Archivio del Tag ‘Pearl Harbor’
-
Guerra-Islam: stesso film da 25 anni, e ancora ci crediamo
Dieci giorni dopo il sanguinoso raid di Parigi, è difficile trovare qualcosa da dire su questa guerra che non sia già stato detto. E’ infatti già passato un quarto di secolo «e almeno mezza dozzina di crisi analoghe dall’operazione Desert Storm, ufficialmente organizzata per “liberare il Kuwait”, che oggi è fra i principali finanziatori dell’Isis», scrive Alessandra Daniele su “Carmilla Online”. «E ancora una volta tutti i commenti sono identici. Da una parte si continua a fomentare la paranoia xenofoba, e ad invocare il fuoco redentore dei bombardamenti, come se non si fosse già mille volte dimostrato prevedibilmente capace solo di diffondere l’incendio che dovrebbe estinguere, sterminando ben più civili degli attentati terroristici, e allargando sempre di più il campo di battaglia». Dall’altra, si continua pazientemente a denunciare tutte le complicità economico-politiche fra presunti nemici, le strumentalizzazioni repressive e golpiste dello Stato d’Emergenza permanente, e si continua ad evidenziare le differenze nel mondo islamico fra minoranze bellicose e maggioranze pacifiche, «benché l’opinione pubblica occidentale abbia già mille volte dimostrato di fottersene totalmente di verità, giustizia, logica, ragionevolezza».L’opinione pubblica occidentale sembra interessata «solo alle bufale sulle armi chimiche di Saddam, Bin Laden, Al Baghdadi, e sulle false suore kamikaze in agguato per il Giubileo, che già circolavano nel 2000». I media “embedded”, aggiunge la Daniele, continuano a spacciare ogni attacco terroristico «come una Pearl Harbor completamente inattesa, una “dichiarazione di guerra” improvvisa e unilaterale da parte d’una (eterogenea) fazione che l’Occidente sta in realtà direttamente bombardando da venticinque anni, dopo averla direttamente creata in funzione anti Urss», ai tempi dell’invasione sovietica dell’Afghanistan. «Alcuni di noi – commenta l’analista, desolata – hanno scritto queste cose per la prima volta in un tema scolastico». I più giovani «non erano ancora nati, e non hanno mai conosciuto un mondo senza Scontro di Civiltà». Nel gennaio 1991, quello della prima Guerra del Golfo, «Schillaci giocava in Nazionale», e «il World Wide Web non esisteva, c’era il Televideo». Il presidente del consiglio era Andreotti, il presidente degli Usa «era George Bush. Padre».All’epoca, «Antonio Lubrano spiegava su Raitre come usare una maschera antigas, mentre su Canale 5 arrivava in Italia la prima originale serie di Twin Peaks». Venticinque anni: «In quale Loggia Nera siamo prigionieri, condannati a rivivere in eterno il debutto del Tg4 di Emilio Fede che esulta “hanno attaccato”?», si domanda Alessandra Daniele. «Quale degli inferni paralleli del Bardo Thodol ci siamo meritati, e c’è ancora qualcosa che possiamo fare per uscirne?». È questo che dovremmo chiederci, conclude l’analista: «Non se rischiamo la vita, ma se non siamo in realtà già morti. Da almeno venticinque anni».Dieci giorni dopo il sanguinoso raid di Parigi, è difficile trovare qualcosa da dire su questa guerra che non sia già stato detto. E’ infatti già passato un quarto di secolo «e almeno mezza dozzina di crisi analoghe dall’operazione Desert Storm, ufficialmente organizzata per “liberare il Kuwait”, che oggi è fra i principali finanziatori dell’Isis», scrive Alessandra Daniele su “Carmilla Online”. «E ancora una volta tutti i commenti sono identici. Da una parte si continua a fomentare la paranoia xenofoba, e ad invocare il fuoco redentore dei bombardamenti, come se non si fosse già mille volte dimostrato prevedibilmente capace solo di diffondere l’incendio che dovrebbe estinguere, sterminando ben più civili degli attentati terroristici, e allargando sempre di più il campo di battaglia». Dall’altra, si continua pazientemente a denunciare tutte le complicità economico-politiche fra presunti nemici, le strumentalizzazioni repressive e golpiste dello Stato d’Emergenza permanente, e si continua ad evidenziare le differenze nel mondo islamico fra minoranze bellicose e maggioranze pacifiche, «benché l’opinione pubblica occidentale abbia già mille volte dimostrato di fottersene totalmente di verità, giustizia, logica, ragionevolezza».
