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Archivio del Tag ‘pensiero’

  • Carpeoro: attenti alla magia, il potere la usa contro di noi

    Scritto il 12/4/15 • nella Categoria: idee • (5)

    La “costruzione dell’effetto” è alla base della magia. Che cos’è la magia? Era la manipolazione antica. Era il modo di manipolare, magari dei sacerdoti egizi, che dovevano “costruire” i miracoli. La magia esiste, ma non la faccio io: la fa la mia “costruzione dell’effetto” sul soggetto passivo. E’ il soggetto passivo che attiva il mago: il mago è attivo se c’è un soggetto passivo. Chomsky lo spiega in cinque parolette. A seconda dell’ordine in cui le mettete, ottenete in effetto diverso. Lo vogliamo chiamare effetto di manipolazione? Effetto magico? Miracolo? Chiamiamolo come vogliamo. Le cinque parole sono: astrazione, estrazione, ostruzione, istruzione, distruzione. Il risultato cambia, a seconda dell’ordine in cui queste parole sono disposte. E il risultato finale è la costruzione dell’effetto magico. Chi era il mago? “Magia” viene da un termine sanscrito, “Mg”, che significa “conoscere”: così, “magia” ha la stessa radice di “magister”. Il mago poi diventa il maestro, cioè lo scienziato, perché conosce: costruisce l’effetto perché conosce i termini della produzione dell’effetto, che è l’effetto magico. Ma la magia quando nasce? Nasce quando l’uomo ha bisogno del potere.
    La magia è potere. Perché i grandi Rosacroce e i grandi filosofi hanno studiato la magia ma non l’hanno praticata? Perché non erano interessati al potere, erano interessati all’essere. Quindi, l’effetto magico è una costruzione di potere: serve a far fare a qualcuno quello che voglio io, in base a un percorso che io ho disegnato. Il vero esoterismo, la vera esperienza spirituale, non è un’esperienza di attività, è un’esperienza di complementarietà. Si è complementari al corso delle cose, non le si modifica. Tommaso da Kempis, che era un grande Rosacroce e viene invece spacciato dalla Chiesa cattolica per un insegnante di catechismo nelle scuole, scrive che il vero cristiano insegna con l’esempio, non con la predica. E non è una modalità attiva: non interferisco con quello che fai tu, ti faccio solo vedere quello che faccio io. Perché uno dovrebbe studiare la magia, astenendosi però dal praticarla? La magia è intesa come storia dell’esoterismo, come formazione di un pensiero. Noi siamo abituati a studiare una certa storia, sui libri di scuola, e non ci insegnano che c’è anche una meta-storia, come c’è una fisica e una metafisica.
    C’è una storia fatta di avvenimenti, di date, e c’è una storia fatta di ragionamenti – di pensieri, di mutamenti all’interno del corpo sociale, del costume, della spiritualità delle persone – che porta a dei mutamenti storici. Certo, quella di Hitler è una storia di nazismo, fatta di date. Ma ci sarebbe mai stata, quella storia di nazismo, se non ci fosse stata la storia di un pensiero antecedente, magari dettato da uno scienziato che si chiamava Gobineau, che 60-70 anni prima del nazismo scrisse un libro che si chiama “L’evoluzione delle razze”? Era l’anticamera della discriminazione razziale. Quindi, in realtà, come c’è una storia, c’è anche una meta-storia: quella di chi si occupa di studiare il pensiero, che è l’unica cosa che ci sopravvive, se è valido. Quando Cartesio dice “cogito, ergo sum”, non dice “cogito, ergo sum aeternum”, non ne fa un ragionamento di immortalità, ma di “essere”: io sono, in quanto penso, e non ho bisogno di essere immortale. Perché tutti gli esoteristi che si sono dedicati alla magia – e l’hanno praticata – sono andati incontro a una negatività? Perché la pratica della magia è il perseguimento del potere.
    Io, con la magia, modifico la tua vita, il corso delle cose. Lo modifico. Se invece pratichi l’essere, tu “sei”. Se vogliono imitarti ti imitano, però non imponi dei modelli comportamentali. Uno dei clichè dell’ufologia è quello dei “vigilanti”, degli “osservatori”, personaggi di una cultura superiore che hanno però il divieto di interferire. Si tratta di un archetipo, piuttosto che di uno stereotipo, presente anche nei fumetti. Anche nella Bibbia troviamo dei personaggi che devono osservare ma non intervenire. Se sono veramente di origine divina, non intervengono mai. E ci sono esempi assolutamente simbolici di non-intervento. Le ultime parole di Cristo in croce: Dio, perché mi hai abbandonato? Sono parole da uomo, non da Dio: Cristo muore da uomo. E quelle parole certificano il non-intervento del Dio che fa morire suo figlio. Potrebbe intervenire e impedire questa cosa tremenda, ma non lo fa. Perché il non-intervento è il divino: se dobbiamo concepire una presenza del divino, dobbiamo concepirla in termini di non-intervento. Invece, tutta la nostra cultura religiosa magica ci ha insegnato a chiederlo, l’intervento. Madonna, fammi vincere al Superenalotto. Ci hanno insegnato a chiedere la grazia. Ma la grazia non è una cosa che ti viene data, è un tuo stato: tu sei nella grazia, se scegli l’essere. E non sei nella grazia – il contrario di grazia si chiama disgrazia – se sei nel potere.
    La grazia è una condizione dell’essere, non è una cosa che ti viene concessa perché la chiedi. Mi spiace deludere tutti quei napoletani che si rivolgono alla statua di San Gennaro, ma purtroppo è così. Noi abbiamo immaginato la religione in termini magici, ed è solo in termini magici che andiano a Lourdes, a Medjugorje, aspettandoci di vedere le Madonne piangere, perché quello è un effetto magico. Direte: ma allora, i miracoli? I miracoli sono nelle pieghe di questa vita, sono nascosti; quando sono evidenti non sono miracoli. Il miracolo è il nascosto, la magia è il manifesto. Il nascosto è l’essere, il manifesto è il potere. Il potere non è mai occulto. A nascondersi sono i suoi agenti, che si nascondono per non essere individuati. Ma il potere, in quanto tale, è manifesto per sua autodefinizione. Parlare di poteri occulti è un ossimoro: il solo fatto che se ne parli dimostra che non sono occulti; se fossero occulti non se ne parlerebbe.
    Complottismo e massoneria? Ok. Come si chiama la loggia massonica più vituperata? P2. E perché si chiama P2? E’ la secondogenita, evidentemente. Ma della prima, chi parla? Nessuno. E come mai? Elementare: se c’era una P2, ci sarà stata anche una P1. Eppure i giornali sono arrivati fino alla P5, ma della P1 non parleranno mai. Perché? Nella P2 – o meglio: in quei 500 nomi indicati da Gelli – c’erano tutti “vice”, a livello militare e ministeriale. Vicepresidenti, sottosegretari. Quindi, se nella P2 c’erano i vice, nella P1 cosa c’era? Evidente: i numeri uno. E’ così difficile scriverlo? E allora perché non lo scrive nessuno? Dunque, la manipolazione che cos’è, veramente? E’ la costruzione di un effetto magico. Dato che vi devo sopraffare, devo quindi fare l’astrazione (quindi: togliervi dalla realtà), e devo fare l’estrazione, devo fare l’ostruzione, poi devo fare l’istruzione e infine la distruzione. Sono cinque parolette simpatiche da ricordare. A seconda di come le si mette in ordine, è possibile ricostruire tutti gli eventi del mondo degli ultimi cento anni.
    Tutte le operazioni che sono state fatte sono fondate su queste frasi. Stiamo parlando di magia, di cultura magica. E i grandi maghi non hanno mai operato la magia. Il più grande mago rinascimentale – per definizione non mia, ma di una grande studiosa di Oxford, Frances Yates – era Giordano Bruno. Era un mago: viene chiamato “magus”, ma non operava magie. Il mago dell’epoca si chiamava Geordie, prendeva un insetto di metallo a forma di scarabeo e lo faceva volare. L’insetto volava, c’era la magia. Poi bisogna capire perché volava – la costruzione dell’effetto magico. Il primo atto di magia che ricordiamo è quando Mosè separa le acque. E’ un atto magico, certo. Ma bisogna capire quanto questo atto sia costruito per una situazione gerarchica. E’ il potere, che irrompe nella storia solo quando, nella società nomade, compare la figura dell’uomo modificatore. Chi è il modificatore per eccellenza? Il coltivatore: che ha bisogno di razionalizzare, di stare sempre nello stesso posto, di difendere il territorio o di conquistarlo, quindi nasce la guerra. E ha bisogno di stabilire una gerarchia sociale, col controllo di chi lavora per lui. Quindi nasce la religione.
    Potere, guerra, religione: tutte componenti magiche, perché devono modificare, in base a delle conoscenze, il corso naturale degli eventi. Ecco perché, mentre l’essere è complementarietà, il potere è magia. La magia è finalizzata al potere. I grandi maghi che hanno praticato la magia non hanno fatto un bella fine. Il satanismo promette un potere straordinario, successo, ricchezza. Perché Faust si vende l’anima? Per il potere. Poi si accorge che non se ne fa niente, di quella roba lì. Prendiamo Oscar Wilde, che era un Rosacroce prima che un massone. Wilde costruisce un’intera sua opera, sul simbolismo del potere, “Il ritratto di Dorian Gray”. Quel ritratto è costruito su uno specchio magico: l’immagine allo specchio invecchia e Dorian Gray rimane giovane. E’ il cosiddetto capovolgimento iniziatico. E’ un effetto magico, no? Oscar Wilde dice: la magia ti dà il potere, ma il frutto di questo potere è che Dorian Gray diventa un infelice maligno, che cerca di creare il male.
    Noi però possiamo “essere” il male, se scegliamo il potere, ma non possiamo fare in modo che ogni nostra azione sia solo male. Quindi accade che quella che rimane giovane è la parte peggiore. Così alla fine Dorian Gray rompe lo specchio, invecchia improvvisamente e muore felice, perché distrugge il meccanismo di potere che lo aveva reso prigioniero di uno schema. Che lo schema si chiami eterna bellezza, eterna giovinezza o eterna ricchezza, non importa, non cambiano i termini del discorso, perché quello è il potere: il potere di essere eternamente belli, giovani, ricchi, capaci di influire sulla vita degli altri. E’ una trappola, un “maya” che ti rende infelice. E siccome ogni essere umano ha come prima aspirazione la felicità, per essere felici bisogna ritrovare la propria complementarietà e, appunto, “essere”.
    Io l’ho studiata, la magia, ma come storia del pensiero. E badate, a volte la magia produce anche degli effetti. Ricordo le vecchie del mio paese, che facevano riti per allontanare le malattie. Ma questi effetti sono la costruzione di volontà di potere: non sono mai quegli effetti che noi pensiamo, perché la costruzione dell’effetto magico è sempre un artificio. Qual è il problema? E’ un artificio di cui a volte conosciamo la costruzione, perché siamo in grado di ricostruire tutte le condizioni che l’hanno creato. La natura è dominata dalle sue leggi, ma noi non le conosciamo tutte. A volte si ottengono degli effetti dovuti a leggi che noi non conosciamo, ma che in quel momentio intervengono perché – senza volerlo – ne abbiamo creato le condizioni. Poi magari rifacciamo l’esperiemento, e non riesce. E non ci rendiamo conto che magari non siamo nello stesso posto alla stessa ora, che il magnetismo non è uguale, che magari abbiamo mangiato troppo maiale nei giorni precedenti e quindi il nostro modo di sprigionare energia cambia. Il gesto di riconoscimento dei Rosacroce era un indice rivolto verso l’alto e un indice rivolto verso il basso. E’ lo stesso del Padre Nostro, “come in cielo, così in terra”.
    Negli ultimi secoli, nella storia del pensiero, c’è stata una deriva magica. La magia è sempre una deriva: essendo una scelta di potere, che consiste nel modificare gli altri, la natura, il prossimo, gli ambienti, non può che portare lì. E’ a monte, il problema. Quando tu scegli il potere, e magari non hai ancora fatto niente di male, devi star sicuro che lo farai, perché la conseguenza del potere è quella. Si dice di un Papa: ha fatto questo e quello. Be’, ci sta. Perché dal momento in cui, ad esempio, diventi Papa nel 1963, e rimani Papa fino all’anno 1978, come fai a non parlare con Gelli? Scusate, ci parlavano presidenti della Repubblica, presidenti degli Stati Uniti, pure i cardinali – e tu che fai, non ci parli? Ma questo è legato al fatto che diventi Papa, non al fatto che ti chiami Mario Rossi. Quando i politici fanno determinate cose, sono conseguenti alla loro scelta di vita, che è quella che ti condiziona e ti cambia. Nel momento in cui capisci come la devi gestire, la tua vita, capisci che ti devi sottrarre al gioco del potere.
    L’homo faber è colui che ha creato l’alchimia. La magia ne è l’aspetto deteriore. La trasmutazione dei metalli degli alchimisti veri non riguarda il potere, ma l’essere, tant’è vero che quelli che volevano ottenere l’oro venivano chiamati, volgarmente, “soffiatori”, perché soffiavano nel mantice, mentre l’alchimista spirituale era quello che doveva trasformare il proprio “piombo” in “oro”. L’alchimista vero non insegna nulla agli altri, e scrive testi così ermetici di cui, nella maggior parte dei casi, nessuno ci capisce niente. Perché scrivono, allora? Perché, nel momento in cui capisci qual è la loro chiave, loro te l’hanno trasmessa. Ci sono due modi di trasmettere la conoscenza: uno si chiama iniziazione, l’altro si chiama tradizione. Quando io ti inizio, ti spiego: ti do la scatola e la chiave. Quando invece trasmetto soltanto la scatola, ma non la chiave, ti do lo stesso contenuto, ma tu non sai cosa c’è dentro, quando a tua volta lo trasmetti. E’ come quando si diceva la messa in latino: mia nonna quelle parole le sapeva perfettamente, ma non sapeva cosa significassero.
    I testi alchemici conservano quella conoscenza – per chi si sa procurare le chiavi. Credo che la ricerca della chiave faccia parte di un percorso formativo che è fondamentale. C’è da fare un percorso, che fa parte della formazione iniziatica. Compiere questo percorso è la migliore garanzia per difendersi dalla tentazione della magia. Perché il potere è tentatore. Ti tenta, approfittando delle tue debolezze contestualizzate: approfittando di quando sei povero e offrendoti del denaro, di quando sei solo offrendoti compagnia, di quando hai fame offrendoti del cibo. Perché l’altra componente che il potere ha costruito, rispetto a questa società – e questo non emerge sufficientemente dagli studi sulla manipolazione fatti finora – è l’incapacità dell’accettazione: diventi incapace di accettare quello che dovresti. Mago è chi usa la conoscenza per modificare la realtà, ma noi non dobbiamo modificare la realtà: dobbiamo modificare gli occhi con cui la guardiamo. Se avessimo la percezione della realtà totale, non avremmo bisogno di nulla. Ma al potere fa comodo quel tipo di cultura, quella che aiuta la sottomissione degli altri, la soggezione, la manipolazione. Non gli fa comodo la cultura della libertà.
    La libertà è: non aver bisogno. Se uno ha bisogno, non è libero. Se ho bisogno di conquistare le donne, gli uomini, le macchine, il denaro, il potere, il trono, l’ermellino, lo scettro, il maglietto del massone – se ne ho bisogno, non sarò mai un uomo libero. Per eliminare il bisogno occorre avere la consapevolezza dell’essere – la consapevolezza della nostra divinità, che è nel pensiero. Tutto quello in cui abbiamo creduto ci conduce a perseguire la magia, quindi il potere, invece dell’essere. La nostra storia politica, sociale, umana, è stata danneggiata da interpretazioni magiche, sempre. Tutta la cultura cristiana del miracolo, della retribuzione paradisiaca, ha effetti deleteri perché funzionali al potere: trasformare la religione cristiana in quella di Costantino. Ma Costantino non era cristiano, è stato battezzato solo in punto di morte. Non bisogna confondere la religione con la spiritualità. Io la spiritualità la chiamo religione individuale. Quando la religione è individuale non fa danni; quando diventa collettiva bisognare stare attenti, perché lì succedono i guai. La religione collettiva serve alla società, non all’uomo. Alla nostra società sono serviti i benedettini che hanno copiato (a modo loro) le cose, hanno conservato documenti e opere d’arte. Agli individui invece sarebbe servito, per esempio, non cominciare a combattere i Mori, che ai tempi erano molto più civili di noi: nella Terza Crociata, il “feroce Saladino” firma col suo nome, mentre Riccardo Cuor di Leone ci mette la croce, perché non sa scrivere.
    Quello tra magia, religione e potere è un rapporto drammatico, uno schema che bisogna rompere. Non bisogna praticare la magia, non bisogna praticare la religione come prassi e come struttura. E non bisogna assoggettarsi al potere – né come soggetti passivi, né tantomeno come soggetti attivi. Non vale la regola “se comando io sono il padrone”, perché se comando io sono prigioniero di quelli che comando, senza saperlo. Ovviamente non mi fanno compassione, i potentati del mondo, ma so che sono prigionieri come posso esserlo io. Sono prigionieri di un sistema di privilegi, non importa se goduti o subiti – sempre privilegi sono. Il grande sogno dei Rosacroce del ‘600 si manifesta quando Tommaso Moro scrive “Utopia”, quando Campanella scrive “La città di Dio”, quando Bacone scrive “La nuova Atlantide”, quando Johann Valentin Andreae (che è il rifondatore dei Rosacroce con questo nome) scrive “Cristianopolis”. Di cosa parlano? Di una società che non ha le regole del potere. Ognuno è utile, perché tutti condividono. Società che sarà l’anticamera di cosa? I Rosacroce sono i padri del socialismo, l’utopia di una società giusta.
    Poi il potere si impadronirà del socialismo, cioè dell’abolizione della proprietà privata. E nascerà anche il comunismo: una diagnosi giusta, che però mira a costruire un potere diverso, collettivo e non più individuale, ma sempre potere. Tutti questi passaggi ruotano attorno alla magia. Quella del mago è la figura più antica che possiate immaginare. Possono chiamarlo sciamano, stregone, ma sempre mago rimane. Poi il mago antico si scinde: diventa sacerdote, diventa medico e guaritore, diventa capo del villaggio. Ma in origine è il primo riferimento vero dei primi coltivatori che stanno creando la gerarchia, stanno creando la guerra (perché tutte le guerre nasceranno per il territorio), stanno creando il potere, stanno creando la religione. E nasce tutto dalla magia: nasce dal configurare la conoscenza come potere, e non più come essere. E questo avviene per necessità: perché serve, non perché è giusto; perché è utile a quell’evoluzione sociale, in quel momento. La magia è un archetipo fortissimo, tutti quanti ne siamo affascinati, soggiogati, in qualche modo coinvolti, pur rifiutandola. Dobbiamo averne consapevolezza: gli effetti magici sono storia, sono pensiero, ma non sono fatti – e non sono neanche vita.
    Dobbiamo conoscerla, la magia, per imparare a evitarla. Il cerchio magico tracciato dal mago non è mai reale, ma è efficace: la costruzione dell’effetto magico funziona sulle regole che detta il mago, o che il mago conosce ma non svela. Chomsky ha codificato 10 forme di manipolazione collettiva, ma non si è mai occupato di manipolazione individuale. E sappiate che la manipolazione individuale, nonostante quello che pensano i complottisti, è infinitamente più pericolosa, perché è infinitamente meno riconoscibile. C’è un Chomsky che spiega come funziona la manipolazione collettiva, mentre la manipolazione individuale non l’ha mai codificata nessuno. Sapete quante persone sono state danneggiate seriamente da gente che le ha manipolate? Massoni, esoteristi, maghi, Golden Dawn, stregoni da strapazzo, gente che voleva fare le orge. Sapete quanta gente finisce a farsi di pasticche, o in manicomio, o a pensare di essere posseduta dal demonio? Avete idea dei danni della manipolazione individuale? Contate le casistiche, andate nei reparti psicologici degli ospedali e scoprite quante persone sono finite in terapia.
    (Gianfranco Carpeoro, estratti dell’intervento alla conferenza su magia e manipolazione il 23-24 agosto 2014 a Subiaco. Massone, ex avvocato, giornalista e saggista, studioso di esoterismo e già “gran maestro” del Rito Scozzese, Carpeoro è uno dei massimi esperti di simbologia ermetica).

