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Archivio del Tag ‘pensiero unico’

  • Che amara delusione, quest’anno: l’Italia è rimasta schiava

    Scritto il 31/12/18 • nella Categoria: idee • (12)

    Se dovessi provare a definire l’anno che si chiude con una sola parola, utilizzerei il termine “delusione”. Questa delusione nasce dalla realizzazione che, qualunque governo possa venire a formarsi in Italia, la nostra situazione non potrà mai cambiare in modo sostanziale. Certo, si potranno dare 100 euro in più a chi è povero, e magari mandare in pensione qualche mese prima chi se lo è meritato, ma la realtà complessiva che ci circonda non potrà mai cambiare più di tanto: siamo una nazione schiava. Schiava economicamente, a causa di un debito che ci schiaccia in maniera insopportabile, e che ci toglie ogni margine di manovra per cambiare efficacemente la nostra organizzazione sociale. Schiava politicamente, perché siamo legati mani e piedi al Patto Atlantico, e da quello non possiamo uscire. Schiava ideologicamente, perché legati a certi dettami del pensiero unico che viene controllato ferocemente dai media di sistema, e che impedisce una qualunque mutazione sostanziale nelle opinioni delle masse.
    Intendiamoci, non sto dicendo che mi aspettavo una rivoluzione travolgente da parte del nuovo governo giallo-verde. Non sono un ingenuo, e ho vissuto abbastanza a lungo da capire che certe mutazioni possono avvenire solo nel corso del tempo. Ma quando vedo un governo i cui rappresentanti erano palesemente a favore di un’uscita dall’Euro(pa), e ora si ritrovano invece a piegare la testa ai dettami di Bruxelles, mi coglie un senso di frustrazione e di impotenza. Quando vedo un governo i cui rappresentanti erano palesemente contrari alle vaccinazioni obbligatorie, e ora invece sembrano diventati i camerieri di Big Pharma, mi coglie un senso di frustrazione e di impotenza. Quando vedo un governo che sosteneva apertamente che gli F-35 sono dei bidoni ingovernabili, e ora invece ne tessono le lodi come se fossero dei gioielli di tecnologia futuristica, mi coglie un senso di frustrazione e di impotenza. Quando vedo un governo che era apertamente a favore dell’abolizione delle sanzioni contro la Russia, e ora invece ha completamente smesso di parlare di questo argomento, mi coglie un senso di frustrazione e di impotenza.
    Forse il senso della storia sta proprio qui, nella distanza che esiste fra le aspettative e la realtà, e nello sforzo che ogni generazione deve compiere per coprire quella distanza. Ma di certo questo non è stato un anno entusiasmante rispetto a questo tipo di progresso. Questo non significa naturalmente che dobbiamo smettere di fare il nostro lavoro. Per quel che mi riguarda, continuerò imperterrito a seguire la strada che mi detta la mia coscienza, anche perchè vedo che la crescita di consapevolezza collettiva è comunque in atto, e non si è affatto arrestata. Questo mi basta e avanza per continuare a fare quello che faccio. Forse stiamo solo vivendo la parte bassa di un’onda lunga, della quale non vediamo che i risvolti negativi, perché sono i più vicini a noi. Magari queste fluttuazioni fanno parte di un ciclo più ampio, la cui summa totale sarà comunque positiva. Lo spero con tutto il cuore, e spero che anche molti di voi la pensino allo stesso modo.
    (Massimo Mazzucco, “2018, l’anno della delusione”, dal blog “Luogo Comune” del 31 dicembre 2018).

    Se dovessi provare a definire l’anno che si chiude con una sola parola, utilizzerei il termine “delusione”. Questa delusione nasce dalla realizzazione che, qualunque governo possa venire a formarsi in Italia, la nostra situazione non potrà mai cambiare in modo sostanziale. Certo, si potranno dare 100 euro in più a chi è povero, e magari mandare in pensione qualche mese prima chi se lo è meritato, ma la realtà complessiva che ci circonda non potrà mai cambiare più di tanto: siamo una nazione schiava. Schiava economicamente, a causa di un debito che ci schiaccia in maniera insopportabile, e che ci toglie ogni margine di manovra per cambiare efficacemente la nostra organizzazione sociale. Schiava politicamente, perché siamo legati mani e piedi al Patto Atlantico, e da quello non possiamo uscire. Schiava ideologicamente, perché legati a certi dettami del pensiero unico che viene controllato ferocemente dai media di sistema, e che impedisce una qualunque mutazione sostanziale nelle opinioni delle masse.

  • Magaldi: senza paura, ecco il “partito che serve all’Italia”

    Scritto il 28/12/18 • nella Categoria: idee • (15)

    Toh, se n’è accorta anche la televisione: il “partito che serve all’Italia” è entrato nel piccolo schermo grazie a “Coffee Break”, il talkshow mattutino condotto su La7 da Andrea Pancani. Ottima notizia, prende nota Gioele Magaldi, finora tenuto a debita distanza dalle dirette televisive. “Colpa” delle rivelazioni contenute nel suo bestseller, “Massoni”, che mette in piazza l’identità supermassonica di tanti player del massimo potere. Fatto sta che la prima riunione operativa verso il futuro partito, il 22 dicembre, è salita agli onori della cronaca nonostante fosse un incontro informale, neppure annunciato da comunicati stampa. Oltre a Magaldi, all’assise romana c’era Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt, nonché Claudio Quaranta, da mesi al lavoro per far convergere su una piattaforma unitaria le tante voci dell’altra Italia, quella che non riesce a vedersi rappresentata politicamente. Con loro c’era l’economista Antonio Maria Rinaldi di “Scenari Economici”, reduce da una visita al ministro Paolo Savona. E c’era Ilaria Bifarini, “bocconiana redenta” e ormai volto televisivo, spesso chiamata – come Rinaldi – a fare da contraltare al pensiero unico neoliberista, quello del rigore santificato da Bruxelles come una sorta di teologia dogmatica imposta da invisibili divinità tecnocratiche. Ma nel caso la nuova formazione politica dovesse davvero sorgere, nei prossimi mesi, l’Italia sarebbe pronta a ricevere l’offerta del “partito che serve all’Italia”?
    Tutto può succedere, confida Magaldi a Fabio Frabetti di “Border Nights”, in una diretta web-streaming prenatalizia su YouTube. Esponente del circuito massonico progressista internazionale, il presidente del Movimento Roosevelt ha sostenuto a lungo il governo gialloverde: per mesi è stato l’unico, in Europa, a tentare di rompere l’incantesimo dell’austerity. Poi, la prima delusione: troppo timido, il 2,4% di deficit inizialmente previsto per il Def 2019. E ora, la Caporetto del governo Conte: se già il 2,4 era troppo poco per rianimare l’economia, figurarsi il 2,04 cui l’Ue ha costretto l’esecutivo italiano, che alla fine si è piegato al diktat. Sta tutta qui, probabilmente, la tempistica del rilancio del “partito che serve all’Italia”: davanti ai signori di Bruxelles non si può piegare la testa in questo modo. Anche perché – come Magaldi si incarica spesso di spiegare – dietro alla “disciplina di bilancio” non c’è un disegno orientato al benessere europeo, ma solo il piano delle oligarchie finanziarie supermassoniche di segno reazionario, che manovrano i burattini della Commissione Europea. Il vero senso della “punizione” inflitta ai gialloverdi? Dimostrare, davanti a tutti, che nell’Ue non ci si può ribellare all’autocrazia “aliena” di una nuova “aristocrazia del denaro” ben poco nobile, quella degli eurocrati non-eletti, longa manus del potere economico che ha sottomesso la politica.
    E’ il momento di essere eretici: non sta scritto da nessun parte che il deficit affossi l’economia. Al contrario: di contrazione della spesa si muore. Meno disavanzo vuol dire più tasse, meno consumi, meno lavoro. Come spiega il post-keynesiano Galloni, un investimento oculato in termini di spesa pubblica può “rendere” tre o quattro volte tanto, a partire dall’anno seguente, a patto però che non sia esiguo. Tradotto: già nella prossima primavera l’Italia avrebbe visto effetti benefici, sull’economia, se avesse avuto il coraggio di alzare il deficit almeno al 4%. Al governo Conte, ora che si è sostanzialmente arreso, vengono avanzate «critiche pretestuose e strumentali da parte delle pseudo-opposizioni», dalla Bonino al Pd, fino a Forza Italia. «Il governo Conte suscita simpatia – ammette Magaldi – se addirittura Monti lo rimprovera di essersi fatto scrivere la legge di bilancio dalla Commissione Europea». Aggiunge: «Con malafede e con ipocrisia plateale si contesta al governo Conte quello che hanno fatto tutti i governi della Seconda Repubblica, e in particolare quelli che si sono succeduti da Monti in poi». Governi che, naturalmente, «non facevano la manfrina che ha fatto il governo gialloverde». Non ci provavano neppure, a inscenare la rivolta contro il mortale rigore (ideologico) imposto da Bruxelles.
    Monti e Letta, Renzi e Gentiloni: nessuno di loro «osava dire che si sarebbe preoccupato di fare l’interesse del popolo italiano, anche scontrandosi coi vertici della tecnocrazia europea». Non hanno mai neppure finto di «fare la voce grossa e assumere atteggiamenti muscolari, per poi calarsi le braghe: se le erano già calate prima». Quindi, aggiunge Magaldi, non hanno titolo, oggi, per contestare il governo Conte. «Questi cialtroni, poi, in Parlamento lamentano presunte mancanze: Emma Bonino ha parlato di esautoramento antidemocratico delle funzioni dell’Aula». Magaldi si dice sbalordito dalla leader di “+Europa”, data la stima nella “vita precedente” dell’ex dirigente radicale: «Sono esterrefatto da questa deriva risibile e ipocrita». La Emma nazionale «è tra quelli che inneggiano a un sistema in cui il Parlamento Europeo non ha i poteri che in un qualunque contesto democratico dovrebbe avere». E, inutile negarlo, «ha fatto il cane da guardia di questa Europa». Tanti sedicenti europeisti, sostiene Magaldi, in realtà sono anti-europeisti: «Nessuno di loro, la Bonino in primis, ha mosso un dito per contestare l’attuale forma di Disunione Europea, antidemocratica o post-democratica che dir si voglia».
    E ora, «adusi ai meccanismi post-democratici delle istituzioni europee», i nostri finto-europeisti «vengono a fare il pianto greco, in Italia, dove il Parlamento ha comunque una sua sovranità garantita dalla Costituzione», nonostante la camicia di forza dell’Ue. Tutto ciò premesso, ribadisce Magaldi, «è chiaro che il governo Conte se le è calate, le braghe». Salvini dà segnali di malumore e fa trapelare di non essere contento? Lui e Di Maio «lanciano il sasso e nascondono la mano». Hanno preso parzialmente le distanze dallo stesso Conte: «E questo, francamente, è un modo poco dignitoso di agire», sottolinea Magaldi, «visto che Conte non era a Bruxelles per conto proprio, ma in quanto portavoce di una maggioranza parlamentare di cui Salvini e Di Maio sono i leader». Salvini diceva: «Non mi preoccupano i numeri, contano le cose che facciamo». Non è così, purtroppo: «I numeri sono le cose che fai o non fai, perché proprio da quei numeri discende la possibilità di avere risorse per fare le cose che hai promesso».
    Per Magaldi, questa manovra è «gravemente insufficiente». Non produrrà l’auspicato aumento del Pil, in relazione al deficit e al debito. Non ridarà dinamismo all’economia italiana, né conforto «a tutti quelli che vorrebbero una drastica riduzione delle tasse e un massiccio piano di investimenti pubblici, tale da garantire l’assorbimento della disoccupazione». E la mancanza di lavoro «è una delle cose più gravi che una generazione può subire: siamo pieni di giovani disoccupati, male occupati o rassegnati a un impiego precario». Quindi, intile nasconderselo, «questa manovra è davvero il classico topolino partorito dalla montagna: non c’è proprio di che essere contenti, e non si può certo dire di aver corrisposto alle promesse elettorali». Voltare pagina? Senz’altro: con il “partito che serve all’Italia”. Non per rinnegare gli sforzi comunque prodotti dai gialloverdi, ma per dare risposte più chiare. Imperativo categorico: muoversi a testa alta, senza più piegarsi ai diktat dei soliti noti. Brutto spettacolo, infatti, quello degli elettori delusi. Sondaggi impietosi: Lega in calo, dopo il cedimento a Bruxelles.
    Tutto cambia velocemente, ormai: Salvini aveva portato il partito al 36%, dopo averlo resuscitato partendo dal 4%. L’importante, dice Magaldi, è che i media non facciano finta di non saperlo: è un errore dare spazio solo a chi oggi ha più voti. «Più che sui numeri, sempre fluttuanti, i media dovrebbero basarsi sulle idee in campo, permettendo al pubblico di ascoltarle tutte. Cosa che invece – segnala Magaldi – continua a non avvenire, ad esempio riguardo ai contenuti di strettissima attualità da me portati all’attenzione del pubblico con il libro “Massoni”, uscito a fine 2014». Una specie di scandalo nazionale: un bestseller “silenziato”, che dopo quattro anni è ancora in testa alla classifica Ibs tra i saggi di argomento politico. «Eppure non c’è stato un cane che ne abbia parlato, in televisione», aggiunge l’autore. Sul piccolo schermo è invitata «gente che scrive libretti e libracci, peraltro poco letti». Sul suo libro, invece, «evidentemente c’è una circolare per tutte le televisioni del regno, in cui si dice: non invitate l’autore e non parlate del libro». Perché fa tanta paura, “Massoni”? Perché fa nomi e cognomi, ma senza scadere nel complottismo: offre un filo rosso, storico, per rileggere il Novecento tenendo conto dell’aspetto meno visibile del potere, quello incarnato dalle 36 superlogge sovranazionali che, di fatto, decidono i destini del pianeta. E oggi più che mai cercano di condizionare anche quello dell’Italia, nello scontro con l’Ue.
    «Sappiamo che quel libro l’hanno letto in tantissimi: tutti gli addetti al lavori». Perché Magaldi non viene invitato a parlarne nei principali talkshow? «La risposta temo sia questa: anche solo pochi minuti miei, in una qualunque trasmissione di punta, avrebbero conseguenze non digeribili dal sistema. Per cui vengono invitate persone che, anche quando dissonanti, fanno meno paura». Eppure, le idee dell’area attorno al Movimento Roosevelt non passano inosservate, se è vero che La7 ha segnalato l’assemblea del 22 dicembre a Roma: i fatti, annota Magaldi, «sembrano dare ragione al conduttore David Gramiccioli, secondo cui i media mainstream – anche senza citare la fonte – affrontavano spesso i temi toccati il lunedì, con me, nella sua trasmissione radiofonica “Massoneria On Air”». Ora, però, “Coffee Break” sembra aver sdoganato, giornalisticamente, l’ambiente politico nel quale è impegnato Magaldi. Che commenta: «Accolgo con sorpresa e compiacimento questa attenzione, non richiesta, da parte de La7: forse si stanno aprendo le maglie di un certo muro di omertà? Forse qualche giornalista televisivo ritiene di poter avere la libertà di parlare anche di progetti politici legati al sottoscritto?».
    Magaldi si mostra ottimista: si stanno muovendo «élite al servizio della democrazia» ma anche «molti cittadini, che dal basso vogliono rivendicare la loro sovranità». Anche i media mainstream potrebbero quindi decidersi a smettere di censurare tutto il pensiero sgradito ai padroni del vapore? Innanzitutto servono spiegazioni: se il Movimento Roosevelt è aperto a esponenti di qualsiasi partito, il “partito che serve all’Italia” vuol essere un soggetto plurale, senza protagonismi narcisistici. «Posto che in Italia c’è una crisi dei partiti e dei movimenti, ormai da tantissimi anni, e che anche Lega e 5 Stelle non appaiono più tanto convincenti, ci siamo detti che forse è il caso di perseguire anche la strada della costruzione di un partito». Ma attenzione, avverte Magaldi: non esiste ancora neppure un soggetto giuridico, c’è solo la proposta di iscriversi a una futura assemblea costituente del “partito che serve all’Italia” (nome provvisorio, in attesa che il nuovo soggetto venga poi battezzato dai suoi stessi costituenti). «In questa iniziativa sono coinvolte tante persone di pregio». Per sé, Magaldi non prenota alcun ruolo preminente: «Vogliamo contribuire a una casa comune di cittadini e rappresentati di associazioni, partiti e movimenti preesistenti, che vogliono fondersi in un nuovo progetto unitario».
    Quella del 22 dicembre è stata un’ottima partenza, assicura Magaldi: molti entusiasmi e parecchia concretezza. Prossima tappa, il 10 febbraio: un altro passo verso l’assemblea costituente del futuro partito. «Sarà una riunione ancora più allargata, dove verrà messa a punto un’agenda più definita». C’è anche chi annuncia l’imminente comparsa di Gilet Gialli all’italiana: «Ottima cosa, specie se tutto fosse fatto con razionalità e sapienza, cioè senza quel caos che in passato ha caratterizzato movimenti come quello dei Forconi». In altre parole: a stimolare il governo potrebbe anche servire «una protesta pacifica, forte e ferma, ma mai violenta», proprio in nome di quella democrazia che si rivendica, lungi dalle convulsioni che, in passato, sono state cavalcate dalla strategia della tensione al servizio di poteri oscuri. Eventuali Gilet Gialli a parte, secondo Magaldi «questa Italia a cavallo tra 2018 e 2019 promette bene: credo si stiano aprendo nuovi margini di manovra, e mi fa piacere che il “partito che serve all’Italia” si vada arricchendo di entusiasmi e di sguardi incuriositi, anche da parte del mainstream». Forse, nell’attuale caos politico, le maglie si diradano.
    In ogni caso, sul cambio di passo necessario, Magaldi ha le idee chiare: «Io credo che il riscatto democratico – per l’Italia, per l’Europa, per il mondo – nasce se gente la smette di rimproverare semplicemente gli altri, gli oligarchi, i cattivoni, i buratttinai che gestiscono male la globalizzazione e l’Europa, insieme alla casta politica che ammorba l’Italia, e così i ladroni e i corrotti, i banchieri». Lo stesso Magaldi ricorda che la sovranità democratica «è stata costruita, attraverso lotte sanguinose, da avanguardie massoniche alleate di fasce popolari più coraggiose e consapevoli». E dunque «è qualcosa che va sempre mantenuto, difeso, consolidato». Insiste: «Invece di lamentarsi del potere degli altri, forse sarebbe il caso di rendersi conto che la propria impotenza è figlia della propria inconsapevolezza». Ovvero: «Il popolo è molto più forte e temibile di qualunque potere oligarchico. E’ che questo popolo, appunto, “se la fa raccontare”, si illude». Quanto cambierebbe, la situazione, se si acquisisse – a livello di massa – la conoscenza dei temi trattati in libri come quello di Magaldi? «Se milioni di persone si rendessero conto di certe cose, magari acquisirebbero quell’orgoglio che permetterebbe loro di rivendicare la propria sovranità. E invece di piangere sul potere altrui eserciterebbero un potere in proprio. E’ il potere pacifico della democrazia: quello che ti fa capire cosa devi fare tutti i giorni, come singolo cittadino, per indurre chi ti rappresenta nelle istituzioni a fare di più e meglio».

