Archivio del Tag ‘Panorama’
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Dittatura: nella religione sanitaria, la mascherina è il burka
Da sei mesi siamo entrati nell’era globale della mascherina e non sappiamo quando ne usciremo. Siamo in pieno conflitto etico, epico ed estetico sul suo uso e il suo rifiuto. La contesa va al di là delle ragioni sanitarie e riguarda un modo di intendere la vita e i rapporti umani; è diventata infatti una questione politica, simbolica e ideologica. La battaglia per il suo uso o il suo rifiuto, nel nome della sicurezza o della libertà, lo scontro tra chi dice di non voler rischiare la salute e chi invece non vuol perdere la faccia, ha assunto ormai toni ideologici che vanno al di là della profilassi, dell’effettiva efficacia della mascherina e dei rischi di contagio. Per dirla con Giorgio Gaber la mascherina è di sinistra, il viso scoperto è di destra. Abbiamo sentito in questi mesi accusare di negazionismo irresponsabile e di fasciosovranismo smascherato coloro che ostentavano il rifiuto della mascherina. Trump, Bolsonaro, Johnson e da noi Salvini, Briatore, Sgarbi. In effetti nell’atteggiamento ribelle verso le mascherine c’è qualcosa d’intrepido e temerario che ricorda gli arditi e i fascisti, dal me ne frego al “vivi pericolosamente”; e c’è pure qualcosa di libertario e liberista che rifiuta lacci e lacciuoli, regole e bavagli.Un atteggiamento che in sintesi potremmo definire fascio-libertario. Il superuomo nietzscheano può accettare il distanziamento sociale, e perfino auspicarlo, anche se detesta l’imposizione; ma la mascherina no, è una schiavitù umiliante, una coercizione all’uniformità. Ma perché non cogliere pure sull’altro versante l’ideologia serpeggiante che unisce gli apologeti della mascherina, e il suo forte significato simbolico e metaforico, al di là del suo uso sanitario e della sua effettiva utilità? Per molti fautori della mascherina si tratta di qualcosa di più che una semplice profilassi; quasi un bisogno inconscio, una coperta di Linus, un istinto di gregge, il retaggio di un’ideologia. La mascherina è una livella ugualitaria e uniformatrice, la protesi della paura che accomuna la popolazione in semilibertà vigilata; la mascherina sfigura i volti e cancella le differenze in una specie di comunismo facciale, anche se esalta gli occhi e nasconde le brutture; genera isolamento pur restando in una prospettiva ospedaliero-collettivista, rende più difficile la comunicazione, evoca il bavaglio e la museruola, ha qualcosa di inevitabilmente angoscioso e orwelliano.Lo spettacolo di folle in mascherina sarà confortante per il senso civico-sanitario ma è deprimente, ha qualcosa di umanità addomesticata e impaurita, ridotta a silenzio e servitù dal terrore della malattia e dal relativo terrorismo sanitario. Ma non solo. Il politically correct è la mascherina ideologica per non vedere in faccia la realtà e non farsi contagiare dalla verità nuda e cruda. Quando non vuoi chiamare le persone, le cose, i comportamenti col loro vero nome ma li mascheri in un linguaggio paludato; quando correggi la realtà, la natura, la storia e l’esperienza con i canoni dell’ipocrisia e della rettificazione; quando copri le statue e i simboli della civiltà e della storia patria, nascondi i crocifissi, per non urtare la suscettibilità di qualcuno cosa fai se non costringere il mondo a indossare la mascherina? Se per tutelare le donne e i gay, i migranti e i rom, i disabili e i neri, devi mascherare il linguaggio, la vita reale, i rapporti umani, le forme espressive cosa fai se non calare una gigantesca mascherina sul mondo? Non conta più il mondo ma la sua rappresentazione, non il volto ma la maschera. Viviamo nel tempo mascherato.La mascherina è inevitabilmente associata al totalitarismo sanitario imposto nei mesi scorsi, con le sue restrizioni della libertà più elementari e dei diritti primari: la prigionia domestica, il coprifuoco e la segregazione precauzionale. La mascherina è come una prigione portatile, la gabbia da asporto o la prosecuzione del domicilio coatto con altri mezzi. Sul piano geoetnico la mascherina evoca altri mondi diversi dal nostro, italiano, europeo e occidentale; cancella la bellezza sfacciata dei volti che è stata la gloria della nostra arte figurativa, i ritratti, i sentimenti che si leggono in viso, l’umanità dei volti. Anche se persona in origine significa maschera, da noi la maschera ha una connotazione negativa o al più grottesca. Mascherato è il rapinatore, il killer o il carnevale. S’incappucciano gli ordini esoterici, le confraternite religiose.La mascherina è in uso nelle popolazioni asiatiche, i bavagli profilattici dei cinesi in fila e le protezioni sanitarie dei giapponesi da raffreddori e inquinamento. Ma evoca soprattutto i veli imposti dall’Islam alle donne, dal chador al burka. La mascherina è il burka della salute, perché la nostra è ormai una religione sanitaria. Il nuovo comandamento è ricordati di sanificare le feste. Poi c’è la realtà. Al di là della contesa simbolica e ideologica di cui è stata caricata la mascherina vale l’utilità pratica di indossarla, magari il minimo indispensabile, evitandola laddove siamo soli, nelle nostre auto o all’aperto, lontani da ogni assembramento. E cercando di ridurre al minimo il tempo di permanenza in luoghi o situazioni che la richiedono. Perché la mascherina non la sopportiamo, fisicamente e psicologicamente, ce ne vogliamo liberare il più presto possibile, e rifiutiamo l’ipotesi inquietante che il nostro futuro sia quello di vivere mascherati, in seguito a un osceno baratto, dopo quello tra convivialità e salute: la pelle in cambio della faccia.(Marcello Veneziani, “L’ideologia mascherata e il burka della salute”, dal numero 38 di “Panorama”, settembre 2020).Da sei mesi siamo entrati nell’era globale della mascherina e non sappiamo quando ne usciremo. Siamo in pieno conflitto etico, epico ed estetico sul suo uso e il suo rifiuto. La contesa va al di là delle ragioni sanitarie e riguarda un modo di intendere la vita e i rapporti umani; è diventata infatti una questione politica, simbolica e ideologica. La battaglia per il suo uso o il suo rifiuto, nel nome della sicurezza o della libertà, lo scontro tra chi dice di non voler rischiare la salute e chi invece non vuol perdere la faccia, ha assunto ormai toni ideologici che vanno al di là della profilassi, dell’effettiva efficacia della mascherina e dei rischi di contagio. Per dirla con Giorgio Gaber la mascherina è di sinistra, il viso scoperto è di destra. Abbiamo sentito in questi mesi accusare di negazionismo irresponsabile e di fasciosovranismo smascherato coloro che ostentavano il rifiuto della mascherina. Trump, Bolsonaro, Johnson e da noi Salvini, Briatore, Sgarbi. In effetti nell’atteggiamento ribelle verso le mascherine c’è qualcosa d’intrepido e temerario che ricorda gli arditi e i fascisti, dal me ne frego al “vivi pericolosamente”; e c’è pure qualcosa di libertario e liberista che rifiuta lacci e lacciuoli, regole e bavagli.