    La “costruzione dell’effetto” è alla base della magia. Che cos’è la magia? Era la manipolazione antica. Era il modo di manipolare, magari dei sacerdoti egizi, che dovevano “costruire” i miracoli. La magia esiste, ma non la faccio io: la fa la mia “costruzione dell’effetto” sul soggetto passivo. E’ il soggetto passivo che attiva il mago: il mago è attivo se c’è un soggetto passivo. Chomsky lo spiega in cinque parolette. A seconda dell’ordine in cui le mettete, ottenete un effetto diverso. Lo vogliamo chiamare effetto di manipolazione? Effetto magico? Miracolo? Chiamiamolo come vogliamo. Le cinque parole sono: astrazione, estrazione, ostruzione, istruzione, distruzione. Il risultato cambia, a seconda dell’ordine in cui queste parole sono disposte. E il risultato finale è la costruzione dell’effetto magico. Chi era il mago? “Magia” viene da un termine sanscrito, “Mg”, che significa “conoscere”: così, “magia” ha la stessa radice di “magister”. Il mago poi diventa il maestro, cioè lo scienziato, perché conosce: costruisce l’effetto perché conosce i termini della produzione dell’effetto, che è l’effetto magico. Ma la magia quando nasce? Nasce quando l’uomo ha bisogno del potere.

  • Occidente incerto, come la gallina con la zampa sollevata

    Scritto il 08/4/15 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Come l’osservazione insegna, le galline, sono fortemente indecise sulla direzione da prendere o sul da farsi, restano immobili, come in ipnosi, con una zampa alzata. E in questa posizione possono restare anche per molti minuti. A volte questa situazione è prodotta da improvvisi lampi che stordiscono l’animale, inducendolo ad una sorta di stato di trance, tanto più prolungato quanto più i lampi si ripetono. Forse questo esempio ci fa capire che sta succedendo ai piani alti del sistema occidentale. I decisori (statisti, finanzieri, militari) sono entrati nella globalizzazione a bandiere spiegate e a passo di carica, convinti che avrebbero facilmente travolto ogni ostacolo e tali sono rimati sino al 2007-2008, quando è iniziata la nuova “grande crisi”. Il 2008 è stato l’anno di svolta, quando la crisi è stata conclamata in contemporanea alle Olimpiadi di Pechino e alla crisi georgiana. Le prime annunciarono al mondo che la Cina era venti anni più avanti sulle previsioni e si avviava a diventare in brevissimo tempo la seconda grande potenza mondiale; la crisi georgiana con il mancato intervento americano ed europeo, su cui Saakasvili contava, ha segnalato un ritorno tacito di zone d’influenza nelle quali gli Usa non entrano.
    Le tre cose insieme segnalarono il tramonto dell’ordine mondiale monopolare che, con la caduta dell’Urss, si era immaginato dovesse imporsi per un’intera epoca storica. In questo contesto Obama era eletto come primo presidente dell’epoca post-monopolare. Da quel momento i “decisori” occidentali (tanto in sede politica quanto in sede finanziaria) hanno iniziato ad essere via via meno sicuri. Prima hanno cercato di negare la crisi, dopo l’hanno data per destinata a risolversi in breve, dopo hanno cercato di trattare i diversi casi finanziari e politici come se si trattasse di fenomeni separati e non interdipendenti. Gli sviluppi successivi (seconda caduta della crisi nel 2011-12, primavere arabe, guerra di Libia, ritiro americano da Afghanistan e Iraq, ondata “populista” in Europa, crisi del Califfato) sono stati alti lampi che hanno ulteriormente “accecato” i decisori, riducendone molto l’effettiva operatività: di fatto, di fronte alla crisi finanziaria, l’unica decisione che sono stati capaci di assumere sono state le continue iniezioni di liquidità, mentre nessuno dei tentativi di riforma del settore è andata a buon fine.
    In questa paralisi dell’azione dei decisori pesa grandemente l’incapacità degli intellettuali di reagire sviluppando una critica adeguata al sistema. Ma pesano anche altri fattori, come l’autoinganno ideologico del pensiero neoliberista. La scelta fatta trenta anni fa è stata quella di delegittimare ogni altro pensiero economico, che non fosse quello neoclassico, ed ogni pensiero politico che non fosse quello liberal-conservatore. Nel tritacarne sono finiti non solo i marxisti ma anche i keynesiani, i cattolico-sociali, i socialdemocratici e persino i liberali di sinistra o, comunque, non conservatori. La manovra è a lungo riuscita, ma oggi la cultura politica ed economica dell’Occidente si è enormemente impoverita e non c’è una classe politica di ricambio (come abbiamo detto in un pezzo precedente), come sempre accade quando tace il dibattito politico e culturale. Oggi ne paghiamo tutti il prezzo con una classe di decisori politici e finanziari che non sanno dove andare e restano a guardare immobili con la zampa alzata.
    (Aldo Giannuli, “Shock da globalizzazione, la sindrome della gallina con la zampa alzata”, dal blog di Giannuli del 1° aprile 2015).

    Come l’osservazione insegna, le galline, sono fortemente indecise sulla direzione da prendere o sul da farsi, restano immobili, come in ipnosi, con una zampa alzata. E in questa posizione possono restare anche per molti minuti. A volte questa situazione è prodotta da improvvisi lampi che stordiscono l’animale, inducendolo ad una sorta di stato di trance, tanto più prolungato quanto più i lampi si ripetono. Forse questo esempio ci fa capire che sta succedendo ai piani alti del sistema occidentale. I decisori (statisti, finanzieri, militari) sono entrati nella globalizzazione a bandiere spiegate e a passo di carica, convinti che avrebbero facilmente travolto ogni ostacolo e tali sono rimati sino al 2007-2008, quando è iniziata la nuova “grande crisi”. Il 2008 è stato l’anno di svolta, quando la crisi è stata conclamata in contemporanea alle Olimpiadi di Pechino e alla crisi georgiana. Le prime annunciarono al mondo che la Cina era venti anni più avanti sulle previsioni e si avviava a diventare in brevissimo tempo la seconda grande potenza mondiale; la crisi georgiana con il mancato intervento americano ed europeo, su cui Saakasvili contava, ha segnalato un ritorno tacito di zone d’influenza nelle quali gli Usa non entrano.

