuale, una sorta di assioma che non necessita di dimostrazione, anzi serve ad argomentare le dimostrazioni. E le esibizioni di “competenza professionale” di pupazzi come il capo dell’Eurogruppo, Dijsselbloem. Chiunque presti soldi si attende un guadagno da questo impiego, no? Siamo nel capitalismo e dunque può funzionare solo così… O no?Cosa significa? Che nessuno ha studiato cosa possa avvenire quando questo evento impossibile si verifica. Non è avvenuto sul piano teorico (perché era impossibile), tantomeno su quello empirico (non era mai avvenuto, se non nel Trecento, ma era il Medioevo, mica la modernità capitalistica…). Lo stesso sconcerto provato da Plateroti è stato descritto dal più autorevole Martin Wolf, nientepopodimeno che sulla bibbia del liberismo anglosassone, il “Financial Times”, con un titolo che molti avrebbero definito catastrofista se scelto da un marxista: “Ecco perché l’economia globale non brillerà più”. Senza se e senza ma. Renzi e Padoan non lo hanno letto, altrimenti non ciancerebbero di “ripresa in atto” («ma solo dello zero virgola»). Wolf, in particolare, indica come «stranezza incomprensibile» – oltre ai tassi di interesse sottozero – anche il fatto che la produzione reale sia mantenuta al suo livello potenziale solo al prezzo di un indebitamento finanziario crescente. Più precisamente: «La produzione è finanziariamente sostenibile quando i modelli di spesa e la distribuzione del reddito sono tali che il frutto dell’attività economica può essere assorbito senza creare pericolosi squilibri nel sistema finanziario. È insostenibile quando per generare abbastanza domanda da assorbire la produzione dell’economia si deve ricorrere una dose eccessiva di indebitamento, o quando i tassi di interesse reali sono molto al di sotto dello zero, oppure entrambe le cose».Possiamo anche dire che il mercato non riesce più ad allocare in modo ottimale risorse. Ovvero un altro assioma del liberismo teorico (ideologico?) che salta come un birillo davanti a una realtà impossibile. La finanza lavora per conto proprio, indipendentemente dall’andamento dell’economia reale, da molti decenni. Certamente dalla fine degli anni ‘90, quando Bill Clinton abolì il Glass-Streagall Act, ossia il divieto di cumulare nella stessa banca le normali attività di raccolta dei risparmi/prestiti a famiglie e imprese con quelle tipicamente speculative della “banca d’affari”. Era una legge degli anni ‘30, immaginata per limitare ed evitare il ripetersi del grande crack del 1929. Ma ora la realtà della produzione – ferma, non a caso – riprende il volatile per le zampe e lo tira giù. Il capitalismo non funziona più. I fenomeni considerati impossibii avvengono sotto i nostri occhi. I “professionisti” dell’accumulazione sono costretti ad accontentarsi di non guadagnare nulla o di rimetterci solo poco. Per quanto può durare? Non lo sa nessuno, perché si è entrati in un territorio finanziario inesplorato, pieno di bolle finanziarie, insidie sistemiche e incognite macroeconomiche. Allacciate le cinture…(Claudio Conti, “Bot a zero, in attesa del grande botto”, da “Contropiano” del 29 aprile 2015).La notizia è da prima pagina. Ma siccome nessuno sa bene come trattarla quasi tutti spingono il tasto “ottimismo” e fanno finta di non vedere l’altra faccia della medaglia. Partiamo dunque dalla notizia semplice semplice: ieri il ministero del Tesoro (ora accorpato a quello dell’Economia) ha collocato Bot a scadenza di sei mesi a un tasso di interesse pari a zero. In pratica, il Tesoro chiede un prestito sui mercati e tra sei mesi non pagherà nulla come “retribuzione del capitale”, limitandosi a restituire la cifra ricevuta. L’Italia non è l’unico paese europeo a godere di questa eccezionale situazione finanziaria. Tutti i paesi del Nord Europa (Germania, Olanda, Finlandia, ecc), più paesi fuori dell’euro come Svizzera, Svezia e Danimarca, sono da qualche mese in una situazione ancora migliore perché possono addirittra restituire meno di quel che hanno ricevuto in prestito, visto che pagano interessi sia pur infinitesimamente negativi: -0,2%. Se si spinge il tasto “evviva” il quadro è splendido: un paese in queste condizioni può rifinanziare il proprio debito gratis, o addirittura guadagnandoci, togliendo così un peso enorme dai conti pubblici (chiamato “servizio del debito”, ossia interessi).