-
Bugie per scatenare la guerra. Così fan gli Usa, da sempre
Quella dell’11 Settembre non è stata certo la prima volta in cui la nazione americana s’è vista trascinare in guerra da un incidente particolarmente ambiguo. La Costituzione americana non permette agli Stati Uniti di dare inizio a una qualunque guerra di aggressione, e riserva al solo Parlamento il potere di dichiarare guerra ad un’altra nazione, in caso diventi necessario difendersi. Per questo motivo, ogni volta che un presidente americano ha voluto prendere parte a qualche guerra, o iniziarne una nuova, ha dovuto servirsi di un incidente militare, creato o provocato per giustificare in qualche modo l’intervento armato di fronte al Parlamento e alla popolazione. Nel 1898, gli Stati Uniti fecero guerra alla Spagna per sottrarle il controllo di Cuba, indispensabile per il controllo dell’intero Golfo del Messico. Il pretesto di guerra venne dall’affondamento della nave militare “Maine” ancorata al largo di Cuba, di cui furono subito incolpati gli spagnoli, nonostante questi si dichiassero del tutto estranei al fatto.Le immagini della nave semi-affondata e quelle dei funerali dei marinai furono fatte passare nei primi cinegiornali dell’epoca, generando nel paese uno stato di indignazione sufficiente a poter scatenare una guerra, che nel frattempo il futuro presidente Roosevelt, allora ministro della marina, aveva preparato fin nel minimo dettaglio. Solo nel 1980, quasi un secolo dopo, gli americani avrebbero riconosciuto che gli spagnoli non erano responsabili dell’attacco, dicendo però – per non autoaccusarsi – che il “Main” era affondato perché alcuni esplosivi erano stati stipati troppo vicini alle caldaie. Nel frattempo, l’intera armata spagnola era stata distrutta, e così gli americani diventavano la nuova potenza marittima mondiale, con postazioni strategiche che andavano dai Caraibi sino alle Filippine. Nel 1915, fu l’affondamento del “Lusitania”, da parte di un sottomarino tedesco, a dare inizio alla crisi tra Stati Uniti e Germania, che permise ai primi di entrare nel conflitto mondiale.Pare che gli americani abbiano fatto sapere di nascosto ai tedeschi che sul “Lusitania” viaggiava un importante carico di armamenti destinato all’Inghilterra. In questo modo, sarebbero riusciti a provocare l’attacco da parte del sottomarino tedesco che affondò la nave, sulla quale viaggiava anche un centinaio di cittadini americani. Nel 1941, fu il noto attacco a Pearl Harbor a scatenare nella popolazione americana quell’ondata di indignazione che permise a Roosevelt di entrare con decisione nella Seconda Guerra Mondiale, contro Giappone, Italia e Germania. Circa 3.000 marinai furono massacrati in un attacco a sorpresa, del quale si sarebbe saputo in seguito che gli americani erano invece al corrente già da molte ore. Ma in quell’occasione fu fatto di tutto perché queste informazioni non arrivassero in tempo al comando del porto, come ha poi confermato l’ammiraglio Kimmel, che aveva assistito impotente al massacro dei suoi uomini e alla distruzione delle sue navi: «Avevamo bisogno di una cosa, che i nostri mezzi non sono stati in grado di farci avere: di vitale importanza erano le informazioni disponibili a Washington, i messaggi intercettati che dicevano dove e quando il Giappone avrebbe probabilmente attaccato. Io non ho ricevuto queste informazioni».Nel 1964, gli Stati Uniti decidevano di entrare ufficialmente in guerra con il Vietnam del Nord, dopo aver aiutato militarmente per molti anni il Vietnam del Sud, senza mai intervenire direttamente. Il pretesto di guerra venne dal cosiddetto “Incidente del Golfo del Tonchino”, in cui delle motovedette vietnamite furono accusate di aver lanciato siluri contro l’incrociatore americano “Maddox”. Fu il ministro degli esteri, Robert McNamara, a dare alla stampa la notizia della pronta reazione americana all’attacco vietnamita: «Subito dopo l’attacco, rappresentanti americani a Saigon si sono incontrati con rappresentanti del governo sud-vietnamita, e insieme hanno concordato che un’azione punitiva congiunta era necessaria». Ma lo stesso McNamara, 40 anni dopo, avrebbe confessato che l’attacco delle motovedette era stato tutta un’invenzione per creare, appunto, il necessario pretesto per entrare in guerra: «Eventi successivi hanno mostrato che la nostra impressione di esser stati attaccati quel giorno era sbagliata: non era successo». Nel frattempo, erano morti quasi 60.000 soldati americani ed oltre 3 milioni di civili vietnamiti.Nel 1990, la situazione fra gli Stati Uniti e l’Iraq di Saddam Hussein si era fattav tesa, e la squadra di neo-conservatori vicini al presidente Bush convinse quest’ultimo ad un intervento armato contro il dittatore iracheno. Gli americani fecero allora sapere a Saddam che non avevano nulla in contrario se si fosse impadronito dei campi petroliferi del Kuwait, un territorio che da sempre l’Iraq reclamava come proprio. La trappola funzionò. E Saddam invase in Kuwait. Subito dopo, Dick Cheney (che in quel periodo era ministro della difesa) fece avere all’Arabia Saudita delle foto satellitari nelle quali si vedevano 250.000 soldati di Saddam ammassati verso il confine del loro paese. Temendo un’invasione imminente, i saduti concessero agli americani il permesso straordinario di stabilire delle basi militari sul loro territorio, mettendoli così in grado di attaccare comodamente l’Iraq. Contemporaneamente, partiva una massiccia campagna mediatica contro Saddam, che veniva accusato di aver usato contro i suoi connazionali curdi delle armi chimiche, che gli stessi americani gli avevano venduto, per poi coprire con il loro silenzio il genocidio in corso, pur essendone perfettamente al corrente.La campagna mediatica contro il dittatore iracheno culminava con la toccante testimonianza di una giovane infermiera kuwaitiana, che descriveva al mondo le atrocità commesse dai soldati di Saddam negli ospedali del suo paese invaso: «Mentre ero là ho visto i soldati iracheni entrare nell’ospedale armati di mitra, hanno tolto i neonati dalle incubatrici, hanno portato via le incubatrici e hanno lasciato i bimbi a morire sul pavimento freddo». La notizia fece il giro del mondo, e da quel momento nessuno ebbe da ridire sui bombardamenti americani in Iraq. Qualche anno dopo, alcuni giornalisti vennero in possesso di foto satellitari che stano state scattate dai russi sulla stessa zona di deserto e proprio negli stessi giorni. «La cosa più importante era quello che non mostravano. Ti saresti aspettato di vedere dei carri armati lungo il confine, ma non ce n’era nemmeno uno. E non c’era niente, alle spalle della frontiera, che potesse rifornire quella quantità di carri armati e soldati».Le stesse immagini che mostravano distintamente i carri armati iracheni al centro di Kuwait City rivelavano anche che lungo la frontiera con l’Arabia Saudita non c’era assolutamente nulla: non un mezzo, non un uomo, non un carro armato. Anche l’infermiera che aveva commosso il mondo si rivelò essere la figlia dell’ambasciatore del Kuwait a Washington, che aveva recitato ad arte la scena delle incubatrici (del tutto inventata), dopo esser stata allenata professionalmente da una delle più note società di pubbliche relazioni di Washington, la “Hill & Knowlton”. Nel frattempo, gli americani ne avevano approfittato per piazzare delle basi permanenti in Arabia Saudita e per sterminare l’intero esercito iracheno. In uno spietato e vile tiro al bersaglio, in piena violazione di tutti i trattati di guerra mai esistiti, migliaia di soldati iracheni furono massacrati e letteralmente inceneriti dall’aviazione americana, mentre si trovavano del tutto scoperti e impossibilitati a fuggire, sulla via del ritorno verso Baghdad.(Ricostruzione estratta dal documentario “Il nuovo secolo americano”, di Massimo Mazzucco, editato su YouTube).Quella dell’11 Settembre non è stata certo la prima volta in cui la nazione americana s’è vista trascinare in guerra da un incidente particolarmente ambiguo. La Costituzione americana non permette agli Stati Uniti di dare inizio a una qualunque guerra di aggressione, e riserva al solo Parlamento il potere di dichiarare guerra ad un’altra nazione, in caso diventi necessario difendersi. Per questo motivo, ogni volta che un presidente americano ha voluto prendere parte a qualche guerra, o iniziarne una nuova, ha dovuto servirsi di un incidente militare, creato o provocato per giustificare in qualche modo l’intervento armato di fronte al Parlamento e alla popolazione. Nel 1898, gli Stati Uniti fecero guerra alla Spagna per sottrarle il controllo di Cuba, indispensabile per il controllo dell’intero Golfo del Messico. Il pretesto di guerra venne dall’affondamento della nave militare “Maine” ancorata al largo di Cuba, di cui furono subito incolpati gli spagnoli, nonostante questi si dichiarassero del tutto estranei al fatto.