  • L’euro sarà la vostra tomba, parola di Godley (era il 1992)

    Scritto il 28/3/15 • nella Categoria: idee • (3)

    Molte persone in tutta Europa hanno improvvisamente realizzato di non sapere quasi nulla sul Trattato di Maastricht, mentre giustamente si rendono conto che questo trattato può fare una grande differenza nella loro vita. La loro legittima ansia ha portato Jacques Delors a dare l’indicazione che il punto di vista della gente comune in futuro dovrebbe essere consultato con più attenzione. Avrebbe potuto pensarci prima. Anche se sono favorevole a procedere verso un’integrazione politica in Europa, credo che il progetto di Maastricht presenti gravi carenze, e anche che il dibattito pubblico su di esso sia stato stranamente povero. Con un rifiuto danese, con la Francia che ci è andata vicino, e con l’esistenza stessa dello Sme messa in discussione dopo i saccheggi da parte dei mercati valutari, questo è un buon momento per fare il punto. L’idea centrale del Trattato di Maastricht è che i paesi della Ce dovrebbero muoversi verso una unione economica e monetaria, con una moneta unica gestita da una banca centrale indipendente. Ma come deve essere gestito il resto della politica economica?
    Dato che il trattato non propone nessuna nuova istituzione oltre alla banca europea, i suoi sponsor devono supporre che non sia necessario nient’altro. Ma questo potrebbe essere corretto solo se le economie moderne fossero dei sistemi che si auto-regolano e che non hanno nessun bisogno di essere gestite. Sono giunto alla conclusione che una tale visione – che le economie siano organismi capaci di auto-regolazione che mai in nessun caso necessitano di una qualche forma di gestione – ha di fatto determinato il modo in cui il Trattato di Maastricht è stato costruito. Si tratta di una versione rozza ed estrema di quel punto di vista che da qualche tempo incarna la saggezza convenzionale dell’Europa (anche se non quella degli Stati Uniti o del Giappone), secondo la quale i governi sono incapaci di perseguire gli obiettivi tradizionali della politica economica, come la crescita e la piena occupazione, e quindi non dovrebbero nemmeno provarci. Tutto ciò che si può legittimamente fare, secondo questo punto di vista, è controllare l’offerta di moneta e tenere il bilancio in pareggio.
    C’è voluto un gruppo composto in gran parte di banchieri (il Comitato Delors) per giungere alla conclusione che una banca centrale indipendente sia l’unica istituzione sovranazionale necessaria a governare un’Europa integrata e sovranazionale. Ma c’è anche molto di più. Bisogna sottolineare sin dall’inizio che la creazione di una moneta unica nella Ce è veramente destinata a segnare la fine della sovranità delle nazioni che la compongono e del loro potere di agire in modo indipendente sulle grandi questioni. Come ha sostenuto in modo molto convincente Tim Congdon, il potere di emettere la propria moneta, e di intervenire tramite la propria banca centrale, è il fatto principale che definisce l’indipendenza di una nazione. Se un paese rinuncia a questo potere, o lo perde, acquisisce lo status di ente locale o di colonia. Le autorità locali e le regioni ovviamente non possono svalutare. Ma perdono anche il potere di finanziare i deficit con emissione di moneta, e gli altri metodi per ottenere finanziamenti sono soggetti a regolamentazione da parte dell’autorità centrale. Né possono modificare i tassi di interesse.
    Dato che le autorità locali non possiedono nessuno degli strumenti di politica macroeconomica, la loro scelta politica è limitata alle questioni relativamente minori – un po’ più di istruzione qui, un po’ meno di infrastrutture là. Penso che quando Jacques Delors enfatizza la novità del principio di ‘sussidiarietà’, in realtà ci sta solo dicendo che saremo autorizzati a prendere decisioni su un maggior numero di questioni relativamente poco importanti rispetto a quanto potevamo supporre in precedenza. Forse ci permetterà di avere i cetrioli ricurvi, dopo tutto. Veramente un grande affare! Permettetemi di esprimere un punto di vista diverso. Credo che il governo centrale di qualsiasi Stato sovrano dovrebbe impegnarsi con continuità per determinare il livello generale ottimale di servizi pubblici, l’imposizione fiscale complessiva più corretta, la corretta allocazione delle spese tra obiettivi concorrenti e la equa ripartizione della pressione fiscale. Il governo deve anche determinare in che misura qualsiasi disavanzo tra spesa e tassazione debba esser finanziato da un intervento della banca centrale e quanto debba essere finanziato dal prestito pubblico e a quali condizioni.
    Il modo in cui i governi decidono tutte queste questioni (e alcune altre), e la qualità della loro leadership, in interazione con le decisioni degli individui, delle imprese e del settore estero, determinerà cose come i tassi di interesse, il tasso di cambio, il tasso di inflazione, il tasso di crescita e il tasso di disoccupazione. Questo influenzerà anche profondamente la distribuzione del reddito e della ricchezza, non solo tra gli individui ma tra intere regioni, fornendo assistenza, si spera, alle persone colpite dai cambiamenti strutturali. Non si può semplificare troppo sull’utilizzo di questi strumenti, con tutte le loro interdipendenze, volti a promuovere il benessere di una nazione e a proteggerla al meglio possibile dagli shock di varia natura a cui inevitabilmente può andare soggetta. Non vuol dire molto, per esempio, dire che i bilanci dovrebbero essere sempre in pareggio, nel momento in cui un bilancio in pareggio con spesa e tassazione entrambe al 40% del Pil avrebbe un impatto completamente diverso (e molto più espansivo) di un bilancio in pareggio al 10%.
    Per immaginare la complessità e l’importanza delle decisioni macro-economiche di un governo, basta solo chiedersi quale sarebbe la risposta adeguata, in termini di politica di bilancio, monetaria e valutaria, per un paese che produce grandi quantità di petrolio, ad un aumento del prezzo del petrolio di quattro volte. Sarebbe giusto non fare niente? E non si dovrebbe mai dimenticare che in periodi di fortissima crisi, può anche essere appropriato per un governo centrale peccare contro lo Spirito Santo di tutte le banche centrali e invocare la ‘tassa da inflazione’ – appropriandosi deliberatamente delle risorse e riducendo, attraverso l’inflazione, il valore reale della ricchezza di carta di una nazione. Dopo tutto, era proprio mediante la tassa da inflazione proposta da Keynes che avremmo dovuto fare i pagamenti di guerra. Enumero tutti questi argomenti non per suggerire che la sovranità non dovrebbe essere ceduta per la nobile causa dell’integrazione europea, ma che se i singoli governi rinunciano a tutte queste funzioni, semplicemente queste devono essere assunte da qualche altra autorità.
    La lacuna incredibile nel programma di Maastricht è che, mentre contiene un progetto per l’istituzione e il modus operandi di una banca centrale indipendente, non esiste nessun progetto per l’analogo, in termini comunitari, di un governo centrale. Eppure dovrebbe semplicemente esistere un sistema di istituzioni che svolgano a livello comunitario tutte quelle funzioni che sono attualmente esercitate dai governi dei singoli paesi membri. La contropartita per rinunciare alla sovranità dovrebbe essere che i paesi membri siano costituiti in federazione, a cui sia affidata la loro sovranità. E il sistema federale, o il governo, come sarebbe meglio chiamarlo, dovrebbe esercitare nei confronti dei suoi membri e del mondo esterno tutte quelle funzioni che ho brevemente descritto sopra. Consideriamo due esempi significativi di ciò che un governo federale, che amministra un bilancio federale, dovrebbe fare. I paesi europei sono attualmente bloccati in una grave recessione. Allo stato attuale, dato che anche le economie degli Stati Uniti e del Giappone sono deboli, non è affatto chiaro quando si potrà avere una ripresa significativa.
    Le implicazioni politiche di questa situazione stanno diventando spaventose. Eppure l’interdipendenza delle economie europee è già così forte che nessun singolo paese, con l’eccezione teorica della Germania, si sente in grado di perseguire politiche espansive per conto suo, perché ogni paese che cercasse di espandersi per proprio conto incontrerebbe presto un vincolo della bilancia dei pagamenti. La situazione attuale richiede con forza una reflazione coordinata, ma non esistono né le istituzioni né un quadro di pensiero condiviso che potranno condurre a questo desiderabile risultato, che sarebbe di per sé ovvio. Si dovrebbe riconoscere con franchezza che se la depressione dovesse volgere seriamente al peggio – per esempio, se il tasso di disoccupazione dovesse attestarsi in modo permanente intorno al 20-25%, come negli anni Trenta – i singoli paesi prima o poi eserciterebbero il loro diritto sovrano di dichiarare che il movimento di integrazione nel suo insieme è stato un disastro e ritornare al controllo dei cambi e al protezionismo – a un’economia da stato d’assedio, se volete. Ciò equivarrebbe a una riedizione del periodo tra le due guerre.
    In un’unione economica e monetaria in cui il potere di agire in maniera indipendente venisse effettivamente abolito, una reflazione ‘coordinata’ come quella che adesso sarebbe così urgente e necessaria potrebbe essere intrapresa solo da un governo federale europeo. Senza un’istituzione del genere, la Uem impedirebbe azioni efficaci da parte dei singoli paesi, senza sostituirle con alcunché. Un altro ruolo importante che qualsiasi governo centrale deve svolgere è quello di garantire una rete di sicurezza sui livelli di sussistenza delle regioni che ne fanno parte, che siano in crisi per ragioni strutturali – a causa del declino di alcune industrie, per esempio, o a causa di alcuni cambiamenti demografici economicamente sfavorevoli. Attualmente questo accade nel corso naturale degli eventi, senza che nessuno in realtà ne accorga, perché gli standard comuni dei finanziamenti pubblici (ad esempio, la salute, l’istruzione, le pensioni e le indennità di disoccupazione) e un sistema fiscale comune (auspicabilmente, progressivo) sono entrambi istituiti in via generale su tutte le singole regioni.
    Di conseguenza, se un settore soffre un grado insolito di declino strutturale, il sistema fiscale genera automaticamente i trasferimenti netti in suo favore. In extremis, una regione che non potesse produrre nulla, non morirebbe di fame perché sarebbe titolare di pensioni, indennità di disoccupazione e reddito dei dipendenti pubblici. Che cosa succede se un intero paese – una potenziale ‘regione’ di una comunità completamente integrata – subisce una battuta d’arresto strutturale? Finché si tratta di uno Stato sovrano, può svalutare la sua moneta. Può quindi commerciare con successo al livello di pieno impiego, a patto che il popolo accetti i necessari tagli dei redditi reali. Con l’unione economica e monetaria, questa strada è ovviamente sbarrata, e la sua prospettiva è veramente grave, a meno che un bilancio federale non adempia a una funzione redistributiva. Come è stato chiaramente riconosciuto nella relazione MacDougall, pubblicata nel 1977, per rinunciare all’opzione della svalutazione ci deve essere una contropartita in termini di redistribuzione fiscale.
    Alcuni autori (come Samuel Brittan e Sir Douglas Hague) hanno seriamente sostenuto che l’Uem, abolendo il problema della bilancia dei dei pagamenti nella sua forma attuale, in realtà abolirebbe il problema, laddove esso esista, di un persistente fallimento nella competizione sui mercati mondiali. Ma, come sottolineato dal professor Martin Feldstein in un suo importante articolo sull’Economist (13 giugno), questo argomento è pericolosamente errato. Se un paese o una regione non ha il potere di svalutare, e se non è beneficiario di un sistema di perequazione fiscale, allora non c’è nulla che possa impedirgli di subire un processo di irrimediabile tracollo che porterà, alla fine, all’emigrazione come unica alternativa alla povertà o alla fame. Sono solidale con la posizione di coloro (come Margaret Thatcher), che, di fronte alla perdita di sovranità, desiderano scendere all’istante dal treno della Uem. Sono solidale anche con coloro che perseguono l’integrazione nel quadro giuridico di una sorta di costituzione federale, che disponga di un bilancio federale molto più grande del bilancio comunitario. Quello che trovo assolutamente sconcertante è la posizione di coloro che stanno puntando all’unione economica e monetaria, senza la creazione di nuove istituzioni politiche (a parte una nuova banca centrale), e che alzano le mani con orrore alle parole ‘federale’ o ‘federalismo’. Questa è la posizione attualmente adottata dal governo e dalla maggior parte di coloro che prendono parte al pubblico dibattito.
    (Wynne Godley, “Su Maastricht e tutto il resto”, profetico intervento apparso sulla “London Review of Book” nel lontano 1992, l’8 marzo, ora riproposto dal blog “Vox Populi”. Economista e autore di svariati saggi, Godley è stato consulente del Tesoro britannico, poi docente del King’s College e direttore di dipartimento all’Università di Cambridge).

    Molte persone in tutta Europa hanno improvvisamente realizzato di non sapere quasi nulla sul Trattato di Maastricht, mentre giustamente si rendono conto che questo trattato può fare una grande differenza nella loro vita. La loro legittima ansia ha portato Jacques Delors a dare l’indicazione che il punto di vista della gente comune in futuro dovrebbe essere consultato con più attenzione. Avrebbe potuto pensarci prima. Anche se sono favorevole a procedere verso un’integrazione politica in Europa, credo che il progetto di Maastricht presenti gravi carenze, e anche che il dibattito pubblico su di esso sia stato stranamente povero. Con un rifiuto danese, con la Francia che ci è andata vicino, e con l’esistenza stessa dello Sme messa in discussione dopo i saccheggi da parte dei mercati valutari, questo è un buon momento per fare il punto. L’idea centrale del Trattato di Maastricht è che i paesi della Ce dovrebbero muoversi verso una unione economica e monetaria, con una moneta unica gestita da una banca centrale indipendente. Ma come deve essere gestito il resto della politica economica?