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Fine dei giornali? Solo se lo vorranno i Padroni dell’Occidente
Nel blog di Beppe Grillo è comparso lunedì un post, a firma Gianroberto Casaleggio, che fa parte di una serie di post sulla “morte dei giornali” e che verrà inserito nello studio “Press Obituary” di prossima pubblicazione. Nel post compaiono alcune affermazioni che, a mio avviso, necessitano di commento e talvolta di precisazioni. «La fine dei giornali – scrive Casaleggio – è una delle cose più prevedibili del nostro futuro», se non si troveranno risorse diverse dalla pubblicità. È vero? È falso? È vero solo in parte, e comunque a condizione che si verifichino azioni e reazioni, da parte dei soggetti coinvolti, che al momento non sono ancora completamente scontate. Alcuni giornali, online e classici (quotidiani, settimanali ma anche mensili) potrebbero infatti sopravvivere alla contrazione delle risorse pubblicitarie alle seguenti condizioni: a) se fossero sostenuti prevalentemente dalle vendite e dagli abbonamenti; b) se fossero sostenuti da donazioni (anche occulte); c) soprattutto se fossero considerati, da potentati politici e economici, quali veicoli indispensabili per organizzare il consenso su argomenti altamente strategici.L’ipotesi c), per esempio, è attualmente in vigore nel caso di giornali che, barattando la loro visione “politica” ottengono, da parte di inserzionisti pubblicitari particolari, un occhio di riguardo. A tutt’oggi infatti il consenso politico su grandi temi strategici quali la guerra e la pace, il valore flottante delle monete di riserva planetaria, le questioni energetiche e farmaceutiche, gli investimenti nelle borse, viene ancora organizzato da “Big Press” e “Big Tv”, che stanno sopravvivendo alla crisi della pubblicità e anzi l’hanno usata come alibi per “asciugare” costi ritenuti superflui e dismettere giornalisti. Ciò non toglie che, all’interno del vasto mosaico dei media, il declino di gran parte della stampa classica e dei giornali online sia in corso. È sul suo decesso “inevitabile” però che si possono e devono esprimere dubbi, come quando all’avvento della Rivoluzione Industriale si espressero leciti dubbi sulla morte dell’artigianato. Esiste infatti un’ipotesi di sopravvivenza alla crisi della pubblicità, che tenterò di formulare in seguito.Casaleggio descrive poi una pratica pubblicitaria molto perversa che si svolge in rete: quella dell’uso dei “cookies”. E descrive i suoi effetti nefasti: monitoraggio degli accessi, dei comportamenti e del profilo dell’utente. Non possiamo che essere d’accordo. La questione è molto presente, nel dibattito internazionale, sulle linee guida che dovrebbero condurre a una futura governance di Internet, meno anarco-liberista di quanto non sia ora. Però c’è da dire che proprio in quelle sedi internazionali, dove la società civile riesce a manifestare un minimo la propria visione, la definizione “utente” è in via di superamento, per diverse ragioni: a) perché “utente” si impasta e si intreccia con “prosumer”, con “consumatore”, con “cliente finale” e con “utente inserzionista”, e ciò crea confusione; b) perché “utente” presuppone che la Rete sia “un servizio agli utenti”, e ciò contrasta con le più recenti visioni della “net neutrality”, per le quali la Rete è un’infrastruttura indispensabile alla Cittadinanza Digitale che, al dunque, è costituita da “persone”.Casaleggio afferma ancora: «In sostanza il rapporto tra consumatore e pubblicità non risiederà più nei siti editoriali, che ne perdono il controllo, ma negli inserzionisti digitali come Google o Facebook. Di fatto questo rovescia il rapporto economico attuale, in quanto la tracciabilità dell’utenza e l’uso dei dati personali sarà alla base di ogni futuro processo pubblicitario. La pubblicità sarà prevalentemente digitale e la proprietà del cliente verrà trasferita ai big del web. Questo comporterà una riattribuzione, già in atto, dei ricavi dai vecchi operatori (gli editori) a nuovi operatori, con un restringimento della filiera pubblicitaria». Anche qui ci sono da fare alcune considerazioni. Probabilmente Casaleggio allude alla “readership” che costituisce il parco lettori di una testata giornalistica e che viene “venduta” alle agenzie, o direttamente agli inserzionisti, dalla concessionaria della testata. La