-
11 Settembre, Umberto Eco e la verità degli imbecilli
Gentile signor Eco, ho letto le sue recenti dichiarazioni, riportate dall’Ansa, nelle quali lei afferma che oggi «i social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. E’ l’invasione degli imbecilli». Sempre dall’Ansa leggo anche che «la sua lectio magistralis, dopo la laudatio di Ugo Volli, è dedicata alla sindrome del complotto, uno dei temi a lui più cari, presente anche nel suo ultimo libro “Numero zero”». Mi era peraltro già nota la sua avversione per i cosiddetti “complottisti”, per aver letto, in altre sedi, svariate sue dichiarazioni in merito. Ebbene, facendo due più due, sappia che io sono sia un “imbecille” secondo la sua definizione generale (scrivo molto in rete, e mi avvalgo del diritto di parola come se fossi “un premio Nobel”), sia un “complottista” in particolare, visto che sostengo da tempo la tesi dell’autoattentato riguardo all’11 Settembre. Lei invece, in questo caso, si è schierato sul fronte opposto, visto che ha firmato un intero capitolo del libro a più mani “11/9 La cospirazione impossibile”.Vorrei quindi cogliere questa occasione per farle sapere alcune cose che lei certamente non conosce (se le conoscesse, si sarebbe ben guardato dal partecipare alla stesura di quel libro): tutti coloro che sostengono la versione ufficiale dell’11 Settembre (che siano stati cioè 19 dirottatori islamici a compiere gli attentati) credono infatti, fra le altre cose: [...]- Che sia normale – e quindi credibile – che non esista una sola fotografia (o immagine video) datata e stampigliata che ritragga uno qualunque dei 19 dirottatori ai 3 aeroporti di partenza l’11 di settembre. Nei parcheggi, ai check-in, nei corridoi, nelle sale di aspetto, sulle scale mobili, nei bar dell’aeroporto, agli imbarchi, non esiste una sola foto di uno solo dei 19 dirottatori. (Lei ci crede davvero, signor Eco?)- Che sia normale – e quindi credibile – che a Ground Zero ben 4 scatole nere su 4 “non siano state ritrovate”, nonostante tutte le macerie asportate da Ground Zero dal primo all’ultimo giorno siano state passate al setaccio 3 volte, da 3 diverse squadre specializzate. Trovavano frammenti delle dita delle vittime, orologi e monetine, ma le scatole nere no. (Lei ci crede, signor Eco?)- Che dopo aver ricevuto decine di avvisi su un “imminente attacco terroristico con aerei dirottati” gli americani abbiano deciso di organizzare così tante “esercitazioni aeree” nello stesso giorno da lasciare soltanto 4 caccia in stato di allerta a difendere l’intero quadrante nord-orientale della nazione (New York e Washington, per intenderci).- Che sia normale che nessuno fra gli alti gradi militari sia stato punito nè richiamato per questo atto di incredibile leggerezza, ma anzi che tutti i responsabili di questo disastro collettivo siano stati promossi a gradi superiori.- Che un intero aereo da 100 tonnellate (United 93) possa venire inghiottito quasi per intero da una buca larga pochi metri, che si sarebbe completamente richiusa sull’aereo stesso prima ancora che arrivassero i soccorritori. (Non glielo dice “Mazzucco il complottista”, glielo dice la stessa Fbi, nel suo goffo tentativo di spiegare la scomparsa quasi totale dei rottami dell’aereo dal luogo dello schianto).- Che una decina di passeggeri abbia potuto effettuare svariate chiamate con i cellulari da un aereo che volava a 10.000 metri di quota, viaggiando a 6-800 Kmh. (Non è possibile oggi, figuriamoci nel 2001).- Che un edificio (Building 7) possa crollare alla velocità di caduta libera nonostante nessuna forza esterna intervenga a rimuovere la struttura sottostante. (Se questo accadesse, verrebbe violata una delle più fondamentali leggi della Fisica, quella della Conservazione di Energia). E’ come se le cascasse in testa un vaso di fiori, e questo vaso continuasse la sua corsa verso il basso senza minimamente rallentare, nonostante le stia sfracellando tutte le vertebre, una dopo l’altra. (Solo nei fumetti del Vil Coyote accadono queste cose).- Che gli oltre 2.000 architetti e ingegneri americani della associazione Architects & Engineers for 9/11 Truth “si sbaglino” nel sostenere che quanto descritto sopra sia, appunto, impossibile dal punto di vista delle leggi fisiche, e che si sia quindi trattato necessariamente di una demolizione controllata. (Tertium non datur, in questo caso).- Che oltre 100 fra poliziotti e pompieri “si sbaglino” nel testimoniare, come ha riportato il “New York Times”, di aver udito chiaramente una serie di forti esplosioni subito prima e durante i crolli delle Torri Gemelle.Potrei andare avanti, ma immagino che lei abbia già compreso il senso del mio intervento, e cioè: non c’è bisogno di essere un “marcio complottista” per farsi venire dei seri dubbi sulla versione ufficiale dell’11 Settembre. In realtà, dopo aver preso una accurata visione dei fatti, bisogna concludere che soltanto un cretino possa credere ciecamente a tutto quanto descritto sopra. E lei certamente un cretino non lo è (io sono cresciuto leggendo “Diario Minimo”, fra le altre cose). Deduco quindi, per non voler pensare ad una sua eventuale malafede, che sia semplicemente poco informato.La invito pertanto a dedicare un po’ del suo tempo a valutare più da vicino i fatti dell’11 Settembre, fino a potersi fare una opinione personale su quanto sia realmente accaduto quel giorno. Come può vedere più sotto, le informazioni sono tutte a sua disposizione: vedendo il mio film potrà valutare di persona, argomento per argomento, sia quello che dice il Movimento per la Verità sul 9/11, sia quello che dicono i difensori della versione ufficiale (le stesse persone con cui lei ha collaborato alla stesura del libro). E vedrà che alla fine le sue tante lauree honoris causa le verranno in aiuto, nel senso che preferirà mille volte sentirsi dare lei stesso del complottista (a ragion veduta), piuttosto che sentirsi dare del cretino a scatola chiusa. Cordialmente, Massimo Mazzucco (Ps: ovviamente, tutto quello che ho affermato nei paragrafi più sopra è ampiamente documentato nel film che la invito a visionare. Le scrivo anche, naturalmente, a nome di migliaia e migliaia di “imbecilli” che la pensano esattamente come me).