    Toh, se n’è accorta anche la televisione: il “partito che serve all’Italia” è entrato nel piccolo schermo grazie a “Coffee Break”, il talkshow mattutino condotto su La7 da Andrea Pancani. Ottima notizia, prende nota Gioele Magaldi, finora tenuto a debita distanza dalle dirette televisive. “Colpa” delle rivelazioni contenute nel suo bestseller, “Massoni”, che mette in piazza l’identità supermassonica di tanti player del massimo potere. Fatto sta che la prima riunione operativa verso il futuro partito, il 22 dicembre, è salita agli onori della cronaca nonostante fosse un incontro informale, neppure annunciato da comunicati stampa. Oltre a Magaldi, all’assise romana c’era Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt, nonché Claudio Quaranta, da mesi al lavoro per far convergere su una piattaforma unitaria le tante voci dell’altra Italia, quella che non riesce a vedersi rappresentata politicamente. Con loro c’era l’economista Antonio Maria Rinaldi di “Scenari Economici”, reduce da una visita al ministro Paolo Savona. E c’era Ilaria Bifarini, “bocconiana redenta” e ormai volto televisivo, spesso chiamata – come Rinaldi – a fare da contraltare al pensiero unico neoliberista, quello del rigore santificato da Bruxelles come una sorta di teologia dogmatica imposta da invisibili divinità tecnocratiche. Ma nel caso la nuova formazione politica dovesse davvero sorgere, nei prossimi mesi, l’Italia sarebbe pronta a ricevere l’offerta del “partito che serve all’Italia”?

  • Amodeo, lettera a Saviano: non racconti la verità sul potere

    Scritto il 30/11/18 • nella Categoria: idee • (9)