concessionaria dell’editore (e qui crediamo che parli di editori online) ne perde il controllo, che finisce nelle mani di soggetti quali Google e Facebook (i quali comunque, precisiamo: tutto sono meno che “inserzionisti digitali”). Allora: sì. È vero che le concessionarie e le sezioni marketing degli editori contano sempre meno, ma non è vero che la facoltà di vendita del parco lettori viene loro sottratta. Ciò che viene sottratto agli editori è la capacità di negoziare il prezzo del loro parco lettori. E quindi, in progress, pagandoli sempre meno, gli inserzionisti costringono gli editori a chiudere. Ma perché?Perché gli editori di giornali (e qui intendiamo tutti) non hanno capito il profondo valore della contrattazione del Costo Contatto e in dettaglio del Cost per Thousand, cioè il valore – negoziabile e non derivato – che l’inserzionista paga per raggiungere con il suo messaggio 1000 persone, e che regola la compravendita di spazi in tutti i media (incluso il web). Se gli editori sono l’offerta (di lettori/readership) e gli inserzionisti (non Google e Facebook) rappresentati dalle agenzie di pubblicità che comprano spazi, sono la domanda (di lettori/readership)… in un mercato vero ci dovrebbe essere contrattazione per fare il prezzo. Così invece non è! Il soggetto che genera l’offerta (gli editori) è frantumato, rissoso e ignorante, e invece di fare il cartello degli editori off-line e online, tende la mano e si accontenta di un Cost per Thousand che viene deciso dalla domanda, cioè dai compratori di spazi. In questo teatrino da accattoni, in cui si muovono gli editori privi di dignità, identità e capacità di marketing, si sono inseriti alla grande altri soggetti, quali Google e Facebook, che hanno assunto il ruolo di intermediatori e super-concessionarie del web perché “fanno il prezzo”, offrendo quantità illimitate di spazi a basso costo agli inserzionisti.Solo in alcuni tribunali nordeuropei la vicenda è stata affrontata (in parte) per ciò che è, ma poi, alla fine, impastata maldestramente insieme alla difesa dei diritti d’autore. È così che il dumping ai danni degli editori e anche dei “prosumers” e dei bloggers, si è sanato con un’elemosina (vedi caso francese). Allora: in questa vasta e complessa scena, Casaleggio, che è magna pars nella difesa dei diritti dei cittadini digitali e dei (mi auguro) piccoli e medi editori digitali, perché non riflette meglio su come avviene la contrattazione sul Cost per Thousand? Ci sembra infatti che dia per scontato che questo sia un valore da misurare “a monte” della compravendita e delle pratiche di inserimento pubblicitario tra soggetti Over the Top. Invece il Cost per Thousand è un valore da fissare “a valle”, cioè prima della compravendita, in quanto rappresenta la capacità potenziale di acquisto di 1000 componenti del parco lettori. Al dunque la pubblicità è soprattutto compravendita di “persone”, non solo di spazi promozionali. Ricordiamolo.Casaleggio menziona poi la torta pubblicitaria. Bene! La sua consistenza – che attualmente dipende dagli interessi del Consiglio di Amministrazione della Iaa – International Advertising Agency di Madison Avenue – NON DEVE ESSERE non deve essere quella offerta agli editori; ma DEVE ESSERE deve essere quella negoziata e richiesta dal cartello degli editori per la loro dignitosa sopravvivenza. Così fa il cartello dei grandi tv-broadcasters statunitensi. Se ne frega dei budget offerti e CHIEDE e OTTIENE chiede e ottiene annualmente ciò che serve a loro per vivere. Cioè sono i media che devono fare e difendere il prezzo della loro audience, non gli intermediari. Per capirci: gli inserzionisti consegnano alle agenzie di pubblicità circa 3 trilioni di dollari l’anno. Il 60% di queste risorse viene dato ai media dei Brics e dei paesi emergenti perché sono considerati mercati in crescita. Il rimanente 40% viene dato ai media dei paesi del vecchio Occidente allargato. Ma nel 2009 era il contrario e l’inversione venne decisa in un Cda dell’Iaa. Ciò dà un’idea dello strapotere degli inserzionisti pubblicitari sui media tutti e dimostra come la crisi dei media sia solo imputabile a decisioni non contrastabili per assenza di facoltà di negoziazione.In difetto di contrattazione, però, un soggetto come Casaleggio – e per estensione, mi auguro, il “Movimento 5 Stelle” – dovrebbe lanciare