(Massimo Mazzucco, “Lettera aperta a Umberto Eco”, dal blog “Luogo Comune” dell’11 giugno 2015. Mazzucco è autore del film “11 Settembre, la nuova Pearl Harbor” ed è un autore particolarmente apprezzato dalle associazioni che negli Stati Uniti si battono per la verità sull’attentato del 2001 alle Torri Gemelle).Gentile signor Eco, ho letto le sue recenti dichiarazioni, riportate dall’Ansa, nelle quali lei afferma che oggi «i social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. E’ l’invasione degli imbecilli». Sempre dall’Ansa leggo anche che «la sua lectio magistralis, dopo la laudatio di Ugo Volli, è dedicata alla sindrome del complotto, uno dei temi a lui più cari, presente anche nel suo ultimo libro “Numero zero”». Mi era peraltro già nota la sua avversione per i cosiddetti “complottisti”, per aver letto, in altre sedi, svariate sue dichiarazioni in merito. Ebbene, facendo due più due, sappia che io sono sia un “imbecille” secondo la sua definizione generale (scrivo molto in rete, e mi avvalgo del diritto di parola come se fossi “un premio Nobel”), sia un “complottista” in particolare, visto che sostengo da tempo la tesi dell’autoattentato riguardo all’11 Settembre. Lei invece, in questo caso, si è schierato sul fronte opposto, visto che ha firmato un intero capitolo del libro a più mani “11/9 La cospirazione impossibile”.
-
Guerra civile internazionale, contro le città. Il bersaglio? Noi
Con la caduta dell’Unione Sovietica e la fine dell’equilibrio tra potenze, è scomparsa anche la nozione classica di guerra, sostituita da conflitti locali permanenti che hanno l’obiettivo di seminare il panico nelle grandi città. La dissuasione, ricorda Paul Virilio, si poneva ancora sul piano strettamente militare: gli Stati praticavano una dissuasione reciproca, favorendo l’equilibrio del terrore. Venticinque anni dopo, sono costretti ad ammettere che la corsa agli armamenti tipica della “guerra pura” ha cancellato non soltanto l’Unione Sovietica, che è implosa, ma anche l’idea stessa della “grande guerra classica”, la guerra clausewitziana, prolungamento della politica con altri mezzi. «Questa dissoluzione ha condotto il nostro mondo direttamente tra le braccia del terrore, del disequilibrio terrorista e della proliferazione nucleare che, purtroppo, impariamo a conoscere ogni giorno di più». La copertura antimissilistica globale degli americani, quella sorta di ombrello o parafulmine che Bush andava proponendo a tutti nel mondo, esemplifica bene «il grado di squilibrio e il delirio geostrategico di cui siamo vittime».Surreale, aggiunge Virilio in un post su “Tysm”, anche la risposta che diede Putin a Bush: benissimo, il vostro scudo anti-missile potete installarlo in Russia e in Azerbaigian. «Così, dopo la “grande guerra classica” e politica ci ritroviamo adesso alle prese con una guerra asimmetrica e transpolitica». Sostenere che una guerra è asimmetrica e transpolitica al tempo stesso, secondo Virilio «significa affermare che esiste una condizione di totale disequilibrio fra gli eserciti nazionali, quello internazionale, l’esercito della guerra mondiale e i gruppuscoli di tutti gli ordini e gradi che praticano la guerra asimmetrica, dalle semplici gang di quartiere ai paramilitari». Ed esiste «un parallelismo fra la decomposizione degli Stati avvenuta in Africa e quello che sta succedendo ora nell’America del Sud – in Colombia, tanto per fare un esempio – dove nessun esercito nazionale può nulla contro la proliferazione di gang, mafie locali, paramilitari e guerriglieri alla “Sendero Luminoso”». Persino un esercito potentissimo come quello di Israele fu costretto a impantanarsi, in Libano, contro le milizie “artigianali” e inafferrabili di Hezbollah.Non esistono più “guerre pure”, insiste Virilio, ma c’è ormai una guerra totale e “impura”, nata dalle diverse esigenze e dalla diversa struttura della dissuasione armata: «Questa dissuasione non ha più di mira i soli militari, anzi direi che si indirizza essenzialmente ai civili». Vengono proprio da questo «salto di paradigma nella natura della dissuasione» i recenti fenomeni «inconcepibili, solo venti o venticinque anni fa, quali il “Patriot Act” o le prigioni di Guantanamo». Un fatto da non sottovalutare è il disequilibrio imposto dall’emergere di un nuovo terrorismo. «Nell’era della “guerra impura” ci si sforzava di resistere riportando il sistema al suo punto di equilibrio. Ma tutto questo è diventato impossibile, con la continua proliferazione di “nemici asimmetrici”. Siamo di fronte a una enorme minaccia che incombe sulla democrazia di ogni paese, non soltanto sulla testa dei regimi dell’est, del sud, del nord, di dove vi pare, ma anche sui paesi ritenuti “democratici”, tanto in Europa quanto negli Stati Uniti. Esiste una dissuasione civile – il “Patriot Act” ne rappresenta il segno più tangibile, ma ce ne sono molti altri, pensiamo a certe leggi contro gli immigrati che rischiano di passare in Europa – che rende la situazione molto più incerta».Virilio denuncia l’esistenza di «una strategia contro le città». Certo, gli esperti sostengono che si debba “ristabilire l’ordine”, «ma ristabilire l’ordine nella società civile è come aprire una finestra sul caos, è una minaccia assoluta, una sfida lanciata vis-à-vis nei confronti di qualsiasi democrazia: su questo