    Gentile Saviano, vogliamo raccontare perché ci sono giornalisti che si occupano di inchieste rischiando sulla propria pelle per pochi spiccioli e nel totale anonimato e poi ci sono quelli celebrati dai media, dalla politica, dal mainstream, per capire una volta per tutte cos’è che fa realmente la differenza. Mi presento: sono Francesco Amodeo e sono un giornalista pubblicista; blogger e autore di 3 libri di inchiesta. Campano come te. Da qualche anno non più praticante (mio malgrado). Dopo una laurea in scienze della comunicazione e stage negli uffici stampa di Londra e Madrid per imparare entrambe le lingue. Torno nella mia Campania e dal 2002 comincio ad occuparmi di cronache di camorra prima per “Dossier Magazine”, poi per il famoso quotidiano campano il “Roma” e il “Giornale di Napoli”. Dal 2004 al 2005 con lo scoppio delle più cruente faide di camorra vengono pubblicati a mia firma oltre 200 articoli in meno di un anno. Alcuni finiti in prima pagina sia sul “Roma” che sul “Giornale di Napoli”. Te ne elenco solo alcuni tra questi, guardando le date capirai gli intervalli di tempo tra un agguato ed un altro e quindi tra un articolo ed un altro e i ritmi e i rischi a cui eravamo esposti noi che facevamo questo lavoro:
    18 ottobre 2004 omicidio Albino, 29 ottobre 2004 omicidio Secondigliano: scoppia la faida, 5 novembre 2004 carabinieri feriti a Secondigliano, 13 novembre 2004 omicidio Peluso in pizzeria, 21 novembre 2004 ragazza accoltellata a Santa Lucia, 22 novembre 2004 omicidio di piazza Ottocalli, 26 novembre 2004 omicidio a Secondigliano di Gelsomina Verde (in assoluto il più efferato di tutta la faida), 19 dicembre 2004 intervista esclusiva alla vittima dell’agguato. L’ultimo mio articolo apparso sulla prima pagina del “Roma” riguardava l’omicidio di Nunzio Giuliano dell’omonimo storico clan. Sono articoli pubblicati negli stessi anni e riguardanti le stesse faide di quelli che tu hai scopiazzato dai colleghi e ricopiato per intero nel tuo “Gomorra” e per i quali hai subito la sentenza di condanna per plagio. A me nel 2005 sono stati corrisposti per tutti gli articoli 2.117,70 euro, di cui netti 1.800 euro (allego prova documentale). Posso immaginare che più o meno siano queste le cifre che guadagnavano anche i giornalisti campani a cui hai copiato pezzi di articoli per pubblicarli nel tuo libro multimilionario.
    Ma andiamo avanti. Nel raccogliere materiale per gli articoli di cronaca puoi immaginare quante botte io abbia preso, quanti cellulari mi abbiano strappato da mano, quanti registratori distrutto e quante intimidazioni subite. Così decisi che era diventato troppo rischioso e passai alla cronaca politica. Un altro settore che ti interessa. Ho aperto un blog di inchiesta giornalistica e pubblicato video-inchieste sulle organizzazioni della finanza speculativa che nel 2011 aveva rovesciato il governo in diversi paesi europei tra cui l’Italia, analizzando i legami tra queste organizzazioni e i politici e tecnici arrivati al governo, dimostrando in maniera documentata che avevano fatto cartello contro i popoli e contro le democrazie con la complicità dei nostri media mainstream. Probabilmente sono proprio le organizzazioni a cui stai facendo appello tu in questi mesi esortandoli a rovesciare nuovamente un governo democraticamente eletto.
    Sono rimasto sorpreso della tua visita a Macron. La prima volta che io lo vidi ero nascosto fuori al Marriott Hotel di Copenaghen con un cecchino che seguiva dall’alto ogni mio passo (come dimostra il video postato in rete) e lui stava per fare il suo ingresso alla riunione del Bilderberg 2014. Ossia l’incontro a porte chiuse dei più importanti membri della finanza speculativa. Quelli che scrivono che “la democrazia non è sempre applicabile”; che dovremmo “stracciare le nostre Costituzioni”; che bisogna favorire le tecnocrazie non elette per superare gli “eccessi di democrazia”. In pratica quelli che disprezzano i popoli.
    Tutte le mie ricerche sui legami tra politici, media e cartello finanziario speculativo sono state pubblicate in due libri, l’ultimo dei quali, “La Matrix Europea”, è stato definito dal compianto Ferdinando Imposimato, presidente onorario della Suprema Corte di Cassazione (giudice istruttore caso Moro) il miglior libro sull’argomento – citando le sue parole: «Il tuo libro è importante come strumento di verità e libertà ma è assediato da silenzio e omertà. Mi congratulo con te per la tua ricerca che è preziosa per tutti noi cittadini di una società in cui le ingiustizie e diseguaglianze sono enormi. Il tuo libro mi ha fatto capire molte cose, chiaro, preciso, documentato coraggioso, incisivo. Ma non è facile far capire agli altri la verità». Il presidente mi chiese poi pubblicamente di collaborare con lui per una ricerca sul tema, ma dovetti rifiutare perché non mi sentivo tutelato.
    Stai tranquillo Saviano, non sto facendo uno spot al mio lavoro, immagino che per deformazione professionale penseresti questo. A differenza dei tuoi libri, che ce li ritroviamo davanti anche in autogrill mentre prendiamo un caffè, il mio dopo una breve apparizione è sparito dai radar. Nonostante abbia un proprio codice Isbn se lo richiedi nelle librerie sembra che non sia mai esistito. Spero sia stato solo un errore dell’editore. Eppure i temi trattati nel libro sono stati oggetto di alcuni video su YouTube. Uno dei quali ormai punta ai 6 milioni di visualizzazioni (sì, hai capito bene, 5 milioni di visualizzazioni già superate con un video di 18 minuti, ossia un tempo assolutamente proibitivo per YouTube). E non è stato un caso. Ho superato ben 4 volte un milione di visualizzazioni anche quando ho dimostrato come vengono manipolate le interviste da parte di alcune note trasmissioni televisive del mainstream per punire chi prova a toccare argomenti che non dovrebbe toccare. Numeri enormi, mai raggiunti da nessuno in Italia e forse neanche in Europa per video che trattavano questo tipo di argomenti.
    Pensa che il video più visualizzato sul tuo “Gomorra Channel” ha raggiunto 477.000 visualizzazioni contro i miei 5 milioni. Per intenderci, sommando tutti i video caricati sul canale “Gomorra Channel” si raggiungono meno della metà delle visualizzazioni di un mio solo video. Nonostante “Gomorra” sia una serie televisiva, un film al cinema e tu, Saviano, sei inseguito da tutti gli editori, gli autori televisivi e sei presente in numerosi programmi in Tv. E allora cos’è che spinge tanta gente a guardare i video di uno sconosciuto? Sei d’accordo con me che i conti non tornano? Te lo spiego subito: tu sei stato molto bravo ad attaccare i criminali comuni, molti dei quali già in carcere con l’ergastolo, ma facendo sempre la massima attenzione a non attaccare il sistema dominante in politica (quello che la manovra) né il ruolo dei media, spesso usati come braccio armato da questi poteri forti. Sei diventato il cavallo di Troia che fa comodo ad un certo tipo di sistema per entrare nelle case degli italiani con una voce che possa fingersi amica, credibile, spostando l’attenzione sui criminali comuni senza mai toccare gli interessi del potere dominante né dei media che lo coprono.
    Ecco di chi sei diventato voce. Ecco perché ti celebrano. Ecco perché sei in tutte le Tv. Una volta ci sono andato anche io in Tv alla trasmissione “In Onda” di Luca Telese su La7 ma è stata la prima e l’ultima volta, perché tirai in ballo giornalisti, media e politici che partecipavano alle riunioni di organizzazioni del cartello finanziario speculativo che hanno interessi diametralmente opposti a quelli dei popoli. Sai come intitolarono la trasmissione? “La web guerra dei blogger antisistema”. Quando dici certe verità non sei un eroe, sei un “anti”. Eppure ti assicuro che la crisi economica – che io dimostravo essere stata indotta dai membri del cartello finanziario speculativo di cui facevo nomi e cognomi – ha fatto, indirettamente, molti più morti tra imprenditori e lavoratori che si sono suicidati di quanti ne abbia fatti, tra i criminali, la più sanguinosa delle faide di camorra. Ha fatto chiudere molte più aziende lo Stato per eseguire i diktat del capitale che i camorristi con il racket. Ma questo il pensiero unico dominante tra i media non ce lo fa sapere. E tu sei diventato l’icona di questo pensiero unico. Tu che parli di solidarietà verso i migranti, di accoglienza tout court pur sapendo bene che la maggior parte di quelli che arrivano dall’Africa sono in realtà i nuovi schiavi deportati dal capitalismo per abbassare il costo del lavoro e annichilire i diritti sociali nei paesi dove vengono accolti.
    Gente disposta a tutto, come li definisce un noto filosofo: «Merce umana nell’economia globale per le nuove pratiche dello sfruttamento neofeudale», pronta ad essere sostituita ai lavoratori europei che invece richiederebbero diritti sociali e rivendicazioni salariali. Tu conosci questa pratica infame. Ma la copri, la appoggi. Per questo meriti programmi in Tv. Poi ti vedo attaccare Salvini indossando la maschera del paladino dei più poveri, e mentre con una mano reggi quella maschera, con l’altra tiri acqua al mulino di quella sinistra che ha svenduto i lavoratori e i loro diritti al cartello finanziario europeo e che è passata “dalla lotta per i lavoratori contro il capitale alla lotta per il capitale contro i lavoratori”, che ha sacrificato volontariamente sull’altare dei globalizzatori i lavoratori italiani per gli interessi di una Europa che si è dimostrata il baluardo del capitalismo speculativo contro le classi lavoratrici ed i popoli europei. Perché queste cose non le racconti? Anzi, perché le neghi?Taci, perché preferisci essere esaltato dai media per interessi commerciali e contribuire al loro asfissiante, martellante, fuorviante lavoro di propaganda a favore del pensiero unico di chi intende dirigere le sorti dei nostri governi.
    Oltre “Gomorra”, che ha soltanto fini commerciali, tu sei considerato un “intellettuale” amico dei popoli. E come può un intellettuale del genere, con il tuo seguito, preoccuparsi dei rimborsi trattenuti dalla Lega, senza mai menzionare i miliardi e miliardi di euro che ogni anno finiscono nelle mani di azionisti privati che si sono autonominati creatori e gestori della moneta del popolo? Tu questi argomenti non li toccherai mai. Io, invece, ho dovuto subire intimidazioni, ritorsioni, agguati mediatici, censure. Ed è per questo, che in seguito ad altri episodi che hanno coinvolto me ed i miei colleghi, ho deciso 3 anni fa di chiudere il blog, smettere di scrivere. Ma il mio è solo un esempio di quello che accade a centinaia di ragazzi che hanno provato a fare questo mestiere senza volersi allineare al pensiero unico dominante. Per concludere: io non sono un politico, non sono un ministro, non sono un capopartito; non puoi trovare altri interessi nella mie parole se non la voglia di ristabilire la verità. Te lo dico da ex giornalista. Da ex scrittore. Per farti capire che parliamo la stessa lingua. E te lo dico nel mio dialetto perché anche quello ci accomuna. “Robè, vir e fa l’ommmm”.
    (Francesco Amodeo, lettera aperta a Roberto Saviano pubblicata su “Scenari Economici” il 27 novembre 2018 – “Lettera di un ex giornalista di cronache di camorra a Saviano: perché non racconti la verità?”).

    Gentile Saviano, vogliamo raccontare perché ci sono giornalisti che si occupano di inchieste rischiando sulla propria pelle per pochi spiccioli e nel totale anonimato e poi ci sono quelli celebrati dai media, dalla politica, dal mainstream, per capire una volta per tutte cos’è che fa realmente la differenza. Mi presento: sono Francesco Amodeo e sono un giornalista pubblicista; blogger e autore di 3 libri di inchiesta. Campano come te. Da qualche anno non più praticante (mio malgrado). Dopo una laurea in scienze della comunicazione e stage negli uffici stampa di Londra e Madrid per imparare entrambe le lingue. Torno nella mia Campania e dal 2002 comincio ad occuparmi di cronache di camorra prima per “Dossier Magazine”, poi per il famoso quotidiano campano il “Roma” e il “Giornale di Napoli”. Dal 2004 al 2005 con lo scoppio delle più cruente faide di camorra vengono pubblicati a mia firma oltre 200 articoli in meno di un anno. Alcuni finiti in prima pagina sia sul “Roma” che sul “Giornale di Napoli”. Te ne elenco solo alcuni tra questi, guardando le date capirai gli intervalli di tempo tra un agguato e un altro, e quindi tra un articolo e un altro, e i ritmi e i rischi a cui eravamo esposti noi che facevamo questo lavoro:

  • Violenta e totalitaria: la dittatura della religione monoteista

    Scritto il 24/11/18 • nella Categoria: Recensioni • (7)

