Archivio del Tag ‘Pier Ferdinando Casini’
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Magaldi: Draghi ci ha deluso, ma l’alternativa dov’è?
Per chi avesse ancora interesse a scrutare tra i retroscena della politica, cioè il teatro d’ombre dove oggi si recita l’ipocrisia di una pace apparente mentre si sta portando la guerra in tutte le case a colpi di vessazioni surreali, vale comunque la pena di ascoltare la voce di un politologo atipico come Gioele Magaldi, autore nel 2014 del saggio “Massoni” dedicato al ruolo occulto delle superlogge sovranazionali che dominerebbero il “back office” del potere. Cosa dice, oggi, Magaldi? Due cose. La prima: Mario Draghi lo ha profondamente deluso, come primo ministro. La seconda: forse avrebbe l’autorevolezza per propiziare, dal Quirinale, la svolta che non ha voluto o potuto imprimere da Palazzo Chigi, mentre tutte le alternative quirinalizie (nomi del calibro di Casini) non farebbero che riproporre una grigia continuità, rispetto all’operato di Mattarella.La posizione di Magaldi, massone progressista e presidente del Movimento Roosevelt, è nota: serve una rivoluzione copernicana, per archiviare per sempre la stagione del rigore. Rivoluzione che lo stesso Draghi era sembrato evocare, nel forte richiamo al New Deal rooseveltiano e keynesiano pubblicato sul “Financial Times” nel 2020, auspicando il ritorno a una politica finanziaria espansiva. Ora ha riproposto lo stesso tema – in tandem con Macron – chiedendo, appunto, una radicale revisione di Maastricht e dei parametri europei che limitano severamente la spesa pubblica, sabotando l’economia reale. Sembra l’unica luce, dice Magaldi, nell’ultima stagione di un Draghi che ha sostanzialmente deluso, come primo ministro, su tutti i fronti. Doveva propiziare una brusca sterzata nella politica economica italiana, ma non è andato oltre le briciole.Peggio che andar di notte, se pensiamo alla gestione dell’affare Covid: rispetto alla gestione Conte, ha soltanto rimosso figure come quella di Arcuri. Di fatto, non ha osato (o voluto) cambiare l’approccio al problema: l’intollerabile coercizione ricattatoria (imporre il Tso) oscura la gravissima omissione a monte, cioè la rinuncia ad adottare efficaci protocolli di cura. Terapie che – dicono centinaia di medici – avrebbero salvato vite e svuotato gli ospedali: ma in quel modo, sgonfiandosi l’emergenza, sarebbe stato impossibile imporre i sieri genici sperimentali come unica soluzione. Secondo Magaldi, i massoni progressisti controllano un discreto pacchetto di voti parlamentari: non abbastanza per garantire a Draghi la certezza dell’elezione al Colle, ma sufficienti per bocciarlo. Che fare? Non abbiamo ancora deciso, dice Magaldi a Fabio Frabetti di “Border Nights”: in queste ore i circuiti massonici “rooseveltiani” chiederanno chiarimenti a quello che, fino a ieri, era il loro candidato.L’analisi di Magaldi aiuta ad approfondire le reali dinamiche del potere, che anche storicamente rispondono a logiche sovranazionali interpretate da filiere contrapposte, progressiste e reazionarie. Mario Draghi – se si ravvedesse – potrebbe essere davvero una carta utile, per l’Italia, nell’Europa post-merkeliana? Certo, l’ex liquidatore del Belpaese ha ora peggiorato ulteriormente il suo curriculum patriottico. Prima ancora della scelta di imporre (pena la perdita del lavoro e di quasi tutte le libertà) questi sieri Rna che nella migliore delle ipotesi risultano inefficaci, Draghi sconta la colpa storica non aver cestinato il paradigma del terrore sanitario: e rifiutarsi di curare i pazienti, in attesa del peggioramento e dell’ospedalizzazione, è qualcosa di più di un errore. Lo ha appena detto anche il Tar del Lazio: ai medici è stato impedito di agire secondo scienza e coscienza. E Mario Draghi non può pensare di non risponderne.Le alternative a Draghi, al Qurinale, sarebbero tutte peggiori? Questo spiega ancora meglio la profondità dell’abisso nel quale l’Italia è precipitata, nonostante Draghi (o grazie a lui), proprio mentre l’Occidente colpito dalla gestione emergenziale sta inziando a dare segni di risveglio. Negli Usa, la Corte Suprema ha bocciato l’obbligo vaccinale preteso da Biden. E mentre la Gran Bretagna corre verso l’abolizione di ogni residua restrizione, la Spagna annuncia che proporrà all’Ue di trattare la “variante Omicron” come un normale raffreddore. La sensazione è che una quota rilevante di opinione pubblica, anche in Italia, stia ormai aprendo gli occhi. E si può immaginare quale entusiasmo possa mostrare, all’idea che il suo “carceriere” diventi presidente della Repubblica. I lockdown di Conte erano pesantissimi, così come il coprifuoco, ma almeno avevano carattere temporaneo. Il Green Pass, invece, ha l’aria di candidarsi a diventare permanente.Proprio Gioele Magaldi è stato tra i primi, in Italia, a denunciare la “cinesizzazione” dell’Occidente e la matrice oligarchica del potere che ha manipolato l’emergenza Covid. L’autore di “Massoni” accusa determinate superlogge “neoaristocratiche”, che avrebbero utilizzato il potere cinese per revocare progressivamente i diritti dell’Occidente. Mario Draghi, fino a ieri campione proprio di quelle superlogge, due anni fa si sarebbe convertito al progressismo, promettendo di cambiare registro. E invece, finora, agli italiani ha inflitto sofferenze infinite: tormenti probabilmente anche incostituzionali, che stanno letteralmente minando l’economia, la scuola, la sanità, la società nel suo insieme. Il vulnus inferto da lui e da Conte in questi ultimi due anni sta producendo una disaffezione dilagante, destinata a farsi sentire, a prescindere da quale sarà il prossimo capo dello Stato.Per chi avesse ancora interesse a scrutare tra i retroscena della politica, cioè il teatro d’ombre dove oggi si recita l’ipocrisia di una pace apparente mentre si sta portando la guerra in tutte le case a colpi di vessazioni surreali, vale comunque la pena di ascoltare la voce di un politologo atipico come Gioele Magaldi, autore nel 2014 del saggio “Massoni” dedicato al ruolo occulto delle superlogge sovranazionali che dominerebbero il “back office” del potere. Cosa dice, oggi, Magaldi? Due cose. La prima: Mario Draghi lo ha profondamente deluso, come primo ministro. La seconda: forse avrebbe l’autorevolezza per propiziare, dal Quirinale, la svolta che non ha voluto o potuto imprimere da Palazzo Chigi, mentre tutte le alternative quirinalizie (nomi del calibro di Casini) non farebbero che riproporre una grigia continuità, rispetto all’operato di Mattarella.