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Virus e paura: ecco la mutazione che sconvolgerà l’umanità
No, non sarà solo una grave crisi economica e sociale, non genererà solo miseria e volontà di ricostruzione, non cambierà solo gli assetti politici e il rapporto tra potere e cittadini; non inciderà solo sulle relazioni, i viaggi, la globalizzazione, il rapporto tra le generazioni. Dall’emergenza mondiale alle prese col mistero dei virus avverrà la Mutazione, qualcosa di profondo, globale, radicale. La Mutazione antropologica che sconvolgerà l’umanità, non solo nei comportamenti e nei consumi, ma anche nell’anima e nella visione della vita e della morte. L’espressione che più rende l’idea del tempo che verrà è Medioevo prossimo venturo, tratta dal libro famoso di un ingegnere-futurologo, Roberto Vacca, che nei primi anni Settanta prefigurò una grande crisi dello sviluppo e un ritorno a una specie di Medioevo. Un’utopia rovesciata, cioè una distopia, o piuttosto una previsione, se non una profezia. La Mutazione allinea una serie di elementi psicologici insorti in questi giorni: in primis la paura, il terrore del contagio e del mondo esterno; quindi il mistero, la percezione di trovarsi di fronte a un evento imponderabile, di cui ci sfugge l’essenziale, anche se sappiamo tutto intorno; poi l’isolamento radicale di massa come mai l’avevamo conosciuto, tutti soli, barricati in casa, a fronteggiare il male senza possibilità di contatti; quindi la prossimità del limite, inteso come misura, confine invalicabile, ma anche come vicinanza della morte, che avevamo rimosso; infine la noia della cattività, il vuoto dei giorni e della vita, l’assenza di impegni, se non l’appello biologico ad autoconservarsi, per sé e per gli altri.Incrociando questi fattori interiori con la situazione esterna, il collasso sociale, l’incertezza totale, il crollo del ciclo produzione-consumo, sorge la Mutazione, non solo di abitudini e aspettative, ma anche psichica, senza precedenti. Anzi usiamo la parola rimossa: spirituale. Non è forse un caso il nesso originario tra spirito e respiro, che hanno la medesima radice in spiritus e pneuma. Una società priva di spiritualità soffoca, non respira, come per il virus. Non sappiamo se a questa crisi spirituale risponderà, almeno in occidente, un risveglio del cristianesimo. Nei primi giorni dell’emergenza la fede e la Chiesa per la prima volta da secoli risultavano sparite davanti alla tragedia. Irrilevanti, defilate. Le chiese chiuse, il silenzio del papa barricato e solo, la stessa preghiera solitaria del vescovo di Milano alla Madonnina in cima al Duomo, confermavano l’idea che questa crisi nasceva senza i conforti religiosi. La religione regrediva, per ragioni di salute, a programma tv o social. Come in una forzata svolta protestante, nasceva la religione per individui soli, fuori dalla Chiesa, una religione bricolage domestico, faidate. Interiors. Poi non sono mancati esempi luminosi. Uno tra tutti: don Giuseppe Berardelli nella bergamasca, che capovolgendo il motto egoista mors tua vita mea ha ceduto il suo respiratore a un paziente più giovane, andando incontro alla morte. Con tanti eroi medici e infermieri, vanno onorati anche i sacerdoti martiri.Ma il tema in campo non è quello della religione umanitaria e pro-migranti dell’era Bergoglio: è la religione che risponde al bisogno di spiritualità, alla fame di senso e di sacro, al saper addomesticare la morte, accettare i limiti e il mistero. La religione dei simboli, dei riti, della liturgia e soprattutto alla preghiera. La religione del rosario, dei santi e dei martiri; la religione che consola per la morte e proietta nella resurrezione, nella beatitudine immortale. Non sappiamo se sarà la religione cristiana ad accompagnare la Mutazione o altre vie spirituali. Così come non sappiamo se sarà l’antico mondo nazional-conservatore, o il nuovo populismo sovranista, a rappresentare il bisogno di ordine e di comunità organica, di stato autorevole e decisore, che emerge nel mondo. L’esperienza del contagio ci riconduce a una visione della società come organismo: se una parte del corpo s’infetta contagia il resto. Siamo dunque consorti, comunità di destino. Tornano i valori? Torna piuttosto il terreno che li precede, su cui possono sorgere. L’idea stessa di libertà, dopo questa esperienza muterà radicalmente: non liberare all’infinito i propri desideri, non libertà come liberazione da ogni vincolo; ma libertà per qualcosa, in vista di qualcosa. Con senso della misura, responsabilità, in rapporto con l’autorità e con l’ordine.Si, la libertà come diritto alla differenza, libertà di opinione e di voto, libertà di movimento; ma la libertà come Diritto Assoluto, diritto di avere diritti, non può funzionare. Il bisogno che sorge in questa situazione è esistenziale e spirituale. Veniamo da una società benestante ma depressa, che usa farmaci e terapie, ricorre a guru e psicanalisti per tenere a bada il mostro dell’angoscia. Ora che l’età dell’ansia esplode sono possibili due ipotesi opposte ma non inconciliabili: che si entri in una depressione di massa senza precedenti o che si guarisca di fronte ai pericoli reali dai pericoli mentali. Mi sembra che le due ipotesi si sovrappongano. Ad entrambe la risposta non può essere solo una “disperata vitalità”, per dirla con Pasolini: ma un rinnovato senso spirituale, sorto dopo questa ascesi di massa nelle proprie case, nelle città morte che dovranno rinascere quando scenderanno dai loro rifugi milioni di eremiti di cui già parlava Montale mezzo secolo fa. Per ora la nostra salvezza è lo smartphone e i suoi parenti stretti. Ma quando torneremo guardinghi all’aria aperta, ci vorrà altro, non basterà internet. Ci vorrà eternet.(Marcello Veneziani, “La Mutazione che sconvolgerà l’umanità”, riflessione pubblicata da “Panorama” e ora ripresa dal blog di Veneziani).No, non sarà solo una grave crisi economica e sociale, non genererà solo miseria e volontà di ricostruzione, non cambierà solo gli assetti politici e il rapporto tra potere e cittadini; non inciderà solo sulle relazioni, i viaggi, la globalizzazione, il rapporto tra le generazioni. Dall’emergenza mondiale alle prese col mistero dei virus avverrà la Mutazione, qualcosa di profondo, globale, radicale. La Mutazione antropologica che sconvolgerà l’umanità, non solo nei comportamenti e nei consumi, ma anche nell’anima e nella visione della vita e della morte. L’espressione che più rende l’idea del tempo che verrà è Medioevo prossimo venturo, tratta dal libro famoso di un ingegnere-futurologo, Roberto Vacca, che nei primi anni Settanta prefigurò una grande crisi dello sviluppo e un ritorno a una specie di Medioevo. Un’utopia rovesciata, cioè una distopia, o piuttosto una previsione, se non una profezia. La Mutazione allinea una serie di elementi psicologici insorti in questi giorni: in primis la paura, il terrore del contagio e del mondo esterno; quindi il mistero, la percezione di trovarsi di fronte a un evento imponderabile, di cui ci sfugge l’essenziale, anche se sappiamo tutto intorno; poi l’isolamento radicale di massa come mai l’avevamo conosciuto, tutti soli, barricati in casa, a fronteggiare il male senza possibilità di contatti; quindi la prossimità del limite, inteso come misura, confine invalicabile, ma anche come vicinanza della morte, che avevamo rimosso; infine la noia della cattività, il vuoto dei giorni e della vita, l’assenza di impegni, se non l’appello biologico ad autoconservarsi, per sé e per gli altri.