    Tutti i monoteismi religiosi, come i totalitarismi ideologici, storicamente sono stati processi rivoluzionari, intolleranti e illiberali, che mediante violenze, persecuzioni e propaganda hanno cercato di cancellare la cultura, i valori e i “mores” delle civiltà in cui prendevano il potere. Lo sostiene Marco Della Luna, avvocato e saggista, autore di analisi acute sul rapporto tra dominanti e dominati, anche nell’Europa di oggi. Sul suo blog, esplorando le forme di dominio dell’umanità, invita a considerare la storia oggettiva delle varie religioni monoteiste, ma anche enoteiste o monolatriche: atonismo (il culto solare di Amenhotep IV alias Ekhnaton), giudaismo, mazdeismo, cristianesimo e islamismo. «Se guardiamo in particolare a ciò che esse hanno fatto ogniqualvolta hanno scalato e preso il potere – scrive Della Luna – troviamo che ciascuna di esse non solo crede, monomaniacalmente, di essere l’unica detentrice della verità, ma anche ha cercato di realizzare un nuovo uomo, una nuova società, un nuovo ordinamento giuridico». Hanno cioè proceduto «cancellando il preesistente» (demonizzando, perseguitando, travisando) e «imponendo un pensiero e una verità unica, un unico modo di esperienza spirituale». Identica la promessa: il nuovo “verbo” risolverà tutti i mali, essendo la religione l’unica detentrice del bene (e chi la contesta, ovviamente, è un eretico).
    Ovviamente, aggiunge Della Luna, per realizzare il loro progetto – l’uomo nuovo, il nuovo ordine mondiale – le regioni devono eliminare rapidamente il vecchio, vincendone le resistenze «con la violenza, che è sempre risultata indispensabile», perché il “vecchio”, il tradizionale, «è storicamente consolidato nell’animo della gente, nella sua sensibilità e nei mores come “fisiologia” del funzionamento culturale, sociale, politico, economico, spirituale». Che siano monoteiste (c’è un solo Dio), enoetistiche o monolatriche (gli dèi sono tanti, ma solo uno è prevalente), secondo Della Luna le religioni hanno la stessa impostazione delle ideologie politiche totalitarie: fascismo, nazismo, comunismo, maoismo. «Infatti sono tutte “species” di quella fallacia illuministica, costruttivistica, che con Karl Popper possiamo chiamare “utopismo”, ingegneria sociale “olistica”». Vale a dire: il convincimento che, in base a una nuova teoria o scoperta o rivelazione, sia possibile e doveroso ristrutturare l’uomo e la società come si ristruttura una casa – basta un buon progetto, molta buona volontà, la giusta forza e fermezza, e tutto funzionerà per il meglio: si realizzerà un ordine perfetto che durerà fino alla fine dei tempi.
    Puntualmente, invece, ogni tentativo di quel genere «manca la meta prefissa e causa immense sofferenze, immense stragi e persecuzioni, immensi danni civili e materiali, prima di cadere o di trasformarsi in qualcos’altro», dal momento che «un corpo sociale non è una casa, non è un corpo inerte che si possa modificare a piacimento, ma un corpo vivente, e vivente secondo un ordine, una fisiologia, sviluppatisi lentamente nel corso della sua storia, cioè di secoli». Mentre le religiosità politeistiche «esprimono e sostengono questi equilibri organici e assettati, rispettosi perlopiù delle varie componenti etniche, culturali, cultuali e censuarie del corpo sociale», essendo quindi «religiosità mature, includenti», al contrario, le religioni monoteiste – sempre per Della Luna – sorgono tutte, storicamente, «come progetti monomaniacali, rivoluzionari, escludenti, olistici e utopistici nel predetto senso, aggravati dal fatto di essere prescritti da un dio (o da una ‘scienza’ sentita come verbo divino, come è il caso del mercatismo), quindi dall’essere indiscutibili». Per questo, inevitabilmente, «generano violenza, così come le ideologie totalitarie», non solo perché «devono eliminare la religione già esistente per sostituire ad essa il loro modello», ma anche perché «promettono la soluzione rapida dei problemi esistenziali – la morte, il senso della vita, la giustizia».
    La religione usa la violenza per affermarsi, dice Della Luna, ma poi continua a usare la violenza anche per nascondere il fatto di non essere riuscita a mantenere le sue promesse: «Recentemente si è visto il fallimento pratico del governo dei Fratelli Musulmani in Egitto». I devoti sono scossi da onde di frustrazione: non potendo le religioni riconoscere il loro fallimento, questa frustrazione «deve essere scaricata all’esterno, affinché non crei lacerazione interna o dubbi – deve essere scaricata, cioè, su un capro espiatorio, che può essere interno (gli eretici) oppure esterno (gli infedeli, chi non si converte alla nuova religione): tutti questi capri espiatori vanno uccisi per volere di Dio». I primi cristiani, come si legge nel Nuovo Testamento, si aspettavano «il ritorno in gloria e potenza del Redentore entro pochi anni», letteralmente: prima che l’ultimo dei viventi al tempo di Gesù fosse morto. La tempistica è stata allungata e infine «proiettata su un orizzonte indefinito, solo poiché questa predizione non si avverava». Similmente, aggiunge Della Luna, i Testimoni di Geova «predicevano il Giudizio per il 1914, ma poi ovviamente hanno dovuto cambiare le loro pubblicazioni».
    L’islamismo è propriamente monoteista, annota Della Luna, perché afferma l’esistenza di un unico essere di natura divina – onnipotente, onnisciente, eterno, creatore di tutti gli altri esseri. «Le altre religioni non sono monoteiste». L’atonismo era monolatrico, ossia «tributava culto a un unico dio, pur ammettendo l’esistenza di altri dei». Il mazdeismo crede in due dei: Ahura Mazda, il bene, e Arei Manyu (Ahriman), il Male. Anche il giudaismo, dice Della Luna – presentando il libro di Nicola Bizzi “Ipazia di Alessandria e l’enigma di Santa Caterina” (Aurora Boreale, 2018) – riconosce una pluralità di Elohim (parola di origine ignota, che noi traduciamo impropriamente come “dei”), di cui Jahvè è uno (gli altri sono Milkom, Kamosh, Baal Peor, El Elion). Inoltre, aggiunge Della Luna, nella Bibbia questi Elohim vengono descritti come esseri tangibili, materiali, simili agli dei greci e romani, mentre nella cultura ebraica antica «non esistono nemmeno i concetti di ente immateriale, di eternità, di onnipotenza, di creazione dal nulla – concetti tipicamente greci». Quindi anche il giudaismo – che adora l’Elohim Jahvè in mezzo a tanti altri Elohim – potrebbe essere classificato come «monolotria politeistica».
    E il cristianesimo? «Parte come monoteismo, mai in seguito, col Concilio di Nicea, viene ad affermare esplicitamente l’unità della sostanza divina e la pluralità (trinità) delle persone di Dio. Poi, nei secoli, assorbe – soprattutto nella sua confessione cattolica – il vissuto devozionale della pluralità dell’esperienza e della manifestazione divina attraverso la creazione di un esercito di figure intermedie, dagli angeli ai santi alla Madre divina». Oggi fa notizia il radicalismo islamico jihadista coltivato dall’imperialismo occidentale per frantumare la regione petrolifera, mentre il giudaismo – che si impose con la violenza (la tribù di Gioacobbe che stermina i consenguinei, tutti discendenti di Abramo) si riberbera nell’Israele armato fino ai denti, in guerra perenne coi vicini. Lo stesso Nicola Bizzi afferma che il cristianesimo, dopo essersi imposto con la massima ferocia, in tempi recenti si è “civilizzato”, prendendo le distanze da quella stessa violenza che aveva praticato per 17 secoli. Il cristianesimo moderno, secolarizzato e non più politicamente al potere, è stato «ridimensionato dalla critica epistemologica, storica, filologica». La frustrazione per la sua mancata promessa «è stemperata dallo stesso stemperarsi, assieme al senso del divino, dell’aspettativa di quella soluzione». Quel che ne resta si scarica perlopiù all’interno: il credente viene educato a imputare a se stesso – peccatore – la causa del malandare delle cose. «Quindi è ora facile per questa religione far dimenticare, presso le masse non istruite, il suo prevalente passato», cioè un millennio e mezzo di potere violento e totalitario.
    (Il libro: Nicola Bizzi, “Ipazia di Alessandria e l’enigma di Santa Caterina”, Aurola Boreale, 162 pagine, 15 euro).

    Tutti i monoteismi religiosi, come i totalitarismi ideologici, storicamente sono stati processi rivoluzionari, intolleranti e illiberali, che mediante violenze, persecuzioni e propaganda hanno cercato di cancellare la cultura, i valori e i “mores” delle civiltà in cui prendevano il potere. Lo sostiene Marco Della Luna, avvocato e saggista, autore di analisi acute sul rapporto tra dominanti e dominati, anche nell’Europa di oggi. Sul suo blog, esplorando le forme di dominio dell’umanità sulla scorta dell’ultimo libro di Nicola Bizzi, “Ipazia di Alessandria e l’enigma di Santa Caterina”, Della Luna invita a considerare la storia oggettiva delle varie religioni monoteiste, ma anche enoteiste o monolatriche: atonismo (il culto solare di Amenhotep IV alias Ekhnaton), giudaismo, mazdeismo, cristianesimo e islamismo. «Se guardiamo in particolare a ciò che esse hanno fatto ogniqualvolta hanno scalato e preso il potere – scrive Della Luna – troviamo che ciascuna di esse non solo crede, monomaniacalmente, di essere l’unica detentrice della verità, ma anche ha cercato di realizzare un nuovo uomo, una nuova società, un nuovo ordinamento giuridico». Hanno cioè proceduto «cancellando il preesistente» (demonizzando, perseguitando, travisando) e «imponendo un pensiero e una verità unica, un unico modo di esperienza spirituale». Identica la promessa: il nuovo “verbo” risolverà tutti i mali, essendo la religione l’unica detentrice del bene (e chi la contesta, ovviamente, è un eretico).

  • La faccia tosta di Prodi, il pifferaio della svendita dell’Italia

    Scritto il 15/11/18 • nella Categoria: idee • (10)

    Romano Prodi è uno dei massimi artefici della mutazione genetica della sinistra italiana, avendo validamente contribuito a traghettarla dal campo socialista al campo liberale; fa parte (con Andreatta, Ciampi e Carli) del clan dei grandi burocrati che, prima, hanno sottratto al paese la sovranità monetaria, favorendo il divorzio fra il Tesoro e la banca centrale, poi hanno operato per sottrargli anche la sovranità nazionale (e quindi la sovranità popolare); è il grande liquidatore di quell’industria di Stato che aveva promosso il nostro sviluppo industriale, e che lui ha fatto sì che venisse trasferita in mani private; è fra coloro che hanno spianato la strada alla deregulation finanziaria, alla colonizzazione del nostro sistema produttivo da parte delle imprese transnazionali, alla distruzione del potere contrattuale dei sindacati; è – con Bill Clinton, Tony Blair, Schröder e altri – fra i massimi ispiratori della “sinistra” neoliberale e antikeynesiana; si è battuto perché l’Italia entrasse a qualsiasi costo nell’Unione Europea contribuendo a realizzare l’utopia di von Hayek, cioè la nascita di un’entità sovranazionale che ha neutralizzato i principi “criptosocialisti” della Costituzione del ‘48 e imbrigliato la nostra politica economica con vincoli esterni che le vietano di ridistribuire risorse a favore delle classi subalterne.
    Questo è l’uomo che ha oggi la faccia tosta di lanciare un appello (sulle pagine del “Corriere della Sera” di venerdì 5 ottobre) per salvare l’Italia che, parole sue, «rischia di diventare una democrazia illiberale». Democrazia illiberale è un termine interessante, quasi un lapsus. Il binomio democrazia-liberalismo si è infatti dissolto da un pezzo, come hanno spiegato, fra gli altri, Colin Crouch e Wolfgang Streeck: i nostri sono regimi post-democratici, nei quali la democrazia si riduce all’esercizio formale di alcune procedure, mentre le vere decisioni sono delegate ai “mercati” (mitiche entità impersonali dietro cui si celano gli interessi di ben precise caste economiche), in nome dei quali governano esecutivi che giustificano le proprie decisioni antipopolari con i vincoli (che loro stessi hanno scelto di autoimporsi!) dettati da istituzioni sovranazionali prive di legittimazione democratica. Regimi liberali, nel senso che vengono ancora rispettati i diritti civili e individuali (ma non quelli sociali!), ma certamente non democratici, come ha sperimentato sulla propria pelle il popolo greco.
    Parlando del pericolo dell’avvento di una “democrazia illiberale”, Prodi e soci manifestano la propria paura che possa ritornare una democrazia capace di far valere gli interessi delle classi subalterne. Un ritorno che, causa la latitanza delle forze politiche che avrebbero dovuto difenderla (quelle sinistre che oggi ballano come topolini al suono dei pifferi liberali), ha assunto il volto “barbaro” della rivolta populista: dall’elezione di Trump, alla Brexit, alla bocciatura del referendum renziano, passando per la valanga di voti raccolti da formazioni di diversa coloritura ideologica (Lega e M5S in Italia, Mélenchon e Le Pen in Francia, Podemos e Ciudadanos in Spagna, ecc.) ma accomunate dal rifiuto del pensiero unico liberal/liberista. Per certa gente la democrazia diventa illiberale quando capisce che il popolo non la segue più, che non riconosce più la loro autorevolezza di “esperti” e pretende di avere voce in capitolo su temi che è troppo rozza per capire. È allora che viene agitato lo spettro di una democrazia che può trasformarsi in “dittatura della maggioranza”, o addirittura suicidarsi, aprendo la strada all’avvento di regimi totalitari. È allora che si lanciano appelli come quello di Prodi (rilanciato da Gentiloni il giorno seguente) che invita a costruire un fronte “antipopulista” che dovrebbe andare da Macron a Tsipras.
    Quale sublime sfrontatezza: si chiama a raccolta Tsipras, l’uomo che ha tradito il voto del suo popolo, piegandosi alla volontà della Troika e accettando che la Grecia venisse ridotta allo stato di colonia, un uomo che non ha più alcun titolo per dirsi di sinistra (giustamente Mélenchon ne ha chiesto l’espulsione dal gruppo parlamentare della sinistra europea), accostandolo a Macron, l’uomo che dopo essere stato eletto in nome di una sacra unione antipopulista, è riuscito, a causa alle sue scellerate scelte antipopolari, a perdere in tempi brevissimi il consenso raccolto con quell’espediente. Senza operare alcuna riflessione autocritica, si rilancia un progetto che si è già dimostrato fallimentare, nella speranza di poter cancellare – con la complicità del terrorismo mediatico – l’evidenza dei fatti e di far dimenticare ai cittadini il recente passato. Non funzionerà. O meglio: non funzionerà per la maggioranza dei cittadini, funzionerà invece nei confronti dei resti d’una sinistra che continua a correre verso il baratro come un branco di lemming.
    (Carlo Formenti, “Prodi ovvero il pifferaio stonato”, da “Micromega” dell’8 ottobre 2018).

    Romano Prodi è uno dei massimi artefici della mutazione genetica della sinistra italiana, avendo validamente contribuito a traghettarla dal campo socialista al campo liberale; fa parte (con Andreatta, Ciampi e Carli) del clan dei grandi burocrati che, prima, hanno sottratto al paese la sovranità monetaria, favorendo il divorzio fra il Tesoro e la banca centrale, poi hanno operato per sottrargli anche la sovranità nazionale (e quindi la sovranità popolare); è il grande liquidatore di quell’industria di Stato che aveva promosso il nostro sviluppo industriale, e che lui ha fatto sì che venisse trasferita in mani private; è fra coloro che hanno spianato la strada alla deregulation finanziaria, alla colonizzazione del nostro sistema produttivo da parte delle imprese transnazionali, alla distruzione del potere contrattuale dei sindacati; è – con Bill Clinton, Tony Blair, Schröder e altri – fra i massimi ispiratori della “sinistra” neoliberale e antikeynesiana; si è battuto perché l’Italia entrasse a qualsiasi costo nell’Unione Europea contribuendo a realizzare l’utopia di von Hayek, cioè la nascita di un’entità sovranazionale che ha neutralizzato i principi “criptosocialisti” della Costituzione del ‘48 e imbrigliato la nostra politica economica con vincoli esterni che le vietano di ridistribuire risorse a favore delle classi subalterne.