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Moncalvo: Loggia Ungheria? Ma la stampa tace su tutto
Per capire in che paese viviamo, basta vedere come sono messi oggi i 5 Stelle: secondo il tribunale di Cagliari, il loro legale rappresentante non è Crimi o qualche altro parlamentare, men che meno Giggino Di Maio (ospite di Boris Johnson agli esclusivi tavoli di Annabelle’s a Mayfair, alla faccia degli italiani) ma è il simpatico avvocato Silvio De Murtas, che ironicamente dice di essere uno che alleva “trenta pecore e qualche maiale”. In qualità di legale rappresentante del movimento fondato da Grillo e Casaleggio, vedremo mai l’avvocato Murtas ospite del Quirinale o della signora Gruber, vera rappresentante del pluralismo giornalistico di questo paese insieme a Scanzi, alla signora Berlinguer e all’eroe nazionale Floris? Cosa pensa, l’avvocato Murtas? Come parla, cosa dice? Faccio una scommessa: sono pronto ad amputarmi il braccio destro, se qualcuno dei nostri anchorman lo inviterà in qualche talkshow, ora che tecnicamente è il nuovo capo dei grillini.Come funziona il sistema mediatico lo capii anni fa, quando a Napoli fui invitato da un editore che intendeva affidarmi la direzione del quotidiano “L’Indipendente”, qualora fosse stato fatto rinascere. Avrei dovuto coabitare con l’allora giovane Gennaro Sangiuliano, ora direttore del Tg2. Con Sangiuliano ebbi un cordiale incontro, al bar. Mi mostrò le prove di un vero e proprio scoop, le foto di Pier Ferdinando Casini – al tempo, non ancora presidente della Camera ma già tra i leader del centrodestra – in compagnia dell’allora fidanzata “clandestina”, la ventenne Azzurra Caltagirone. Sangiuliano scriveva sul “Roma”, storico quotidiano partenopeo. «Cosa aspetti a pubblicare quelle foto?», gli domandai. E lui: «Ma che, sei matto? Io quelle foto non le pubblico: anzi, le ho mandate all’onorevole Casini, per conquistare la sua perenne gratitudine». Al che, finito l’incontro con Sangiuliano, tornai dall’editore, gli raccontai tutto e gli dissi che non avrei mai potuto avere Sangiuliano come vicedirettore. L’editore si mise a ridere: «Ha ragione, Moncalvo».Siamo il paese dei Ferragnez, della professoressa D’Urso e di Enrico Letta, che tace sulla Superlega ma in compenso si inventa una nuova formula per la Coppa Italia. Cioè: non pago delle proposte appena formulate su temi cruciali e irrinunciabili, per gli italiani – dallo ius soli al voto ai sedicenni – ora si mette a parlare anche di calcio, anziché occuparsi di politica. E a proposito: avete mai sentito Letta dire una parola contro Andrea Agnelli, quando gli è venuta la sciagurata idea della Superlega? Quella semmai sarebbe stata una battaglia da fare: tutelare il calcio povero, contro le squadre ricche. Macché: non c’è pericolo che un politico italiano osi criticare un Agnelli, giammai. Quanto al Pd, ormai è un partito esclusivamente romano, dominato da figure come Letta e Bettini. Mettersi a parlare di Coppa Italia? Ma questi sono da trattamento sanitario obbligatorio.Ora siamo alle prese con una curiosissima gara, che vede schierato il fior fiore del giornalismo italiano: “Repubblica”, il “Fatto”, Mentana. La segretaria di Piercamillo Davigo ha trovato sul tavolo un dossier sulla presunta Loggia Ungheria (entità massonica con magistrati, prefetti, comandanti dei carabinieri) e lo ha spedito ad alcuni giornali. E cos’hanno scritto? Niente. E questo, nonostante il plico contenesse le dichiarazioni messe a verbale dall’avvocato Piero Amara, a lungo legale dell’Eni. Di fronte a notizie simili, il giornalista italiano – specie se di alto livello – non fa un tubo. Eppure, era facile verificare: bastava chiedere conferma ad Amara di esser stato effettivamente interrogato, dai magistrati. E invece no: silenzio, dai direttori “tromboni”, che poi magari si vantano di dire “tutta la verità” sulla mafia. Stavolta si sono fatti bagnare il naso da Emiliano Fittipaldi, del quotidiano “Domani” (di De Benedetti) che invece il suo dovere l’ha fatto e la notizia l’ha data.Bella figura, per i presunti depositari della verità: i Mentana, i Travaglio. Mentana ha ammesso: sì, a febbraio gli erano arrivati elementi di questa storia (Amara, i legami tra Acqua Marcia e Conte) ma non vi diede alcun seguito. Capito, come gira il mondo? Tanti anni fa, quando “La7″ era di proprietà di Telecom, quindi di Marco Tronchetti Provera, Gad Lerner – allora in forza alla rete – ricevette un dossier, con anche una videocassetta, che dimostrava un presunto caso di spionaggio, un lavoro commissionato da Telecom a un’agenzia di investigazioni contro un loro concorrente brasiliano. E Gad Lerner cosa ha fatto, di quella busta? Ha verificato se le informazioni del dossier fossero vere? Nossignore: ha richiuso la busta e l’ha consegnata a Tronchetti Provera. Poi, vi chiedete come mai sono stati liquidati con miliardi di lire – lui, Fabio Fazio e altri, che allora erano a “La7″ al tempo di Tronchetti Provera – ora la risposta ce l’avete. Come chiamare, questo? La presa per i fondelli dei lettori, dei telespettatori, del popolo bue.Quando nacque l’Auditel, per truccare gli ascolti a scopo pubblicitario, il patto era tra Gianni Letta (per Mediaset) e Biagio Agnes (direttore generale della Rai). Adesso, a trent’anni di distanza, sempre lui – lo zio di Enrico Letta – ha proposto come nuovo presidente della Rai la figlia di Biagio Agnes, Simona: e questa è la quadratura del cerchio. Siamo il paese in cui Matteo Renzi spiega di aver incontrato a febbraio, in un autogrill, un uomo dei servizi segreti come Marco Mancini, “chiarendo” che Mancini doveva consegnargli i “babbi al cioccolato” (meravigliosi wafer di Cesena) che non era riuscito a recapitagli per Natale. Siamo il paese in cui l’editore deve ritirare dalle librerie “Il sistema”, libro-intervista di Sallusti e Palamara, perché un magistrato – Armando Spataro – ha trovato inappropriati alcuni passaggi che lo riguardano: così si scopre che anche Palamara è un quacquaracquà.Io sono stato vittima di un tentativo di censura preventiva da parte di Jacaranda Falck Caracciolo di Melito, figlia adottiva di Carlo Caracciolo, mentre stavo per dare alle stampe il mio libro “I Caracciolo”. Prima ancora che il libro uscisse, per l’editore Rubbettino, lei e l’avvocato mi scrissero chiedendomi di non farlo uscire, quel libro. Io risposi con un pernacchione, l’editore si rifiutò di pubblicarmi ma il libro uscì lo stesso, da me pubblicato su Amazon. Curioso, poi, scoprire che Jacaranda Falck Caracciolo oggi figura tra i primi azionisti di “Repubblica” e dell’intero gruppo Gedi: posso immaginare quale concezione abbia, del giornalismo, questa signora della censura preventiva, di fronte a cui i suoi giornalisti si appecoronano. Qualcosa del genere deve avvenire a Mediaset: dalla pagina web delle “Iene” è letteralmente sparita un’intera parte che riguardava i voli di Stato della presidente del Senato, Elisabetta Casellati.Un altro libro ormai famoso, quello di Roberto Speranza (”Perché guariremo”), benché sia stato ritirato dalle libreire italiane è però regolarmente acquistabile sul sito francese di Amazon. Possibile che ci dobbiamo pensare noi, ad acquistare il libro facendolo arrivare dalla Francia, per poterlo divulgare? Speranza è al centro delle cronache: possibile che i giornaloni non ne parlino? Lo ha fatto solo il sito “Linkiesta”. E i grandi giornali? La notizia è doppia: il libro lo ha scritto il ministro, ed è stato ritirato dal commercio. Forse ormai si è perso il concetto stesso, di notizia: secondo i giornalisti italiani, la notizia è una cosa che non esiste più, così come la curosità. Sono tutti lì con la D’Urso e con il capo della cupola, cioè Maria De Filippi, che è “il marito” di Maurizio Costanzo. Tornando alla Loggia Ungheria, mi torna in mente una frase di Gianfranco Funari: «Se andiamo a cena noi due, con anche tua moglie e la mia compagna, passiamo una bella serata in allegria. Se invece vanno a cena un magistrato, un ufficiale dei carabinieri, un notaio, un commercialista e un avvocato, non è per fare quattro risate, ma per inchiappettare qualcuno o per fare qualche affare».(Gigi Moncalvo, dichiarazioni rilasciate il 6 maggio 2021 nella trasmissione web-streaming “Silenzio stampa” su “Forme d’Onda”, con Rudy Seery e Stefania Nicoletti).Per capire in che paese viviamo, basta vedere come sono messi oggi i 5 Stelle: secondo il tribunale di Cagliari, il loro legale rappresentante non è Crimi o qualche altro parlamentare, men che meno “Giggino” Di Maio (ospite di Boris Johnson agli esclusivi tavoli di Annabelle’s a Mayfair, alla faccia degli italiani) ma è il simpatico avvocato Silvio Demurtas, che ironicamente dice di essere uno che alleva “trenta pecore e qualche maiale”. In qualità di legale rappresentante del movimento fondato da Grillo e Casaleggio, vedremo mai l’avvocato Demurtas ospite del Quirinale o della signora Gruber, vera rappresentante del pluralismo giornalistico di questo paese insieme a Scanzi, alla signora Berlinguer e all’eroe nazionale Floris? Cosa pensa, l’avvocato Demurtas? Come parla, cosa dice? Faccio una scommessa: sono pronto ad amputarmi il braccio destro, se qualcuno dei nostri anchorman lo inviterà in qualche talkshow, ora che tecnicamente è il nuovo capo dei grillini.