parole d’ordine al morente mondo degli editori per incitarli a negoziare al meglio ciò che hanno (i loro lettori) e per convincerli a non accontentarsi della semplice raccolta di ciò che viene loro offerto, e in continuazione rattrappito, dalle aziende inserzioniste. Casaleggio poi se la prende con Google. Benissimo Recentemente abbiamo tentato di spiegare che Google, Facebook e gli altri soggetti simili, non sono alla sommità della piramide, ma lavorano, a loro volta, per qualcun altro. Per CHI chi? Ma è ovvio: per gli inserzionisti, per le corporations che poi pagano le campagne politiche dei futuri leader (e anche per i servizi segreti, nel caso di cessione di Big Data). Allora? Se i giornali muoiono è perché gli inserzionisti non pagano un equo prezzo per fare la pubblicità delle loro merci e servizi. Ma chi deve contrattare il prezzo? È ovvio: i produttori di contenuti (“contents”) in grado di ospitare inserzioni, cioè gli editori di giornali on line tutti, i bloggers e i “prosumers”.Il “Movimento 5 Stelle” dovrebbe lanciare un appello a tutti questi soggetti per costruire una syndication – auspicabilmente su scala europea – che assuma il ruolo di soggetto collettivo in grado di negoziare autorevolmente il prezzo della pubblicità sui territori sia fisici che digitali. Se non piace la definizione “syndication” si può parlare di ConfEditori on line, di Content Providers Association, o altro. Attenti!… Berlusconi, De Benedetti e Rizzoli-“Corsera” recentemente hanno annunciato la nascita di una superconcessionaria del web italiano. Ciò vuol dire che il prezzo della pubblicità sul territorio (web) italiano lo faranno loro, solo loro e nient’altro che loro. Signor Casaleggio, la vicenda è passata nel silenzio dell’opposizione. Come mai? Se il gettito di risorse pubblicitarie nel web, che dovrebbe remunerare il lavoro svolto in Rete dalla cittadinanza digitale, viene deciso senza alcun dibattito, l’opposizione ancorata al mondo digitale che ci sta a fare?Per concludere: Google, è vero, è un bel puzzone, ma approfitta dell’ignoranza e dell’ignavia dei politici e dei “content providers” e della loro frantumazione. Non è (solo) Google il carnefice dei “giornali”. Il mandante è sempre e solo il Cartello delle Corporations/Inserzionisti, gli utenti pubblicitari associati globalizzati, lo stesso del resto con il quale Beppe Grillo mirabilmente se la prendeva tanti anni fa quando accendeva i riflettori su Giulio Malgara, a quel tempo presidente dell’Upa, e in quanto tale grande finanziatore di Berlusconi e Dell’Utri. Quell’intuizione era quella giusta, talmente giusta che gli costò il rapporto con la Tv. Rilanciamo quel dibattito, signor Casaleggio, magari anche a costo di perdere qualche inserzionista. Tanto, la stragrande maggioranza di loro persegue un modello di sviluppo che non è quello del suo Movimento.(Glauco Benigni, “Casaleggio, non hai capito chi fa il prezzo”, da “Megachip” del 27 novembre 2014).Nel blog di Beppe Grillo è comparso lunedì un post, a firma Gianroberto Casaleggio, che fa parte di una serie di post sulla “morte dei giornali” e che verrà inserito nello studio “Press Obituary” di prossima pubblicazione. Nel post compaiono alcune affermazioni che, a mio avviso, necessitano di commento e talvolta di precisazioni. «La fine dei giornali – scrive Casaleggio – è una delle cose più prevedibili del nostro futuro», se non si troveranno risorse diverse dalla pubblicità. È vero? È falso? È vero solo in parte, e comunque a condizione che si verifichino azioni e reazioni, da parte dei soggetti coinvolti, che al momento non sono ancora completamente scontate. Alcuni giornali, online e classici (quotidiani, settimanali ma anche mensili) potrebbero infatti sopravvivere alla contrazione delle risorse pubblicitarie alle seguenti condizioni: a) se fossero sostenuti prevalentemente dalle vendite e dagli abbonamenti; b) se fossero sostenuti da donazioni (anche occulte); c) soprattutto se fossero considerati, da potentati politici e economici, quali veicoli indispensabili per organizzare il consenso su argomenti altamente strategici.
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Cercasi leader che ci porti in salvo, lontano dall’euro