punto ci si accorge di avere a che fare con i sintomi di un vero e proprio delirio». La strategia militare, continua Virilio, sembra essersi dislocata nel cuore stesso delle città: «Si potrebbe parlare di un proseguimento della strategia anti-città iniziata durante la Seconda Guerra Mondiale, con i bombardamenti di Guernica, Oradour, Berlino, Dresda, Hiroshima, Nagasaki. La strategia anti-città è stata una delle innovazioni introdotte durante la Seconda Guerra Mondiale, guerra che ha però introdotto anche un equilibrio del terrore: ricordiamoci che le testate nucleari, a est come a occidente, erano puntate direttamente sul cuore delle città. Oggigiorno, assistiamo però a un dislocamento di questa strategia. Siamo passati dall’equilibrio del terrore all’iperterrorismo». Attenzione: «L’iperterrorismo ha un solo campo di battaglia, e questo campo di battaglia è, appunto, la città». Motivo? «Nelle moderne città si concentra il maximum della popolazione e, con un minimo di armi, può essere raggiunto il massimo risultato, il massimo disastro possibile. Non importa con quali armi si può raggiungere questo risultato: niente più bisogno di panzer, nessuna necessità di portaerei, sottomarini imponenti e via discorrendo».La guerra asimmetrica, oramai sinonimo del disequilibrio terrorista, «cancella il teatro delle operazioni esterne a tutto vantaggio della concentrazione metropolitana». Così, «il luogo della guerra diventa, appunto, la città: l’affollamento urbano trascina guerra e terrorismo nel solco di una geostrategia territoriale, portandolo direttamente sulla linea del fronte». Nella Seconda Guerra Mondiale, «la geopolitica si giocava sui campi di battaglia, a Verdun, attorno a Stalingrado, sulle spiagge della Normandia». Ora, nel mirino sono essenzialmente le metropoli. Quando Putin invita Bush a installare in Russia i super-radar, mette a nudo il problema: contro chi dovremmo difenderci? «Oggi, quasi senza accorgercene, ci ritroviamo preda di ciò che i fisici chiamano principio di indeterminazione: i nostri piedi poggiano su terreni incerti, scossi dalla globalizzazione economica e dalla guerra globale eppure “locale”. Questo apparente paradosso è determinato dal fatto che l’estensione del campo e del fronte non contano più in rapporto all’immediatezza della minaccia».«Quando si arriva a collocare un ordigno nucleare direttamente nella metropolitana di New York, di Parigi o Londra – continua Virilio – allora dobbiamo comprendere che non siamo più nella logica totale, ma in quella locale. L’obiettivo è una città, preferibilmente una grande città, per ottenere il massimo disastro». La “guerra impura” nasce dal globalismo inteso come cambiamento di scala: «Il globalismo riduce tutto al più piccolo fra i comuni denominatori possibili: è così che anche un singolo individuo può significare una guerra totale – e quando dico uno, possono ovviamente essere due, tre, dieci. Quando si pensa al World Trade Center, sono stati undici uomini a fare duemila e ottocento vittime, quasi quante a Pearl Harbor. Stesso risultato. Quanto meno il rapporto tra costi ed efficacia è stato straordinario! Le grandi divisioni, le macchine, la portaerei “Eisenhower” restano lì in attesa di una disfatta che non è determinata dal conflitto di un campo contro l’altro, ma dalla dissoluzione del campo stesso che alimentava la guerra “politica”».La guerra politica, conclude Virilio, aveva di mira un territorio o uno Stato delimitato, che da par suo rispondeva arroccandosi attorno alle proprie frontiere. Ora assistiamo a una confusione babelica tra la guerra civile terrorista e la guerra internazionale. A partire dall’11 Settembre la si potrebbe chiamare “guerra civile internazionale”, propone Virilio. «Fino a quel momento, c’erano state guerre civili nazionali, ma quella era la prima vera guerra civile mondiale». Certo, è ancora possibile premere un bottone e far partire dei missili – la Corea e l’Iran possono farlo – ma in realtà, «con la grande dislocazione della strategia, con la fusione fra guerra civile iperterrorista e guerra internazionale, non è più possibile fare troppe distinzioni», perché «non c’è più alcun equilibrio da ristabilire, solo caos da creare», anche grazie alla crisi degli Stati-nazione esplosa in Europa e ai trattati commerciali “dettati” dalle multinazionali, dal Nafta al Ttip. «La guerra legata alla mera territorialità non è più possibile». Avanza un’altra guerra: sporca, asimmetrica, impura, basata sul terrorismo contro le città e i loro abitanti. «Ne va della nostra esistenza, proprio mentre un enorme punto di domanda leva la sua ombra sulla Storia».Con la caduta dell’Unione Sovietica e la fine dell’equilibrio tra potenze, è scomparsa anche la nozione classica di guerra, sostituita da conflitti locali permanenti che hanno l’obiettivo di seminare il panico nelle grandi città. La dissuasione, ricorda Paul Virilio, si poneva ancora sul piano strettamente militare: gli Stati praticavano una dissuasione reciproca, favorendo l’equilibrio del terrore. Venticinque anni dopo, sono costretti ad ammettere che la corsa agli armamenti tipica della “guerra pura” ha cancellato non soltanto l’Unione Sovietica, che è implosa, ma anche l’idea stessa della “grande guerra classica”, la guerra clausewitziana, prolungamento della politica con altri mezzi. «Questa dissoluzione ha condotto il nostro mondo direttamente tra le braccia del terrore, del disequilibrio terrorista e della proliferazione nucleare che, purtroppo, impariamo a conoscere ogni giorno di più». La copertura antimissilistica globale degli americani, quella sorta di ombrello o parafulmine che Bush andava proponendo a tutti nel mondo, esemplifica bene «il grado di squilibrio e il delirio geostrategico di cui siamo vittime».