  • Moncalvo: Agnelli segreti, il potere Usa dietro a Marchionne

    Scritto il 26/10/18 • nella Categoria: segnalazioni • (9)

    Chiedetevi chi mise Sergio Marchionne alla guida della Fiat, e capirete anche perché – alla morte di Gianni Agnelli, nel 2003 – la figlia Margherita fu clamorosamente estromessa dal futuro della famiglia, cioè dal controllo della impalpabile ma potentissima società “Dicembre”, vera e propria cassaforte e cabina di regia dell’Avvocato. E’ la tesi che propone Gigi Moncalvo, autore del dirompente saggio “Agnelli segreti”, misteriosamente sparito dalle librerie ma acquistabile online attraverso il sito dello stesso Moncalvo, giornalista di lungo corso. In un intervento-fiume alla trasmissione web-radio “Forme d’onda”, Moncalvo sintetizza: il potere finanziario globalizzatore si è sostanzialmente “ripreso” la holding torinese, imponendo le sue decisioni (Marchionne, John Elkann) dopo che i nomi più celebri della finanza planetaria – Rothschild, Rockefeller – avevano “soccorso” l’allora giovane Agnelli, erede del complesso industriale torinese che si era immensamente arricchito soprattutto con la guerra fascista. Armi e mezzi, treni e camion, motori: forniture pagate in lingotti d’oro. Poi, i bombardamenti alleati e la ricostruzione degli stabilimenti, con il Piano Marshall. Da allora, “l’amico americano” non mollò più la Fiat. E alla morte del carismatico Avvocato fece emergere in modo evidente le sue scelte: Marchionne e la Chrysler, al culmine di una internazionalizzazione già avanzatissima, con la sede fiscale in Gran Bretagna e il lavoro sostanzialmente portato via dall’Italia.
    Autore di una minuziosa ricostruzione, basata essenzialmente sulle carte processuali prodotte dalla clamosa “guerra familiare” aperta da Margherita Agnelli per difendersi da quello che lei considera “il golpe del 2003”, Moncalvo ha riempito di voluminosi dossier un intero appartamento. Un lavoro di scavo giornalistico, il suo, magistralmente riproposto – a puntate – anche nelle trasmissioni “Reteconomy”, diffuse su YouTube. Focus: la controversia giudiziaria (non ancora esaurita, ma silenziata dai media) sulla vastissima eredità di Gianni Agnelli, in gran parte costituita da beni collocati all’estero: «Dal testamento emerse un ammontare che si aggirava sui 300 milioni di euro, inferiore a quelli di Pavarotti e Lucio Dalla, mentre oggi la vedova dell’Avvocato, Marella Caracciolo, è accreditata di una fortuna pari ad almeno 20 miliardi di euro, forse in parte custoditi in un bunker super-blindato all’aeroporto di Ginevra». Singolare, rileva Moncalvo, che tanto denaro sia stato parcheggiato all’estero, da un uomo a capo di un’azienda così pesantemente foraggiata dallo Stato italiano: straniera, oggi, anche la domiciliazione fiscale dell’ex Fiat, senza calcolare i conti (personali) nei vari paradisi fiscali del pianeta.
    Proprio la ricostruzione della reale entità patrimoniale del padre, ricorda Moncalvo, è stata il punto di partenza della clamorosa azione legale condotta da Margherita Agnelli, ex moglie di Alain Elkann e madre di Lapo e John, vistasi improvvisamente isolata: all’apertura del testamento, Margherita Agnelli scoprì che sua madre Marella e suo figlio John si erano accordati con i due plenipotenziari dell’anziano “monarca”, vale a dire Gianluigi Gabetti (amministratore dei beni di famiglia) e Franzo Grande Stevens, divenuto l’avvocato più importante, nella vita di Gianni Agnelli, dopo la perdita dello storico legale Vittorio Chiusano. L’intento di Margherita, spiega Moncalvo, era quello di riunire la famiglia – lei, la madre e il figlio – nella piena condivisione paritetica della “Dicembre”, vero e proprio forziere dell’impero Fiat, pur essendo una “società semplice” (senza neppure l’obbligo di presentare bilanci). Ma nello stesso giorno della lettura testamentaria, continua Moncalvo, Margherita Agnelli ebbe la più amara delle sorprese: sua madre Marella cedette gran parte delle sue quote della “Dicembre” all’allora giovanissimo nipote John, che a quel punto divenne formalmente l’unico vero padrone dei destini della “royal family”, senza però che vi fosse traccia di un’investitura (scritta) da parte del nonno. Come se, appunto, l’operazione fosse stata il frutto di una occhiuta regia esterna, affidata all’abilissima “manovalanza” di Gabetti e Grande Stevens.
    Il primo a protestare per lo strano ingresso nel board Fiat dell’imberbe John Elkann era stato Edoardo Agnelli, che nella “Dicembre” non aveva mai neppure voluto mettere piede. Poco prima di essere ritrovato senza vita ai piedi di un viadotto dell’autostrada Torino-Savona, il figlio “ribelle” dell’Avvocato confidò al “Manifesto” che trovava inappropriata la nomina del 21enne John nel Cda della Fiat, a pochi giorni dalla morte del cugino “Giovannino” (Giovanni Alberto) Agnelli, figlio di Umberto, lanciatissimo nella carriera aziendale ma stroncato da un tumore a soli 33 anni. John Elkann, ricorda Moncalvo, in fondo deve la sua attuale posizione a una serie terribile di decessi: il nonno Gianni, lo zio Umberto, il cugino Giovannino e, ovviamente, lo stesso Edoardo, sulla cui fine – l’ipotetico volo dal viadotto di Fossano – le prime ombre furono sollevate dal regime iraniano, secondo cui il figlio dell’Avvocato sarebbe stato “suicidato dai sionisti”. Evidente l’allusione (velenosa) ad Alain Elkann, il padre di John, ebreo osservante. Secondo lo studioso italiano Gianfranco Carpeoro, Alain Elkann sarebbe un autorevole esponente nel B’nai B’rith, esclusiva massoneria ebraica strettamente controllata dal Mossad, mentre lo sfortunato Edoardo Agnelli, fratello di Margherita, aveva aderito all’Islam e addirittura al Sufismo. Una celebre foto lo ritrare in preghiera a Teheran, di fronte all’ayatollah Alì Khamenei.
    Nella visione di Moncalvo (autore non solo di “Agnelli segreti”, ma anche de “I lupi e gli agnelli”) la tragica fine di Edoardo è ben presente, ma il giornalista evita accuratamente qualsiasi tentazione complottistica. Moncalvo preferisce stare ai fatti: e le carte (specie quelle prodotte da Margherita Agnelli) raccontano di una sostanziale svolta, nel management e nella proprietà dell’impero ex-Fiat, che appare imposta da lontano, come se i veri dominus del destino del gruppo non risiederesso più a Torino. Un “trasloco” reso lampante dall’avvento di Marchionne, ma in realtà risalente – nelle intenzioni – a un passato assai meno recente. Ai microfoni di “Forme d’onda”, Moncalvo parla addirittura del primissimo dopoguerra, quando l’allora giovane “vitellone” Gianni Agnelli, rinomato playboy, «viveva in una sfarzosa villa in Costa Azzurra, disertata però dal bel mondo dell’epoca, che non perdonava al rampollo torinese la fortuna del nonno, costruita con le commesse militari del fascismo». Tutto cambiò, dice Moncalvo, quando Gianni Agnelli incontrò «la donna più importante della sua vita: Pamela Churchill Harriman», nuora dello statista britannico. «Da quel momento, la nuova fidanzata gli aprì porte prima impensabili: le grandi banche d’affari americane, i Rothschild, i Rockefeller. Potenze finanziarie, coinvolte nel Piano Marshall che poi avviò la “resurrezione” della Fiat devastata dalle bombe alleate».
    Del resto, è noto che lo stesso Gianni Agnelli scrisse la prefazione (nell’edizione italiana) dello storico saggio “La crisi della democrazia”, vero e proprio manifesto del pensiero unico neoliberista, commissionato da quella Commissione Trilaterale di cui lo stesso Avvocato era membro, accanto a personaggi come Henry Kissinger e David Rockefeller. Moncalvo invita a far luce sull’insieme, collegando i fili su cui il giornalismo nostrano sorvola regolarmente. Per poi scoprire, magari, che alla morte dell’Avvocato quel super-potere si è semplicemente ripreso il pieno controllo dell’impero torinese, a lungo affidato alla sapiente guida politica del principe degli industriali italiani. Un monarca intoccabile, ricorda Moncalvo: avvicinandosi la tempesta di Tangentopoli, Gianni Agnelli ottenne l’immunità parlamentare da Francesco Cossiga, che lo nominò senatore a vita, mentre l’avvocato Chiusano “blindò” la Fiat dall’insidioso attacco di Mani Pulite, che aveva già portato all’arresto del numero tre del gruppo, Francesco Paolo Mattioli, la mente finanziaria della holding torinese.
    Riuscirono a fare della Fiat un’eccezione, dice Moncalvo: grazie al magistrale Chiusano, si stabilì che il tribunale competente non sarebbe stato quello dell’area dove erano stati contestati i reati (Milano) ma quello di Torino, sede dell’azienda. «Un po’ come se la Juventus giocasse sempre e solo in casa». E a proposito di Juve: «Mai, con l’Avvocato in vita, si sarebbe potuta contestare legalmente la gestione Moggi, togliendo scudetti alla squadra fino a retrocederla in Serie B». Moncalvo spiega così sua la passione per il giallo-Agnelli: «La dirompente azione legale di Margherita ha permesso di svolgere finalmente un’attività giornalistica, attorno alla famiglia più potente d’Italia, sempre protetta dalla micidiale autocensura degli stessi giornalisti, e non solo». Pensate, aggiunge, che il film-capolavoro “Il silenzio degli innocenti”, con Anthony Hopkins e Jodie Foster, uscì in tutto il mondo con il titolo originale, “The silence of the lambs”, cioè quello del romanzo di Thomas Harris, da cui era tratto. Solo in Italia, «senza alcun riguardo per l’opera di Harris», al “silenzio degli agnelli” si preferì quello, molto meno rischioso, degli “innocenti”.
    (Sono due i saggi di Moncalvo sulla famiglia Agnelli, stranamente irreperibili in libreria ma comodamente acquistabili sul sito dell’autore. Il primo: Gigi Moncalvo, “Agnelli segreti”, sottotitolo “Peccati, passioni e verità nascoste dell’ultima ‘famiglia reale’ italiana”, 522 pagine, 20 euro. Contenuto: “Processi di cui nessuno parla, testamenti ’segreti’, amori clandestini, morti sospette, eredità contese, prestanome all’estero, evasioni fiscali: a undici anni dalla morte dell’Avvocato, finalmente senza censure la saga familiare più avvincente d’Italia”. Il secondo: Gigi Moncalvo, “I lupi e gli agnelli”, sottotitolo “Ombre e misteri della  famiglia più potente d’Italia”, 476 pagine, 20 euro. Contenuto: “Mi hanno rubato i figli per farne degli eredi Agnelli”. Il racconto delle verità, dei retroscena, delle ‘trappole’, dei documenti inediti che hanno fatto da contorno alla guerra dichiarata da Margherita alla sua famiglia. E viceversa…).

    Chiedetevi chi mise Sergio Marchionne alla guida della Fiat, e capirete anche perché – alla morte di Gianni Agnelli, nel 2003 – la figlia Margherita fu clamorosamente estromessa dal futuro della famiglia, cioè dal controllo della impalpabile ma potentissima società “Dicembre”, vera e propria cassaforte e cabina di regia dell’Avvocato. E’ la tesi che propone Gigi Moncalvo, autore del dirompente saggio “Agnelli segreti”, misteriosamente sparito dalle librerie ma acquistabile online attraverso il sito dello stesso Moncalvo, giornalista di lungo corso. In un intervento-fiume alla trasmissione web-radio “Forme d’onda”, Moncalvo sintetizza: il potere finanziario globalizzatore si è sostanzialmente “ripreso” la holding torinese, imponendo le sue decisioni (Marchionne, John Elkann) dopo che i nomi più celebri della finanza planetaria – Rothschild, Rockefeller – avevano “soccorso” l’allora giovane Agnelli, erede del complesso industriale torinese che si era immensamente arricchito soprattutto con la guerra fascista. Armi e mezzi, treni e camion, motori: forniture pagate in lingotti d’oro. Poi, i bombardamenti alleati e la ricostruzione degli stabilimenti, con il Piano Marshall. Da allora, “l’amico americano” non mollò più la Fiat. E alla morte del carismatico Avvocato fece emergere in modo evidente le sue scelte: Marchionne e la Chrysler, al culmine di una internazionalizzazione già avanzatissima, con la sede fiscale in Gran Bretagna e il lavoro sostanzialmente portato via dall’Italia.