  • Neghiamo la verità, ci fa paura: è così che ci estingueremo

    Scritto il 08/3/15 • nella Categoria: idee • (9)

    Abbiamo così paura della verità che stiamo per autodistruggerci: evitiamo di guardare in faccia il conto alla rovescia della catastrofe climatica, quindi rimandiamo ogni soluzione e ci consegniamo alla fine. Secondo gli scienziati più pessimisti, l’estinzione dell’umanità potrebbe essere vicinissima, addirittura fra 15 anni, nel 2030. «E’ opinione diffusa oggi che stiamo per vivere la sesta grande estinzione di massa nella storia del pianeta», avverte Robert Burrowes. «L’ultima è avvenuta 65 milioni di anni fa, quando scomparvero i dinosauri». Oggi? «Stiamo perdendo la biodiversità a un ritmo simile ad allora. Ma questa estinzione la stiamo causando noi stessi. E noi ne saremo una delle vittime. L’unico dubbio è quando avverrà esattamente. E questo dubbio – aggiunge Burrowes – è fondato sulla presunzione non dichiarata, e fortemente discutibile, che possiamo continuare ad evitare una guerra nucleare». A indicare il termine ravvicinatissimo del 2030 è uno scienziato come Guy McPherson, che parla di «crisi del clima ed estinzione umana a breve termine». La “tempesta perfetta” di attacchi ambientali che stiamo attualmente infliggendo al clima del pianeta «sono già molto oltre quello che la Terra possa sopportare e assorbire».

  • Estorsioni e bugie, perché la Germania non cambia mai

    Scritto il 04/3/15 • nella Categoria: idee • (1)

    Spezzare le reni alla Grecia per mettere in chiaro le cose: chi comanda non avrà pietà di nessuno. Il lupo perde il pelo ma non il vizio. Si chiama: capitalismo tedesco. Mordeva l’Europa già prima di Hitler, è deflagrato nella Seconda Guerra Mondiale e ora ha ripreso a correre, col Quarto Reich dei poteri forti che manovrano la loro figurina politica, Angela Merkel. I regimi cambiano, ma le linee geopolitiche di fondo restano le stesse: «La tracotanza delle classi dominanti tedesche al tavolo negoziale di Bruxelles sulla questione greca non si spiega solo ricorrendo alle origini luterane della loro cultura», sostiene Moreno Pasquinelli. «Si può comprendere piuttosto alla luce delle costanti della politica di potenza tedesca». Sono evidenti le medesime tendenze espansionistiche, attraverso i secoli:
    da Federico II il Grande alla cancelliera Merkel, passando prima per Bismarck e poi per Hitler. «Com’è ovvio nessun regime confessa i suoi appetiti, tanto più se sono imperialistici». La verità, quindi, esplode solo con la guerra: allora, «ciò che è latente si disvela e viene alla luce». E riecco dunque la vecchia Germania, col suo pericoloso suprematismo mercantilista: sottomettere economie per conquistare mercati.
    Da Bismarck in poi, «l’espansionismo militare germanico ha sempre fatto seguito a una strategia economica mercantilistica». Oggi l’ordine dei fattori sembra invertito, ma il risultato (disastroso per l’Europa) è lo stesso, scrive Pasquinelli su “Sollevazione”. Attenzione: se una potenza imperialistica viene contrastata e i suoi mercati di sbocco tendono a sfuggirle, prima o poi sviluppa la sua potenza bellica. «La posizione punitiva e oltranzista di Berlino verso la Grecia non dev’essere fraintesa», perché – oggi come ieri – non è certo il Mediterraneo «il boccone succulento che brama davvero l’imperialismo tedesco», ma «le praterie euroasiatiche, Russia in primis – e di cui Polonia, baltici e Ucraina sono solo dei ponti». Per lanciarsi ad Est, proprio come il Terzo Reich ieri, anche oggi «Berlino non avere nemici né ad Ovest né a Sud». Infatti, prima di marciare su Mosca, «Hitler dovette coprirsi le spalle ad Occidente, e lo fece – non senza prima essersi assicurata la benevolenza russa col Patto Ribbentrop-Molotov – annientando militarmente la Francia».
    Perché allora la Merkel tiene duro contro i greci, fino al punto di spingerli fuori dall’Eurozona? «Berlino deve “spezzare le reni” alla piccola Grecia per ribadire, anzi irrobustire, la sua supremazia, non più solo economica ma politica, sull’Europa occidentale, e avere quindi mani libere ad Est». Oggi, le armi tedesche sono l’Unione Europea e l’euro: Ue e moneta unica «sono i ferri con i quali la Germania soggioga e incatena a sé la Francia e tutti i suoi alleati». Hollande? Ridotto a comparsa, anche ai negoziati di Minsk. E se qualcuno crede alla sincerità – talora drammatica – dei tedeschi, si sbaglia di grosso. E’ la storia a smentirlo: «Contrariamente a quanto si pensa, Hitler fu un maestro nell’arte dell’occultamento dei suoi piani di aggressione», ricorda Pasquinelli. La famigerata Conferenza di Monaco del settembre 1938, con la quale ottenne da inglesi, francesi e italiani l’autorizzazione ad annettersi (dopo l’Austria) la Cecoslovacchia, «fu anche il frutto della sua memorabile abilità nell’ingannare i suoi interlocutori». Ne abbiamo le prove, data la risaputa meticolosità tedesca: i nazisti trascrissero anche le discussioni informali tra loro.
    «Grazie a queste – continua Pasquinelli – sappiamo non solo che tutti i piani di aggressione erano stati pensati e preparati fin nei dettagli molti anni prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale; abbiamo un’immagine icastica di quale fosse realmente il disegno strategico del grande capitalismo tedesco che sosteneva il regime nazista». Non ci credete?
    «Chi trova esagerato quanto noi affermiamo, che cioè esista una linea di continuità tra l’attuale geopolitica tedesca e quella nazista – scrive Pasquinelli – dovrebbe leggere con attenzione quanto affermò Hitler nelle sue conversazioni coi suoi più stretti collaboratori. Al netto delle farneticazioni razziali (“Herrenvolk”) e dei deliri di onnipotenza hitleriani, questa linea di continuità e una certa peculiare “essenza” del capitalismo tedesco, emergono con chiarezza». L’europeismo di facciata della Germania, paese da sempre ultra-nazionalista, «sfocia nell’esterofobia e nello sciovinismo conclamato». Non stupitevi, dunque, se la Germania minaccia sistematicamente l’Europa. Vale la pena considerare «quanto conti, nella psicologia dell’élite tedesca, l’amorevole adesione dei propri sudditi», e quindi oggi «quanto quindi pesi, per la Merkel, il sostegno dei suoi connazionali, la cui dimensione è direttamente proporzionale alla spietata durezza che ostenta col popolo greco».
    «L’ultimo degli apprendisti, il più modesto dei carrettieri tedeschi, è più vicino a me che non il più importante dei lord inglesi», chiarì Hitler nel marzo del 1942. Per Pasquinelli, «sarebbe sbagliato sottovalutare, malgrado i reiterati proclami di fede globalistici e cosmopolitici delle classi dominanti tedesche, quanto insomma pesi, nella psicologia di quelle élite, il “Deutschtum”, la germanitudine. Se si va alle radici di certo pensiero politico nazionalistico tedesco non c’è solo il reazionario Carl Schmitt col suo concetto geopolitico di “Grossraum”, che egli non a caso declinava come “comunità pluralistica di liberi popoli”. C’è Herbert Backe, che enunciò la tesi del “Grossraumordung”, come premessa del predominio imperialistico tedesco non solo ad Est ma anche ad Ovest (“Nahrungsfreiheit”). E come dimenticare Franz Albert Six, uno dei massimi e più arguti teorici della politica estera nazista? Egli vedeva “nella concentrazione delle forze economiche europee sotto l’egida del Reich l’attuazione del principio della solidarietà europea”».
    L’europeismo? «Si può declinare in modi molto diversi, quello nazista compreso», che è la “versione estrema” della tradizionale geopolitica tedesca. «Una politica egemonica connaturata a quello che riteniamo sia il Quarto Reich, quello che ha avuto i suoi natali con il crollo del Muro di Berlino e quindi l’annessione della Germania orientale». Ancora Hitler affermava: «Lo spazio russo è la nostra India. Come gli inglesi, noi domineremo questo impero con un pugno di uomini». E poi: «La sicurezza dell’Europa non sarà assicurata se non quando avremo ricacciato l’Asia dietro agli Urali». Quanto alla rozza plebe della Romania, «farebbe bene a rinunciare nei limiti del possibile ad avere un’industria propria», perché in quel modo «dirigerebbe le ricchezze del suo suolo, e specialmente il grano, verso il mercato tedesco; in cambio riceverebbe da noi i prodotti manifatturati di cui ha bisogno». Oggi il menù è cambiato, ma la musica no: deindistrializzare il Sud Europa, a cominciare dall’Italia, per fornire al capitalismo tedesco manodopera a basso costo.
    L’11 aprile 1942, nell’euforia delle prime folgoranti vittorie, Hitler sintetizza la politica tedesca in questi termini: «Per dominare i popoli che abbiamo sottomessi nei territori a est del Reich, dovremo di conseguenza rispondere nella misura del possibile ai desideri di libertà individuale che essi potranno manifestare, privarli dunque di qualsiasi organizzazione di Stato e mantenerli così a un livello culturale il più basso possibile». Chiaro, no? «Bisogna partire dal concetto che questi popoli non hanno altro dovere che servirci sul piano economico. Il nostro sforzo deve dunque consistere nel trarre dai territori che essi occupano tutto quanto se ne può trarre. Per impegnarli a consegnarci i loro prodotti agricoli, a lavorare nelle nostre miniere e nelle nostre fabbriche d’armi, li adescheremo aprendo un po’ dappertutto spacci di vendita nei quali potranno procurarsi i prodotti manifatturati dei quali abbisognano. Se vogliamo preoccuparci del benessere individuale di ognuno, non otterremo alcun risultato imponendo loro un’organizzazione sul modello della nostra amministrazione. In tal modo non faremmo che attirarci il loro odio. Infatti, quanto più gli uomini sono primitivi, tanto più avvertono come una costrizione insopportabile qualsiasi limitazione della loro libertà personale».

    Spezzare le reni alla Grecia per mettere in chiaro le cose: chi comanda non avrà pietà di nessuno. Il lupo perde il pelo ma non il vizio. Si chiama: capitalismo tedesco. Mordeva l’Europa già prima di Hitler, è deflagrato nella Seconda Guerra Mondiale e ora ha ripreso a correre, col Quarto Reich dei poteri forti che manovrano la loro figurina politica, Angela Merkel. I regimi cambiano, ma le linee geopolitiche di fondo restano le stesse: «La tracotanza delle classi dominanti tedesche al tavolo negoziale di Bruxelles sulla questione greca non si spiega solo ricorrendo alle origini luterane della loro cultura», sostiene Moreno Pasquinelli. «Si può comprendere piuttosto alla luce delle costanti della politica di potenza tedesca». Sono evidenti le medesime tendenze espansionistiche, attraverso i secoli: da Federico II il Grande alla cancelliera Merkel, passando prima per Bismarck e poi per Hitler. «Com’è ovvio nessun regime confessa i suoi appetiti, tanto più se sono imperialistici». La verità, quindi, esplode solo con la guerra: allora, «ciò che è latente si disvela e viene alla luce». E riecco dunque la vecchia Germania, col suo pericoloso suprematismo mercantilista: sottomettere economie per conquistare mercati.

  • Il Pentagono: Putin disobbedisce a Obama perché è malato

    Scritto il 27/2/15 • nella Categoria: segnalazioni • (4)