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Le Sardine in Tv: che meraviglia, non contestano il potere
Evviva, i ragazzi scoprono la politica, l’impegno civile, il gusto del dissenso. L’onda lunga delle sardine è stata salutata da un boato di speranza e di sostegno con una sfilata di sponsor da grandi eventi, preti inclusi. Che gioia il ritorno del figliol prodigo, la gioventù ritrovata. Da troppo tempo latitante dalla politica, eccola che si fa largo. Risale il Novecento, secolo della giovinezza, almeno fino al ’68, si ritrovano i ragazzi sulla breccia, come li vedemmo sull’orlo infranto del Muro di Berlino, salvo poi sparire nei pub, nei display e nei consumi privati. Superata la prima fase di euforia, sorgono i dubbi. Il primo, già noto. Non vi pare strano che i ragazzi scendano in piazza non per contestare un potere, un governo, una dominazione politica e culturale ma per attaccare l’opposizione, per condannare un libero e vasto consenso popolare, per opporsi a chi si oppone all’establishment politico e culturale, all’ideologia dominante e al relativo conformismo? Non ci sono precedenti… Il secondo dubbio è se sono davvero un fenomeno spontaneo: chi c’è dietro? Non siamo in grado di confermare o smentire niente. Ma possiamo dire che appena sono apparsi, la ditta dei santini si è messa subito al loro servizio, compatta, come già aveva fatto per Greta e i manifestanti a scuola, per Carola e i suoi tifosi, per tutte le icone, Papa Francesco incluso, di volta in volta agitate per sostituire – usando le parole di Gramsci – un populismo progressivo al populismo regressivo.Qual è la differenza tra i due? E’ ideologica, pregiudiziale, tautologica: questi sono buoni perché progressisti, quelli sono nefasti perché bollati come regressisti. Dietro le sardine non ci sarà nessuno ma i pescivendoli hanno già lanciato le loro reti politiche. La terza osservazione è sulla loro consistenza. Leggi il loro manifesto e non trovi nulla che giustifichi qualcosa di più di una manifestazione di piazza. Non ci sono idee, non ci sono ragionamenti, non ci sono programmi, niente. E intorno c’è solo una residua simbologia venuta dal passato: Bella Ciao, via retrocedendo nel tempo e nelle forme. Qualcuno dirà, e siamo al quarto inciampo, ma fateli parlare, ascoltateli prima di emettere giudizi. E invece dopo aver sentito i loro esordi pubblici, direi il contrario: sardine, disertate i talk show, per il vostro bene, non andate mai in tv e nei dibattiti. Quando vanno sono una delusione: il vuoto assoluto, il balbettante carosello di luoghi comuni, istanze generiche, più l’odio verso Salvini & C., come unico segno comune distintivo. E poi le vaghe menate sui muri da abbattere, l’ambiente, il senso civico, il politically correct. Troppo poco per dare consistenza a un movimento. Meglio restare sott’acqua, meglio far tappezzeria in piazza, nascondersi nel branco e restare muti come pesci, piuttosto che dire ovvietà con la scusante che sono ragazzi e vanno al Dams.In certi casi si fa miglior figura a essere figuranti. Restate nei collettivi, non separatevi mai dal coro, perché se dite, sapete solo ripetere le banalità dei grandi, con l’attenuante dell’inesperienza e il candore dell’estraneità. Quinta obiezione. I giovani scoprono la politica, ma dieci anni fa, i ragazzi che si affacciavano ai vaffa day di Grillo non erano in prevalenza giovani? E poi il popolo viola, i girotondini, le pantere… Non è dunque una novità assoluta. Diciamo che ciclicamente accade e di solito la rapidità con cui spuntano dal nulla è pari alla rapidità con cui spariscono nel nulla. Sesto dubbio, sono l’iceberg di una vasta gioventù o rappresentano su scala giovanile la stessa minoranza che la sinistra dem rappresenta a livello adulto? Dubbio più che legittimo perché sondaggi di altro tipo dimostrano una diffusa se non prevalente tendenza giovanile inversa rispetto alle sardine. E a tal proposito sorge una domanda congiunta: ma perché non si vedono le triglie conservatrici, le alici destrorse che avversano questo governo, l’establishment e la sua ideologia politically correct? Non esistono, non riescono a fare gruppo, passano inosservati? Difficile che non esistano, possibile che non riescano a fare gruppo, probabile che passino inosservati all’occhio dei media. Dico occhio al singolare, perché si sa che la fabbrica delle opinioni vede solo con l’occhio sinistro. Intanto si parla di pinguini e di gattini…A parte questi dubbi, alla fine fa piacere che ci siano dei ragazzi che si impegnino sul piano civile e politico, non dirò che si espongano perché non hanno da rischiare più che non abbiano da trarre vantaggi. Ma il dubbio che resta è: dureranno? Andranno oltre le elezioni amministrative di gennaio e forse di primavera, o avranno vita breve e finiranno nelle reti della pesca a strascico? Alla fine, però, con tutti i limiti, i difetti e i dubbi espressi, e ben sapendo che sono dalla parte opposta di chi vi scrive, ben vengano le sardine e altri animali politici. Anche perché suscitano l’impegno avverso, come già accadde alla generazione sessantottina che stimolò per reazione e contrappasso una vasta gioventù di “destra” negli anni Settanta. Ne abbiamo visti tanti di proclami e annunci di nuove generazioni alle porte, e poi dopo poco hanno sciolto le righe, si sono imboscati, sono rimasti in carriera politica solo i caporioni. Non devono impressionare le recriminazioni delle generazioni precedenti verso quelle successive, ci sono sempre state. Ognuna si esprime a suo modo. La vera novità è che gli ultimi ragazzi sembrano più sconnessi dalla storia, dalla polis, dal rapporto anche conflittuale con le altre generazioni. Com’è profondo il mare, troppo vasto, liquido, cangiante, per essere riempito dalle esili sardine.(Marcello Veneziani, “Quanto dureranno le sardine”, dal numero 50 di “Panorama”, 2019; articiolo ripreso dal blog di Veneziani).Evviva, i ragazzi scoprono la politica, l’impegno civile, il gusto del dissenso. L’onda lunga delle sardine è stata salutata da un boato di speranza e di sostegno con una sfilata di sponsor da grandi eventi, preti inclusi. Che gioia il ritorno del figliol prodigo, la gioventù ritrovata. Da troppo tempo latitante dalla politica, eccola che si fa largo. Risale il Novecento, secolo della giovinezza, almeno fino al ’68, si ritrovano i ragazzi sulla breccia, come li vedemmo sull’orlo infranto del Muro di Berlino, salvo poi sparire nei pub, nei display e nei consumi privati. Superata la prima fase di euforia, sorgono i dubbi. Il primo, già noto. Non vi pare strano che i ragazzi scendano in piazza non per contestare un potere, un governo, una dominazione politica e culturale ma per attaccare l’opposizione, per condannare un libero e vasto consenso popolare, per opporsi a chi si oppone all’establishment politico e culturale, all’ideologia dominante e al relativo conformismo? Non ci sono precedenti… Il secondo dubbio è se sono davvero un fenomeno spontaneo: chi c’è dietro? Non siamo in grado di confermare o smentire niente. Ma possiamo dire che appena sono apparsi, la ditta dei santini si è messa subito al loro servizio, compatta, come già aveva fatto per Greta e i manifestanti a scuola, per Carola e i suoi tifosi, per tutte le icone, Papa Francesco incluso, di volta in volta agitate per sostituire – usando le parole di Gramsci – un populismo progressivo al populismo regressivo.
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Ilva, Mes, Alitalia, Unicredit: quanto ci costa il Conte-bis?
«Care madamine italiane, visto dalla Cina il catalogo è questo». Ilva e Mes, Alitalia e Unicredit: crisi gravissime, governo assente. «E’ il prezzo che dovete pagare per tenervi Conte», scrove Lao-Xi sul “Sussidiario”. Bollettino di una catastrofe annunciata, a partire dall’Ilva di Taranto: attorno alla più grande acciaieria d’Europa «è in gioco tra l’1,5% e il 3% del Pil». Può essere chiusa e, come minimo, verrà dimezzata. «La Puglia salterebbe come un birillo e darebbe inizio a una crisi finanziaria nazionale». Poi c’è Unicredit, la seconda banca italiana (ma solo per il 2% in mano a italiani, come ricorda “Panorama”): ha annunciato 5.000 licenziamenti e la chiusura di una cinquantina di filiali. «Ha già venduto gli investimenti all’estero, la finanziaria Pioneer, la sede storica, i quadri, e impone già tassi negativi ai risparmiatori: è a evidente rischio di saltare, mettendo in pericolo centinaia di miliardi di asset». Poi c’è Alitalia, a cui è stato dato un nuovo prestito-ponte semestrale. «Non ci sono prospettive di rilancio», scrive Lao-Xi. la compagnia di bandiera «ha già bruciato decine di miliardi e non si sa a cosa possa servire il nuovo prestito». Ma non è tutto: sono in stato pietoso le infrastrutture. «Ponti e strade crollano per un temporale un po’ più forte o un terremoto di entità modesta». Secondo alcune stime «ci vorrebbero 40-60 miliardi per rimettere tutto a norma».A fare veramente paura è il Mes, il “fondo ammazza-Stati” oggi nell’occhio del ciclone. «L’anno scorso di questi tempi l’allora ministro Paolo Savona fece una proposta alternativa al Mes, ma non trovò sponde o orecchie tra i leader di M5S e Lega», ricorda Lao-Xi. Ora Di Maio e Salvini vogliono dire no al “meccanismo di salvaguardia” europeo: secondo Salvini e Meloni, Conte sarebbe stato coinvolto (in gran segreto, insieme al ministro dell’economia Gualtieri) nella revisione dell’accordo. Si esporrebbe l’Italia a pericoli esiziali: la teorica possibilità di “ristrutturazione” del debito, in caso di ricorso al Mes, costringerebbe le banche a praticare il bail-in, il prelievo forzoso dai conti correnti. Osservando dalla Cina tutte le trappole che assediano l’Italia, Lao-Xi osserva: «Sono problemi enormi, che avrebbero bisogno di idee concrete su come rilanciare il paese e quindi trovare iniziative e risorse per far fronte allo tsunami in corso». Domanda: «Davanti a tutto ciò, cosa sta facendo il governo di Giuseppe Conte? E che cosa sta facendo l’opposizione, che pare solo solo concentrata sul voto regionale in Emilia-Romagna? Basta sommare il breve elenco – aggiunge l’analista – e si nota a vista d’occhio che il conto potrebbe superare le centinaia di miliardi, che non ci sono».La verità, continua Lao-Xi, è che «l’Italia sta precipitando in un pozzo senza fondo». La lotta contro l’immigrazione di Salvini o quella del movimento delle Sardine contro Salvini? «Dividono su come affrontare un dramma che sta cambiando il paese», certo. «Ma alla luce dell’elenco appena fatto, paiono giochi di distrazione di massa». Si inrerroga l’analista: «Perché con questi drammi non si cerca di smuovere le acque e andare al voto anticipato? Perché Salvini non va a Taranto e presidia l’Ilva? Perché non