-
Cheney: presto un altro 11 Settembre, ancora più letale
Il primo passo è semplice, costruire un nemico: ieri l’Islam, oggi la Russia di Putin. La seconda mossa è scritta nella storia, da Pearl Harbor al falso attacco contro navi americane nel Golfo del Tonchino, casus belli per la guerra in Vietnam. L’avvertimento questa volta viene da un personaggio particolarmente inquietante come l’ex vicepresidente Dick Cheney, secondo molti analisti la vera “mente” della gestione politica degli attentati dell’11 Settembre, perfetti per avviare l’assedio strategico della Cina con l’occupazione dell’Afghanistan e quindi ipotecare il petrolio del Golfo grazie alla campagna contro le inesistenti “armi di distruzione di massa” di Saddam Hussein. E’ il “Daily Mail”, il 25 giugno 2014, a rivelare che, secondo Cheney, entro il 2010 molto probabilmente ci sarà un attacco terroristico di gran lunga peggiore rispetto a quello contro le Twin Towers, attribuito al “fantasma” di Bin Laden, già emissario della Cia in Afghanistan. In altre parole: starebbe per tornare d’attualità lo stesso copione del terrore, il pretesto per una nuova guerra.«Penso che ci sarà un altro attacco», ha detto Cheney. «E la prossima volta credo che sarà ben più letale dell’ultima». Aggiunge l’ex vice di Bush: «Immaginate cosa sarebbe se qualcuno riuscisse a portare nel paese una testata atomica, la mettesse dentro un container e la portasse sin alle porte di Washington». Parole più che inquietanti, osserva Salvatore Santoru in un post su “Informazione consapevole” ripreso da “Vox Populi”, vista l’identità del dichiarante: «Un personaggio che anche Richard Clarke, principale consigliere anti-terrorismo sotto l’amministrazione Bush, ha definito come “criminale di guerra”». Inoltre, aggiunge Santoru, «bisogna ricordare che Cheney, vicepresidente durante gli attacchi dell’11 Settembre, è anche un membro di spicco del “Project for The New American Century“ (Pnac), il famigerato gruppo di potere alla base del movimento neocon». Il gruppo – formato anche da Rumsfeld, Wolfowitz, Condoleezza Rice – è noto per aver redatto nel 2000 il documento “Rebuilding America’s Defenses”, «in cui si auspicava una “nuova Pearl Harbor” da usare come casus belli per giustificare la politica imperialista statunitense in Medio Oriente».Nel 2007, ricorda Santoru, in un’intervista per l’emittente televisiva “Democracy Now”, l’ex generale Wesley Clark, citando proprio quel documento, rivelò che la guerra in Iraq era stata pianificata con largo anticipo sugli “incidenti” costruiti ad arte, così come altri conflitti, dall’Afghanistan sino alla Libia e all’Iran. «Tenendo presente che gli attacchi dell’11 Settembre secondo molti ricercatori non furono altro che delle operazioni “false flag”, forse si dovrebbero prendere in seria considerazione le parole di Cheney, e intenderle anche come una seria minaccia per il popolo statunitense, sperando che questa volta i progetti sinistri di certi personaggi e gruppi di potere non raggiungano il proprio obiettivo, come è stato per il 9/11, e si riesca a fermarli il prima possibile». Impresa proibitiva: il Premio Nobel per la Pace che attualmente siede alla Casa Bianca sostiene di aver assassinato Bin Laden (senza una sola foto che ne documenti la morte) e un anno fa ha cercato di bombardare la Siria dopo aver armato i miliziani jihadisti per scatenare la guerra civile a Damasco. Oggi, Obama è direttamente alle prese con la Cina: mentre sta spostando nel Pacifico la proiezione navale statunitense, sta minacciando direttamente la Russia dopo aver insediato in Ucraina un governo golpista dominato da neonazisti. In questo scenario, le dichiarazioni di Cheney rivelano tutta la loro pericolosità.Il primo passo è semplice, costruire un nemico: ieri l’Islam, oggi la Russia di Putin. La seconda mossa è scritta nella storia, da Pearl Harbor al falso attacco contro navi americane nel Golfo del Tonchino, casus belli per la guerra in Vietnam. L’avvertimento questa volta viene da un personaggio particolarmente inquietante come l’ex vicepresidente Dick Cheney, secondo molti analisti la vera “mente” della gestione politica degli attentati dell’11 Settembre, perfetti per avviare l’assedio strategico della Cina con l’occupazione dell’Afghanistan e quindi ipotecare il petrolio del Golfo grazie alla campagna contro le inesistenti “armi di distruzione di massa” di Saddam Hussein. E’ il “Daily Mail”, il 25 giugno 2014, a rivelare che, secondo Cheney, entro il 2020 molto probabilmente ci sarà un attacco terroristico di gran lunga peggiore rispetto a quello contro le Twin Towers, attribuito al “fantasma” di Bin Laden, già emissario della Cia in Afghanistan. In altre parole: starebbe per tornare d’attualità lo stesso copione del terrore, il pretesto per una nuova guerra.