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I potenti al tempo di Matteo, fuoriclasse nel fregare tutti
“I potenti al tempo di Renzi” è il titolo di un libro venuto alla luce in questi giorni, suscitando curiosità. Scritto da Luigi Bisignani con Paolo Madron (entrambi giornalisti, anche se il primo non si è limitato a lavorare in redazione: si è occupato di molto altro), racconta i retroscena della politica e le gesta dei suoi protagonisti, quasi tutti arrampicatori, alcuni acrobati. Da quel che si legge nel volume, edito da “Chiarelettere”, si capisce che nella presente congiuntura il più abile e spericolato scalatore è l’attuale premier, il quale sin da quando frequentava la scuola materna ha sempre puntato non a essere il primo della classe, cosa di cui non gli importava e non gli importa nulla, bensì a impadronirsi del potere. Si è talmente allenato nell’esercizio di conquistarlo e amministrarlo da non avere, oggi, alcun rivale in grado di contrastarlo. Bisignani e Madron, stimolandosi a vicenda, ricostruiscono per filo e per segno i passi da gigante compiuti dal giovin fiorentino per giungere in fretta sulle più alte vette istituzionali.Contornandosi di amici di ogni tipo, specialmente democristiani, ex boy scout, progressisti all’acqua di rose e cattolici opportunisti, a 28 anni Renzi aveva già il bastone del comando in mano e l’ha utilizzato per farsi eleggere presidente della Provincia di Firenze, infinocchiando col sorriso sulle labbra i reduci del comunismo militante che avevano visto in lui un astro nascente. Nell’arte sovrana di fottere i compagni, Matteo ha la stoffa del fuoriclasse. Basti pensare alla destrezza con cui è passato da sindaco del capoluogo toscano a segretario del Pd: si è mangiato l’ottimo Pier Luigi Bersani come una merendina, poi si è divorato in un sol boccon l’ingenuo Enrico Letta e si è insediato a Palazzo Chigi, da cui medita di uscire coi piedi davanti, cioè post mortem. Le premesse affinché il suo piano – resistere a capo del governo sino al termine della vita – si compia, ci sono tutte. Le ha create egli stesso assegnando i posti chiave a pretoriani fidatissimi che lo proteggono; di più, lo adorano perché senza la sua spinta non sarebbero mai entrati nelle stanze che contano.Renzi in pratica si è dotato di un esercito di miracolati, la sopravvivenza dei quali è legata alla sua. Per cui essi si batteranno senza risparmio per salvarlo in quanto è l’unico modo per salvare sé medesimi. Così si fa per durare. Nell’estensione e nella conservazione del potere, Renzi ha fatto proprie le tecniche dei vecchi principi della Democrazia cristiana (Amintore Fanfani e Giulio Andreotti), affinandole, perfezionandole e adeguandole alla velocità che caratterizza la nostra epoca. Egli vuole tutto e subito. Se non lo ottiene, finge di averlo ottenuto e strombazza risultati illusori camuffandoli in maniera che sembrino autentici, credibili agli occhi del popolo, ovviamente bue. Il presidentino non si arrende, ma arretra, cambia idea e tattica, spacciando ogni mutamento di linea come un aggiustamento di tiro. Il suo ottimismo è persuasivo e contagioso. I suoi discorsi si bevono come acqua fresca e rigenerante, fanno digerire il politichese che gli italiani hanno ingoiato per 70 anni fino a provarne nausea.Egli è imbattibile nel prendere in giro l’uditorio e nel sedurlo inondandolo di parole che dipingono sogni irrealizzabili. “L’Italia riparte” è il suo slogan preferito e idoneo a far scattare l’applauso. Oddio, il paese in effetti è ripartito, però a marcia indietro; questo almeno si evince dall’esame dei dati macroeconomici. Pochi si accorgono dei bluff renziani. L’uomo ama sorprendere. Non calcola i propri attacchi, li azzarda, prende alla sprovvista gli avversari e li rottama. Non conosce né la coerenza né la lealtà: va dritto verso l’obiettivo e, se non lo raggiunge, si giustifica così: calma, quasi ci siamo. Non sarà facile scalzarlo. Manca chi sia attrezzato per dargli lo spintone decisivo. La destra è impegnata a riorganizzarsi e non è pronta a superarlo. La sinistra è disorientata dal proprio leader e lo subisce come una calamità naturale. Insomma, il cosiddetto “uomo solo al comando” arriva sempre primo proprio perché corre da solo, privo di antagonisti all’altezza.La vicenda dell’elezione al Quirinale di Sergio Mattarella, nella ricostruzione di Bisignani e Madron, merita di essere letta. Nei giorni delle votazioni, dentro il Palazzo è successo di tutto. Nelle trattative mise il becco anche Pier Ferdinando Casini, e ciò spiega perché il centrodestra se la pigliò in saccoccia. Pagine che oscillano tra la cronaca e la barzelletta: imperdibili per chi desideri comprendere in quale paese ci tocca campare. Alla stessa stregua si gustano i brani del capitolo che affronta le fregature rifilate da Renzi al suo mentore Francesco Rutelli. Matteo gli ha sfilato i migliori collaboratori, isolandolo completamente. Invece di premiarlo per l’aiuto ricevuto, lo ha scaricato senza indugio, considerandolo probabilmente un pezzo di ferro arrugginito. Il cinismo è l’arma migliore del signorino premier. Un’arma che egli maneggia con maestria. Quanto alle donne, di cui ama circondarsi quali collaboratrici (domestiche), le usa e da esse non si fa usare. Chiamatelo fesso.(Vittorio Feltri, “Matteo fuoriclasse, a fregare gli altri”, da “Il Giornale” del 16 aprile 2015. Il libro: Luigi Bisignani e Paolo Madron, “I potenti al tempo di Renzi”, Chiarelettere, 250 pagine, 15 euro).“I potenti al tempo di Renzi” è il titolo di un libro venuto alla luce in questi giorni, suscitando curiosità. Scritto da Luigi Bisignani con Paolo Madron (entrambi giornalisti, anche se il primo non si è limitato a lavorare in redazione: si è occupato di molto altro), racconta i retroscena della politica e le gesta dei suoi protagonisti, quasi tutti arrampicatori, alcuni acrobati. Da quel che si legge nel volume, edito da “Chiarelettere”, si capisce che nella presente congiuntura il più abile e spericolato scalatore è l’attuale premier, il quale sin da quando frequentava la scuola materna ha sempre puntato non a essere il primo della classe, cosa di cui non gli importava e non gli importa nulla, bensì a impadronirsi del potere. Si è talmente allenato nell’esercizio di conquistarlo e amministrarlo da non avere, oggi, alcun rivale in grado di contrastarlo. Bisignani e Madron, stimolandosi a vicenda, ricostruiscono per filo e per segno i passi da gigante compiuti dal giovin fiorentino per giungere in fretta sulle più alte vette istituzionali.