Cercasi politica per uscire dall’euro. Servirebbe un premier. Ci vorrebbe un governo dalla parte degli italiani, non asservito ai poteri forti tecno-finanziari, quelli che impongono il rigore, il suicidio a rate dello Stato, la privatizzazione di tutto. Moneta sovrana, unica arma per la ricostruzione dell’economia. Domanda: si può uscire dalla trappola dell’euro e dell’Europa a guida tedesca o saremo costretti a rimanere per sempre legati alle catene dell’Eurozona, cioè dell’euro-marco che affossa l’Italia? La risposta, ammette Enrico Grazzini, è squisitamente politica: «Dopo il dollaro, l’euro è la seconda valuta di riserva per le banche centrali di tutti i paesi del mondo e la sua rottura potrebbe provocare non solo la crisi della Ue ma una crisi geopolitica internazionale». Non a caso l’euro è sostenuto, in quanto valuta internazionale non competitiva nei confronti del dollaro, anche dall’amministrazione Obama. Peccato che, per noi europei, la moneta unica della Bce sia una autentica tragedia. L’ingresso nell’euro? «Un errore enorme e grossolano».Ormai è chiaro a tutti: l’ingresso dell’Italia nell’euro è stato «un escamotage inventato dalle classi dirigenti nazionali per tentare di vincolare l’economia italiana a quella europea, di riportare a bada l’inflazione e i sindacati, e di domare il lavoro e la spesa pubblica». Risultato: l’economia precipita, la comunità nazionale vacilla e gli Stati sono completamente in balia della speculazione internazionale, visto che non possono più emettere moneta e si finanziano solo attraverso la cessione di titoli di Stato, con la mediazione monopolistica del sistema bancario privato. «Purtroppo l’Unione Europea è ormai fondata soprattutto sulla moneta unica, sull’euro che divide», scrive Grazzini su “Micromega”. «E la Ue ha abbandonato ogni prospettiva di cooperazione e di benessere sociale». Diciamoci la verità: «Gli Stati Uniti d’Europa – invocati in Italia da un ampio ed eterogeneo schieramento, da Matteo Renzi a Giorgio Squinzi, da Nichi Vendola a Barbara Spinelli – sono solo una chimera, e sotto l’ombrello dell’euro-marco e dell’egemonia tedesca sarebbero comunque un vero e proprio incubo».Il problema, continua Grazzini, è che una moneta unica per 18 paesi estremamente diversi sul piano competitivo – inflazione, tecnologie, costo del lavoro – è un vero e proprio «insulto al buon senso». L’euro-marco? «E’ una moneta troppo forte e soprattutto troppo rigida, una moneta straniera, una trappola che provoca crisi non solo perché è scioccamente unica (e quindi rigida) ma perché è costruita su istituzioni e politiche monetarie intrinsecamente deflattive, modellate a somiglianza del marco e della Bundesbank». Così, la moneta unica nata dichiaratamente per unire l’Europa «è diventata lo strumento principe di una politica neo-coloniale che le élite finanziarie e industriali tedesche e dei paesi del nord Europa conducono per egemonizzare l’Europa». Impedendo le svalutazioni competitive ai paesi deboli e la rivalutazione monetaria dei paesi forti, la moneta della Bce ha favorito solo la Germania, che ha potuto esportare manufatti e capitali in tutti i paesi europei, indebolendoli e indebitandoli. Poi, i deficit commerciali dei paesi deboli hanno generato i debiti verso i paesi forti. E i paesi creditori dettano legge.I trattati europei imposti dalla Germania – da Maastricht in poi (Fiscal Compact, Six Pack, Two Pack) sono sempre più soffocanti. Più che governare, la Troika regna e scavalca i Parlamenti eletti. E’ un disegno neo-feudale, perfettamente realizzato, per moltiplificare i profitti dell’élite finanziaria al prezzo della devastazione dei sistemi economici, sociali e produttivi. Si va avanti a suon di diktat: via i diritti del lavoro, tagli al welfare, tassazione folle. E la democrazia è ormai un ricordo. «La Germania non abbandonerà queste politiche recessive e suicide – dice Grazzini – semplicemente perché le convengono e perché l’ideologia monetarista è connaturata alla Bundesbank». Niente illusioni: «Non ci sarà alcuna solidarietà o cooperazione europea, e nemmeno flessibilità. Con questo euro non usciremo dalla crisi, anche se la Bce ogni tanto concede un po’ di ossigeno per non soffocare del tutto la moribonda economia europea. La stagnazione-recessione potrebbe proseguire, provocando gravi crisi sociali fino a riportare l’Europa a un equilibrio economico assestato al livello più basso – con la rovina del welfare, del lavoro e dei paesi