-
Da Hitler a Bush, dietro la guerra c’è sempre una banca
I banchieri? Sempre stati in costante comunicazione con la Casa Bianca. Non solo riguardo a temi finanziari e di politica economica, ma anche per argomenti molto meno tecnici: prima la Grande Guerra, poi la Seconda Guerra Mondiale, quindi la Guerra Fredda. Scenari esaminati «in termini di piani di espansione politica dell’America come superpotenza mondiale, alimentata dalla sua crescita finanziaria attraverso lo sviluppo della sua comunità bancaria». Parola di Nomi Prins, analista internazionale alla Bear Stearns di Londra e già amministratore delegato della Goldman Sachs. In altre parole: dietro a ogni conflitto c’è sempre una banca, rileva il “Washington’s Blog”. O meglio: c’è la grande famiglia (mondiale, ormai) delle banche, la “comunità bancaria”. Che traffica con la politica, detta le regole, incassa miliardi. E, nel caso, si attrezza per quello che da sempre è il miglior affare in assoluto: la guerra. Anche se il “socio” si chiama Hitler, e il collega americano Bush.Tutto inizia alla vigilia del primo conflitto mondiale, quando la Banca Morgan spinge il neutralista Woodrow Wilson a spedire le truppe in Europa. La Morgan era la più potente banca del tempo, ricorda il blog statunitense, ripreso da “Come Don Chisciotte”, e aveva raccolto oltre il 75% dei finanziamenti per le forze alleate. Voglia di guerra, non importa su che fronte: la National City Bank, che pure lavorava a fianco della Morgan nel rifornire inglesi e francesi, «non si faceva problemi a lavorare anche per finanziare alcune cose sul fronte tedesco, come anche fece la Chase». Molti anni dopo, sotto Eisenhower, il business era quello del sostegno ai paesi considerati a rischio-comunismo. «Quello che fecero i banchieri fu l’insediamento di presidi in zone come Cuba e Beirut in Libano per stabilire roccaforti statunitensi nella Guerra Fredda contro l’Unione Sovietica: e fu così che finanza e politica estera iniziarono a essere molto ben allineate». Poi, negli anni ’70, sempre i banchieri «scoprirono il petrolio, facendo uno sforzo immane per attivare nuove relazioni in Medio Oriente». In Arabia Saudita «ottennero l’accesso ai petrodollari per poi riciclarli in debiti dell’America Latina e altre forme di prestiti nel resto del mondo», in accordo col governo americano.«La Jp Morgan, inoltre, aveva acquisito il controllo dei 25 principali quotidiani americani». Obiettivo: «Propagandare l’opinione pubblica statunitense pilotandola in favore dell’entrata degli Stati Uniti nella Prima Guerra Mondiale», scrive il “Washington’s Blog”. «E possiamo dirlo: molte grandi banche hanno realmente finanziato i nazisti». Nel 1998, la Bbc riportò la seguente notizia: «La Barclays Bank ha accettato di pagare 3,6 milioni di dollari a favore degli ebrei i cui beni erano stati sequestrati dai rami francesi della banca britannica durante la seconda guerra mondiale». Anche la Chase Manhattan Bank «ha ammesso di aver sequestrato», sempre durante il secondo conflitto mondiale, circa 100 conti intestati ad ebrei nella sua filiale di Parigi. «A quanto pare – scrive “Newsweek” citando il “New York Daily News” – i rapporti tra la Chase e i nazisti erano piuttosto amichevoli, a tal punto che Carlos Niedermann, capo della filiale Chase di Parigi, scrisse al suo supervisore di Manhattan che la banca godeva “di molta stima presso i funzionari tedeschi” e vantava “una rapida crescita dei depositi”».La lettera di Niedermann – precisa il “Washington’s Blog” – fu scritta nel maggio del 1942, ovvero cinque mesi dopo che i giapponesi avevano bombardato Pearl Harbor e che gli Stati Uniti erano entrati in guerra contro la Germania. Una commissione governativa francese, rivela la Bbc, indagando sul sequestro dei conti bancari ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale ha riferito che erano coinvolte cinque banche americane: Chase Manhattan, Jp Morgan, Guaranty Trust Co. di New York, la Banca della città di New York e l’American Express». Secondo il “Guardian”, il senatore Prescott Bush (padre di George Bush e nonno di George W.), «era amministratore e socio in società che trassero largo profitto dal loro coinvolgimento nel finanziare la Germania nazista». La società di “nonno Bush”, aggiunge il “Guardian” sulla base di fonti d’archivio Usa, era «direttamente coinvolta con gli architetti finanziari del nazismo». E i suoi rapporti di affari continuarono fino a che il patrimonio della società fu sequestrato nel 1942 nell’ambito del “Trading with Enemy Act”, la legge americana che sequestrava i beni di chi aveva fatto affari col nemico in tempo di guerra.Alcune recenti ricostruzioni rivelano che attraverso la Bbh (Brown Brothers Harriman), Prescott Bush agì come supporto statunitense per l’industriale tedesco Fritz Thyssen, che contribuì a finanziare Hitler nel 1930 prima di cadere con lui alla fine del decennio. Il “Guardian” sostiene di poter provare che lo stesso Bush sia stato il direttore della Ubc, la Union Banking Corporation di New York, che rappresentava gli interessi di Thyssen negli Stati Uniti, e continuò a lavorare per la banca anche dopo che l’America entrò in guerra. L’Ubc era stata fondata da Harriman e dal suocero di Bush per mettere una banca statunitense al servizio dei Thyssen, la più potente famiglia di industriali della Germania.Alla fine del 1930, la Brown Brothers Harriman, che si considerava la più grande banca privata d’investimento del mondo, e la Ubc, avevano acquisito e trasferito milioni di dollari in oro, petrolio, acciaio, carbone e buoni del tesoro Usa alla Germania, alimentando e finanziando l’ascesa di Hitler fino alla guerra.