    Putin disobbedisce agli Usa e si rifiuta di scondinzolare davanti allo Zio Sam come fanno gli europei? Normale: è malato. Il presidente russo soffrirerebbe infatti di “Sindrome di Asperger”, leggera forma di autismo che può alterare il carattere, accentuando le tendenze narcisistiche. Lo afferma una certa Brenda Connors, “esperta” di un centro studi militare statunitense, l’“Us Naval College” di Newport. Problema: il “dossier” risale al 2008, ma il mainstream lo ha riciclato proprio ora, mentre Putin – dopo aver fatto da scudo alla Siria che stava per essere attaccata – è letteralmente assediato dagli Usa alle frontiere con l’Ucraina, sottoposto a minacce e pressioni e colpito dalle sanzioni economiche che gli Stati Uniti hanno costretto ad adottare, contro Mosca e contro gli stessi interessi europei. «Certo, dare oggi in pasto alla stampa mondiale questo dossier del 2008 non serve a distendere il clima e a rendere Putin collaborativo e disponibile», osserva Solange Manfredi sul blog di Paolo Franceschetti. «La provocazione è evidente, e questa terribile arma di guerra psicologica – fin troppo spesso usata in passato e che non ha mai prodotto risultati positivi, ma solo inutili stragi – è oggi nuovamente in campo», sfoderata proprio alla vigilia dei delicati negoziati di Minsk.
    La sensazionale bufala su Putin «arriva dall’America, per la precisione da esperti del Pentagono». Già in passato, ricorda la Manfredi, esperti americani si sono lanciati in simili imprese, «ovvero operazioni di guerra psicologica che hanno avuto il supporto di pubblicazioni scientifiche». Un esempio? Basti pensare a quando, negli anni ’60, la Cia cominciò a demolire i giovani in rivolta, demolizzandoli e rimpiendoli di droga. Obiettivo, «ridurre l’attivismo politico di quella parte di popolazione giovanile che rivendicava i propri diritti e chiedeva la pace nel mondo, condannando implicitamente non solo la forma economica spietatamente liberista, improntata al consumismo sfrenato, ma anche i conflitti esteri che vedevano coinvolto l’esercito degli Stati Uniti». La Cia, spiega Solange Manfredi, attivò un protocollo che constava di tre punti fondamentali: distribuire droghe letali, presentare i giovani ribelli come veri e propri mostri fanatici e sostenere, attraverso i media, che la loro avversione alla guerra in Vietnam dipendesse da lesioni cerebrali loro inferte dall’abuso di stupefacenti.
    Dopo aver indondato il mercato giovanile di nuove droghe, scrive Manfredi, l’intelligence Usa organizzò «una concomitante campagna stampa che si occupò di ritrarre i giovani in maniera tale che le rivendicazioni legittime si trasformassero, a livello di comunicazione, in un’imposizione frenetica di godimenti, droghe e coiti». Col tempo, «le provocazioni, amplificate e banalizzate dai media», si sarebbero accomodate nella memoria collettiva «ben più delle ispirazioni da cui i movimenti erano partiti». Poi, furono usati «giornalisti vicini agli ambienti dei servizi» perché diffondessero nella società americana «la convinzione che il dissenso giovanile e la contrarietà alla guerra in Vietnam nascessero da giovani menti alterate dell’Lsd». La tesi: l’assunzione di questa sostanza induce danni cromosomici. Così si crea il “supporto scientifico” destinato a sostenere l’affermazione secondo cui il dissenso politico non è espressione di libero pensiero, ma è una vera propria patologia visto che proviene in realtà da una devianza genetica.
    «Tutte queste azioni di “psyops”, se da un lato permettono di innescare facilmente scontri tra le varie fazioni durante le campagne elettorali per influenzare l’esito del voto, dall’altro alimentano una rabbia e una violenza tra i militanti che diviene sempre più difficile da controllare dalla dirigenza dei vari partiti», scrive la stessa Solange Manfredi nel saggio “Psyops”, riguardo all’operazione di guerra psicologica denominata “Blue Moon”, per sommergere di droghe anche i giovani europei. «La Cia, che dopo anni di studi e ricerche aveva fatto largo uso di droghe in varie operazioni», non ebbe dubbi su come ridurre l’attivismo politico dei ragazzi anche in Europa: «Diffondere sostanze stupefacenti tra i giovani come, sin dal 1965, attuato negli Stati Uniti». Lo confermò Roberto Cavallaro, agente del Sid “parallelo” in quota alla Nato: dal 1972, l’operazione “Blue Moon” doveva invadere di droga gli ambienti giovanili «al fine di provocarne la destabilizzazione, ridurne l’impegno politico e renderli facilmente manipolabili». Gli stessi “esperti”, oggi, pretendono di spiegare che Putin non obbedisce a Obama solo perché è “malato”. Del resto, per gli organizzatori delle “psyops”, il dissenso non è nient’altro che una devianza patologica.

    Putin disobbedisce agli Usa e si rifiuta di scondinzolare davanti allo Zio Sam come fanno gli europei? Normale: è malato. Il presidente russo soffrirerebbe infatti di “Sindrome di Asperger”, leggera forma di autismo che può alterare il carattere, accentuando le tendenze narcisistiche. Lo afferma una certa Brenda Connors, “esperta” di un centro studi militare statunitense, l’“Us Naval College” di Newport. Problema: il “dossier” risale al 2008, ma il mainstream lo ha riciclato proprio ora, mentre Putin – dopo aver fatto da scudo alla Siria che stava per essere attaccata – è letteralmente assediato dagli Usa alle frontiere con l’Ucraina, sottoposto a minacce e pressioni e colpito dalle sanzioni economiche che gli Stati Uniti hanno costretto ad adottare, contro Mosca e contro gli stessi interessi europei. «Certo, dare oggi in pasto alla stampa mondiale questo dossier del 2008 non serve a distendere il clima e a rendere Putin collaborativo e disponibile», osserva Solange Manfredi sul blog di Paolo Franceschetti. «La provocazione è evidente, e questa terribile arma di guerra psicologica – fin troppo spesso usata in passato e che non ha mai prodotto risultati positivi, ma solo inutili stragi – è oggi nuovamente in campo», sfoderata proprio alla vigilia dei delicati negoziati di Minsk.

  • Le fiabe di Pinocchio Renzi e l’agonia terminale dell’Italia

    Scritto il 05/2/15 • nella Categoria: idee • (2)

    Dobbiamo aumentare la produttività degli italiani? Essere più competitivi? Rilanciare le privatizzazioni e rendere meno rigido il mercato del lavoro? Nemmeno per sogno, caro “Pinocchio” Renzi. Secondo Paolo Barnard, bastano «parole da terza media» per «asfaltare» il pensiero economico di “Renzino”. A cominciare dal falso dogma della produttività: gli italiani dovrebbero produrre di più, sul lavoro? «Ma questo cosa ci risolve? Il problema che spacca il paese oggi è la disoccupazione, con percentuali da record africano e almeno 300 miliardi all’anno di ricchezza perduta, per questo». Domanda: a che ci serve far diventare più produttivi quelli che già lavorano? «Vuol dire avere sempre mente gente a lavorare, perché gli occupati lavoreranno come delle furie (e poi crepano)». Parabola: se hai 100 cani ma gli butti solo 50 ossi (posti di lavoro), 50 cani torneranno a cuccia senza mangiare. Gli fai dei corsi di formazione per imparare a correre e mordere meglio? Se gli ossi restano 50, metà dei cani (formati o meno) resteranno affamati. E poi: «La produttività tedesca per ora lavorata è la più bassa d’Europa, ma da loro la disoccupazione è molto più bassa: ti dice nulla, Pinocchio?».
    Essere più competitivi? «Lo siamo già». Lo dice uno dei maggiori centri di studio economici del mondo, la Ert, European Roundtable of Industrialists: «Fa ogni anno la classifica dei lavoratori più competitivi d’Europa. Be’, gli italiani sono sempre fra i primi, meglio di Gran Bretagna e Danimarca, e solo un pelo sotto la Germania». La competitività? «Si misura con una formula da Mago Merlino che si chiama “Unit Labour Cost”, che fa la media fra quanto ti costa un lavoratore e quanto ti produce. Noi siamo già fra i migliori». Al che, Renzi cambia discorso e dice che il settore privato deve rilanciarsi, e il governo gli darà  sempre più spazio (privatizzazioni) per arricchire l’Italia. Altro errore madornale: «I soldi, o li fa lo Stato o li fanno le banche, punto. Se tu obbedisci ai diktat dei tecnocrati Ue che proibiscono (coi limiti di deficit e di debito) allo Stato di creare soldi per noi tutti, allora non ci rimane che sperare che siano le banche a creare la ricchezza finanziaria». Le banche: «Vuol dire che i privati italiani devono indebitarsi come pazzi in banca, e coi debiti arrivano gli interessi, lo strangolamento, l’anatocismo e altre porcate delle banche».
    I soldi, quelli veri, «o li crea lo Stato investendo per noi, e quelli noi non dobbiamo restituirli, sono ricchezza al netto, oppure li creano le banche, e sono debiti di noi privati, non ricchezza al netto». Renzi? Un «codino dei tecnocrati», quelli che «stanno dando tutta l’Italia in mano alle banche, con ’sta storia che il rilancio viene dal privato: così le banche diventano lo Stato». Poi, continua Barnard, «quando privatizzi che fai? Togli un bene costruito per tutti da generazioni di italiani, e lo vendi a prezzi stracciati ai privati. Questi devono fare profitto, gliene fotte di noi, e quindi tagli all’occupazione, cali dei salari, intrighi con le banche (che sulle privatizzazioni guadagnano parcelle da sogno), e zero interesse pubblico». Il rilancio dal settore privato come lo intende Renzi «non avverrà mai senza debiti bancari e senza danni ai cittadini». Per Barnard, al contrario, «Deve tornare in gioco la spesa pubblica, l’investimento di Stato, che è ricchezza al netto per noi privati, perché lo stipendio di un medico pubblico, di un operaio che lavora per lo Stato o un servizio pubblico non sono soldi che noi dobbiamo restituire con interessi, mai!».
    Altra favola: il mercato del lavoro italiano “troppo rigido”, per colpa dell’articolo 18. “Facciamo come gli stranieri, basta con ’sta rigidità antimoderna”. «Come gli stranieri? Chi? Il World Economic Forum di Davos, il top del top della finanzia e dell’industria mondiale, ogni anno scrive pagelle sui vari Stati. Andiamo vedere l’ultima», propone Barnard. «I bocciati per troppa rigidità sul mercato del lavoro sono: Germania, Finlandia, Svizzera, Svezia e Giappone». Chiaro, no? «Evidentemente non è la protezione del lavoro che ci fa danni economici». Per fortuna, dice Renzi, col ministro Poletti il governo sta trovando risorse finanziarie per aiutare le imprese, le famiglie, l’occupazione. Macché, «voi non state trovando un accidenti», protesta Barnard. «Voi fate il gioco delle tre carte, cioè fate entrare 10 soldi dalla porta dell’Italia e intanto gliene sfilate 10 o 15 dalla finestra. Non siamo tutti idioti, qui, perché ce ne accorgiamo che, quatti quatti, sono sbucati 10.000 aumenti di balzelli strani a tutti i livelli». Inoltre, come insegna la Modern Money Theory sviluppata da Warren Mosler e diffusa in Italia da Barnard, «se un governo vuole dare soldi ai suoi cittadini e alle sue aziende al netto, cioè senza poi volerli indietro, o li sborsa lui a deficit (cioè ci dà più soldi di quanto ci tassa), o ci riduce le tasse in modo drammatico». In economia non c’è altro modo, conclude Barnard. «Ma il governo Renzi deve obbedire al pareggio di bilancio imposto dalla Ue (lo Stato ci dà 100 e ci tassa 100)», quindi i famosi fondi li allunga con la destra e poi li ritira con la sinistra, sotto forma di imposte.
    «Lo raccontate ai fagiani e ai cefali – aggiunge Barnard – che senza un esborso di Stato superiore alle tasse voi ci darete qualcosa da masticare: no, è matematicamente impossibile. E infatti raccontate balle, buffoni». Anche per questo, Renzi continua ad annunciare grandi svolte e grandi decisioni. Mente, sapendo di mentire: sa benissimo, infatti, che «l’Italia ha firmato e ratificato tutti i Trattati europei sovranazionali, cioè più potenti delle leggi italiane, che hanno totalmente tolto potere decisionale al governo e al Parlamento nazionale». Così, l’Italia «oggi può solo obbedire alle decisioni della tecnocrazia europea», la Troika Ue che esegue gli ordini di Berlino attraverso la Commissione e la Bce, col supporto del Fmi. Inutile agitarsi, fingendo di non essere un «pagliaccio fiorentino, parto del popolo bue del Pd». Renzi non conta nulla, e ogni esperto d’Europa lo sa benissimo. Lo sa anche Renzi, putroppo. Per questo, continua a inventare fiabe su come risollevare l’economia di famiglie e aziende, ben sapendo che si tratta soltanto di favole.

    Dobbiamo aumentare la produttività degli italiani? Essere più competitivi? Rilanciare le privatizzazioni e rendere meno rigido il mercato del lavoro? Nemmeno per sogno, caro “Pinocchio” Renzi. Secondo Paolo Barnard, bastano «parole da terza media» per «asfaltare» il pensiero economico di “Renzino”. A cominciare dal falso dogma della produttività: gli italiani dovrebbero produrre di più, sul lavoro? «Ma questo cosa ci risolve? Il problema che spacca il paese oggi è la disoccupazione, con percentuali da record africano e almeno 300 miliardi all’anno di ricchezza perduta, per questo». Domanda: a che ci serve far diventare più produttivi quelli che già lavorano? «Vuol dire avere sempre mente gente a lavorare, perché gli occupati lavoreranno come delle furie (e poi crepano)». Parabola: se hai 100 cani ma gli butti solo 50 ossi (posti di lavoro), 50 cani torneranno a cuccia senza mangiare. Gli fai dei corsi di formazione per imparare a correre e mordere meglio? Se gli ossi restano 50, metà dei cani (formati o meno) resteranno affamati. E poi: «La produttività tedesca per ora lavorata è la più bassa d’Europa, ma da loro la disoccupazione è molto più bassa: ti dice nulla, Pinocchio?».