chiede ragioni di Unicredit, dei ponti, di Alitalia?». Quanto a ministri e parlamentari, «sembrano viaggiare in una nuvola, preoccupati solo di prendere lo stipendio a fine mese». Ovvero: «Dai professionisti della politica sembra si sia passati ad allucinati tossicodipendenti della politica: i problemi non importano, vivo nel mio mondo col solo orizzonte di un altro stipendio e di evitare le elezioni anticipate». Nelle ultime tre tornate politiche, il 40% del corpo elettorale ha cambiato le proprie intenzioni di voto. In queste condizioni, conclude Lao-Xi, il 90% dei parlamentari non è sicuro della sua rielezione. «Per tutti costoro, altri due anni e mezzo a Montecitorio significano 500.000 euro netti: una fortuna, specie per i tanti che a fine legislatura potrebbero prendere meno di 10.000 euro all’anno».Il debito pubblico è alto, ammette Lao-Xi, ma i tassi d’interesse sul maxi-debito sono bassi. Non solo: «I risparmi degli italiani sono alti, e il surplus commerciale florido». Indicatori teoricamente decisivi, per il rating del paese: eppure, “l’Europa” non li considera mai. L’Ue preferisce colpire l’Italia, piegandola ai suoi voleri (complice, oggi, il docilissimo Conte) solo in virtù dei conti pubblici, per giunta in un’Unione che tollera le legislazioni tributarie di paesi come Olanda e Lussemburgo, veri e propri paradisi fiscali che drenano in modo sleale le risorse finanziarie dei “partner” europei. L’Italia ne soffre moltissimo: «I soldi per gli investimenti non ci sono – scrive Lao-Xi – ma almeno una certa fetta di italiani, l’Italia che produce, resta ricca». Che succederà? «Tutto può impazzire se arriva una crisi internazionale che fa schizzare i tassi di interesse. Ci sarà? Nessuno può saperlo». I parlamentari incollati alla poltrina ostentano scetticismo, anche per tutelare i loro interessi. E se la tempesta scoppierà, chiosa Lao-Xi, «sarà colpa del mondo, del diavolo, del bieco destino, della sfortuna… Mai della loro impreparazione».«Care madamine italiane, visto dalla Cina il catalogo è questo». Ilva e Mes, Alitalia e Unicredit: crisi gravissime, governo assente. «E’ il prezzo che dovete pagare per tenervi Conte», scrive Lao-Xi sul “Sussidiario“. Bollettino di una catastrofe annunciata, a partire dall’Ilva di Taranto: attorno alla più grande acciaieria d’Europa «è in gioco tra l’1,5% e il 3% del Pil». Può essere chiusa e, come minimo, verrà dimezzata. «La Puglia salterebbe come un birillo e darebbe inizio a una crisi finanziaria nazionale». Poi c’è Unicredit, la seconda banca italiana (ma solo per il 2% in mano a italiani, come ricorda “Panorama“): ha annunciato 5.000 licenziamenti e la chiusura di una cinquantina di filiali. «Ha già venduto gli investimenti all’estero, la finanziaria Pioneer, la sede storica, i quadri, e impone già tassi negativi ai risparmiatori: è a evidente rischio di saltare, mettendo in pericolo centinaia di miliardi di asset». Poi c’è Alitalia, a cui è stato dato un nuovo prestito-ponte semestrale. «Non ci sono prospettive di rilancio», scrive Lao-Xi. la compagnia di bandiera «ha già bruciato decine di miliardi e non si sa a cosa possa servire il nuovo prestito». Ma non è tutto: sono in stato pietoso le infrastrutture. «Ponti e strade crollano per un temporale un po’ più forte o un terremoto di entità modesta». Secondo alcune stime «ci vorrebbero 40-60 miliardi per rimettere tutto a norma».
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Fenomenologia di Conte: un ologramma a Palazzo Chigi
Giuseppe Conte non è. Non è un leader, non è un eletto, non è un politico, non è un tecnico, non è nulla. È il Nulla fatto premier. E lo conferma ogni giorno adattandosi come acqua corrente alle superfici che incontra. È la plastica rappresentazione che la Politica, dopo lo Scarso, lo Storto, il Pessimo, ha raggiunto lo Zero, la rappresentazione compiuta del Vuoto. Luogotenente del Niente, Conte è oggi il fenomeno più avanzato della politica dopo i partiti, i movimenti, le ideologie, la politica e l’antipolitica, i tecnici e i populisti, le élite e le plebi. È la svolta avvocatizia della politica che pure è da sempre popolata di avvocati: ma Conte non scende in politica, assume solo da avvocato l’incarico di difendere una causa per ragioni professionali; ma i clienti cambiano e così le cause. Andrebbe studiato nelle università del mondo perché segna un nuovo stadio, anonimo e postumo della politica. Non si può esprimere consenso né dissenso nei suoi confronti perché non c’è un argomento su cui dividersi; lui segna la fine del discorso politico, la fine della decisione, la fine di ogni idea, di ogni fatto. È la somma di tante parole usate nel gergo istituzionale, captate e assemblate in un costrutto artificiale. È lo stadio frattale del moroteismo, il suo dissolversi. Ogni suo discorso è un preambolo a ciò che non accadrà, il suo eloquio è uno starnuto mancato, di cui si avverte lo sforzo fonico e il birignao istituzionale ma non il significato reale. Altri semmai decideranno, lui si limita al preannuncio.Ogni volta che un Tg apre su di lui, non c’è la notizia, è solo una presenza che denota un’assenza; si spalanca una finestra nel vuoto. I fatti separati dalle opinioni, si diceva; lui è nello spazio intermedio dove non ci sono i fatti e non ci sono le opinioni. Dopo che Conte avrà parlato lascerà solo una scia di silenzi e di buchi nell’acqua. Non darà risposte, sceneggerà un ruolo e dirà lo Zero virgola zero. Nelle sue citazioni saccenti vanifica l’autore citato, lo rende vuoto e banale come lui. Conte non rientra in nessuna categoria conosciuta, eppure abbiamo avuto una variegata fauna di politici al potere. Lui non è di parte, eccetto la sua, è piovuto dal cielo in una sera senza pioggia. Conte è portatore sano di politica e di governo, perché lui ne è esente. È contenitore sterile di ogni contenuto. Non ha una sua idea; quel che dice è frutto del luogo, dell’ora e delle persone che ha di fronte. Parla la Circostanza al suo posto, la Circumstancia, per dirla con Ortega y Gasset; Conte è la somma dell’habitat in cui è immesso, traduce il fruscio ambientale in discorso. Figurante ma senza neanche figurare in un ruolo, è l’ologramma di una figura inesistente, disegnato in piattaforma come un gagà meridionale degli anni 50. Un po’ come Mark Caltagirone, il fidanzato irreale di Pamela Prati; è solo una supposizione.Trasformista, a questo punto, sarebbe già un elogio, comunque un passo avanti, perché indicherebbe un passaggio da uno stadio a un altro. Conte, invece, è solo la membrana liquida che di volta in volta riveste la situazione, producendo un molesto acufema in forma di eloquio. Conte cambia voltura a ogni utente e rispetto a ogni gestore (non fu un caso nascere a Volturara). Conte è fuoco fatuo, rappresentazione allegorica del niente assoluto in politica, ma a norma di legge. Quando apparve per la prima volta dissero che aveva alterato il curriculum e in alcune università da lui citate non era mai stato, non lo conoscevano; ma Conte è un personaggio virtuale, il curriculum può allungarsi, allargarsi, restringersi secondo i desiderata occasionali. Conte non ha una storia, non ha eredità e provenienze, non ha fatto nessuna scalata. È stato direttamente chiamato al Massimo Grado col Minimo Sforzo, anzi senza aver fatto assolutamente nulla. Una specie di gratta e vinci senza comprare nemmeno il biglietto, anzi senza aver nemmeno grattato. Da zero a Palazzo Chigi. Come Gregor Samsa una mattina si svegliò scarafaggio, lui una mattina si svegliò premier. Un postkafkiano. Conte è di momento in momento di centro, di destra, di sinistra, cattolico, laico, progressista, medieval-reazionario con Padre Pio, democratico-global con Bergoglio, fido del sovranista Trump e al servizio degli antisovranisti eurolocali; è genere neutro, trasparente, assume i colori di chi sta dietro. Un passe-partout.Il Conte Zelig, come lo battezzammo agli esordi, ha assunto di volta in volta le fattezze gradite a tutti i suoi interlocutori: merkeliano con la Merkel, junckeriano con Juncker, trumpiano con Trump, macroniano con Macron, chiunque incontra lui diventa quello; è lo specchio di chi incontra. In questa sua capacità s’insinua e manovra. Conte non dice niente ma con una faticosa tonalità che sembra nascere da uno sforzo titanico, la sua parlata cavernosa e adenoidea è una modalità atonica, priva di pensieri o emozioni, pura espressione vanesia di un dire senza dire, il gergo della premieralità. Il suo vaniloquio è simulazione di governo, promessa continua di intenti, rinvio sistematico di azioni; è un riporto asintomatico di pensieri, la somma di più uno e meno uno. Indica con fermezza che si adatta a tutto e non comunica niente. Dopo Conte non c’è più la politica; c’è la segreteria telefonica, il navigatore di bordo, la cellula fotoelettrica. Il drone. Conte però ha una funzione, e non è solo quella di cerniera lampo tra sinistra e M5S, punto di sutura tra establishment e grillini. È la spia che la politica non c’è più, nemmeno nella versione degradata più recente. Lui è oltre, è senza, è il sordo rumore del nulla versato nel niente.(Marcello Veneziani, “Fenomenologia di Giu’ Conte”, dal numero 41 di “Panorama” 2019).Giuseppe Conte non è. Non è un leader, non è un eletto, non è un politico, non è un tecnico, non è nulla. È il Nulla fatto premier. E lo conferma ogni giorno adattandosi come acqua corrente alle superfici che incontra. È la plastica rappresentazione che la Politica, dopo lo Scarso, lo Storto, il Pessimo, ha raggiunto lo Zero, la rappresentazione compiuta del Vuoto. Luogotenente del Niente, Conte è oggi il fenomeno più avanzato della politica dopo i partiti, i movimenti, le ideologie, la politica e l’antipolitica, i tecnici e i populisti, le élite e le plebi. È la svolta avvocatizia della politica che pure è da sempre popolata di avvocati: ma Conte non scende in politica, assume solo da avvocato l’incarico di difendere una causa per ragioni professionali; ma i clienti cambiano e così le cause. Andrebbe studiato nelle università del mondo perché segna un nuovo stadio, anonimo e postumo della politica. Non si può esprimere consenso né dissenso nei suoi confronti perché non c’è un argomento su cui dividersi; lui segna la fine del discorso politico, la fine della decisione, la fine di ogni idea, di ogni fatto. È la somma di tante parole usate nel gergo istituzionale, captate e assemblate in un costrutto artificiale. È lo stadio frattale del moroteismo, il suo dissolversi. Ogni suo discorso è un preambolo a ciò che non accadrà, il suo eloquio è uno starnuto mancato, di cui si avverte lo sforzo fonico e il birignao istituzionale ma non il significato reale. Altri semmai decideranno, lui si limita al preannuncio.