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Giannuli: la grazia a Berlusconi, poi Amato al Quirinale?
La grazia a Berlusconi, in cambio del “proprio” candidato alla successione al Qurinale: Giuliano Amato. Secondo Aldo Giannuli, per designare il suo “erede” sul Colle, Napolitano avrebbe in tasca «il vero asso da calare», il colpo di spugna per il Cavaliere: «Otterrebbe i voti di Fi e vicini, garantirebbe il Nazareno e caricherebbe la responsabilità della decisione sulle spalle di un presidente in uscita, togliendo le castagne dal fuoco del successore». E Renzi? Per lui, «il presidente perfetto è quello che non esiste, l’ideale sarebbe lasciare il Quirinale sede vacante: per questo pensa a candidati come la Pinotti, Franceschini, Fassino», cioè «gente che non gli farebbe ombra», candidati impalpabili. In Parlamento, Amato «conta molti più nemici che amici», sicuramente è inviso a Lega, FdI e M5S, «Berlusconi non lo odia particolarmente, ma neppure lo ama tantissimo», accoglienza tipeida nel centro, «dove però non ha neppure nemici giurati». Certo «non è simpatico né a Sel né alla sinistra Pd», forse «può contare su qualche tiepida simpatia di Bersani e D’Alema, che però a loro volta di amici ne hanno davvero pochi». Ma, soprattutto, «è Renzi che lo vede come il fumo negli occhi».Eppure, scrive Giannuli nel suo blog, il “dottor sottile” di Craxi potrebbe anche essere la carta coperta di Napolitano, sempre che il capo dello Stato non ceda alle pressioni di Renzi per restare al Colle fino a maggio, anziché lasciare a gennaio. Certo, la grande partita è aperta: «Gli interessati, quasi tutti, a cominciare da Prodi, smentiscono di essere interessati, il che è la conferma più sicura che sono candidati». Il toto-presidente già impazza, da Veltroni alla Finocchiaro. E Amato? Possibile che non sia nella rosa dei papabili? «In tutta la sua interminabile carriera – osserva Giannuli – l’abilità di Giuliano Amato è sempre stata quella di galleggiare a pelo d’acqua senza avere un esercito proprio. E’ stato anche presidente del Consiglio e varie volte ministro, ma non è mai stato segretario di un partito, è stato vicesegretario del Psi ma senza mai avere una propria corrente». La sua abilità? «Coltivare contatti coi più diversi settori della classe dominante: è molto amico dei francesi, come Bassanini, ma non è certo inviso a tedeschi ed americani, ha molti amici in Loggia ma non è sgradito in Curia, ha sempre operato nell’area laico-socialista ma ha sempre avuto solide amicizie tanto nella Dc quanto nel Pci», essendo anche «amico dei sindacati», ma non-nemico della Confindustria.«Riuscirebbe a essere trasversale anche tra Inferno e Paradiso, amico del Padreterno ma simpatico anche a Satana», scherza Giannuli. Amato «gode di un carisma molto particolare, dovuto alla sua fama consolidata di grande giurista e di esperto di finanza». Fine, disinvolto, raffinato e convincente. «Sarebbe capace di dimostrarti che la camicia che porti addosso, in realtà, gli appartiene, anche se tu non lo sai, e alla fine ti convincerebbe a dargliela, e poi gli pagheresti anche la parcella per la consulenza». Un uomo così, insiste Giannuli, è destinato a emergere nei momenti di crisi, quando l’impasse impone la scelta di un super-partes, un “tecnico”. Grande galleggiatore, Amato: dal Psiup di Antonio Giolitti passò al Psi di Bettino Craxi, di cui fu consigliere nei giorni del “decreto di San Valentino”, per poi diventare anticraxiano e alleato del Pds, quindi occhettiano, poi dalemiano, e così via.«Questa disinvolta prassi politica, se condotta con la necessaria abilità, può garantire una carriera lunga e carica di successi ma, anche quando non manchi la maestria, conquista molti nemici che, prima o poi, diventano troppi». Sulla carta, ragiona Giannuli, oggi Amato metterebbe insieme non più di 60-70 voti. Anche nell’ipotesi del candidato “istituzionale”, sarebbe appesantito dal suo passato: troppi incarichi politici per poter essere speso come “potere neutro” (più adatti, in qual caso, Casini e Monti). Ma i giochi sono aperti. E Amato «ha un importante sponsor in Napolitano». Intanto, il presidente uscente potrebbe presentarlo «come il suo successore nel ruolo di regista del Nazareno» e, per di più, «giocare la carte dei suoi rapporti in Europa», di cui Renzi potrebbe aver bisogno. Un ruolo, rispetto a Bruxelles, «che sicuramente non potrebbe essere assicurato da mezze scartine come la Pinotti e Franceschini, e probabilmente neppure da quel budino di Veltroni». Se il Cavaliere resta in sella e il Patto del Nazareno sopravvive, ipotizza Giannuli, sarebbe dunque avventato scartare l’ipotesi-Amato, eventualmente sostenuta da Napolitano in cambio della piena riabilitazione di Berlusconi.La grazia a Berlusconi, in cambio del “proprio” candidato alla successione al Qurinale: Giuliano Amato. Secondo Aldo Giannuli, per designare il suo “erede” sul Colle, Napolitano avrebbe in tasca «il vero asso da calare», il colpo di spugna per il Cavaliere: «Otterrebbe i voti di Fi e vicini, garantirebbe il Nazareno e caricherebbe la responsabilità della decisione sulle spalle di un presidente in uscita, togliendo le castagne dal fuoco del successore». E Renzi? Per lui, «il presidente perfetto è quello che non esiste, l’ideale sarebbe lasciare il Quirinale sede vacante: per questo pensa a candidati come la Pinotti, Franceschini, Fassino», cioè «gente che non gli farebbe ombra», candidati impalpabili. In Parlamento, Amato «conta molti più nemici che amici», sicuramente è inviso a Lega, FdI e M5S, «Berlusconi non lo odia particolarmente, ma neppure lo ama tantissimo», accoglienza tipeida nel centro, «dove però non ha neppure nemici giurati». Certo «non è simpatico né a Sel né alla sinistra Pd», forse «può contare su qualche tiepida simpatia di Bersani e D’Alema, che però a loro volta di amici ne hanno davvero pochi». Ma, soprattutto, «è Renzi che lo vede come il fumo negli occhi».