  • Magaldi: all’Ue serve Keynes (e a Martina uno psichiatra)

    Scritto il 10/10/18 • nella Categoria: idee • (19)

    Cercasi psichiatra per Maurizio Martina e i suoi colleghi del Pd. Un vero fenomeno, il successore di Renzi: «Si lamenta della rapacità del neo-capitalismo che ha impoverito gli italiani, ma poi contesta il governo gialloverde se appena prova a uscire dalle regole di ferro del “pilota automatico” che vieta il ricorso al deficit». E’ esterrefatto, Gioele Magaldi, di fronte alle ultime esternazioni di Martina: «Sembra psichicamente dissociato. Capisce quello che dice?». Ben diverse le posizioni espresse da esponenti della sinistra come Fausto Bertinotti, favorevole al reddito di cittadinanza così come Stefano Fassina e lo stesso Michele Emiliano, «che almeno ha avuto il coraggio di dissentire dal suo partito». Il centrosinistra? Nebbia: «Protesta contro il rigore, ma al tempo stesso vorrebbe che il governo Conte cedesse alle pressioni anti-italiane continuamente esercitate da Draghi, Mattarella, Visco, Juncker e Moscovici, proprio per impedire all’esecutivo di invertire la rotta e investire finalmente sul benessere del paese». Quanto ai “gialloverdi”, il presidente del Movimento Roosevelt è prudente: «Li sosteniamo, perché vanno nella giusta direzione pur avendo contro l’establishment e i media. Però devono avere più coraggio: guai, ad esempio, se pensano di compensare il deficit aumentando l’Irpef».
    Tra i peggiori in campo, come al solito, i media mainstream: ultimamente, dice Magaldi in collegamento web-streaming su YouTube con Marco Moiso, c’è chi arriva a citare Keynes come cattivo esempio (sprechi, assistenzialismo) dopo averlo letteralmente rimosso, lo stesso Keynes, padre dell’economia democratica moderna, propinando al pubblico la narrazione tragicamente ridicola del pensiero unico neoliberista, basata sulla favola dell’austerity espansiva: più si fanno tagli, più cresce “miracolosamente” il Pil. E’ indispensabile, sottolinea Magaldi, che l’anima keynesiana del governo Conte emerga in modo più deciso: e non mancano, specie nella Lega, gli economisti post-keynesiani come Alberto Bagnai. Se non bastasse, aggiunge il presidente del Movimento Roosevelt, bisognerà dare corpo a un nuovo partito ultra-keynesiano, che si batta per ripristinare la democrazia sociale in tutta Europa, con una governance democratica dell’economia, sancita da una vera Costituzione Europea. «Rifiutiamo la narrazione che vorrebbe contrapposti sovranisti-nazionalisti da una parte ed europeisti dall’altra: sono fasulli, i sedicenti europeisti che si contrappongono ai sovranisti, ed è un errore madornale lasciarsi incasellare nella categoria di comodo del “sovranismo”». Il nazionalismo? Un binario morto: «Non ha mai prodotto democrazia diffusa, ma solo inimicizia tra popoli».
    Per Magaldi, massone progressista, «abbiamo bisogno di un cosmopolitismo democratico, che contrasti la “politìa” post-democratica e neo-aristocratica che questi decenni di globalizzazione sbagliata hanno prodotto». Molto meglio una “glocalizzazione”, «che metta al primo posto la dignità del cittadino: ovunque, sotto ogni cielo del pianeta». Tra i soggetti che “remano contro” la svolta liberal-progressista di cui l’Italia avrebbe bisogno, Magaldi indica il capo dello Stato: «Io credo che Mattarella goda di credibilità soltanto presso chi non abbia riflettuto abbastanza su quello che dovrebbe essere il ruolo del presidente della Repubblica, e su come i suoi predecessori in questi anni abbiano avallato questa sorta di svendita della sovranità politica ed economica italiana a potentati privati». Perché di questo si tratta: «Dietro le maschere evanescenti e cialtronesche di diversi burocrati europei – aggiunge – si nascondo interessi privati: interessi apolidi, che predano la ricchezza di popoli, nazioni e interi continenti». Mattarella, continua Magaldi, viene esaltato da chi s’è ubriacato dall’idea che siano i mercati a doverci governare, e pensa che in fondo la linea dell’Europa è responsabile, e che si sono irresponsabili populisti i politici al governo, che osano proporre un rapporto deficit-Pil del 2,4% (inferiore al tetto stabilito a Maastricht).
    «Personalmente – insiste Magaldi – non ho alcuna stima politica nei confronti di Mattarella, che è un modestissimo personaggio, “pescato” da Renzi (altro modestissimo personaggio) su suggerimento di Draghi». Oggi il capo dello Stato incontra il presidente della Bce «come un maggiordomo che va a prendere gli ordini dal suo dante causa». Sicuri che sia ferrato, in materia economica, il capo dello Stato? «Probabilmente, Mattarella nulla capisce di economia: esegue degli ordini, per quanto riguarda la sua posizione sulla manovra economica del governo, ma ha anche un problema di insispienza, di limiti cognitivi». In definitiva, «è amato da gente che non capisce nulla di economia né di politica, e oltretutto spreca la propria devozione verso un personaggio che sicuramente non la merita – sottolinea Magaldi – anche perché ha attentato alla Costituzione già in occasione della mancata ratifica della nomina di Paolo Savona al ministero dell’economia». Una pagina estremanente controversa della cronaca politica recente: molti i giuristi che contestarono l’operato del Quirinale, in quella occasione, che spinse Di Maio – a caldo – a ventilare la richiesta di impeachment del presidente.
    «Continueremo a difendere la bontà del tentativo del governo Conte, che è comunque impegnato a fare qualcosa a conforto di una società italiana in difficoltà, fatta di famiglie e imprese», ribadisce Magaldi, che però non è soddisfatto del bilancio gialloverde. «Finora non c’è stata una narrazione netta, limpida, forte e lungimirante, del tipo: noi non siamo qui per discutere del 2,4 o 2,8%». Persino Salvini s’è abbassato, con fare rassicurante, a sottolineare che il deficit previsto dal Def è comunque inferiore a quello imposto dai parametri di Maastricht. Non ci siamo, protesta il presidente del Movimento Roosevelt: «Qui serve qualcos’altro, serve di più. Servirebbe qualcuno che dicesse: signori, guardate che quei parametri sono arbitrari. Dobbiamo fare grandi investimenti in infrastrutture, lo si è visto a Genova, e questo comporta che all’inizio il rapporto deficit-Pil sarà da aumentare di molte cifre, rispetto al 2,4%. E questo proprio nella prospettiva di rigenerare l’economia italiana, quindi anche di ridurre lo stesso debito pubblico (ma solo in prospettiva, perché il debito di uno Stato non è il debito di una famiglia)». E in più: «Eliminiamo alla radice il problema dello spread mediante l’emissione di eurobond».
    Una proposta forte dal governo Conte? «Potrebbe dire, come Italia: facciamo una Costituzione Europea. Facciamo dell’Italia il propulsore, in senso democratico, delle istituzioni europee». Sono questi, sottolinea Magadi, i temi che andrebbero affrontati sui tavoli di Bruxelles e Francoforte, «mettendo in scacco gli apparati tecnocratici e anche tutta l’opposizione al governo Conte». In altre parole, la maggioranza gialloverde si decida a evolvere «in una prospettiva che non sia sovranista, nazionalista, populista, mercanteggiatrice di pochi punti percentuali». O si abbandona questa narrativa di basso profilo, o non se ne esce. «E allora sarà inevitabile la costruzione di un partito politico che invece assuma su di sé l’onere di dire con chiarezza quello che va fatto, in termini radicali, e anche di aiutare Lega e Movimento 5 Stelle, e non solo: magari si sposasse davvero un’ottica keynesiana anche dalle parti del centrosinistra e del centrodestra, ne sarei contentissimo». Invece, Martina raccomanda l’eterno rigore europeo – esattamente come Tajani, portavoce del Cavaliere. «E allora – chiosa Magaldi – si mettano ufficialmente insieme e se lo facciano, il loro Partito della Nazione: prendano il 5% dei voti e “si levino dai cabbasìsi” come direbbe il Montalbano di Camilleri».

    Cercasi psichiatra per Maurizio Martina e i suoi colleghi del Pd. Un vero fenomeno, il successore di Renzi: «Si lamenta della rapacità del neo-capitalismo che ha impoverito gli italiani, ma poi contesta il governo gialloverde se appena prova a uscire dalle regole di ferro del “pilota automatico” che vieta il ricorso al deficit». E’ esterrefatto, Gioele Magaldi, di fronte alle ultime esternazioni di Martina: «Sembra psichicamente dissociato. Capisce quello che dice?». Ben diverse le posizioni espresse da esponenti della sinistra come Fausto Bertinotti, favorevole al reddito di cittadinanza così come Stefano Fassina e lo stesso Michele Emiliano, «che almeno ha avuto il coraggio di dissentire dal suo partito». Il centrosinistra? Nebbia: «Protesta contro il rigore, ma al tempo stesso vorrebbe che il governo Conte cedesse alle pressioni anti-italiane continuamente esercitate da Draghi, Mattarella, Visco, Juncker e Moscovici, proprio per impedire all’esecutivo di invertire la rotta e investire finalmente sul benessere del paese». Quanto ai “gialloverdi”, il presidente del Movimento Roosevelt è prudente: «Li sosteniamo, perché vanno nella giusta direzione pur avendo contro l’establishment e i media. Però devono avere più coraggio: guai, ad esempio, se pensano di compensare il deficit aumentando l’Irpef».

  • Ho visto un Re: a piangere è Calabresi, “ferito” da Di Maio

    Scritto il 08/10/18 • nella Categoria: idee • (7)