e delle regioni deboli – o potrebbe deflagrare in una nuova disastrosa crisi finanziaria europea e globale».Come uscire dalla trappola? Secondo Emiliano Brancaccio, dopo la svalutazione iniziale causata dall’abbandono dell’euro, i lavoratori potrebbero recuperare i loro salari in pochi anni. Addio Bce? «Cambierà tutto se la rottura dell’euro sarà in qualche maniera concordata con la Ue e con la Germania o se invece sarà del tutto unilaterale», sostiene Grazzini, «e se la mossa italiana avrà in qualche modo il consenso o anche solo la neutralità delle potenze globali o regionali extraeuropee, come gli Usa, la Cina, la Russia (e le grandi potenze private, le banche d’affari come Jp Morgan e Goldman Sachs e i fondi speculativi) o se invece le grandi potenze saranno contrarie». E’ chiaro che l’Italia, come potenza industriale e manifatturiera con vocazione esportatrice, «potrebbe più di altri paesi beneficiare dall’uscita dall’euro e dalla conseguente svalutazione della sua ritrovata moneta nazionale». Il momento sarebbe propizio: oggi il bilancio statale è in attivo e la bilancia commerciale è in sostanziale pareggio, quindi il nostro paese non avrebbe bisogno dell’aiuto di nessuno, né della Bce né della finanza internazionale.A pesare è l’ingombro del peso storico del deficit, «2300 miliardi di euro di debito pubblico verso l’estero». Oggi, in mancanza di moneta sovrana, lo si potrebbe finanziare solo «con le tasse dei cittadini o con i tagli di spesa», due strade che, come si vede, conducono nel vicolo cieco della depressione cronica. Tutto cambierebbe, invece, se si disponesse della nuova lira: «Senza il peso del debito pubblico verso l’estero – che è stato emesso secondo le leggi italiane e che quindi potrebbe essere riconvertito abbastanza facilmente e legalmente in moneta nazionale – non ci sarebbe bisogno di aumentare il deficit: e nessuno proporrebbe di aumentare le tasse o di tagliare selvaggiamente la spesa pubblica nazionale, che è minore della media europea», osserva Grazzini. Con la svalutazione della nuova lira, secondo Alberto Bagnai, l’economia diventerebbe più competitiva, gli investimenti e la produzione riprenderebbero, così come l’occupazione. Alla fine anche i redditi da lavoro aumenterebbero, dopo la svalutazione iniziale. «In questo senso, l’ipotesi di uscire unilateralmente dall’euro ristrutturando i debiti verso l’estero avrebbe un senso economico apparentemente positivo».In più, aggiunge Grazzini, «la svalutazione della lira non sarebbe una disgrazia o un fatto vergognoso, come molti economisti anche di sinistra ci dicono: infatti tutti i paesi – Usa, Giappone, Cina – stanno svalutando la loro moneta per recuperare competitività sul piano internazionale e crescita sul fronte nazionale». Quindi, «la svalutazione non è un peccato di cui vergognarsi: è solo un riallineamento dei prezzi verso l’estero». Secondo Grazzini, però, è sbagliato limitarsi al profilo economico e finanziario sottovalutando quello politico internazionale: «Nessun modello econometrico e quantitativo potrebbe stabilire che cosa succederà realmente se un paese come l’Italia, o anche solo un paese più piccolo come la Grecia, uscisse dell’euro». La moneta della Bce «rappresenta all’incirca un quarto delle valute di riserva mondiali, per un valore complessivo pari a oltre 2.000 miliardi, cioè al 25% del totale delle valute di riserva, mentre il dollaro è al 60% circa». Per questo, «molti Stati hanno un preminente interesse economico a salvaguardare l’euro», la cui drastica svalutazione o rottura comporterebbe «sconvolgimenti tellurici per quanto riguarda le riserve valutarie di Stati come Cina, Russia, Giappone, India e Brasile».Inoltre, agli Usa converrebbe «mantenere l’euro come moneta internazionale debole, cioè come improbabile alternativa al suo dollaro», cioè al dollaro che gli Stati Uniti possono «stampare all’infinito per pagare i loro debiti e comprare ciò che vogliono nel mondo». Vivecersa, sempre secondo Grazzini, Washington appoggerebbe la fine dell’euro per motivi geopolitici, «per esempio per punire la Germania e l’Europa se si avvicinassero troppo alla Russia». Purtroppo, però, la sensazione è che sia Wall Street che la Casa Bianca puntino sulla sopravvivenza dell’Eurozona, calcolando che l’euro impiegherà ancora qualche anno prima di completare la distruzione