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L’agenda del governo? Scritta dall’ambasciata Usa
Cari elettori italiani, sapevate che il programma di governo – qualsiasi governo – lo scrive direttamente l’ambasciatore Usa a Roma? Fateci caso: l’attuale politica economica di Renzi – rottamare lo Stato e svendere l’Italia – è esattamente quanto richiesto dall’“amico americano”. «Quando, allevato, sostenuto e finanziato, si ritenne Renzi pronto, scattò l’operazione “Renzi al governo”», scrive Stefano Ali. «Goldman Sachs, McKinsey, Morgan Stanley, Ubs e perfino la nostrana Unicredit si sperticarono in “endorsement”». È noto il caso Ubs che, in un report per l’Eurozona nel gennaio 2014 individuava già Renzi quale capo del governo. «È evidente che un report di quel genere non potesse essere prodotto in una settimana: erano già mesi, quindi, che Renzi era il capo del governo predestinato. Sulle stesse “primarie” (tanto discusse sotto l’aspetto della trasparenza) si allunga l’ombra di una sovra-organizzazione a sostegno di Renzi. L’ultima spinta a Napolitano venne data con lo “scandalo Friedman”: a proposito, ne avete mai più sentito parlare, dopo l’incarico a Renzi?».Col “rottamatore”, scrive Ali in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, gli Usa «hanno costruito lo strumento finale: il rottamatore ha definitivamente rottamato la sinistra italiana, oltre che impegnarsi strenuamente nel rottamare la democrazia». E’ una vicenda che parte da lontano. Per la precisione dal 2008, quando si arena il secondo governo Prodi e Veltroni fonda il Pd. A parlare sono due cablo di “Wikileaks”, che si riferiscono alle imminenti elezioni italiane. L’8 aprile, l’ambasciatore Ronald Spogli riferisce a Washington che «Berlusconi e Veltroni hanno fatto una campagna elettorale noiosa», dominata «dalle loro personalità» ma «non dalle proposte politiche». I programmi? Identici: «Entrambi promettendo tagli alle spese governative, aumento delle pensioni, abbassamento delle tasse e taglio alla burocrazia per le imprese». La stampa italiana? Nebbia: «Si è focalizzata sulle discussioni circa l’organizzazione elettorale e i commenti volgari del frequentemente volgare alleato di Berlusconi, Umberto Bossi». Il peggio, però, arriva col secondo “cablo”, l’11 aprile: dovendo proprio scegliere, gli Usa preferirebbero Vetroni, più pronto a eseguire gli ordini di Washington.«E’ un vero e proprio programma di governo», annota Ali, «con tanto di indicazione sui ministri». Le elezioni, scrive Spogli, «ci daranno l’opportunità di spingere il nostro programma con rinnovato vigore», dopo mesi di crisi e il fastidio rappresentato da Rifondazione Comunista, spina nel fianco dell’esecutivo Prodi. «Se le nostre relazioni con il governo Prodi erano buone, le nostre relazioni con il prossimo governo promettono ancora meglio. Forse molto meglio», scrive Ronald Spogli. «Si può anticipare che faremo progressi sul programma, se dovesse vincere a sorpresa Veltroni, ed eccellenti progressi se Berlusconi tornasse al potere». Molto esplicito, l’ambasciatore: «A prescindere da chi vince, ci incontreremo con i probabili membri del nuovo governo appena possibile dopo le elezioni, durante il periodo di formazione del governo in aprile e nei primi giorni di maggio per marcare le nostre priorità politiche chiave e la direzione che ci piacerebbe prendesse la politica italiana. Ci piacerebbe che esponenti del governo Usa venissero per far pressioni sul programma, incluso il periodo tra le elezioni e l’insediamento del nuovo governo».In particolare, Spogli vorrebbe «sollevare le questioni» relative al “tono delle relazioni”, all’Iran, all’Afganistan, alla sicurezza energetica e quindi la Russia, e poi l’Iraq, il “processo di pace” in Medio Oriente, gli sviluppi in Libano e Siria, le basi militari Usa in Italia. E infine «competitività economica, assistenza estera, cambiamenti climatici e leggi di rafforzamento della cooperazione» tra Roma e Washington. Ma l’ambasciatore Spogli non si ferma qui: per ciascuna voce redige un dettagliato piano di intervento. Riguardo al “miglioramento delle relazioni”, ad esempio, scrive: «Sebbene il governo Prodi abbia seguito le politiche che supportiamo, sentiva il bisogno di fare gratuite dichiarazioni anti-americane per puntellare la componente di estrema sinistra. Tali commenti distraevano da discussioni importanti come il Medio Oriente, i Balcani e l’Iran. Anche se entrambi i leader candidati alle elezioni sono pro-America, dovremmo comunque incoraggiare il nuovo governo a riconoscere che i toni hanno importanza, nelle relazioni bilaterali». Meglio quindi «esercitare la disciplina, per evitare retorica inutile». Politici italiani: attenti a come parlate,A Ronald Spogli, già nel 2008, premeva che l’Italia prendesse le distanze dalla Russia in materia di energia: «Incoraggeremo il nuovo governo italiano a impostare come prioritaria la formulazione di una politica energetica nazionale che affronti realisticamente il crescente fabbisogno energetico e la preoccupante dipendenza dalla Russia». Consigli per gli acquisti: «Energia nucleare e energie rinnovabili dovrebbero fare parte del piano. L’Italia dovrebbe esercitare leadership a livello europeo, spingendo per una politica energetica che si occupi dell’estremamente preoccupante dipendenza dalla Russia». È un caso, si domanda Ali, se dopo vent’anni Berlusconi rispolverò l’energia nucleare? Spogli insiste: «Suggeriremo di usare l’influenza che promana dalla comproprietà del governo italiano in Eni per fermare la compagnia dall’essere la punta di lancia di Gazprom. Questo probabilmente richiederà una nuova leadership in Eni». Spogli conta ovviamente sull’Italia anche per la gestione americana del conflitto israelo-palestinese. E, ancora sull’energia, aggiunge: «Quando ci occuperemo di negoziare accordi vincolanti e avremo bisogno che l’Ue scenda a compromessi per arrivare a un accordo che sia accettabile per il Congresso Usa, avremo bisogno di un interlocutore affidabile nel governo italiano che comprenda le ragioni dell’economia, oltre che quelle dell’ambiente».Scontati, dice Ali, i diktat americani sulla politica estera – il comportamento italiano rispetto a Iran e Iraq, Russia e Afghanistan, nonché il “disappunto” che avrebbe creato il ritiro delle forze italiane dalle “missioni di pace”. Rivelatore, il cuore del “cablo” dell’11 aprile 2008: Berlusconi o Veltroni, l’Italia avrebbe fatto le medesime scelte, dettate dagli Usa. Cosa accadde dopo? Lo sappiamo: Berlusconi venne «accusato di troppe cose», tra cui «pedofilia, corruzione, evasione fiscale, collusioni con la mafia», tutte accuse che in Usa avrebbero determinato la fine di qualsiasi uomo politico. «Troppo, perché gli Usa continuassero a considerare Berlusconi un alleato fidato, perfino se a capo di un paese rammollito e corrotto come l’Italia». Per cacciarlo non bastarono le pressioni degli ex alleati che lo mollarono, da Casini a Fini. A metterlo da parte ci volle «la tempesta sui titoli Mediaset del 2011». Dopodiché, come da copione, seguirono Monti e Letta: «Tutte persone di “provata fede” filo-americana». Nel frattempo, «cresceva in provetta l’esperimento finale: Renzi, con la sua rete di amicizie particolari in Usa e in Israele (Carrai, Serra, Gutgeld, Bernabè, Kerry e, sopra tutti, Michael Ledeen)».Riposi in pace, conclude Stefano Ali, «chi rimane convinto di essere di sinistra e non si accorge che la politica di riferimento è ben più di destra perfino rispetto a quella di Berlusconi». A parlare sono i fatti. E chi ancora si crede di sinistra «non riesce ad accettare di essere li a supportare – suo malgrado e contro la sua volontà cosciente – una politica liberista e imperialista». A nulla vale far presente che questa “sinistra” ha ammainato tutte le “bandiere” della sinistra per sostituirle con quelle un tempo sventolate dall’estrema destra: non più la Dc (che, nella sua mastodontica struttura correntizia, compensava al suo interno destra, sinistra e centro per far emergere una linea tutto sommato moderatamente popolare), ma il vecchio Partito Liberale Italiano e il vecchio Movimento Sociale Italiano». Berlusconi e il Pd non erano rivali nemmeno del 2008, come conferma l’ambasciatore Spogli. Amara conclusione: «Chi si ritiene di sinistra prenda atto che una agenda politica redatta fin nei dettagli dall’ambasciata Usa non è esattamente il programma di un governo di sinistra. Rassegnatevi, la vostra sinistra oggi è questa».Cari elettori italiani, sapevate che il programma di governo – qualsiasi governo – lo scrive direttamente l’ambasciatore Usa a Roma? Fateci caso: l’attuale politica economica di Renzi – rottamare lo Stato e svendere l’Italia – è esattamente quanto richiesto dall’“amico americano”. «Quando, allevato, sostenuto e finanziato, si ritenne Renzi pronto, scattò l’operazione “Renzi al governo”», scrive Stefano Ali. «Goldman Sachs, McKinsey, Morgan Stanley, Ubs e perfino la nostrana Unicredit si sperticarono in “endorsement”». È noto il caso Ubs che, in un report per l’Eurozona nel gennaio 2014 individuava già Renzi quale capo del governo. «È evidente che un report di quel genere non potesse essere prodotto in una settimana: erano già mesi, quindi, che Renzi era il capo del governo predestinato. Sulle stesse “primarie” (tanto discusse sotto l’aspetto della trasparenza) si allunga l’ombra di una sovra-organizzazione a sostegno di Renzi. L’ultima spinta a Napolitano venne data con lo “scandalo Friedman”: a proposito, ne avete mai più sentito parlare, dopo l’incarico a Renzi?».