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Feltri: io, Montanelli e Berlusconi. La verità mai confessata
Nel 1989 assunsi la direzione del settimanale “L’Europeo”. Volevo prendere come vice Scarpino, ma io non avrei potuto portarlo via a “Il Giornale” senza confrontarmi con il suo direttore. Allora incontrai Indro, manifestandogli questo mio desiderio. Montanelli acconsentì e il giornalista cosentino, stimato tanto da Indro, passò a “L’Europeo”. Già dopo due anni iniziai ad avvertire il desiderio di cambiare, fui preso dalla mia frenesia. Avevo portato il settimanale da 78.000 a 130.000 copie, ora volevo nuove sfide. Puntualissima arrivò la proposta di dirigere “L’Indipendente”, che versava in una grave crisi. Nel 1992 lo presi e lo rivoltai tutto. A “L’Europeo” rimase Scarpino, che dopo qualche mese andò a lavorare come caporedattore a “Rete4” con Emilio Fede. In quel periodo continuavo a sentire e a vedere ogni tanto Indro. Ricordo la sua Lancia Thema blu, con la quale dopo il nostro pranzo mi faceva accompagnare dall’autista ovunque avessi bisogno di recarmi. Non era una macchina di lusso, ed appariva anche un po’ consumata. Montanelli non era uno che badava alle frivolezze. Tuttavia, curava con precisione il suo aspetto, era sempre vestito bene, un po’ britannico, indossava camicie a quadri, dolcevita, e zoppicava perché era stato colpito dalle Brigate Rosse alle gambe. La sua gentilezza era addirittura estrema.
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Dezzani: il M5S, piano Usa nato per sterilizzare la protesta
Quando una nuova arma è perfezionata è abitudine sperimentarla in qualche poligono di tiro lontano da occhi indiscretti. Ma le armi convenzionali sono solo uno degli strumenti cui il sistema ricorre per esercitare il proprio dominio, scriveva l’analista geopolitico Federico Dezzani nel lontano 2015, quando a Palazzo Chigi sedeva il Matteo Renzi prima maniera, non ancora alleato dei grillini. Eppure, già allora, proprio di quelli Dezzani si occupava, definendo il Movimento 5 Stelle “la stampella del potere”. Tre anni dopo, i grillini sono andati al governo con Salvini ma piazzando lo sconoscito Conte nella sala dei bottoni. E oggi, puntualissimi, sono negli stessi ministeri ma con l’odiato Renzi e il “partito della Boschi”. Colpa di Salvini? Ma va là, direbbe Dezzani, che già quattro anni fa aveva le idee chiarissime sulla vera funzione del MoVimento, che infatti ha ricondotto all’ovile le pecorelle populiste facendo loro ingoiare persino l’inchino supremo alla Grande Germania, con l’elezione di Ursula von der Leyen a capo della Commissione Europea. A maggior ragione acquista sapore, oggi, la rilettura dell’analisi del profetico Dezzani: quello di Grillo era solo un bluff, fin dall’inizio. Operazione sofisticata, che ha ingannato milioni di elettori.
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Veneziani: non è col sovranismo che si sconfigge il Mostro
Pontida, Atreju e poi? Tweet, selfie, comizi, talk show, magari un corteo. Ma qual è la consistenza di quel fenomeno pur maggioritario nel nostro paese che è chiamato sovranismo? Dico la consistenza oltre l’apparenza mediatica, le opinioni espresse, le facce dei leader. Sapete come la penso, sapete che la sintesi del peggio che comanda l’Italia suscita in me come in molti di voi, qualcosa di più del dissenso e dell’opposizione. Disgusto, indignazione, a tratti perfino schifo al solo vederli e sentirli. Quando il peggior settarismo si unisce al peggior trasformismo in un progetto che è agli esatti antipodi di quel che pensano, dicono, vogliono gli italiani e di quel che il puro buon senso, la realtà, non hai voglia di sottoporre a critica chi si oppone a loro. Puro sfascismo, inavvertenza del declino verso cui ci portano al galoppo, negazione di ogni senso d’italianità, di civiltà, di priorità legate alla vita reale delle persone, delle famiglie, dei popoli. Però possiamo chiederci una volta, almeno una volta, che altro c’è di solido, di credibile, di fondato oltre le facce, gli slogan e le dichiarazioni dei leader sul versante dei sovranisti?Sapete che vuol dire governare l’Italia, e sapete che vuol dire farlo avendo il mondo contro, i potentati veri, i media, Papi, i giudici d’assalto, i presidenti e i tecnocrati, le classi dominanti europee? Nessuno pensa che all’opposizione si possa disporre di mezzi e risorse adeguate ad affrontare una sfida così grande; si sa che c’è uno squilibrio clamoroso, che parliamo di Davide contro Golia, con l’unica forza che ci sono milioni di Davide a tendere la fionda del medesimo puntata contro il gigante. Ma si può costruire una credibile alternativa ai poteri armati e accessoriati solo con la biblica fionda e il tifo intorno? Può bastare l’uso dei social per combattere una vera battaglia di civiltà? Si può far rinascere un paese, rifondare una nazione sovrana con qualche palliativo, qualche piccola battaglia simbolica e poi nient’altro? No, non può bastare.Sì, qualcosa magari c’è, qualche buon amministratore locale, qualcuno che se la cava, qualche faccia credibile e rispettabile. Ma poi basta, il vuoto; nessuna classe dirigente, nessuna struttura, nessun quartier generale, nessuna vera strategia oltre la solita tattica elettorale più contorno di sondaggi. Il deserto, e gli slogan nel deserto. Non tornerò a ripeterlo, magari lo scriverò una volta su “La Verità” o su “Panorama”; per ora lo dico solo a voi, amici della pagina. Non mi va di far la cassandra; e poi, se consideri chi c’è al potere, chi abita il Palazzo, tutti gli altri se, ma, boh, finiscono in un angolo; non puoi perder tempo a “sottilizzare” sulla reale consistenza di quell’alternativa se hai la certezza che quel potere fa male. Ma ogni tanto, a bassa voce, in un orecchio, diciamocelo pure noi. Non bastano due facce, quattro slogan e tanta rabbia per costruire una seria alternativa di governo. Ce lo siamo detti, non ce lo ripeteremo. Ma dovevamo dircelo, senza ipocrisia. Con la speranza di sbagliarci o di vederla noi troppo negativamente.(Marcello Veneziani, “Detto tra noi”, da “La Verità” del 21 settembre 2019; articolo ripreso sul blog di Veneziani).Pontida, Atreju e poi? Tweet, selfie, comizi, talk show, magari un corteo. Ma qual è la consistenza di quel fenomeno pur maggioritario nel nostro paese che è chiamato sovranismo? Dico la consistenza oltre l’apparenza mediatica, le opinioni espresse, le facce dei leader. Sapete come la penso, sapete che la sintesi del peggio che comanda l’Italia suscita in me come in molti di voi, qualcosa di più del dissenso e dell’opposizione. Disgusto, indignazione, a tratti perfino schifo al solo vederli e sentirli. Quando il peggior settarismo si unisce al peggior trasformismo in un progetto che è agli esatti antipodi di quel che pensano, dicono, vogliono gli italiani e di quel che il puro buon senso, la realtà, non hai voglia di sottoporre a critica chi si oppone a loro. Puro sfascismo, inavvertenza del declino verso cui ci portano al galoppo, negazione di ogni senso d’italianità, di civiltà, di priorità legate alla vita reale delle persone, delle famiglie, dei popoli. Però possiamo chiederci una volta, almeno una volta, che altro c’è di solido, di credibile, di fondato oltre le facce, gli slogan e le dichiarazioni dei leader sul versante dei sovranisti?