definitiva dell’economia europea. Pessime notizie, dunque, perché «l’euro non conviene all’Italia, né alle sue industrie, né alle sue banche, né ai lavoratori né al ceto medio, né al sud né al nord», sottolinea Grazzini. «E’ convenuto solo alle multinazionali finanziarie e industriali per eliminare i rischi di cambio. Ma ora è una gabbia anche per le imprese medio-grandi, perché impedisce la crescita».In più, una volta entrati nella moneta unica «è molto difficile uscirne senza danni e senza sofferenze, proprio perché l’euro è una valuta di riserva mondiale e non una moneta nazionale qualsiasi». Per Grazzini, una rottura unilaterale è rischiosa: «Se l’Italia si trovasse contro tutti gli Stati e tutta la finanza europea e mondiale, l’uscita unilaterale provocherebbe prevedibilmente una svalutazione a catena e un disastro nazionale (e globale) difficilmente valutabile e recuperabile». Peggio: «La tragedia è che attualmente non sembrano esserci via di uscita», perché «le scelte alternative sono comunque tragiche». Infatti, «se da una parte l’uscita unilaterale appare difficilmente proponibile, dall’altra – rimanendo nella prigione dell’euro-marco – la condizione europea e italiana peggiorerà a causa del Fiscal Compact». Questo sarebbe dunque il paradiso europeo profetizzato dai vari Prodi, Visco, Bassanini, Padoa-Schioppa. Non uno dei dirigenti decisivi del centrosinistra italiano, responsabile della consegna del paese alla sciagura dell’Eurozona, ha finora pronunciato una sola parola di autocritica.Se la politica tace, per Grazzini c’è solo da sperare nel blackout: «Prima o poi il sistema dell’euro-marco imploderà, perché è intrinsecamente insostenibile a causa della sua assoluta inefficienza economica e dei pesantissimi costi sociali e politici che comporta». Tutto è possibile, però: persino che l’euro «sopravviva con il sostegno della finanza internazionale», o che «gli Stati europei si adeguino alla rovina economica e alla subordinazione economica e politica imposte dall’egemonia tedesca». Difficile, però, che i paesi sopportino a lungo questa situazione: «Nonostante la stupefacente inettitudine di François Hollande, perfino una parte dei socialisti francesi – che certamente non brillano per acume e progressismo ma appaiono piuttosto propensi al suicidio elettorale – hanno cominciato a reagire dopo il successo travolgente dell’antieuro partito del Front National». Anche le potenze extraeuropee sono preoccupate del possibile contagio derivante dalla malattia europea, e la speculazione è sempre in agguato: prima o poi la finanza anglosassone «interverrà per trarre profitto dai conflitti tra i diversi Stati europei in modo da affossare la moneta unica».E’ certo che la crisi si prolungherà perché i paesi europei non crescono, la disoccupazione aumenta e i debiti pubblici continuano a crescere. Se poi i paesi del sud Europa – Francia e Italia – riuscissero ad allentare i vincoli imposti dalle regole Ue, allora la stessa Germania potrebbe abbandonare l’euro e ritornare al marco per difendere la forza della sua moneta. Secondo Grazzini, «la sinistra italiana ed europea dovrebbe battersi fin da ora per una rottura concordata dell’euro in modo da minimizzare i danni e permettere ai popoli e ai governi democraticamente eletti di perseguire una via di uscita dalla crisi». Ma forse Grazzini ha in mente una sinistra immaginaria: quella italiana ed europea è esattamente la forza che più di ogni altra ha collaborato al disegno eurocratico, antidemocratico e anti-sovranista. In Germania la riforma Harz contro i sindacati è stata condotta dalla Spd di Schroeder, in Gran Bretagna i lavoratori sono stati “sistemati” dai laburisti di Blair. E in Italia, liquidati i partiti della Prima Repubblica, le principali riforme strutturali contro il lavoro e la sovranità nazionale sono state progettate e realizzate da Ciampi, Prodi e D’Alema.Oggi, Grazzini riconosce che se si resta nell’euro si sprofonda nella crisi. E per uscire dalla moneta unica nel modo meno doloroso possibile è necessario «ricreare una banca centrale nazionale responsabile verso il governo e il Parlamento», una Banca d’Italia «in grado di sostenere una politica espansiva, ovvero di comprare i titoli del debito pubblico nazionale». Va ricordato che a disabilitare Bankitalia come “prestatore di ultima istanza” non