«Tra il 1931 e il 1933 la Ubc acquisì più di 8 milioni di dollari in oro, di cui 3 milioni inviati all’estero». Anni dopo, la banca «fu colta in flagrante a gestire una società di comodo americana per la famiglia Thyssen otto mesi dopo che l’America era entrata in guerra, e si scoprì che era questa la banca che aveva finanziato in parte l’ascesa di Hitler al potere». Business is business, non importa da che parte si è schierati: «Il “San Francisco Chronicle” documentò che anche Rockefeller, Carnegie e Harriman finanziarono i programmi eugenetici nazisti». Dal “racket della guerra” ai tempi del nazismo, fino ai giorni nostri: «Le grandi banche hanno anche riciclato denaro sporco per i terroristi», aggiunge il “Washington’s Blog”, riferendo la “soffiata” di un bancario sulle operazioni di riciclaggio di denaro per terroristi e cartelli della droga: «La gente deve sapere che il denaro è tuttora convogliato attraverso la Hsbc direttamente verso chi compra le armi ed i proiettili che uccidono i nostri soldati».Banchieri e politica, golpe inclusi: secondo la Bbc, Prescott Bush e la Jp Morgan, con altri investitori importanti, avrebbero anche finanziato un colpo di Stato contro il presidente Roosevelt, nel tentativo di «attuare un regime fascista negli Stati Uniti». Gli americani, scrive Kevin Zeese, «stanno imparando a riconoscere il legame tra il comparto militare-industriale e gli oligarchi di Wall Street, una connessione che risale agli inizi dell’impero americano moderno». Le banche? «Hanno sempre tratto profitto dalla guerra, perché il debito creato dalle banche si traduce in un grasso bottino di guerra per la grande finanza. E perché sono state utilizzate per aprire i paesi esteri agli interessi corporativi e bancari degli Stati Uniti». Ammise William Jennings Bryan, segretario di Stato durante il primo conflitto mondiale: «C’erano grandi interessi bancari legati alla guerra mondiale poiché grandi erano le opportunità di profitto». Il problema: tutelare gli interessi commerciali degli statunitensi, che avevano fortemente investito negli alleati europei. Almeno 2 miliardi e mezzo di dollari dell’epoca, prestati a francesi e inglesi a partire dal 1915. «I banchieri ritennero che, se la Germania avesse vinto la guerra, i loro prestiti agli alleati europei non sarebbero stati rimborsati».Il più grande banchiere statunitense dell’epoca, John Piermont Morgan, fece di tutto per trascinare gli Stati Uniti in guerra a fianco dell’Inghilterra e della Francia, finendo per convincere il presidente Wilson: obiettivo, «proteggere gli investimenti delle banche americane in Europa». Il marine più decorato nella storia, Smedley Butler, dice al “Washington’s Blog” di aver combattuto essenzialmente «per le banche americane». Racconta: «Ho alle spalle 33 anni e 4 mesi di servizio militare attivo e ho trascorso la gran parte di questo tempo a fare il super-soldato per quelli del Big Business, per Wall Street e per tutti i grandi banchieri. In poche parole, sono stato un camorrista, un gangster del capitalismo. Nel 1914 ho aiutato a mettere in sicurezza il Messico e soprattutto Tampico per gli interessi petroliferi degli Stati Uniti. Ho contribuito a rendere Haiti e Cuba dei luoghi decenti per i “ragazzi” della National City Bank; per aiutarli ad arricchirsi ho contribuito allo stupro di una mezza dozzina di repubbliche dell’America Centrale, a beneficio di Wall Street».E ancora: «Dal 1902 al 1912 – continua il soldato Butler – ho aiutato a “purificare” il Nicaragua per la International Banking House dei Brown Brothers. Nel 1916 ho portato alla luce la Repubblica Dominicana per gli interessi americani dello zucchero. Ho aiutato a rendere l’Honduras un posto adeguato per le compagnie frutticole americane nel 1903. In Cina, nel 1927, ho fatto in modo che la Standard Oil passasse indisturbata». Commenta il veterano: «Guardando indietro, avrei potuto dare dei buoni suggerimenti ad Al Capone. Il massimo che è riuscito a fare è stato imporre il suo racket in tre distretti: io l’ho fatto su tre continenti». Nelle sue “Confessioni di un sicario economico”, John Perkins descrive in che modo i prestiti della Banca Mondiale e del Fmi sono utilizzati per generare profitti per le imprese statunitensi e debiti enormi per i paesi in difficoltà, consentendo così agli Stati Uniti di poterli facilmente controllare.«Non è una sorpresa che ex ufficiali come Robert McNamara e Paul Wolfowitz abbiano continuato a dirigere la Banca Mondiale», rileva il “Washington’s Blog”. «Il debito di questi paesi verso le banche internazionali assicura agli Stati Uniti il loro controllo, forzandoli in un certo senso ad entrare nella “coalizione dei volenterosi”, quella che ha contribuito attivamente all’invasione dell’Iraq, o ad acconsentire all’insediamento nel loro territorio di basi militari statunitensi». Piccolo dettaglio: «Se quei paesi si rifiutassero di “onorare” i loro debiti, la Cia o il Dipartimento della Difesa farebbero in modo da fargli rispettare la volontà politica degli Usa, provocando colpi di Stato o compiendo azioni militari». Unica consolazione, per dirla col blog: «Sono sempre più numerose, ormai, le persone coscienti della stretta connessione tra il mondo bancario e il mondo bellico». Oggi, l’orizzonte delle armi americane si spinge ad Oriente, dalla Russia alla Cina, dove si sta dislocando la forza di proiezione navale statunitense. Qualcuno, a Wall Street, avrà già fatto i suoi piani. Ai dettagli, poi, penseranno Obama, Biden, Kerry e le altre comparse della politica.I banchieri? Sempre stati in costante comunicazione con la Casa Bianca. Non solo riguardo a temi finanziari e di politica economica, ma anche per argomenti molto meno tecnici: prima la Grande Guerra, poi la Seconda Guerra Mondiale, quindi la Guerra Fredda. Scenari esaminati «in termini di piani di espansione politica dell’America come superpotenza mondiale, alimentata dalla sua crescita finanziaria attraverso lo sviluppo della sua comunità bancaria». Parola di Nomi Prins, analista internazionale alla Bear Stearns di Londra e già amministratore delegato della Goldman Sachs. In altre parole: dietro a ogni conflitto c’è sempre una banca, rileva il “Washington’s Blog”. O meglio: c’è la grande famiglia (mondiale, ormai) delle banche, la “comunità bancaria”. Che traffica con la politica, detta le regole, incassa miliardi. E, nel caso, si attrezza per quello che da sempre è il miglior affare in assoluto: la guerra. Anche se il “socio” si chiama Hitler, e il collega americano Bush.