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Ma Renzi rottamerà se stesso, ben prima del previsto
I recenti dati sull’economia del paese sono stati la prima doccia gelata sul governo Renzi dopo i trionfi di primavera. «La prima, ma non l’unica: altre ne verranno». All’indomani dell’imprevisto grande successo alle europee, si parlò della consacrazione definitiva di Renzi come leader. E qualcuno si spinse a parlare di inizio di un’“epoca renziana”, dopo quella berlusconiana. «Ho sempre pensato che fosse una sciocchezza», dice Aldo Giannuli: «Renzi, ne sono convinto, è destinato a durare poco». Secondo lo storico dell’università di Milano, il Rottamatore finirà per “rottamare” se stesso, alla velocità della luce: tra un fallimento e l’altro, saranno in primo luogo i suoi attuali sostenitori a farlo fuori. «Il peggior nemico di Renzi è proprio Renzi», insiste Giannuli: «Ha fatto l’errore imperdonabile di creare troppe aspettative su di sé», fin dall’inizio, e poi «ad ogni scadenza non proprio riuscita ha regolarmente rilanciato», coi suoi slogan: farò una riforma al mese, risolleverò i consumi con gli 80 euro, entro fine 2014 «superiamo le previsioni e cresciamo dell’1%».E’ un po’ come per le finanziarie “a piramide”, che attirano clienti promettendo interessi appetitosi ma poi, fallite le speculazioni, si spalanca il bluco nelle casse, per cui i soldi non bastano a pagare gli interessi ed è il crack. «Ora che è arrivata la prima gelata (altro che +1%, siamo in recessione con -0,2%)», il premier «la spara ancora più grossa: alla fine dei “mille giorni” l’Italia sarà paese leader in Europa», anziché “il problema” dell’Ue. «Ma lui non ha neppure mille giorni davanti a sé: realisticamente ne ha molti meno», scrive Giannuli nel suo blog. «Ben presto quel 40,8% sarà il ricordo lontano di un risultato irripetibile». Già nelle amministrative di autunno, probabilmente, sentiremo qualche scricchiolio. E in primavera, le regionali – sia pure senza Piemonte, Lombardia, Emilia e Lazio – probabilmente segneranno diversi punti indietro rispetto al risultato del 28 maggio scorso.Buon per Renzi: dopo, non ci saranno altri turni elettorali di rilievo, sino al 2017. «Ma l’effetto delusione delle troppe aspettative create e deluse già sarà iniziato da tempo: come accadde a Berlusconi nel 2003, dopo la clamorosa vittoria del 2001, o a Monti, dopo il trionfale insediamento del novembre 2011: un anno dopo era già polvere». Ovviamente, continua Giannuli, non solo l’obbiettivo del “paese leader in Europa” non sarà minimamente raggiunto («sarà servito solo a far sganasciare di risate i partner europei»), ma già mese per mese «constateremo il peggioramento della situazione». Conti in rosso: «Non è affatto improbabile che ci si debba preparare a una nuova tempesta dello spread per ottobre-novembre: i primi guai per Renzi verranno in quei mesi in cui, comunque vada – tempesta dello spread o no – lui sarà costretto dai diktat europei a fare una finanziaria ben diversa da quella di cui sta parlando».Una “sberla” potrebbe arrivare già a fine agosto, quando si deciderà chi è “mister Pesc”: se non dovesse passare la Mogherini ma un altro italiano, per Renzi sarebbe una mezza sconfitta, ma se invece il posto andasse ad un qualsiasi altro partner europeo, per il “rottamatore” «sarebbe una sconfitta piena, tanto più che cadrebbe nel bel mezzo del suo semestre, nel quale peraltro vedremo cosa sarà stato capace di combinare». Poi c’è il fronte interno, la partita del Senato e quella della legge elettorale. Finora, «il Senato ha operato sotto la botta del successo di fine maggio, per cui ben pochi hanno avuto il coraggio di dissentire». Ma alla ripresa «ci sarà un unico groviglio, che mette insieme le due riforme istituzionali, l’elezione dei giudici costituzionali e quella dei membri laici del Csm per la quale il Parlamento è già inadempiente». Secondo Giannuli il pericolo verrà dai centristi, oltre un centinaio di parlamentari fra alfaniani, casiniani e montiani: stanno già iniziando ad agitarsi, per cui «potrebbe anche scapparci una crisi di governo».Vero, in soccorso a Renzi potrebbe accorrere «il Cavaliere pregiudicato», ma anche Berlusconi «avrà i suoi problemi, fra un partito in dissoluzione e altre grane giudiziarie in arrivo». Più che altro, osserva Giannuli, il successo di Renzi è stato propiziato da due elementi: l’esasperazione della base Pd per i ripetuti fallimenti della vecchia guardia (D’Alema, Veltroni, Fassino, Franceschini, Bersani e Letta) e l’assenza di veri sfidanti. «Soprattutto la seconda cosa è stata determinante: il centro montiano era già dissolto dall’estate del 2013, Forza Italia in caduta libera e senza che nessun alleato prendesse quota, Rifondazione e Sel in decadenza». L’unico competitore era il “Movimento 5 Stelle”, «che però si misurava con i limiti strutturali del suo bacino elettorale: per cui, di fatto, le europee sono state una partita senza squadra avversaria». Questo “stato di grazia”, che vede centro e destra in caduta libera e il M5S “recintato” «durerà ancora, ma non in eterno».Per Giannuli, è realistico pensare che entro qualche tempo inizierà un processo di riaggregazione fra centro e destra: o Berlusconi fa un passo indietro e permette alla destra di radunarsi attorno a altro personaggio (anche se non è facile immaginare chi), oppure porta il suo partito a una lenta emorragia, che favorisce la nascita di un soggetto di centro ben più consistente del passato. E se Renzi si sposta più decisamente a destra per impedire la nascita di un nuovo polo di centrodestra, «rischia una scissione sulla sinistra che potrebbe aggregare anche Sel, quel che resta di Rifondazione e Verdi e, forse, socialisti e fuorusciti del M5S», cioè «un’area che potrebbe anche superare il 10%». Il M5S sta attraversando una fase travagliata, ma è possibile che il declino del governo Renzi possa tornare a gonfiarne i consensi. «Insomma, la situazione da “partita senza avversari” difficilmente durerà a lungo». Ecco perché non è saggio scommettere ancora sulla durata del governo Renzi, che di fatto è «un insieme di comparse incolori e politicamente inesistenti».Tutto si regge sull’esuberante protagonismo del presidente del Consiglio, che però «proprio con il suo iperattivismo rischia di logorarsi molto rapidamente». Anche perché «il personaggio non è di qualità eccelsa», totalmente privo com’è di «capacità di ideazione strategica e di mediazione politica». Grande comunicatore? Nemmeno: «Un grande comunicatore, mi duole dirlo, è stato Berlusconi, che è durato vent’anni», perché «ha saputo giocare su mezzi toni, lasciar sperare senza impegnarsi più di tanto», e poi «alternare muso duro e gigioneria, giocare un alleato contro l’altro». Per un bel po’ ha anche dato l’impressione di muoversi a suo agio nei vertici internazionali, e ha sempre avuto grande tempismo. Renzi, invece, «ha un unico registro espressivo: l’arroganza». E poi «è troppo scoperto