fu certo il bieco Berlusconi, all’epoca non ancora “sceso in campo”, ma furono il governatore Carlo Azeglio Ciampi e il ministro del Tesoro Beniamino Andreatta, esponente di quella sinistra Dc che mirava – insieme ai politici del futuro centrosinistra – a consegnare a Bruxelles la cassaforte del paese, per sottrarla alla nomenklatura dei Craxi, degli Andreotti e dei Forlani. A più di trent’anni dal “misfatto” del 1981, oggi si ammette che solo una banca centrale in grado di emettere moneta sovrana potrebbe finanziare il governo e gli investimenti produttivi, sostenere la spesa pubblica strategica, controllare i movimenti di capitali, convogliare il risparmio nazionale verso lo sviluppo del paese.Per Grazzini, «bisognerebbe copiare l’esperienza dei paesi emergenti, come Cina e Brasile, che mantengono vincoli forti sulla finanza e la valuta ma incentivano gli investimenti industriali esteri». E attenzione: «Bisognerebbe nazionalizzare – anche con difficili misure di prestito forzoso – il debito pubblico, in modo che la nazione sia indebitata quasi esclusivamente con se stessa (come il Giappone, che ha il più alto debito al mondo ma lo sostiene perché è debito interno)». Il problema maggiore, aggiunge Grazzini, verrebbe però dal debito privato pagabile solo in euro, e soprattutto dal debito estero delle grandi banche. Dunque, «occorrerebbe nazionalizzare le maggiori banche anche per rilanciare il credito verso le piccole e medie aziende». Di pari passo, «per proteggere i salari e gli stipendi e rilanciare la domanda interna bisognerebbe ripristinare meccanismi analoghi alla scala mobile e agganciare automaticamente i salari all’inflazione e alla crescita della produttività».Un percorso impervio, tenendo conto del personale politico italiano: partiti e leader sono stati completamente “colonizzati” dal capitale finanziario straniero, da cui dipende la protezione delle loro carriere. La parola chiave, dunque, è democrazia: solo nuove leve e nuovi politici, non ancora presenti sulla scena odierna, potrebbero progettare l’uscita dall’euro mettendo a punto innanzitutto una politica di alleanze internazionali, «non solo con gli altri paesi del sud Europa e la Francia, ma anche con le banche centrali dei paesi extraeuropei». Servirebbe anche «una moneta comune (ma non più unica, come l’euro) contro la speculazione internazionale», come l’euro-bancor proposto da Keynes «come moneta comune europea da fare valere verso il dollaro e le altre valute internazionali».Qualcuno lo vede, un governo italiano in grado di compiere questi difficili passi? «Non solo non esiste attualmente – ammette Grazzini – ma è molto dubbio che esisterà mai». Un governo anti-euro, cioè di salvezza nazionale, «dovrebbe avere un grande consenso sociale, la capacità di imporre sacrifici temporanei ai ceti medi e soprattutto vincoli stretti ai settori privilegiati. Dovrebbe essere autonomo dalle élite dei potenti e dall’alta finanza e avere l’appoggio di gran parte della società civile e dei sindacati». Abbiamo una sola certezza: così non si può andare avanti. «Non è possibile che le politiche economiche vengano decise a Berlino, Francoforte, Bruxelles e Washington. I governi nazionali, come quello di Matteo Renzi, agiscono sempre più sotto dettatura».Cercasi politica per uscire dall’euro. Servirebbe un premier. Ci vorrebbe un governo dalla parte degli italiani, non asservito ai poteri forti tecno-finanziari, quelli che impongono il rigore, il suicidio a rate dello Stato, la privatizzazione di tutto. Moneta sovrana, unica arma per la ricostruzione dell’economia. Domanda: si può uscire dalla trappola dell’euro e dell’Europa a guida tedesca o saremo costretti a rimanere per sempre legati alle catene dell’Eurozona, cioè dell’euro-marco che affossa l’Italia? La risposta, ammette Enrico Grazzini, è squisitamente politica: «Dopo il dollaro, l’euro è la seconda valuta di riserva per le banche centrali di tutti i paesi del mondo e la sua rottura potrebbe provocare non solo la crisi della Ue ma una crisi geopolitica internazionale». Non a caso l’euro è sostenuto, in quanto valuta internazionale non competitiva nei confronti del dollaro, anche dall’amministrazione Obama. Peccato che, per noi europei, la moneta unica della Bce sia una autentica tragedia. L’ingresso nell’euro? «Un errore enorme e grossolano».