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Tribuni della Plebe, per completare la Democrazia Mafiosa
“Democrazie mafiose”: mezzo secolo fa, il giurista Panfilo Gentile (che aveva aderito al “Manifesto degli intellettuali antifascisti”, redatto da Benedetto Croce) pubblicò un affilato pamphlet sull’involuzione oligarchica delle democrazie. I partiti? Progressivamente ridotti a «circuiti chiusi e autoreferenziali di stampo mafioso». Volume pubblicato nel 1969 dall’editore Volpe, nella ristretta cerchia dei lettori di destra, ma poi “sdoganato” da Indro Montanelli sul “Corriere della Sera”. Lo ricorda Marcello Veneziani su “Panorama”: «Ci aveva visto giusto, Gentile, sull’involuzione mafiosa e partitocratica delle democrazie». Sua, tra l’altro, l’invenzione dell’espressione “sottogoverno”. Ma Gentile, aggiunge Veneziani, non aveva ancora visto l’Italia (e l’Europa) dei nostri anni, cioè «la spaccatura verticale tra popolo e notabilato, tra sovranità nazionali e potentati interni e internazionali, l’esproprio del voto fino al disprezzo per la volontà popolare e gli interessi nazionali». Osserva Veneziani: con la nascita del grottesco Conte-bis, «è la quarta volta consecutiva che la sinistra in Italia si affaccia al governo non legittimata direttamente dalle urne». Dopo l’orrore del governo Monti-Fornero, costato carissimo al paese (disastro sociale e perdita del 25% del potenziale industriale italiano) si sono succeduti Letta, Renzi e Gentiloni, senza mai la convalida delle urne. E ora il Conte-bis, «nato con lo scopo evidente di evitarle».«Per adeguarsi al tono e al livello delle accuse che lancia la sinistra a chiunque governi senza il suo benestare – dittatura, ritorno al nazismo e al fascismo, leader anti-sinistra trattati tutti come delinquenti comuni – si potrebbe dire che la sinistra è un’associazione politico-culturale di stampo mafioso che elimina gli avversari con sistemi non democratici, mette a tacere i dissidenti con forme di omertà e discriminazione, s’impossessa del potere con metodi non democratici e impone un protettorato antipopolare funzionale ai codici ideologici e politici della cosca», accusa Veneziani su “Panorama”. Tralasciando per un attimo «il terreno melmoso» delle polemiche italiane, sosa sta succedendo alle democrazie europee? «Le classi dirigenti si sentono assediate a nord dal modello Brexit, a sud dal modello Salvini, a est dal modello Orban e a ovest dal modello Le Pen». Secondo Veneziani «sono i quattro punti cardinali del sovranismo, ma sono anche quattro forze maggioritarie nei loro paesi, tutte criminalizzate». Dietro di loro «vengono esorcizzati gli spettri di Trump, di Putin, di Bolsonaro, di Modi, di Abe, e si potrebbe continuare: forme diverse di primato nazionale e identitario rispetto al modello liberal-radical-dem della sinistra».Per trovare un modello diverso di rifermento, continua Veneziani, si ricorre al modello cinese. Recensioni entusiastiche del “Corriere della Sera” e della “Repubblica” hanno accompagnato la traduzione del libro di Daniel Bell “Il modello Cina”, che ha un sottotitolo indicativo: “Meritocrazia politica e limiti della democrazia” (Luiss, prefazione di Sebastiano Maffettone). «Il modello cinese non è una democrazia, ma è un regime liberista, oligarchico e comunista, col doppio primato del mercato e del partito. È un sistema capitalistico ma illiberale, in cui la sovranità popolare è in realtà un feticcio ereditato dai tempi di Mao, che elogiava il popolo ma poi lo rieducava con la forza, instaurando una sanguinaria dittatura». Ora quel tempo è passato, la Cina ha fatto passi da gigante e si espande nel mondo tra tecnica e finanza, dall’Africa all’Occidente, eppure «il turbo-comunismo resta catechismo di Stato», e il capitalismo «assume in Cina il ruolo che aveva la tecnologia per Lenin: la sua formula fu “socialismo + elettrificazione”, oggi la formula cinese è “comunismo + mercato”».Bell, canadese che guida una facoltà di scienze politiche e pubblica amministrazione in Cina, non sposa il regime cinese nei suoi tratti più repressivi, corrotti e totalitari o l’autocrazia di Xi Jinping ma lo addita come modello per la formazione di classi politiche competenti, per il controllo del consenso popolare e la nascita di una tecnocrazia vigilata sotto il profilo etico (l’ultimo travestimento dell’ideologia e del politically correct). La Cina diventa per l’Europa e in particolare per l’Italia (che coi grillini ha già sposato la Via della Seta) il paese di riferimento per uscire dalla morsa Usa-Russia-India-Brasile più sovranisti nostrani e per limitare la democrazia. «Un modello che ruota intorno all’Intellettuale Collettivo che è poi il Partito, la Setta, la Casta; è la Cupola a rilasciare o revocare patenti di legittimazione, a vigilare sulla democrazia e a stabilirne i filtri, i limiti e a deciderne gli assetti», prosegue Veneziani, che aggiunge: «Resta però irrisolto un molesto interlocutore, il popolo sovrano. Come aggirarne la volontà e come impedire – oltre che con le inchieste giudiziarie e le criminalizzazioni mediatiche – l’avvento di leader sovranisti?».In modo non del tutto ironico, Veneziani suggerisce di prendere esempio «non dalla lontana Cina ma dalla lontana Roma del quinto secolo avanti Cristo: istituire i Tribuni della Plebe». Ovvero: «Incanalare il consenso popolare, gli umori, e legare i capi populisti verso quei ruoli d’alta magistratura». I tribuni della plebe, scrive Veneziani, erano difensori civici che rappresentavano i sentimenti popolari, legittimamente nominati e ascoltati; ma poi a governare ci pensavano i consoli e i patrizi («ora provvisoriamente consociati a un altro clan prodotto dalla piattaforma Rousseau»). Quella tribunizia, per Veneziani, sarebbe forse «la soluzione più equilibrata e meno truffaldina di limitare la democrazia: il popolo non esercita più la sovranità, ma solo il controllo tramite i tribuni». Così, come anticipato da Panfilo Gentile, «il potere resta saldamente nelle mani del patriziato, delle oligarchie, delle cupole». Tribuni della plebe? «Un compromesso, una divisione dei poteri, una regolamentazione “costituzionale” del potere mafioso vigente in Italia e per certi versi in Europa, dove governano leader di minoranza quasi ovunque, dalla Francia alla Germania, alla Spagna». Conclude Veneziani: «Pensateci, è una soluzione per aggirare la democrazia e frenare i populisti».“Democrazie mafiose”: mezzo secolo fa, il giurista Panfilo Gentile (che aveva aderito al “Manifesto degli intellettuali antifascisti”, redatto da Benedetto Croce) pubblicò un affilato pamphlet sull’involuzione oligarchica delle democrazie. I partiti? Progressivamente ridotti a «circuiti chiusi e autoreferenziali di stampo mafioso». Volume pubblicato nel 1969 dall’editore Volpe, nella ristretta cerchia dei lettori di destra, ma poi “sdoganato” da Indro Montanelli sul “Corriere della Sera”. Lo ricorda Marcello Veneziani su “Panorama”: «Ci aveva visto giusto, Gentile, sull’involuzione mafiosa e partitocratica delle democrazie». Sua, tra l’altro, l’invenzione dell’espressione “sottogoverno”. Ma Gentile, aggiunge Veneziani, non aveva ancora visto l’Italia (e l’Europa) dei nostri anni, cioè «la spaccatura verticale tra popolo e notabilato, tra sovranità nazionali e potentati interni e internazionali, l’esproprio del voto fino al disprezzo per la volontà popolare e gli interessi nazionali». Osserva Veneziani: con la nascita del grottesco Conte-bis, «è la quarta volta consecutiva che la sinistra in Italia si affaccia al governo non legittimata direttamente dalle urne». Dopo l’orrore del governo Monti-Fornero, costato carissimo al paese (disastro sociale e perdita del 25% del potenziale industriale italiano) si sono succeduti Letta, Renzi e Gentiloni, senza mai la convalida delle urne. E ora il Conte-bis, «nato con lo scopo evidente di evitarle».