nel suo ruolo di imbonitore televisivo, non è capace di mediare su niente e con nessuno, tratta gli alleati come pezze da piedi, è troppo provinciale e “non esiste” sul piano internazionale. Renzi «è frenetico ma non tempista», e non ha neppure a disposizione l’enorme apparato televisivo del Cavaliere. «Il suo stile mezzo boy scout e mezzo tamarro può funzionare per un po’, ma si esaurisce presto. E sicuramente dura molto meno di 20 anni». Domandona: nel frattempo, prima di cadere, quanti danni riuscirà a infliggere all’Italia?I recenti dati sull’economia del paese sono stati la prima doccia gelata sul governo Renzi dopo i trionfi di primavera. «La prima, ma non l’unica: altre ne verranno». All’indomani dell’imprevisto grande successo alle europee, si parlò della consacrazione definitiva di Renzi come leader. E qualcuno si spinse a parlare di inizio di un’“epoca renziana”, dopo quella berlusconiana. «Ho sempre pensato che fosse una sciocchezza», dice Aldo Giannuli: «Renzi, ne sono convinto, è destinato a durare poco». Secondo lo storico dell’università di Milano, il Rottamatore finirà per “rottamare” se stesso, alla velocità della luce: tra un fallimento e l’altro, saranno in primo luogo i suoi attuali sostenitori a farlo fuori. «Il peggior nemico di Renzi è proprio Renzi», insiste Giannuli: «Ha fatto l’errore imperdonabile di creare troppe aspettative su di sé», fin dall’inizio, e poi «ad ogni scadenza non proprio riuscita ha regolarmente rilanciato», coi suoi slogan: farò una riforma al mese, risolleverò i consumi con gli 80 euro, entro fine 2014 «superiamo le previsioni e cresciamo dell’1%».
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Pareggio di bilancio, tasse e crisi: Renzi si piega all’Ue
Più tasse, più crisi, meno lavoro: l’Italia dovrà affrontare nuovi “sacrifici umani” per piegarsi alla legge del pareggio di bilancio entro il 2015. Gli elettori che hanno votato il Pd di Renzi alle europee sono serviti: lo schermo della propaganda è crollato col verdetto dell’Ecofin, dopo l’inutile presenza del premier italiano all’ultimo vertice di Bruxelles. Almeno altri 2 miliardi di euro da trovare, a partire dalla finanziaria di ottobre. «Mentre il presidente del Consiglio era a Bruxelles per negoziare, a parole, maggiori margini di flessibilità all’interno del rispetto dei trattati esistenti – scrive “Libero” – contemporaneamente lo stesso vertice sanciva nero su bianco la bocciatura alla prima e unica richiesta formale fatta dal governo di deroga ai patti europei». Di fatto, sono state vanificate le richieste del ministro Padoan, che voleva far slittare dal 2015 al 2016 il pareggio di bilancio strutturale. Ora, con la bocciatura dell’Ue, l’Italia avrà un anno in meno per comprimere ulteriormente la spesa pubblica e mettere in croce famiglie e aziende.Per rispettare il trattato-capestro, continua il quotidiano milanese, servono coperture per il bonus Irpef, i famosi 80 euro. Soprattutto, al governo occorrono le risorse per rendere strutturale il bonus, ma all’appello mancano 20 miliardi. Il guaio è che il pareggio di bilancio, aberrazione tecnocratica che deprime l’economia devastando il tessuto produttivo del paese, è stato inserito nella Costituzione italiana già nel 2012 col voto unanime di Pd, Pdl e terzo polo: da quel momento, solo «eventi eccezionali» possono giustificare il «ricorso all’indebitamento», ricorda “Pagina 99”. La catastrofe discende dal Trattato di Maastricht, di impronta “feudale” e neoliberista, che mira ad azzerare la sovranità pubblica per sabotare la missione socio-economica dello Stato, storico garante del benessere diffuso, lasciando mano libera al super-potere dell’élite finanziaria e delle sue multinazionali. Determinante l’adozione della moneta unica, che sottrae allo Stato la capacità di far fronte alla spesa sociale e sostenere gli investimenti strategici – welfare, istruzione, sanità, infrastrutture – che hanno guidato lo sviluppo del dopoguerra in tutto l’Occidente grazie al ricorso al deficit positivo, la leva strategica e democratica del debito pubblico.A partire da Maastricht, l’oligarchia che condiziona i politici insediati a Bruxelles ha disposto la storica limitazione del 3% nel rapporto tra deficit e Pil. Cinque anni dopo, nel 1997, il tetto del 3% – che non corrisponde ad alcun criterio economico ma è solo un’indicazione politica per indebolire gli Stati, esponendoli allo strapotere delle corporation – è stato recepito nel Patto di Stabilità e Crescita. «Le cose sono cambiate con il grande crack del 2008», aggiunge “Pagina 99”. «Che la crisi dei debiti sovrani europea sia stata figlia di finanze pubbliche fuori controllo è una tesi più controversa di quanto possa sembrare ad un primo sguardo: può forse attagliarsi al caso della Grecia, ma assai meno – ad esempio – a quello dell’Irlanda, dove il debito pubblico è stato gonfiato proprio dagli interventi a soccorso del settore finanziario privato». In ogni caso, continua il giornale, i piani di salvataggio varati dall’Unione Europea per gli Stati maggiormente in difficoltà hanno determinato la richiesta di una contropartita da parte del paese che più ha contribuito, in termini finanziari, alla loro realizzazione: la Germania.Da qui, l’imposizione di regole sempre più stringenti sulla finanza pubblica: dal 13 dicembre 2011 è in vigore il cosiddetto Six-pack, un pacchetto di regolamenti ripresi successivamente anche dal Fiscal Compact, che punta ad azzerare il deficit. «Il disavanzo strutturale è differente dal semplice rapporto deficit-Pil», precisa “Pagina 99”, perché corretto dall’impatto del ciclo economico e delle misure una tantum e temporanee: «Ad esempio, nel caso dell’Italia, il Def appena approvato dal Parlamento riferisce che l’indebitamento netto strutturale sarà del -0,6% nel 2014, a fronte di un rapporto deficit-Pil del -2,6%». È la prima di queste due variabili che doveva essere azzerata entro il 2015, secondo quanto programmato dal governo Letta. Ed è a questo medesimo dato che ha fatto riferimento Padoan nella sua missiva indirizzata alla Commissione Europea, sonoramente bocciata. «Il Fiscal Compact ha ulteriormente irrigidito questo percorso, imponendo ai paesi sottoscrittori di inserire il pareggio di bilancio nei rispettivi ordinamenti nazionali, ad un livello costituzionale».Comunque, osserva Daniele Basciu sul blog “Economia Mmt”, era tutto già scritto nel Def varato da Renzi ad aprile 2014: nel documento, messo a punto da un ministro come Padoan (tecnocrate iper-liberista proveniente dall’Ocse, con alle spalle “ricette” per indebolire gli Stati a vantaggio dei colossi finanziari) il governo aveva già previsto, da qui al 2018, di aumentare le tasse e l’avanzo primario, «cioè preleverà più tasse di quanto spenderà». In presenza di risparmio sulla spesa pubblica, ricorda Basciu, è necessario che ci siano dei deficit a controbilanciare il risparmio stesso, perchè ci sia la piena occupazione. Viceversa, senza