  • No alla monarchia mondiale, anche Kant promuove Putin

    Scritto il 31/1/15 • nella Categoria: idee • (4)

    Persino Kant promuove Putin: guai, infatti, se ci si rassegna tutti alla “monarchia universale” di un solo padrone. Resistere è un dovere. E Putin dimostra ogni giorno che la resistenza alla dittatura globale degli Usa è possibile. Ne è convinto il filosofo Diego Fusaro, per il quale «Putin purtroppo non è Lenin», però «ha un compito fondamentale, oggi: quello di resistere al monopolio – con bombardamento etico incorporato – del capitalismo americano». Per essere chiari: «Che ci sia Putin, oggi, è un bene fondamentale, anzitutto per noi», perché il mondo plurale, con più Stati, anche in disaccordo fra loro, «è pur sempre meglio di un mondo monopolare in cui c’è un’unica potenza mondiale, quella statunitense». Lo diceva lo stesso Kant, nel 1795, nel suo splendido scritto “Per la pace perpetua”: «Per l’idea della ragione, val sempre meglio una pluralità di Stati, anche in competizione tra loro, piuttosto che non la loro dissoluzione ad opera di una monarchia universale». Ed eccoci qua: «Oggi la monarchia universale uscita vincitrice dalla guerra fredda, quella degli Stati Uniti d’America, mira a dissolvere tutti gli Stati ancora esistenti e a imporsi come unico Stato legittimo».
    Con tutte le cautele del caso, dice Fusaro in un video editato su YouTube, potremmo dire che oggi, nell’epoca post-1989, la Russia di Putin svolge il ruolo di “equivalente funzionale di senso” del comunismo storico novecentesco ingloriosamente defunto. «Non certo perché oggi in Russia vi sia il comunismo, figuriamoci – anzi, la Russia di oggi registra rapporti classisti sempre più osceni». Infatti Mosca «sta sperimentando un capitalismo trionfante», e infatti «l’aspettativa di vita è scesa di almeno 7 anni». Ma il discorso cambia sul piano geopolitico: «La Russia di Putin svolge un ruolo prezioso anzitutto per noi, perché ci ricorda che resistere al capitalismo monopolare americano è possibile e necessario». Per Fusaro, «oggi viviamo in un’epoca paradossale, in cui si dichiarano superati gli Stati nazionali e, insieme, si dichiara legittima la sopravvivenza di un unico Stato, gli Usa», tuttalpiù con l’aggiunta di Israele, «fedele servo degli Stati Uniti d’America». Tutti gli altri «devono sparire». “Yes, we can”, recitava l’iconografia pop di Obama. “No, you can’t”, gli risponde – per nostra fortuna – Putin.
    «Il fatto che il circo mediatico, la manipolazione organizzata e il clero accademico si accaniscano continuamente contro Putin – agiunge Fusaro – è un segnale indiretto che ci avvisa del fatto che Putin è positivo, cioè che svolge un ruolo importantissimo nello scacchiere geopolitico internazionale». Proprio per questo, «oggi gli Stati Uniti d’America stanno cercando – da più anni a questa parte, in verità – di delegittimarlo e di porlo sotto assedio: basi militari in tutti i territori vicini alla Russia, poi la vicenda oscena dell’odierna Ucraina», cioè l’ennesima “rivoluzione colorata” attraverso cui gli Usa si intromettono nella vita di un paese non allineato e ne rovesciano il governo legittimo, insediando i loro vassalli. «La retorica americana è sempre quella del dittatore». E ormai, aggiunge Fusaro, siamo alla Quarta Guerra Mondiale, dopo le prime due e dopo la guerra fredda: «E’ la guerra che gli Stati Uniti d’America hanno dichiarato nel 1989 a tutti gli Stati che resistono al loro dominio». Iraq, Jugoslavia, Afghanistan, Libia, Siria. Lo dice Fenoglio nel “Partigiano Johnny”: l’importante è ne resti sempre almeno uno, a resistere, o sparisce dal pensiero l’idea stessa della possibilità di resistenza, perché «finché c’è resistenza, c’è speranza». Se il nostro nemico oggi è il liberismo sul piano economico, nonché l’individialismo sfrenato sul piano filosofico, sul piano geopolitico il nemico si chiama America. Non ci schiaccherà definitivamente, fino a quando ci sarà un Putin a opporre il suo “no, you can’t”.

    Persino Kant promuove Putin: guai, infatti, se ci si rassegna tutti alla “monarchia universale” di un solo padrone. Resistere è un dovere. E Putin dimostra ogni giorno che la resistenza alla dittatura globale degli Usa è possibile. Ne è convinto il filosofo Diego Fusaro, per il quale «Putin purtroppo non è Lenin», però «ha un compito fondamentale, oggi: quello di resistere al monopolio – con bombardamento etico incorporato – del capitalismo americano». Per essere chiari: «Che ci sia Putin, oggi, è un bene fondamentale, anzitutto per noi», perché il mondo plurale, con più Stati, anche in disaccordo fra loro, «è pur sempre meglio di un mondo monopolare in cui c’è un’unica potenza mondiale, quella statunitense». Lo diceva lo stesso Kant, nel 1795, nel suo splendido scritto “Per la pace perpetua”: «Per l’idea della ragione, val sempre meglio una pluralità di Stati, anche in competizione tra loro, piuttosto che non la loro dissoluzione ad opera di una monarchia universale». Ed eccoci qua: «Oggi la monarchia universale uscita vincitrice dalla guerra fredda, quella degli Stati Uniti d’America, mira a dissolvere tutti gli Stati ancora esistenti e a imporsi come unico Stato legittimo».

  • Qualcuno ci liberi dal grande sonno governato da Facebook

    Scritto il 25/1/15 • nella Categoria: idee • (1)

    Facebook ha ucciso Internet e sono sicuro che la maggior parte delle persone non se ne è nemmeno accorta. Vedo gli sguardi sulle vostre facce e sento i vostri pensieri. Qualcuno si sta lamentando di nuovo di Facebook. Sì, so che è un ente massiccio, ma è la piattaforma che noi tutti usiamo. E’ un po’ come lamentarsi di Starbucks. Considerando che tutti i bar indipendenti sono stati buttati fuori dalle città e siete tutti diventati dipendenti dal caffè espresso, cos’altro si può fare? Che cosa si intende quando si dice che Facebook ha “ucciso” Internet? Chi è stato ucciso? Mi spiego. Parto dal presupposto che non so quale possa essere la soluzione. Però penso che ogni soluzione debba iniziare dalla solida identificazione della natura del problema. Innanzitutto, Facebook ha ucciso Internet, ma se non fosse stato Facebook sarebbe stato qualcos’altro. Probabilmente l’evoluzione dei social network era inevitable proprio come lo sviluppo degli smartphone. Era la direzione verso cui Internet sarebbe necessariamente dovuto andare.
    Ed è appunto per questo che il problema è così difficile da risolvere. Perché la soluzione non è Znet o Ello. Non è un social network migliore, un algoritmo migliore o ancora un social network diretto da una società no profit invece che da un ente multimiliardario. Proprio come la soluzione dell’alienazione sociale causata dal fatto che tutti hanno una loro macchina privata non sta nella costruzione di veicoli elettrici. Ed esattamente come la soluzione dell’alienazione sociale causata dalla fissazione con gli smartphone non è la nascita di una compagnia di cellulari utilizzabili collettivamente. Molte persone, dalla classe di fondo alle élites, sono appassionate dal fenomeno dei social network. Sicuramente tra le poche persone che leggeranno questo articolo ce ne saranno alcune. Diffondiamo frasi come “la rivoluzione di Facebook” e celebriamo queste piattaforme che hanno il potere di unire persone provenienti dalle più disparate parti del mondo. E non è mia intenzione affermare che ciò non abbia aspetti positivi. Né tantomeno credo che dovremmo smettere di usare questi social network, incluso Facebook. Sarebbe come dire a qualcuno in Texas di andare a  lavorare in bicicletta, quando tutte le infrastrutture nelle città sono costruite per veicoli utilitari sportivi.
    Ma dovremmo capire la natura di ciò che ci sta succedendo. A partire da quando i giornali sono diventati un fatto ordinario fino al 1990, per la vasta maggioranza della popolazione sul pianeta, il massimo a cui si poteva aspirare era scrivere una lettera all’editore. Una piccola, piccolissima parte di popolazione diventava invece autore o giornalista e aveva un forum pubblico aggiornato occasionalmente o regolarmente. Alcuni scrivevano anche ciò che oggi sarebbe considerato un blog annuale di Natale che poi fotocopiavano e mandavano a qualche dozzina di amici e parenti. Numerose agenzie giornalistiche indipendenti iniziarono a svilupparsi attorno al 1960 in modo occulto nelle città e paesini negli Stati Uniti e altri paesi. Si svilupparono, inoltre, diverse opinioni e informazioni di semplice accesso per tutti quelli che abitavano vicino alle università e quindi potevano recarsi a incontri di scambio di informazioni e avevano soldi in più da spendere.
    Negli anni ‘90, con lo sviluppo di Internet – siti web, liste di email – ci fu letteralmente un’esplosione della comunicazione che rese le agenzie giornalistiche degli anni ’60 nemmeno lontanamente comparabili. Sono molti negli Stati Uniti coloro che hanno deciso di smettere di usare il telefono in modo virtuale (perché preferiscono parlare faccia a faccia) e parlo per esperienza. Molti altri che non avevano mai scritto lettere prima o cose di questo genere iniziarono a usare computer e scriversi email, e anche a più persone alla volta. Quei pochi che invece erano abituati ai tempi prima di Internet a inviare notiziari in modo regolare informando dei propri pensieri e impegni futuri, prodotti e servizi intesi per la vendita eccetera, furono esaltati dall’avvento dell’email e della possibilità di inviare notiziari in modo così semplice, senza spendere una fortuna per le marche da bollo né sprecare tempo a imballare pacchi postali. Per un breve periodo di tempo, il numero di lettori rimase invariato, ma grazie a Internet ora possono comunicare con loro virtualmente e gratuitamente. Questo, infatti, fu il periodo di massimo sviluppo di Internet, altresì chiamato “età dell’oro” – circa tra il 1995 e il 2000. Sussisteva in modo sempre più incisivo il problema degli spam di vario genere. Inutili email venivano inviate in modo sempre più consistente. I filtri per gli spam iniziarono a diventare più accurati ed eliminarono il problema per molti di noi.
    I list server che qualcuno si prendeva la briga di leggere erano semplici liste di annunci. I siti web più usati erano certamente interattivi ma moderati, come Indymedia. In alcune città del mondo, grandi o piccole che fossero, c’erano pagine locali Indymedia. Chiunque poteva pubblicare post, ma c’erano responsabili che decidevano se ed eventualmente dove lo si poteva pubblicare. Come in ogni pagina web, il processo per prendere determinate decisioni risulta difficile, ma molti la sentivano come una sfida per cui valeva la pena sforzarsi. Come risultato di questi list server e siti moderati come Indymedia, avevamo tutti l’abilità inaudita di trovare e discutere idee ed eventi che avvenivano nella nostra città, paese o più generalmente, nel mondo. Sono poi sopravvenuti i blog e i social network. Ogni individuo con un blog, una pagina Facebook o un profilo Twitter, eccetera, diventava il trasmettitore di se stesso. Crea dipendenza, non è vero? Sapere di avere un pubblico globale di dozzine o centinaia, o ancora, migliaia di persone (se sei famoso, tanto per iniziare, altrimenti la situazione diventa alquanto critica) tutte le volte che pubblichi un post.
    Avere conversazioni nella sezione dei commenti con persone provenienti da tutto il mondo che non si incontreranno mai fisicamente. Davvero fantastico. Da allora però molti smisero di ascoltare. La maggior parte delle persone smise di visitare Indymedia tanto che morì, globalmente, per quasi tutti. Giornali – di destra, sinistra o centro che fossero – cessarono, e stanno tuttora cessando, la loro attività, cartacei e non. I list server smisero di esistere. Gli algoritmi sostituirono i moderatori. La gente iniziava già a pensare che le librerie fossero un fenomeno antiquato. Oggi come oggi, a Portland, in Oregon, una delle città più “connesse” a livello politico negli Stati Uniti, non ci sono list server o siti web che spieghino in modo comprensibile o in un formato leggibile come vadano le cose in città. Infatti, ci sono diversi gruppi su vari siti web, pagine Facebook e list server ma nulla che riguardi l’andamento progressivo della comunità in generale. Nulla di funzionale. Perlomeno nulla che si avvicini alla funzionalità e utilità delle liste di annunci che esistevano nelle città e paesi 15 anni prima.
    Viste le limitazioni tecniche di Internet avvenute per un breve periodo di tempo, si riuscì a trovare una connessione tra le piccole élites che fornivano contenuti scritti, letti dalla maggior parte della popolazione nel mondo, e la situazione in cui ci troviamo oggigiorno: l’affondare nella troppa informazione, la maggior parte di cui insensate sciocchezze, rumore bianco, nebbia che non ci permette di vedere ciò su cui le luci scarse fanno chiarezza in un dato momento. Era l’età dell’oro ma fu perlopiù un caso e durò molto poco. Dato che creare un nuovo sito web, un blog, una pagina Facebook o Myspace, pubblicare aggiornamenti ecc… diventava sempre più semplice, la nuova era contribuiva inevitabilmente alla naturale evoluzione della tecnologia. E molti non si rendevano nemmeno conto di ciò che stava avvenendo. Perché mi ritrovo a doverlo dire? Innanzitutto non è da poco che ho iniziato a rendermi conto di questa merda. Ho parlato con svariate persone in molti anni e molte di queste pensano che i social network siano l’invenzione migliore dopo il pane affettato. E perché non dovrebbero pensarlo?
    Il succo del discorso è che per nessun motivo avrebbero potuto rendersi conto della “morte” di Internet, dato che nessuno di loro era un fornitore di contenuti (come vengono chiamati autori, artisti, musicisti, giornalisti, organizzatori, animatori, insegnanti ecc.. oggigiorno) nel periodo pre-Internet, o nel primo decennio di Internet, inteso come fenomeno popolare . E se in quegli anni non eri un fornitore di contenuti, perché dovresti renderti conto che qualcosa cambia? Lo sappiamo io e gli altri come me – perché coloro che leggevano e rispondevano a ciò che pubblicavo sono spariti. Non aprono più le loro email e, se lo fanno, non le leggono. E non importa cosa utilizzino – blog, Facebook, Twitter ecc… Ovviamente alcuni le leggono ancora, ma la maggior parte fa altro. E cosa, allora? Ho passato gran parte della scorsa settimana a Tokyo, girando per la città, trascorrendo ore e ore sui treni ogni giorno.
    La maggior parte di quelli seduti sul treno quando visitai il Giappone per la prima volta dormiva, come dorme ora. Ma sette anni fa quasi tutti quelli che dormivano leggevano libri. Ora è diventato difficile vederne uno. Quasi tutti guardano il cellulare. E non leggono libri sul telefono (sì, ho sbirciato. Tanto). Giocano. Oppure, più spesso, guardano le notifiche di Facebook. E lo stesso vale per gli Stati Uniti e tutti gli altri paesi che ho avuto l’occasione di visitare. Vale davvero la pena di sostituire algoritmi a moderatori? Rumore bianco agli editori? Foto del gatto ai giornalisti investigativi? Una moltitudine di podcast mal registrati a case discografiche indipendenti? Milioni di aggiornamenti Facebook e notifiche Twitter? Non penso. Ma non è questo il punto. Come faremo a uscire da questa situazione e liberarci della nebbia? E quando torneremo a usare i nostri cervelli? Mi piacerebbe saperlo.
    (David Rovics, “Facebook ha ucciso Internet”, da “Counterpunch” del 24 dicembre 2014, tradotto da “Come Don Chisciotte”).