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L’infame guerra di Bergoglio, che ora insulta la democrazia
Condannando senza appello il sovranismo e accostandolo alla guerra e al nazismo, Papa Bergoglio ha fatto nell’agitato clima d’agosto una dichiarazione di guerra mondiale nel nome della pace e dei migranti. Non ha solo scomunicato Salvini e benedetto la santa alleanza tra grillini e Pd, come molti hanno sottolineato, ma ha colpito tutti i sovranisti del mondo, da Trump a Putin, dal nazionalista indiano Modi al cattolico Orban e al brasiliano Bolsonaro che guida il paese cattolico più popoloso al mondo. Non ricordo un’accusa politica così radicale ed esplicita da parte di un Papa, almeno negli ultimi settant’anni con un paragone così infamante col nazismo e la guerra. Per trovare un vago precedente bisogna risalire alla scomunica di Papa Pio XII, nell’estate del 1949, nei confronti dei comunisti. Ma il comunismo era un regime totalitario e ateo in atto, perseguitava i credenti e i dissidenti, soffocava nel sangue e nel gulag la libertà. Qui siamo a una scomunica a priori nei confronti di leader e movimenti popolari, democratici e liberamente eletti che non si sono macchiati di alcun crimine e non hanno fatto nessuna azione o dichiarazione ostile verso la fede, la Chiesa e i credenti.Scomunicandoli, Bergoglio si è lanciato in uno spericolato paragone tratto dalla propaganda corrente, tra il sovranismo di oggi e il nazismo e la guerra di ieri e di domani. Sarebbe come accusare di comunismo antioccidentale o di complicità col fanatismo islamico chiunque voglia far sbarcare i clandestini e imporne l’accoglienza. Un processo alle intenzioni senza fondamento. Del resto quante guerre recenti sono state combattute nel nome della pace e del Bene contro le potenze del Male; quante guerre pacifiste, quanti stermini umanitari, quante bombe progressiste sganciate sulle popolazioni, quante invasioni a fin di bene, quanti maltrattamenti e respingimenti democratici di immigrati clandestini. Fu il democratico e pacifista Kennedy a far la guerra in Vietnam e a sfiorare la guerra a Cuba con l’Urss; toccò al “cattivo conservatore” Nixon chiudere la sciagurata guerra in Vietnam e dialogare col comunismo cinese.Con la sua dichiarazione di guerra ai sovranisti, Bergoglio ha compiuto tre atti ostili in uno: ha offeso i cattolici che liberamente votano per i “sovranisti” riducendoli a potenziali seguaci di Htler e nemici dell’umanità e della cristianità, erigendo così un muro d’odio e disprezzo nei loro confronti; proprio lui che dice di voler abbattere tutti i muri ne ha eretto uno gigantesco, insormontabile. Ha poi schiacciato la Chiesa su un versante politico a fianco di movimenti, governi e organi laicisti, atei, massonici, di sinistra radicale o all’opposto filo-islamici, comunque avversi alla cristianità e ai suoi valori, alla civiltà cattolica e alla famiglia cristiana. E si è schierato con l’Europa anticristiana degli eurocrati, con l’establishment laicista e col peggior capitalismo finanziario, contraddicendo anche il suo populismo cristiano-terzomondista. Peraltro Bergoglio deve ancora raccontarci che rapporti ebbe con la dittatura argentina quando era influente prelato in patria.I catto-bergogliani sono insorti con livore e disprezzo (ma sempre in nome della carità) contro chi muove queste obiezioni al Papa, accusandoli d’insolenza. E’ ridicolo che questi cattolici progressisti ricorrano al dogma dell’infallibilità del Papa e si trincerino dietro quel principio di autorità che hanno calpestato fino a ieri, diciamo fino a che era Papa Ratzinger. Il problema è opposto: non è chi critica le dichiarazioni politiche di Bergoglio a mettersi al di sopra del Papa, ma è Bergoglio a scendere al di sotto del suo ruolo di Papa, fino a usare strumenti della propaganda politico-mediatica di sinistra che accusa di nazismo chiunque non la pensi come loro. Un vero Pontefice dovrebbe innalzare ponti e non steccati, dovrebbe porsi al di sopra delle parti e delle ideologie, esortare a trovare un punto di sintesi, sforzandosi di salvare un nucleo di verità in ciascuna delle parti in campo. Per i catto-bergogliani la verità del Vangelo e della cristianità non è quella trasmessa da duemila anni di tradizione cristiana, di fede, dottrina, esempio di santi e teologi, di papi e martiri. Ma è solo nella lettura che ne fa ora Bergoglio in un volo pindarico dal cristianesimo delle origini al Concilio Vaticano II, con un breve scalo francescano. Il resto è cancellato.È puerile e riduttiva questa rappresentazione manichea del Bene e del Male. I mali di cui è infestata la società sono molteplici, evidenti e remoti dal sovranismo: la droga e la criminalità derivata, il terrorismo e il fanatismo, la persecuzione dei cristiani nel mondo, la delinquenza diffusa e il traffico di bambini, di uteri, di organi, di donne, di migranti, solo per citarne alcuni. Mali rispetto a cui il sovranismo è considerato da molti come argine e antidoto. Elevando il sovranismo a male sovrano dell’epoca, passano in sordina questi mali globali, coi loro agenti e alleati. In un mondo dominato dall’ateismo e minacciato dall’islamismo, Bergoglio addita come nemico principale il sovranismo e come suo gesto di massimo sfregio l’esibizione del rosario. Intanto la civiltà cristiana e la fede cristiana vengono cancellate dalla vita pubblica e privata, le chiese, i fedeli e le vocazioni sono in caduta libera, il senso religioso sparisce nell’orizzonte della gente; ma quel che conta è la mobilitazione umanitaria pro-migranti e resistenza contro un presunto pericolo nazista. E intanto i cattolici praticanti in Europa, una volta esclusi i sovranisti, si riducono all’otto per mille della popolazione…(Marcello Veneziani, “Bergoglio va alla guerra” dal numero 38 di “Panorama”, ripreso dal blog di Veneziani).Condannando senza appello il sovranismo e accostandolo alla guerra e al nazismo, Papa Bergoglio ha fatto nell’agitato clima d’agosto una dichiarazione di guerra mondiale nel nome della pace e dei migranti. Non ha solo scomunicato Salvini e benedetto la santa alleanza tra grillini e Pd, come molti hanno sottolineato, ma ha colpito tutti i sovranisti del mondo, da Trump a Putin, dal nazionalista indiano Modi al cattolico Orban e al brasiliano Bolsonaro che guida il paese cattolico più popoloso al mondo. Non ricordo un’accusa politica così radicale ed esplicita da parte di un Papa, almeno negli ultimi settant’anni con un paragone così infamante col nazismo e la guerra. Per trovare un vago precedente bisogna risalire alla scomunica di Papa Pio XII, nell’estate del 1949, nei confronti dei comunisti. Ma il comunismo era un regime totalitario e ateo in atto, perseguitava i credenti e i dissidenti, soffocava nel sangue e nel gulag la libertà. Qui siamo a una scomunica a priori nei confronti di leader e movimenti popolari, democratici e liberamente eletti che non si sono macchiati di alcun crimine e non hanno fatto nessuna azione o dichiarazione ostile verso la fede, la Chiesa e i credenti.