    «E sempre allegri bisogna stare», cantava Jannacci, «ché il nostro piangere fa male al Re». Fa male «al ricco e al cardinale», al punto che «diventan tristi se noi piangiam». C’è qualcosa di più insopportabile del vittimismo (grottesco) da parte del potere che “chiàgne e fotte”? Nell’arcaico pantheon medievale evocato dall’immenso cantautore milanese non c’era ancora posto, ovviamente, per il giornalista. Senza contare che allora, nel mitico 1968 – quando quel brano fu composto – erano ancora in circolazione giornalisti veri e propri. Magari non erano infallibili neppure loro, ma si chiamavano Bocca, Biagi, Montanelli. Ciascuno amato o detestato, a seconda delle platee, ma tutti rispettati: non cantavano in nessun coro e, nel caso, “sbagliavano” in proprio, senza prendere ordini dall’editore, dal partito, dall’establihment. Erano i tempi in cui sul “Corriere” scriveva Pasolini. Si era lontani anni luce dalle “carte false” che poi Giampaolo Pansa avrebbe messo alla berlina, denunciando la vocazione al servilismo che avrebbe fatalmente rovinato il giornalismo italiano, trasformandolo in docile strumento di propaganda.
    Giornali a fari spenti nella notte: tutti addosso ai ladri di polli di Tangentopoli, senza vedere il furto vero e colossale – sovranità, democrazia – messo a segno nel frattempo dall’élite finto-europeista. Oggi è diverso, è persino peggio: non si può più dire che i giornali sbaglino, non vedano, non capiscano. Oggi i giornali picchiano. Malmenano il nemico del padrone, ogni giorno, spudoratamente. Il primo a farlo è “Repubblica”, quotidiano fondato dall’ex fascista e poi socialista Scalfari, quindi a lungo diretto da quell’Ezio Mauro che demolì Berlusconi per i sexgate di Arcore, trasformando l’ultimo premier italiano eletto in qualcosa di cui gli anti-italiani Merkel e Sarkozy potevano ridere, proprio mentre si preparavano a spedire in Italia il loro uomo, Mario Monti, per inguaiare famiglie e aziende mettendo in ginocchio il sistema-Italia, comodamente spolpato da Germania e Francia, tra una risata e l’altra. Ridotta in macerie la politica – il populista Renzi, dopo il “sicario” Monti – oggi la ribellione di un paese scientificamente impoverito, terremotato dall’euro-crisi pilotata dai poteri che controllano la Bce, si esprime in modo grossolano per bocca di Salvini e Di Maio, il quale ha addirittura l’ardire di denunciare apertamente che il Re è nudo: tutto racconta, fuor che la verità. Apriti cielo: l’attuale direttore di “Repubblica”, Sergio Calabresi, apre il fazzoletto.
    Niente manganello, per una volta, ma fiumi di lacrime: i «nuovi potenti», singhiozza Calabresi, si sono accorti che – grazie al web – oggi «possono sperare di realizzare il sogno di ogni governante della storia: liberarsi dei corpi intermedi, delle critiche e delle domande scomode». Se queste parole fossero lette da archeologi fra tremila anni, e se non fosse più rintracciabile nessuna copia di “Repubblica”, nessuna prima pagina e nessun editoriale, qualcuno potrebbe persino prenderlo sul serio, Calabresi. Cosa ha detto, il mai impeccabile Di Maio? Due verità sacrosante. La prima: i giornali come “Repubblica” non fanno più informazione ma solo propaganda, spacciando “fake news”. La seconda: per fortuna, non li legge più nessuno. Esatto: vendono un terzo, un quarto delle copie che vendevano ai tempi di Biagi, Bocca e Montanelli, all’epoca in cui Ilaria Alpi faceva giornalismo d’inchiesta in Somalia, e in televisione campeggiavano Renzo Arbore e Gianni Minà. Persino i comici facevano pensare: Paolo Villaggio, Cochi e Renato diretti dallo stesso Jannacci (oggi il pubblico deve rassegnarsi a Crozza, che riesce a trasformare in eroe il sindaco di Riace, paragonandolo nientemeno che ai partigiani che “violarono la legge”, quando la legge era quella di Hitler).
    «Siamo “pericolosi”», dice Di Maio, perché i gialloverdi – raccontando il contrario della versione unilaterale dell’establishment – invadono (con verità insopportabili) quello che i giornali «considerano il loro territorio, la loro prateria». Per fortuna, aggiunge, «ci siamo vaccinati anni fa dalle bufale, dalle “fake news” dei giornali, e si stanno vaccinando anche tanti altri cittadini». Sarà per questo che il sistema sta aumentando le dosi di chemioterapia quotidiana con cui accecare il pubblico? Come spiegare diversamente la mostruosa tecnocrate Elsa Fornero trasformata in guru dell’economia dal valletto Floris, o l’inaudito Cottarelli – uomo del Fmi, coinvolto nella rovina della Grecia – venerato settimanalmente nel felpato salottino di Fazio? Ma il problema non è la fogna a cui è ridotto il mainstream italiano. Macchè, il problema è il minaccioso, terribile Di Maio. «Non abbiamo paura», proclama Calabresi, asciugandosi le lacrime copiosamente sparse. «Siamo preoccupati per noi e per il paese, per lo scadimento del dibattito che avvelena l’opinione pubblica». Lo scadimento di quale dibattito, please? Ai gialloverdi, il mainstream ha solo e sempre tolto il microfono dalle mani, presentandoli come appestati, folli, velleitari, cialtroni, razzisti e sessisti, violenti e scellerati, incompetenti. E’ accaduto l’impensabile, ecco il punto: oggi sono al governo, i mascalzoni. Non potendoli più ignorare, li si prende a cannonate dal mattino alla sera, a reti unificate.
    Non è cambiato, lo schema del regime insediato in Italia dopo la rimozione forzata, per via giudiziaria, dei politici della Prima Repubblica: ad avere l’ultima parola non sono gli elettori, ma il “vincolo esterno” in base al quale l’oligarchia europea governa l’Italia al posto del governo italiano, sorretta dall’establihment locale (politico, industriale, finanziario e, naturalmente, mediatico). L’algido Ferruccio De Bortoli lancia anatemi e auspica il ritorno alle Crociate: guai, se il governo italiano dovesse spuntarla contro Bruxelles sulla storia del deficit al 2,4%. L’opinione pubblica è strettamente sorvegliata da ex giornalisti come Lilli Gruber, in quota al Bilderberg, come ieri lo era da Monica Maggioni, presidente della Rai, oggi a capo della sezione italiana della Trilaterale. E se alla Rai gli impudenti Salvini e Di Maio riescono a piazzare un non-allineato come Foa, un giornalista indipendente, sono dolori: il mite Marcello Foa diventa, in un battibaleno, una specie di pericoloso terrorista. La sua colpa? Di tanti colleghi, ha la stessa opinione di Di Maio: venduti a un potere che ormai se ne frega, della democrazia. E se qualcosa per una volta va storto, se cioè la democrazia vince davvero, i nuovi eletti vanno abbattuti, anche per dare una lezione ai maledetti italiani che, dopo averli votati, hanno pure il coraggio di continuare a sostenerli.
    Non c’è bisogno di ricordare che ognuno ha il diritto di coltivare qualsiasi opinione, purché non leda l’altrui libertà. A proposito di Crociate, il conte di Tolosa – che difendeva la libertà di religione nel Midi pre-francese – protestò per la “desmisura” con cui veniva oppresso dal potere vaticano, folle di rabbia per la scelta dei tolosani di difendere i diritti religiosi dei Catari. “Desmisura”, in occitano medievale, significa questo: violare le regole, soffocare l’avversario, negargli la possibilità di esistere come soggetto pensante. Una tentazione totalitaria, che – secondo Simone Weil – in quel drammatico inizio del 1200 gettò il seme velenoso dei peggiori incubi europei dei Novecento. Soffocare le voci altrui: non un fiato, dalle testate dirette da uomini come Calabresi, s’è levato contro l’infame legge europea sul copyright, promossa dal galantuomo tedesco Günther Oettinger. Bavaglio al web: social media e motori di ricerca saranno costretti a bloccare la circolazione di idee scomode. E’ proprio lo stesso Oettinger che disse che sarebbero stati “i mercati”, i signori dello spread, a insegnare agli italiani come votare. Per questo, come cantava Jannacci, è meglio non fidarsi delle lacrime del Re: quello del lupo che si mette a piangere, travestito da agnello, è uno spettacolo esteticamente osceno, prima ancora che ipocrita sul piano politico.

    «E sempre allegri bisogna stare», cantava Jannacci, «ché il nostro piangere fa male al Re». Fa male «al ricco e al cardinale», al punto che «diventan tristi se noi piangiam». C’è qualcosa di più insopportabile del vittimismo (grottesco) da parte del potere che “chiàgne e fotte”? Nell’arcaico pantheon medievale evocato dall’immenso cantautore milanese non c’era ancora posto, ovviamente, per il giornalista. Senza contare che allora, nel mitico 1968 – quando quel brano fu composto – erano ancora in circolazione giornalisti veri e propri. Magari non erano infallibili neppure loro, ma si chiamavano Bocca, Biagi, Montanelli. Ciascuno amato o detestato, a seconda delle platee, ma tutti rispettati: non cantavano in nessun coro e, nel caso, “sbagliavano” in proprio, senza prendere ordini dall’editore, dal partito, dall’establihment. Erano i tempi in cui sul “Corriere” scriveva Pasolini. Si era lontani anni luce dalle “carte false” che poi Giampaolo Pansa avrebbe messo alla berlina, denunciando la vocazione al servilismo destinata a rovinare fatalmente il giornalismo italiano, trasformandolo in docile strumento di propaganda.

  • Draghi a Mattarella: obbedite, o vi faremo morire di spread

    Scritto il 06/10/18 • nella Categoria: segnalazioni • (28)

    Dallo spread ti può difendere la Bce, a una condizione: il commissariamento sostanziale dello Stato, non più libero di decidere come indirizzare la spesa pubblica. Secondo il “Fatto Quotidiano”, sarebbe questo il piano che Mario Draghi ha esposto a Sergio Mattarella, nei giorni scorsi, al Quirinale. «Si tratta dell’acquisto diretto da parte della Bce di titoli di Stato a breve termine emessi dallo Stato in difficoltà, che però per accedervi deve concordare una sorta di memorandum con il Meccanismo Europeo di Stabilità. Di fatto un commissariamento». Nella sostanza: la Banca Centrale Europea, che continua a non voler emettere “eurobond” a garanzia del debito pubblico dei paesi dell’Eurozona, si appresterebbe a esercitare indebite pressioni – modello Grecia – su un paese come l’Italia, di cui non si tollera la decisione di andare in controtendenza, rispetto al pensiero unico neoliberista di Bruxelles, espandendo il deficit. In una nota, la Commissione Europea “avverte” che la previsione del Def gialloverde (disavanzo al 2,4%) non sarà digerita dall’Ue, anche se Lega e 5 Stelle ritengono indispensabile, quel disavanzo, per cominciare a finanziare reddito di cittadinanza, pensioni più dignitose e taglio del carico fiscale. Misure che, secondo il governo, rilancerebbero il Pil già nel 2019.

  • Lo Stato non è una famiglia: se risparmia, siamo rovinati

    Scritto il 04/10/18 • nella Categoria: idee • (28)

    L’esposizione ripetuta a un’immagine o a un contenuto fa sì che l’individuo modifichi la propria percezione della realtà e interiorizzi il messaggio veicolato. E’ quello che gli psicologi chiamano “effetto priming”, e che pubblicitari ed esperti della comunicazione conoscono molto bene. Quanto più un messaggio viene ripetuto ed enfatizzato, magari attraverso la forma dello spot, tanto più esso risulterà familiare. Così può accadere che un concetto privo di veridicità, ma ripetuto con insistenza e in modo convincente, acquisisca il rango di verità. E’ quanto accaduto con la fake news economica del momento, tanto assurda quanto apparentemente efficace: il bilancio dello Stato sarebbe come quello di una famiglia. La ripetono all’unisono giornalisti, conduttori televisivi, economisti e qualunquisti. Così la gente comune, digiuna di economia e soprattutto in buona fede, ha interiorizzato un pensiero del tutto fuorviante. Secondo questa logica, quando un paese presenta un debito pubblico – dunque la normalità in un’economia moderna – dovrebbe assumere il comportamento di una brava e accorta casalinga: stringere la cinghia e tagliare le spese familiari. Così, come una donna morigerata risparmierà sul cibo, sul vestiario e, in condizioni di estrema ratio, alle cure sanitarie per sé, per il coniuge e per i figli, così lo Stato dovrebbe seguire il suo virtuoso esempio.
    Dunque, poiché la “famiglia” dello Stato è lo Stato stesso, ossia l’insieme dei cittadini che lo abitano, il suo territorio e le sue istituzioni, i tagli si ripercuoteranno sull’intera collettività. Per risparmiare occorre innanzitutto che contravvenga a quello che in un sistema socio-economico civile dovrebbe essere la sua funzione principale: tutelare chi non ha tutela, chi per nascita o per eventi sopravvenuti o condizioni particolari si trova in una situazione di evidente svantaggio. E qui gli esempi potrebbero essere infiniti, dal disoccupato all’invalido, alle vittime di disastri naturali. Potrebbe poi, in un’ottica di far quadrare il bilancio, ristrutturare la sanità pubblica in un’ottica mercatistica orientata al profitto, trasformando il paziente in un cliente. Continuare poi in un’opera di privatizzazione dei servizi pubblici e delle infrastrutture, facendoli gestire al mercato – considerato per antonomasia efficiente. A parte qualche piccola eccezione come successo a Genova. Così si potrebbe abbracciare un modello di scuola privata, in cui i genitori offriranno ai loro figli un livello di istruzione strettamente legato al proprio reddito. Ci sarebbe solo il piccolo inconveniente di bloccare l’ascensore sociale e rinstaurare il censo.
    Siccome non amo la retorica, mi fermo qui, ma gli esempi pratici per smontare l’assurda comparazione tra bilancio pubblico e familiare potrebbero andare avanti ancora a lungo. Lo Stato non è una famiglia perché esso ha come obiettivo il benessere e la tutela di tutti cittadini, non solo dei suoi figli come la famiglia, e opera su un orizzonte temporale di lungo periodo. Deve inoltre garantire il funzionamento delle istituzioni a garanzia del diritto e della democrazia. Infine, come dicono gli inglesi last but not least, da un punto di vista economico e contabile adottare la condotta della brava casalinga, che per uno Stato significa adottare l’austerity, vuol dire licenziare, rendere i servizi pubblici essenziali sempre più costosi, aumentare il livello di povertà, di disuguaglianza e disoccupazione. Così potrebbe accadere che la stessa virtuosa casalinga a causa dell’austerity debba rinunciare a curarsi o, addirittura, che suo marito perda il lavoro. Esiste infatti una relazione diretta, alquanto intuitiva, tra tagli dello Stato e diminuzione della ricchezza privata perché, per dirla con le parole del premio Nobel Krugman, «la tua spesa è il mio reddito». Potremmo dunque a ragion veduta ribaltare lo spot e affermare: «Il bilancio dello Stato è il contrario di quello della famiglia». Ma i pregiudizi si sa, una volta sedimentati sono difficili da scardinare.
    (Ilaria Bifarini, “Lo Stato è il contrario di una famiglia”, dal blog della Bifarini del 28 settembre 2018).