    Facebook ha ucciso Internet e sono sicuro che la maggior parte delle persone non se ne è nemmeno accorta. Vedo gli sguardi sulle vostre facce e sento i vostri pensieri. Qualcuno si sta lamentando di nuovo di Facebook. Sì, so che è un ente massiccio, ma è la piattaforma che noi tutti usiamo. E’ un po’ come lamentarsi di Starbucks. Considerando che tutti i bar indipendenti sono stati buttati fuori dalle città e siete tutti diventati dipendenti dal caffè espresso, cos’altro si può fare? Che cosa si intende quando si dice che Facebook ha “ucciso” Internet? Chi è stato ucciso? Mi spiego. Parto dal presupposto che non so quale possa essere la soluzione. Però penso che ogni soluzione debba iniziare dalla solida identificazione della natura del problema. Innanzitutto, Facebook ha ucciso Internet, ma se non fosse stato Facebook sarebbe stato qualcos’altro. Probabilmente l’evoluzione dei social network era inevitable proprio come lo sviluppo degli smartphone. Era la direzione verso cui Internet sarebbe necessariamente dovuto andare.

  • Nel cyber-futuro, un alveare di egoisti ciechi e dominati

    Scritto il 18/1/15 • nella Categoria: idee • (1)

    Orologi intelligenti, occhiali intelligenti e persino vestiti intelligenti, dotati di piccoli sistemi resistenti ai lavaggi, affinché l’individuo sia sempre in comunicazione e – beninteso – controllato. I sistemi informatici hanno invaso tutta la società: a livello sociale l’insegnamento, le produzioni, i trasporti (auto, navi, aerei) sono assistiti da sistemi informatici che analizzano costantemente la posizione dei soggetti e propongono o prendono decisioni a seconda della situazione circostante. Idem a livello individuale: i mille giochi con cui i bambini passano il tempo sui loro tablet e poi gli stessi adulti, che non smettono per un attimo di comunicare (con altri esseri umani o con degli avatar) usando i loro smartphone mentre sono sui mezzi di trasporto e i loro pc mentre sono al lavoro o a casa. Il futuro è la “casa pervasiva”, scrive Alain Cardon: un posto dove tutto è connesso, dalla cucina al salotto alla camera, passando dalla doccia. Un sistema avvolgente che serve a soddisfare le persone, utilizzando telecamere.
    «Saremo dunque in un mondo nel quale oggetti elettronici iper-informatizzati permetteranno di comunicare per agire, dare consigli, prendere le dovute iniziative che l’individuo ha dimenticato di prendere, individuo che vedrà altresì l’arrivo di robot o umanoidi destinati ai lavori duri e ripetitivi e che rimpiazzeranno sempre più spesso gli operatori umani», osserva Cardon in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”. È il settore dei sistemi ciber-fisici (Cyber-Physical Systems), che ha assunto un’importanza considerevole nell’economia e nella ricerca, con applicazioni in ogni ambito. «Eppure – aggiunge Cardon, con alle spalle ricerche universitarie sull’intelligenza artificiale – noi siamo in un mondo ultraliberale e ben equipaggiato per restare tale». I dispositivi informatici? Sono tutti sistemi “proprietari”. «Qualche regola c’è, ma resta il fatto che l’individuo, che deve essere prima di tutto ed essenzialmente un consumatore, è spinto a utilizzare sistemi diversi per aumentare il proprio campo relazionale». Nella nostra società dei consumi, si cerca di far comunicare fra loro questi sistemi, ben sapendo che il numero dei sistemi “proprietari” con funzioni particolari non smetterà di aumentare, così come la loro capacità di analizzare e memorizzare dettagliatamente desideri e modalità d’uso da parte degli utenti.
    «Formalmente si tratta di individuare tutte le curve di un enorme grafico delle comunicazioni, nel quale il numero dei nodi – i sistemi proprietari – aumenta senza sosta. Questo affinché il grafico sia completo e ogni singolo nodo sia collegato a tutti gli altri attraverso curve di comunicazione». Per questo si stanno creando programmi capaci di legare fra loro sistemi locali e aumentare la loro semantica, per farli evolvere in maniera autonoma, affinché i sistemi comunichino fra loro in maniera perfetta, costituendo così per l’utente un programma affidabile e soprattutto funzionante anche qualora sopravvenissero casi di incompatibilità. In questo modo, continua Cardon, i consumatori potranno aumentare senza sosta i loro sistemi informatizzati, per poterli personalizzarli e renderli coerenti, «capaci di sommergere le loro vite, riempire le loro case, le loro automobili, ma anche industrie, supermercati, giardini, strade e edifici pubblici, qualunque luogo in cui l’essere umano può trovarsi, compreso il mare». Questo, osserva l’analista, sarà il terreno fertile sul quale impiantare il “Meta-Sistema”, «che metterà placidamente fine alla libertà nella civiltà umana: vale a dire l’inizio di un mondo nel quale oggetti umani e oggetti artificiali saranno mescolati, formando un insieme controllato e mansueto, coerente nei comportamenti, per il semplice fatto che sarà impossibile non essere coerenti».
    Ciascuno di questi sistemi informatizzati, che trattano processi e si scambiano informazioni, potrà essere sviluppato e trasmesso attraverso una trama telematica intessuta dalle innumerevoli reti WiFi. Un “campo informatico globale”, «che sorveglierà e controllerà capillarmente tutto, a ogni livello, in tempo reale», perché sarà «un sistema capace di pensare da solo, secondo le proprie inclinazioni fondamentali, di generare intenzionalmente e ad ogni livello idee, di provare emozioni e sensazioni». Per Cardon, «sarà il Sistema della meta-coscienza artificiale, l’insieme dei molteplici fatti di coscienza artificiali locali, la sintesi delle sintesi in tempo reale, che farà emergere costantemente il proprio sfaccettato stato di coscienza sul mondo controllato, dal quale controllerà attivamente tutte le azioni di qualunque cosa sia vivente e, naturalmente, locale». Da un punto di vista scientifico si tratta di uno dei più affascinanti problemi mai posti all’uomo: «Trasferire tutto l’universo psichico umano nell’ambito artificiale, ma in forma distribuita e “meta”, problema che sarà presto risolto, sviluppato e messo in pratica. Ed è proprio quest’uso che sarà tragico, perché ucciderà ogni umanismo e qualunque senso dell’altruismo».
    Questo “Meta-Sistema” deve pur essere in costruzione da qualche parte, continua Cardon. «So che il suo studio è stato prima di tutto affrontato nelle università, quindi a livello pubblico, prima di diventare “confidenziale”. Se ho smesso completamente le mie ricerche su questi temi, per motivi etici, credo tuttavia che i miei lavori siano stati usati e che siano instancabilmente perseguiti». Domanda: perché mai la società dovrebbe sviluppare innumerevoli sistemi locali che dovrebbero poi comunicare fra loro? Perché dovrebbe sviluppare il “Meta-Sistema”? «Beh, molto semplicemente perché l’essere umano è quello che è. È un mammifero dotato di un sistema psichico particolare, fatto allo stesso tempo di pulsioni comuni a tutti gli altri mammiferi e di una spiccata attitudine a fare astrazioni e memorizzare le proprie astrazioni, per poi manipolarle, condividerle e diffonderle sul piano sociale. È questo che gli ha permesso di sopravvivere, fin dalla sua nascita, come predatore dominante, in seguito di sviluppare il linguaggio, le strutture sociali, le scienze, le tecnologie, utilizzando tutte le conoscenze socialmente condivise e pianificando le proprie attività con un’elaborata dimensione spaziotemporale».
    L’uomo nasce sempre come mammifero, con le tendenze fondamentali nella parte emozionale del suo sistema psichico, «alcune delle quali sono, per natura, socialmente oscure e sono ben rivelate dalle patologie mentali». Queste tendenze, se si esprimono e vengono trasportate nella parte concettuale e linguistica del suo sistema psichico, «lo portano sistematicamente a dominare, uccidere, distruggere, ridurre gli altri a qualcosa di totalmente sbagliato, lo fanno diventare fondamentalmente egoista, lo portano a non avere più alcuna nozione di fraternità». Tutto ciò è stato studiato molto bene, spiega Cardon. E in particolare è stato dimostrato che l’educazione e il contesto socio-culturale possono ridurre o far recedere queste tendenze. «Quando la società, che tende a conformare l’essere umano fin dalla sua nascita, permette lo sviluppo di alcune di queste attitudini oscure, dispiegando così la volontà di potenza e riducendo simbolicamente tutti gli altri esseri umani a oggetti utilizzabili all’interno di strutture che sono sempre molto gerarchizzate, ci sarà necessariamente una deriva oscura della società, deriva che potrà rimanere tale o anche ampliarsi». E quando la società che permette di dispiegare queste attitudini «sarà anche pervasa da tecnologie informatiche invadenti, che amplificano tali tendenze», secondo Cardon «non ci sarà nulla di buono da aspettarsi: perché il mondo sarà guidato da una piccola rete di dominanti, che utilizzeranno in maniera massiccia l’influenza tecnologica su tutti gli altri, ormai del tutto e definitivamente dominati».
    Antropologia e rimpianti: «Avremmo dovuto concepire, nella nostra storia umana, società in grado di insegnare ad ognuno a pensare i propri pensieri, capaci di formare ognuno a dominarsi, di insegnare la fraternità condivisa con chiunque, di insegnare a comprendere con finezza che cosa sono il mondo, l’Universo e la vita, praticando una ricerca sistematica e disinteressata, e controllando sempre la tecnologia con un sano civismo». Invece «non abbiamo mai costruito società simili, in nessun luogo». Al contrario, «abbiamo sempre costruito società fortemente gerarchiche, fatte di dominanti e dominati subalterni, e usando sempre la forza». Oggi, tutto il mondo è immerso in un campo informatizzato «che combinerà naturalmente i caratteri di gerarchia e dominazione delle società umane, portandoli all’eccesso». E se qualcuno desiderasse una società egalitaria, fraterna e umanista, il “Meta-Sistema” lo isolerebbe, «lo rinchiuderebbe in una enclave informatica impermeabile, per isolarlo, manipolarlo o dominarlo». Già: «Com’è possibile lottare contro una meta-dittatura “cool”, nella quale il dittatore non ha forma umana ma è rimpiazzato da un “Meta-Sistema” che ha la forma di un campo informatico autonomo, che pervade ogni cosa e trasforma ciascuno in un oggetto minuscolo, eccezion fatta – ma non nemmeno è certo – per qualche dominante?».

    Orologi intelligenti, occhiali intelligenti e persino vestiti intelligenti, dotati di piccoli sistemi resistenti ai lavaggi, affinché l’individuo sia sempre in comunicazione e – beninteso – controllato. I sistemi informatici hanno invaso tutta la società: a livello sociale l’insegnamento, le produzioni, i trasporti (auto, navi, aerei) sono assistiti da sistemi informatici che analizzano costantemente la posizione dei soggetti e propongono o prendono decisioni a seconda della situazione circostante. Idem a livello individuale: i mille giochi con cui i bambini passano il tempo sui loro tablet e poi gli stessi adulti, che non smettono per un attimo di comunicare (con altri esseri umani o con degli avatar) usando i loro smartphone mentre sono sui mezzi di trasporto e i loro pc mentre sono al lavoro o a casa. Il futuro è la “casa pervasiva”, scrive Alain Cardon: un posto dove tutto è connesso, dalla cucina al salotto alla camera, passando dalla doccia. Un sistema avvolgente che serve a soddisfare le persone, utilizzando telecamere.  