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Le frontiere salvano popoli e libertà: ditelo, a John Lennon
“Le frontiere uccidono”, titolava una copertina recente de “L’Espresso”. È vero se pensiamo ai Vopos che uccidevano i loro connazionali, i tedeschi dell’Est che tentavano di varcare la frontiera per fuggire dal regime comunista. Se non sbaglio è stato l’ultimo capitolo in Europa di persone uccise perché volevano saltare il muro o il filo spinato. Ed era la frontiera di casa loro. A ben vedere, le frontiere che impediscono di entrare clandestinamente non sono malefiche perché salvaguardano popoli e territori, leggi, regole e cittadinanza, diritti e doveri; invece sono malefiche le frontiere che impediscono di uscire, come le cortine di ferro di tutti i regimi comunisti. Quelle si, furono frontiere criminogene che trasformavano le nazioni in prigioni e gli Stati in carcerieri. Ma dietro quel titolo e quella campagna contro le frontiere c’è un’ideologia, anzi c’è L’Ideologia del nostro Sconfinato Presente Globale. La riassume l’antropologo Michel Agier nella stessa rivista: «L’unica speranza è liberare il mondo dai confini», in modo da consentire «la libera circolazione delle persone». Senza limiti. Ma questo è il sunto della predica che ci propina ogni giorno la Fabbrica Mondiale dell’Opinione Corretta e che ha trovato in Carola Rackete la sua ultima testimonial, con tutto lo strascico di protettori e tifosi.È l’ideologia “no border”, morte ai confini, abbattiamo i muri e le frontiere di ogni tipo – tra popoli, tra territori, tra Stati, tra sessi, tra culture. È il Racconto Unico e Globale recitato ogni giorno come un rosario dell’uniformità, da stampa e propaganda, declamato dal Papa e da cantanti, artisti, intellettuali, opinionisti e bella gente. Nell’ideologia “no border” confluiscono più eredità: l’Internazionale socialista e comunista, il cosmopolitismo di matrice illuminista e massonica, il filone catto-umanitario, la filantropia e il capital-liberismo del Mercato Globale. Ma di mezzo c’è un passaggio. È l’utopia eco-pacifista e anarco-permissiva fiorita tra il ’68, l’Isola di Whight e Woodstock nell’estate del ’69, che fu l’apoteosi del mondo hippie. Libero amore, libera droga, niente limiti e confini. Quel clima trovò il suo manifesto ideologico in una celebre canzone del ’71, “Imagine” di John Lennon. Fu la bibbia di quei mondi. Non è un caso che la sigla di chiusura del comunismo in Italia sia stata proprio la canzone di Lennon, suonata a un congresso di Rifondazione Comunista al posto dell’Internazionale. Lenin lasciò il posto a Lennon.È una gran bella canzone, “Imagine”, ma le sue parole sono il manifesto del nichilismo presente e dell’ideologia “no border” in purezza, come la miglior cocaina. Leggiamo le sue parole: “Immagina che non ci sia il paradiso… e nessun inferno… Immagina la gente vivere per l’oggi… Immagina che non ci siano più patrie… Nessun motivo per cui morire e uccidere, nessuna religione, niente proprietà… E il mondo sarà una cosa sola”. È condensata in pochi versi l’Ideologia “no border” d’oggi: la negazione del senso religioso, dell’amor patrio e dei legami famigliari; il dominio assoluto del presente sul passato, sul futuro e sull’eterno, il pacifismo come fine della storia e risoluzione della politica, lo sradicamento globale e l’unificazione del pianeta, senza più frontiere. Ma se si vive solo per l’oggi, senza più motivi degni per vivere e per morire, se non ci aspettano cieli e inferni, se non c’è più Dio né patria né radice, perché poi lamentarsi se il mondo si riduce a un immenso spurgatorio e noi siamo i relativi materiali in transito, frutto di una liberazione che somiglia a un’evacuazione? È questo il senso ultimo della società liquida?Quell’utopia è piuttosto l’estinzione dell’umanità nel fumo e nella polvere dei desideri; al suo posto c’è un gregge vagante e belante in perpetua transumanza, che si vive addosso, senza storia e senza avvenire, senza confini e senza civiltà, guidato solo dall’io voglio. Ma se al mondo togli le frontiere, togli le norme che regolano i popoli, abolisci gli Stati e gli ordinamenti giuridici ad essi connessi, le tasse e i servizi, togli le garanzie di libertà e di sicurezza per i suoi cittadini, salta tutto. Salta la civiltà, che è fondata proprio sulla linea di frontiera tra il giusto e l’ingiusto, il bene e il male, il mio e il tuo, il naturale e il culturale. La libertà smisurata si rovescia nel suo contrario, e tramite l’anarchia conduce inevitabilmente al dispotismo, come insegnò Platone già 24 secoli fa. La libertà ha bisogno di confini, necessita di limiti, altrimenti sconfina, prima a danno della libertà altrui e poi annega nel caos universale. La libertà, come la dignità e la civiltà, si fonda sulle differenze. E ogni differenza delimita un’identità.La frontiera è il presupposto inevitabile per riconoscere l’altro, per confrontarsi e per dialogare. Il confine è il riconoscimento reciproco dei limiti. Del resto, il male peggiore per i greci era l’hybris, la tracotanza, il delirio di chi viola la misura e i confini. Per disintossicarsi da questa devastante utopia “no-border” consiglio di leggere almeno due libri, “Elogio delle frontiere” di Régis Debray (ed. Add) e “Dismisura” di Olivier Rey (ed. Controcorrente). Perduti Marx e Rousseau, che sopravvive come piattaforma nella caricatura grillina, perduto il socialismo di Lenin e di Gramsci, resta Lennon e l’Ideologia No Border ridotta a “Imagine”, anzi a imaginetta e spacciata come il toccasana per l’umanità. Resta immutata l’indole utopista, ma scende enormemente di livello. Immagina che bello, un mondo di replicanti a ruota libera…(Marcello Veneziani, “Le frontiere salvano i popoli e le civiltà”, dal numero 31 di “Panorama”, luglio 2019; articolo ripreso dal blog di Veneziani).“Le frontiere uccidono”, titolava una copertina recente de “L’Espresso”. È vero se pensiamo ai Vopos che uccidevano i loro connazionali, i tedeschi dell’Est che tentavano di varcare la frontiera per fuggire dal regime comunista. Se non sbaglio è stato l’ultimo capitolo in Europa di persone uccise perché volevano saltare il muro o il filo spinato. Ed era la frontiera di casa loro. A ben vedere, le frontiere che impediscono di entrare clandestinamente non sono malefiche perché salvaguardano popoli e territori, leggi, regole e cittadinanza, diritti e doveri; invece sono malefiche le frontiere che impediscono di uscire, come le cortine di ferro di tutti i regimi comunisti. Quelle si, furono frontiere criminogene che trasformavano le nazioni in prigioni e gli Stati in carcerieri. Ma dietro quel titolo e quella campagna contro le frontiere c’è un’ideologia, anzi c’è L’Ideologia del nostro Sconfinato Presente Globale. La riassume l’antropologo Michel Agier nella stessa rivista: «L’unica speranza è liberare il mondo dai confini», in modo da consentire «la libera circolazione delle persone». Senza limiti. Ma questo è il sunto della predica che ci propina ogni giorno la Fabbrica Mondiale dell’Opinione Corretta e che ha trovato in Carola Rackete la sua ultima testimonial, con tutto lo strascico di protettori e tifosi.
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Business giudiziario sulla pelle dei minori: 2 miliardi l’anno
La regola generale del comportamento economico è confermata: dove è possibile realizzare un business, lecito o illecito, anche sui bambini, qualcuno lo realizza, e col profitto così ricavato acquisisce rapporti politici e il controllo anche di coloro che non vorrebbero partecipare agli abusi. Già nel 2013 il dottor Francesco Morcavallo si era dimesso da giudice del Tribunale dei Minori di Bologna (quello competente per Bibbiano) denunciando traffici che osservava nei tribunali e intorno ad essi, con sistematiche violazioni della legge finalizzate ad assecondare il traffico dei bambini da parte dei servizi sociali, e particolarmente la prassi dei tribunali di accettare come oro colato e non mettere mai in discussione le affermazioni (indimostrate e spesso palesemente inverosimili) poste dai servizi sociali a fondamento delle richieste di togliere i bambini alle famiglie, per collocarli in strutture a pagamento. Questo è avvenuto anche nei casi di Bibbiano, proprio con provvedimenti emessi dal Tribunale dei Minori di Bologna, quello segnalato sei anni fa dal giudice Morcavallo! Fino ad ora, tutti gli scandali della giustizia minorile, come quello sollevato allora da Morcavallo, sebbene autorevolmente dimostrati e denunciati, sono stati sottaciuti dai mass media; ora però uno è stato fatto scoppiare mediaticamente – chissà perché – forse è una decisione collegata a quella di far scoppiare lo scandalo del Consiglio Superiore della Magistratura.