    L’esposizione ripetuta a un’immagine o a un contenuto fa sì che l’individuo modifichi la propria percezione della realtà e interiorizzi il messaggio veicolato. E’ quello che gli psicologi chiamano “effetto priming”, e che pubblicitari ed esperti della comunicazione conoscono molto bene. Quanto più un messaggio viene ripetuto ed enfatizzato, magari attraverso la forma dello spot, tanto più esso risulterà familiare. Così può accadere che un concetto privo di veridicità, ma ripetuto con insistenza e in modo convincente, acquisisca il rango di verità. E’ quanto accaduto con la fake news economica del momento, tanto assurda quanto apparentemente efficace: il bilancio dello Stato sarebbe come quello di una famiglia. La ripetono all’unisono giornalisti, conduttori televisivi, economisti e qualunquisti. Così la gente comune, digiuna di economia e soprattutto in buona fede, ha interiorizzato un pensiero del tutto fuorviante. Secondo questa logica, quando un paese presenta un debito pubblico – dunque la normalità in un’economia moderna – dovrebbe assumere il comportamento di una brava e accorta casalinga: stringere la cinghia e tagliare le spese familiari. Così, come una donna morigerata risparmierà sul cibo, sul vestiario e, in condizioni di estrema ratio, alle cure sanitarie per sé, per il coniuge e per i figli, così lo Stato dovrebbe seguire il suo virtuoso esempio.

  • Corbyn e Mélenchon, prove tecniche di socialismo europeo

    Scritto il 03/10/18 • nella Categoria: segnalazioni • (8)

    Nazionalizzare le ferrovie privatizzate, restituire allo Stato il settore energetico e le Poste. Patrimoniale selettiva: tasse sugli “immobili secondari” per finanziare gli alloggi per i senza-casa. E inoltre, l’obbligo per le imprese con più di 250 impiegati di riservare ai dipendenti un terzo dei seggi nei consigli di amministrazione. Sono i caposaldi del nuovo, possibile “socialismo europeo” secondo l’inglese Jeremy Corbyn e il francese Jean-Luc Mélenchon, accorso a Liverpool per il grande festival politico “The World Transformed”, con migliaia di partecipanti. «In Gran Bretagna c’è sete di un diverso tipo di politica e di una nuova società, che strappi il potere all’establishment e lo metta nelle mani dei più», dice uno degli organizzatori, Fergal O’Dwyer. Per Angus Satow, il leader laburista e quello di “France Insoumise” rappresentano «la sinistra che si impadronisce del futuro». Un dirigente laburista come David Broder immagina la creazione di un vasto think-tank con partiti e movimenti della sinistra di tutto il mondo. Certo, annota Giacomo Marchetti su “Contropiano”, Corbyn e Mélenchon non sono esattamente giovanotti: ma, pur veleggiando verso i settanta, hanno entrambi hanno avuto un discreto successo tra i giovani, proprio il loro omologo statunitense Bernie Sanders, rendendo i “millenials” nuovamente protagonisti della politica.
    Aditya Chakrabortty, sul “Guardian”, domanda se qualcuno ha notato che il Labour ha appena dichiarato la “guerra di classe”, dopo che per decenni si è consentito al neoliberismo di fare quello che voleva. Nel 2015, il capo-economista della Bank of England, Andy Haldane, ha tracciato ciò che è accaduto al reddito nazionale dei lavoratori nel lungo periodo. E ha scoperto che il lavoro ha avuto fette sempre più piccole della torta: dal 70% negli anni ’70 al 55% di oggi. Secondo i suoi calcoli, «gli impiegati ottengono proporzionalmente meno ora di quanto ottenevano all’inizio della rivoluzione industriale, negli anni ‘70 del Settecento». Ovvero: «Se i salari degli operai fossero stati mantenuti in linea con l’aumento della loro produttività dal 1990, il lavoratore medio sarebbe oggi più ricco del 20%». Osserva Marchetti su “Contropiano”: «Non stupisce che, nel paese che in Europa, per primo, ha conosciuto l’applicazione delle ricette liberiste grazie alla Thatcher, e lo svuotamento tra le file laburiste di ogni istanza progressista con la parabola del “New Labour” di Tony Blair, abbia votato prima per uscire dalla Ue e poi per il Labour di Corbyn, che ora è “testa a testa” nei sondaggi con il 35% delle preferenze di voto e una non escludibile ipotesi di elezione anticipata a novembre».
    Tornando alla “strana coppia” formata da Corbyn e Mélenchon, continua Marchetti, «entrambi sono due “pellacce” che vengono da esperienze “di minoranza” nei propri ranghi, ma non hanno smesso di perseguire una politica “radicale” divenuta sempre più mainstream nei rispettivi paesi». Tra loro si parlano in spagnolo, data la comune passione per le lotte dei popoli latino-americani. «Entrambi sono stati oggetto, e lo sono tuttora, del linciaggio mediatico da parte dei media internazionali, cioè dei grandi gruppi della comunicazione che dominano il mercato: il partito unico dell’informazione e le sue propaggini nella sinistra “liberal”». Le solite trappole: «Le critiche alla politica israeliana da parte di Corbyn gli sono costate le accuse di antisemitismo, piattamente riprese anche dalla stampa nostrana». E al di là della Manica, un’identica “macchina del fango” si è attivata nella campagna elettorale per le ultime presidenziali francesi, man mano che Mélenchon cresceva nei sondaggi: più aumentava il numero di seguaci, specie giovani, e più crescevano «il “bashing” mediatico e le narrazioni tossiche», cosa che peraltro è avvenuta anche con Corbyn, «le cui copertine dedicategli in fase elettorale da alcuni tabloid rimangono un capolavoro di “fake news” da ammannire al popolo». Ora tutto è cambiato: Corbyn è quotato alla pari con i conservatori, mentre Mélenchon è il leader più popolare in Francia, dove Macron è crollato sotto il 20%.

    Nazionalizzare le ferrovie privatizzate, restituire allo Stato il settore energetico e le Poste. Patrimoniale selettiva: tasse sugli “immobili secondari” per finanziare gli alloggi per i senza-casa. E inoltre, l’obbligo per le imprese con più di 250 impiegati di riservare ai dipendenti un terzo dei seggi nei consigli di amministrazione. Sono i caposaldi del nuovo, possibile “socialismo europeo” secondo l’inglese Jeremy Corbyn e il francese Jean-Luc Mélenchon, accorso a Liverpool per il grande festival politico “The World Transformed”, con migliaia di partecipanti. «In Gran Bretagna c’è sete di un diverso tipo di politica e di una nuova società, che strappi il potere all’establishment e lo metta nelle mani dei più», dice uno degli organizzatori, Fergal O’Dwyer. Per Angus Satow, il leader laburista e quello de “La France Insoumise” rappresentano «la sinistra che si impadronisce del futuro». Un dirigente laburista come David Broder immagina la creazione di un vasto think-tank con partiti e movimenti della sinistra di tutto il mondo. Certo, annota Giacomo Marchetti su “Contropiano”, Corbyn e Mélenchon non sono esattamente giovanotti: ma, pur veleggiando verso i settanta, hanno entrambi hanno avuto un discreto successo tra i giovani, proprio il loro omologo statunitense Bernie Sanders, rendendo i “millenials” nuovamente protagonisti della politica.

  • Si è spento Crozza (il comico, non Maurizio). Lo rivedremo?

    Scritto il 29/9/18 • nella Categoria: Recensioni • (12)

    Una delle cose più tristi a cui possa capitare di assistere è la morte, artistica, di un grande comico. Maurizio Crozza lo è stato per anni, pennellando deliziose caricature sulle maschere del potere, dal vanesio Renzi iper-dentuto al micidiale avatar DiMa.Ios, docile ventriloquo dell’infido e spregiudicato burattinaio Beppe Grillo. Minniti e Briatore, De Luca e Berlusconi, gli imbarazzanti “gnomi” leghisti, il cannibale Feltri. Sembrava alzare progressivamente l’asticella, il nazionalpopolare e intelligente Crozza, fino al giorno cui osò l’inosabile: all’indomani del massacro francese del Bataclan, 13 novembre 2015 (venerdì 13, anniversario del martirio dei Templari), il super-guitto genovese mise in scena una rappresentazione intensamente drammatica, inoltrandosi nel grottesco – dalle parti del teatro brechtiano – alludendo (temerariamente) a una regia “domestica” del terrorismo targato Isis, orchestrato da “men in black” come l’inquietante, cinico manager della fantomatica “InCool8”, vera e propria multinazione dell’orrore. Quella fu l’ultima volta in cui Maurizio Crozza, sui teleschermi, andò oltre il collaudato, gustosissimo cliché della parodia riservata ai piccoli eroi quotidiani del mainstream nazionale, politico e mediatico. Ma per scendere sotto il minimo sindacale c’è voluto il maledetto, temutissimo governo gialloverde.
    La puntata di “Fratelli di Crozza” andata in onda il 28 settembre su “La9” lascia addosso un senso di sgomento, quasi di lutto, per la perdita – irrimediabile? – di una voce critica a cui il pubblico s’era ormai abiutato. Quando si trasforma in pedestre propagandista del pensiero unico, tanto per cominciare, un comico non fa più ridere. Se poi insiste, per tutta la puntata, a prendere di mira solo il governo in carica, chiunque capisce che c’è qualcosa di profondamente stonato, nella sua perfomance. La satira, si sa, è efficace quando spara cannonate contro il potere. E solo un cieco, oggi, potrebbe non vedere che il potere – quello vero – non siede a Palazzo Chigi o nei ministeri, ma sta altrove: è nei giornali e nelle televisioni, alla Banca d’Italia, al Quirinale, alla Bce, nel direttivo di Confindustria, negli uffici della Commissione Europea e nei santuari della Borsa. E’ un assedio impressionante, quello che sta subendo il governo Conte: non si era mai visto un tale accanimento contro un esecutivo nazionale (ottimo, pessimo o mediocre che fosse). Va da sé: tanto zelo, nel contrastarlo, induce a sospettare che il governo in carica, comunque lo si valuti, stia creando effettivamente problemi all’establishment, all’oligarchia del denaro che – ormai l’hanno capito anche i sassi – tiene in ostaggio intere nazioni. Possibile che il brillante Maurizio Crozza non ne tenga conto? Ebbene, sì.
    Nel fatale autunno 2018, non pago di presentarsi al suo pubblico ormai nelle malinconiche vesti di ex comico, Crozza sale in cattedra come un Mario Monti qualsiasi, tentando di spacciare per verità di fede – alla platea – l’incresciosa storiella neoliberista dello Stato equiparato alla famiglia: che imperdonabile imprudenza, fare debiti, se poi i soldi bisogna restituirli. Ha mai sentito parlare di sovranità monetaria, Crozza? E’ convinto che Mario Draghi disponga di appena 100 soldi, finiti i quali resterebbe in bolletta? Si è mai chiesto, Crozza – feroce, col ministro Toninelli alle prese con la grana del viadotto Morandi – come fece, l’Italia, a costruire quel viadotto genovese? Crede che il governo dell’epoca abbia usato i risparmi della nonna saggiamente accantonati sotto il materasso? E poi: non si rende conto, Crozza, che il 70% degli italiani lo sostiene, questo precario governo che denuncia l’impostura dell’austerity? Non riesce a spiegarselo, il perché? Non sospetta che, forse, gli italiani abbiano fiutato il grosso imbroglio con il quale sono stati raggirati per decenni, dai cantori del rigore altrui? Tutto questo accade mentre un altro mattatore del piccolo schermo, Fazio Fabio, ospita stabilmente l’oligarca Carlo Cottarelli, presentandolo come neutrale scienziato dell’economia. La differenza? Cottarelli e Fazio non faranno ridere, ma almeno non sono accreditati come comici. Maurizio Crozza, invece, a far ridere non ci prova neppure più.

    Una delle cose più tristi a cui possa capitare di assistere è la morte, artistica, di un grande comico. Maurizio Crozza lo è stato per anni, pennellando deliziose caricature sulle maschere del potere, dal vanesio Renzi iper-dentuto al micidiale avatar DiMa.Ios, docile ventriloquo dell’infido e spregiudicato burattinaio Beppe Grillo. Minniti e Briatore, De Luca e Berlusconi, gli imbarazzanti “gnomi” leghisti, il cannibale Feltri. Sembrava alzare progressivamente l’asticella, il nazionalpopolare e intelligente Crozza, fino al giorno in cui osò l’inosabile: all’indomani del massacro francese del Bataclan, 13 novembre 2015 (venerdì 13, anniversario del martirio dei Templari), il super-guitto genovese mise in scena una rappresentazione intensamente drammatica, inoltrandosi nel grottesco – dalle parti del teatro brechtiano – alludendo (temerariamente) a una regia “domestica” del terrorismo targato Isis, orchestrato da “men in black” come l’inquietante, cinico manager della fantomatica “InCool8”, vera e propria multinazione dell’orrore. Quella fu l’ultima volta in cui Maurizio Crozza, sui teleschermi, andò oltre il collaudato, gustosissimo cliché della parodia riservata ai piccoli eroi quotidiani del mainstream nazionale, politico e mediatico. Ma per scendere sotto il minimo sindacale c’è voluto il maledetto, temutissimo governo gialloverde.

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