  • Tsipras come Monti: curare la Grecia col pareggio di bilancio

    Scritto il 14/1/15 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    La Troika va trascinata in tribunale, perché i popoli europei – a partire da quello greco – siano finalmente risarciti delle atroci sofferenze loro inflitte dai “nani” tecnocratici di Bruxelles, la feroce casta filo-tedesca, neoliberista e mercantilista che ha trasformato l’Europa nel regno neo-feudale della crisi, minacciando l’intera economia mondiale. Aberrazioni spacciate per dogmi, da funzionari mediocri: gentaglia che in un’azienda sarebbe in grado, al massimo, di accendere e spegnere i computer. Si esprime in questi termini Alexis Tsipras, in vista del voto greco forse decisivo per il futuro dell’euro, senza però annunciare la chiara volontà di uscire dall’orrore della moneta unica che ha ridotto alla fame la Grecia e terremotato mezza Europa. Di più: a parole, il leader di Syriza si scaglia contro l’austerity. Ma non intende rinunciare neppure al più micidiale strumento di austerity imposto dall’Ue, il pareggio di bilancio. Incongruenze incomprensibili o ambigui tatticismi pre-elettorali, nel timore che i “mercati” facciano a pezzi la sinistra greca dopo il voto?
    Tspiras, scrive l’“Huffington Post”, ha sintetizzato il suo pensiero in un libro-intervista del giornalista Teodoro Andreadis Synghellakis, “Alexis Tsipras, La mia Sinistra”, stampato dalle edizioni Bordeaux con prefazione di Stefano Rodotà. Prima incoerenza: Tsipras annuncia che Syriza non intende tornare a una politica democratica basata sul deficit positivo, l’investimento dello Stato per i cittadini. Intoccabile, quindi, la mostruosità economica del pareggio di bilancio. «Il riuscire a proseguire tenendo come punto fermo il pareggio di bilancio è realmente un punto nodale della nostra strategia, perché ci dà la possibilità di trattare da una posizione di forza», sostiene Tsipras, secondo cui «pareggio di bilancio non significa, per forza, dover ricorrere all’austerità». Il leader della sinistra greca preferisce parlare di «giusta divisione dei vari pesi» e «redistribuzione vera, nel sostegno ai più deboli». Tradotto: la cintura resta stretta, ma le torture sociali andranno estese anche ai meno poveri. «La sinistra – dice Tsipras – non è arrivata sul proscenio per servire gli interessi dei potenti, ma per essere capace di attuare una politica socialmente giusta».
    Retorica a parte, Tsipras si dichiara fedele al suicidio economico programmato: col bilancio inchiodato al pareggio, lo Stato non spende un euro in più di quelli che riceve sotto forma di tasse, con un saldo per i cittadini pari a zero, quindi catastrofico. Tutto questo, per tenere a bada i mercati e disinnescare il ricatto dello spread. Non spendere per i cittadini, secondo Tsipras significa «limitare fortemente i bisogni di contrarre prestiti». Austerity pura, dunque, come Mario Monti? Tsipras ripete che la priorità è «rimettere in moto l’economia». Già, ma come? Più tasse o più spesa pubblica? Visto che Syriza non intende espandere la spesa per paura di Bruxelles e della Bce, non resta che una redistribuzione fiscale, destinata forse a incidere sulla società ma non certo sull’economia, che è al collasso. L’Europa teme il voto greco, e la prudenza di Tsipras è dichiarata: «Non intendiamo ricattare nessuno e non intendiamo neanche presentarci alla trattativa indossando una cintura esplosiva», dice il leader della sinistra ellenica, alludendo al negoziato per l’unica proposta – molto modesta – per la quale Syriza si candida: dilazionare semplicemente la liquidazione del debito.
    Eppure, nonostante il bassissimo profilo di Tsipras, secondo il filosofo Slavoj Zizek una vittoria di Syriza «darebbe la sveglia all’Europa». Tsipras conferma: «L’Europa è come un sonnambulo che sta procedendo verso il dirupo, e noi saremo la sveglia del sonnambulo». E come? Confermando il pareggio di bilancio? Tsipras resta ben incollato al grande diktat di Bruxelles, anche se sa benissimo che conduce alla rovina: «Credo che il modello “Sud in deficit e Nord in surplus” non costituisca un esempio attraente neanche per i popoli del Nord Europa. Presuppone, infatti, che gli stipendi debbano smettere di crescere per un tempo piuttosto lungo. Allo stesso tempo, questa logica di iper-accumulo della ricchezza (che viene accumulata nei risparmi ma non investita) costituisce un pericolo enorme per l’economia europea e per quella di tutto il mondo. Accumulando la ricchezza, si accumula la crisi che sarà destinata a scoppiare domani». Con questa strategia, aggiunge Tsipras, «l’Europa è destinata a non sfuggire al suo cammino recessivo: la recessione tornerà presto, e questo vuol dire che viene avvelenata l’acqua dell’economia di tutto il mondo. Vediamo, infatti, che l’Europa esporta recessione nel resto dell’economia mondiale e credo che sia proprio ciò che fa innervosire enormemente gli americani».
    Non dobbiamo scordarci, aggiunge il leader di Syriza, che «per riuscire ad affrontare la crisi, gli americani hanno seguito una politica economica totalmente diversa, una politica espansiva», cioè basata sull’incremento della massa monetaria e del deficit. E’ il tabù europeo che Syriza non osa infrangere, ben sapendo che a imporlo sono stati proprio i tecnocrati di Bruxelles: «La Grecia l’hanno rovinata e insistono nell’applicare le loro ricette distruttive». In altre parole: anche se Syriza non propone ricette per uscire dalla crisi e neppure dal cappio del rigore, limitandosi solo a una più equa ripartizione del peso sociale del disastro, secondo Tsipras la sola vittoria della sua sinistra in Grecia basterebbe a mettere paura ai padroni tedeschi dell’Europa, gli inventori dell’austerity, generando uno smottamento virtuoso in senso democratico. Tutto questo, senza osare alcunché: Syriza annuncia che non farà nulla per mettere in discussione l’impianto economico di Bruxelles, basato sui falsi dogmi di chi ha ideato e imposto la tragedia europea. Per contro, finora la sinistra greca non è stata “complice” dell’euro-sistema. Basta dunque questa sua estraneità a farne il salutare spauracchio di cui parla Zizek?

    La Troika va trascinata in tribunale, perché i popoli europei – a partire da quello greco – siano finalmente risarciti delle atroci sofferenze loro inflitte dai “nani” tecnocratici di Bruxelles, la feroce casta filo-tedesca, neoliberista e mercantilista che ha trasformato l’Europa nel regno neo-feudale della crisi, minacciando l’intera economia mondiale. Aberrazioni spacciate per dogmi, da funzionari mediocri: gentaglia che in un’azienda sarebbe in grado, al massimo, di accendere e spegnere i computer. Si esprime in questi termini Alexis Tsipras, in vista del voto greco forse decisivo per il futuro dell’euro, senza però annunciare la chiara volontà di uscire dall’orrore della moneta unica che ha ridotto alla fame la Grecia e terremotato mezza Europa. Di più: a parole, il leader di Syriza si scaglia contro l’austerity. Ma non intende rinunciare neppure al più micidiale strumento di austerity imposto dall’Ue, il pareggio di bilancio. Incongruenze incomprensibili o ambigui tatticismi pre-elettorali, nel timore che i “mercati” facciano a pezzi la sinistra greca dopo il voto?

  • Maestri pagati con buoni pasto: la Francia sta per fallire

    Scritto il 26/12/14 • nella Categoria: segnalazioni • (6)

    «C’è una realtà fittizia, quella dei desideri, il bel sogno. E poi c’è la triste realtà dei fatti, quella che la stragrande maggioranza delle persone non vuole vedere». Secondo Charles Sannat, il fallimento tecnico della Francia, anch’essa prostrata dal regime dell’euro, è più vicino di quanto non si creda: le casse dello Stato sono vuote. «La questione non è più sapere se lo Stato farà o non farà fallimento, ma quando sarà obbligato a riconoscerlo e quali saranno le modalità con cui rinegozierà il debito». Per Sannat «non succederà fra vent’anni, né tantomeno oggi, ma più verosimilmente nel 2015, quando probabilmente non riusciremo a far fronte al budget per il 2016» Tutto questo, aggiunge l’analista, avviene nella quasi-indifferenza generale. Lo definisce “accecamento volontario”: «Pensare che la Francia stia per fallire è talmente spaventoso che preferiamo chiudere gli occhi e fare come gli struzzi». E poi c’è il conformismo del gruppo: «Vogliamo assomigliarci tutti quanti per sentirci accettati», quindi «il nostro pensiero sarà sempre il pensiero comune del gruppo», quello che riteniamo accettabile. «È attraverso questo meccanismo che si spiegano il “consenso”, il “pensiero unico” o, ancora, le proposte tranquillizzanti che ci somministrano».
    Tenendo conto di questa dimensione psicologica, aggiunge Sannat in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”, si ottiene «una schiacciante maggioranza di persone che “creano” il consenso e che, per non dover guardare la fredda e mostruosa realtà, si accecano volontariamente e sviluppano un pensiero unico sterilizzante, che difenderanno con le unghie». E chi dice come stanno realmente le cose «diventa il nemico del gruppo, e il gruppo cercherà di eliminarlo: il suo messaggio non deve essere ascoltato». Secondo l’analista, gli indizi del collasso imminente sono già sotto i nostri occhi. E continuare a non volerli vedere significherà solo provare più sofferenza al momento dell’impatto definitivo con la realtà, nonostante la camomilla mediatica del mainstream, l’informazione «superficiale e senza analisi», che mescola «gossip ed economia in un mondo in cui tutto si eguaglia e non c’è più una gerarchia di rilevanze». Lo conferma Joëlle, maestra senza salario che tira avanti con i buoni alimentari. Segnala l’agitazione degli insegnanti della scuola superiore per il corpo docente. «Cosa chiedono? Una revisione della loro formazione, mal concepita, ma anche il saldo dei salari di alcuni colleghi che dall’inizio dell’anno scolastico non sono ancora stati pagati».
    Ufficialmente, è sempre colpa dei “sistemi informatici” o dei ritardi amministrativi, ma la realtà – secondo “Le Parisienne” – è che «non c’è più denaro nelle casse, così ai giovani maestri si rifilano buoni pasto». Non ci sono più soldi, e «il fallimento è alle porte», avverte “Économie Matin”, secondo cui il sistema delle pensioni integrative «rischia la bancarotta nel 2017-2018». Intanto, stanno già per essere tagliate addirittura del 30% le pensioni complementari dei funzionari. Secondo “France Info”, una brutta sorpresa aspetta i 110.000 dirigenti pubblici a riposo, che si vedranno ridurre di un terzo la loro pensione. Ancora dubbi? «Non c’è più trippa per gatti», scrive “France Transactions”: «Fine della storia, siamo al capolinea già adesso». Dagli statali alla difesa: «Dato che non abbiamo più il becco di un quattrino – scrive Sannat – l’esercito rivenderà il proprio equipaggiamento a società private». Emmanuel Macron è favorevole, Michel Sapin contrario, e Hollande ha dato ragione al primo. «In questo modo, l’esercito percepirà subito qualche miliardo dalla vendita, cosa che permetterà di chiudere un buco di oltre 2 miliardi di euro nel budget della difesa». Dopodiché, le forze armate pagheranno un “affitto” per l’uso di quello stesso materiale. «Risultato: l’anno prossimo bisognerà trovare qualcos’altro per far quadrare i conti», secondo “Les Échosos”.
    Una “catastrofe annunciata”, addirittura, attende le forze dell’ordine, polizia e Gendarmerie. Mentre «diverse migliaia di poliziotti hanno sfilato a Parigi per denunciare le loro condizioni di lavoro e il malessere che regna nella polizia, iniziativa quanto mai rara per questa categoria», un articolo di “Le Figaro” rivela che «le auto delle forze dell’ordine sono alla frutta e che non c’è più denaro per comprarne altre», anche se lo Stato continua a foraggiare la Renault per l’acquisto di «inutili» veicoli elettrici. Sono solo alcuni esempi, osserva Sannat. E se Parigi è senza soldi, significa una sola cosa: le tasse aumenteranno ancora. «Per sopravvivere, lo Stato andrà fino in fondo nella sua logica mortale». Incapace di riforme da oltre 50 anni, ancora poggiato sull’eredità dei “Trente Glorieuses”, il trentennio del boom economico (1945-1973) che ormai non è che un vago ricordo, l’amministrazione è «sotto pressione per l’ingresso di centinaia di migliaia di nuovi pensionamenti l’anno, per i quali almeno 12 mesi prima deve essere in grado di versare loro la prima pensione». Senza più moneta sovrana diventa insostenibile «il peso di decenni di debito accumulato». I francesi sono «soffocati da una fiscalità sempre più dura, fino a uccidere ogni attività economica». Conclude Sannat: «Con la perdita della nostra sovranità monetaria e di spesa, la Francia è di fatto condannata al fallimento finanziario, peraltro già cominciato sotto i nostri occhi».

    «C’è una realtà fittizia, quella dei desideri, il bel sogno. E poi c’è la triste realtà dei fatti, quella che la stragrande maggioranza delle persone non vuole vedere». Secondo Charles Sannat, il fallimento tecnico della Francia, anch’essa prostrata dal regime dell’euro, è più vicino di quanto non si creda: le casse dello Stato sono vuote. «La questione non è più sapere se lo Stato farà o non farà fallimento, ma quando sarà obbligato a riconoscerlo e quali saranno le modalità con cui rinegozierà il debito». Per Sannat «non succederà fra vent’anni, né tantomeno oggi, ma più verosimilmente nel 2015, quando probabilmente non riusciremo a far fronte al budget per il 2016» Tutto questo, aggiunge l’analista, avviene nella quasi-indifferenza generale. Lo definisce “accecamento volontario”: «Pensare che la Francia stia per fallire è talmente spaventoso che preferiamo chiudere gli occhi e fare come gli struzzi». E poi c’è il conformismo del gruppo: «Vogliamo assomigliarci tutti quanti per sentirci accettati», quindi «il nostro pensiero sarà sempre il pensiero comune del gruppo», quello che riteniamo accettabile. «È attraverso questo meccanismo che si spiegano il “consenso”, il “pensiero unico” o, ancora, le proposte tranquillizzanti che ci somministrano».

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