più deficit, la strada della disoccupazione è segnata. «Il governo Renzi aveva quindi già deciso di non fare deficit, cioè aveva deciso di impegnarsi ad aumentare i disoccupati e i fallimenti delle aziende, che chiuderanno per diminuzione di clienti in grado di spendere e fare acquisti». Con buona pace degli ingenui elettori di Renzi, che «sono completamente all’oscuro del funzionamento di un’economia moderna».Per Basciu, seguace della Modern Money Theory di Warren Mosler introdotta in Italia da Paolo Barnard, quella degli elettori Pd è «una specie di tribù convinta che, recitando certe litanie e formule su “Sky” e sul “Corriere della Sera”, l’economia magicamente si rimetta in moto: sono i flagellanti delle processioni sacre, che mentre il celebrante recita i riti si battono sulla schiena con dei giunchi per propiziarsi la divinità». Ma questa non è più economia, protesta il blogger: è antropologia. «Il Def è il testo sacro, subordinato a Trattato di Maastricht e al Fiscal Compact, testi sacri di ordine superiore in cui sono scritte le regole. Il ruolo dell’officiante è trovare le formule per rivolgersi alle masse». Così Renzi dichiara: «O l’Europa cambia direzione di marcia o non esiste possibilità di sviluppo e crescita», ma si contraddice nello stesso discorso, aggiungendo: «Noi non chiediamo di violare la regola del 3%». Ergo, «Renzi farà l’austerity, come i testi sacri prescrivono», e di fatto «promette meno deficit, quindi più disoccupati».Ma l’elettore di Renzi che ha in casa un figlio disoccupato o un parente artigiano che chiude perchè non ha più clienti? Niente paura, «assiste alla celebrazione del rito ed è felice, sta bene: “C’è qualcuno”, pensa, “che si prende cura di me”». Qualcuno della “scuola” di Padoan, beninteso, che tratta lo Stato come se fosse una famiglia o un’azienda, cioè un soggetto economico per il quale il risparmio è virtù, mentre il debito è un problema. Fingendo di non sapere che tra famiglie e aziende il denaro può solo passare di mano in mano, mentre lo Stato sovrano il denaro lo crea in quantità teoricamente illimitata, per far fronte ai bisogni della società, tenendo conto della salute del sistema produttivo. In teoria, la missione dello Stato democratico è la piena occupazione: quella che i neoliberisti vogliono cancellare dalla storia, inserendo anche nelle nostre Costituzioni il cancro del pareggio di bilancio, cui ora l’Unione Europea obbliga l’Italia di Renzi, senza sconti.Più tasse, più crisi, meno lavoro: l’Italia dovrà affrontare nuovi “sacrifici umani” per piegarsi alla legge del pareggio di bilancio entro il 2015. Gli elettori che hanno votato il Pd di Renzi alle europee sono serviti: lo schermo della propaganda è crollato col verdetto dell’Ecofin, dopo l’inutile presenza del premier italiano all’ultimo vertice di Bruxelles. Almeno altri 2 miliardi di euro da trovare, a partire dalla finanziaria di ottobre. «Mentre il presidente del Consiglio era a Bruxelles per negoziare, a parole, maggiori margini di flessibilità all’interno del rispetto dei trattati esistenti – scrive “Libero” – contemporaneamente lo stesso vertice sanciva nero su bianco la bocciatura alla prima e unica richiesta formale fatta dal governo di deroga ai patti europei». Di fatto, sono state vanificate le richieste del ministro Padoan, che voleva far slittare dal 2015 al 2016 il pareggio di bilancio strutturale. Ora, con la bocciatura dell’Ue, l’Italia avrà un anno in meno per comprimere ulteriormente la spesa pubblica e mettere in croce famiglie e aziende.
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De Benedetti scarica Renzi, l’eroe di ieri è già un bidone
Scalfari non è tipo che scriva a caso e, quando usa le parole, le sceglie una per una e le combina affilandole al meglio. Domenica, la sua abituale articolessa di un ettaro si intitolava: “Quanto è bravo il premier, ma chi ripara gli errori che sta facendo?”. Che è un bel “buongiorno!”. Il pezzo si apre con una interminabile disquisizione sulla modernità che parte da Montaigne ed arriva a Nietzsche, per poi planare su Walter Veltroni. Come dire, dall’Imperatore Tiberio e Leonardo da Vinci al pizzicagnolo sotto casa. Ma fin qui, nulla di importante. Il meglio viene dopo, quando Scalfari, intinto il pennino nel cianuro, viene «al nostro vissuto di questi ultimi giorni». Anche qui una lunga introduzione sulle sorti del sogno europeo, per poi iniziare a parlare dell’occasione che hanno gli italiani di avere un leader «di notevole capacità, che è riuscito nel giro di pochi mesi a trasformare in forza le sue qualità e i suoi difetti». Quel che sembra mettere il vento in poppa all’Italia, cosa che però è vera solo in parte.«La sola vera conseguenza è il suo rafforzamento personale a discapito della democrazia, la cui fragilità sta sfiorando il culmine, senza che il cosiddetto popolo sovrano ne abbia alcuna percezione». Come dire che gli concede una caramella per poi rifilargli una frustata sulle costole. Poi parla delle «esibizioni» di Renzi a Ypres e di Bruxelles, di «dazione» degli 80 euro che non ha funzionato, perché i consumi sono fermi (parola scelta con rara perfidia: “dazione” è il termine che Di Pietro usò nel suo celebre saggio per parlare della corruzione, e qui sembra che Scalfari voglia dire che si è trattato di una mancia elettorale, un modo per comprarsi i voti). Infine viene al dunque: Renzi vuole fare i comodi suoi per mandare la Mogherini a fare l’alto rappresentante della politica estera europea, carica che non conta assolutamente nulla, perché vuole fare i fatti suoi all’interno del partito, e in nome di questo fa un danno incalcolabile bocciando Letta ad un incarico ben altrimenti importante.Poi, gli dice che non capisce nulla di Europa, che non è vero che ha ottenuto lo spostamento del pareggio di bilancio al 2016, perché di fatto deve farlo al 2015 e che deve prepararsi ad una finanziaria di fuoco e che della riforma elettorale e di quella del Senato, all’Europa ed agli italiani non frega assolutamente nulla. Pesante direi, vi pare? Due giorni prima è uscito l’“Espresso” con la copertina che dice: “5 miliardi di tasse in più. Renzi aveva promesso di abbassare la pressione fiscale, ma ora le famiglie dovranno fare i conti con imposte sulla casa molto più alte che in passato. Vanificando così il bonus di 80 euro”. Direi che non c’è bisogno di commenti. Nel numero non c’è un pezzo che riprenda la cover, ma ce n’è un altro acidissimo dedicato alle “quote rosa” del piano di Renzi: Mogherini in Europa, Pinotti al Colle, ecc, ma solo per fare un po’ di raccolta consensi e liberare qualche poltrona, per i giochi interni. Infine sia “La Repubblica” che l’“Huffinghton Post” presentano le imprese europee di Renzi come un mezzo fiasco.Insomma, tutte le cannoniere della flotta De Benedetti sparano ad alzo zero sul vascello renziano. Come mai? Che si siano improvvisamente accorti che Renzi non è l’astuto stratega di cui parlavano solo un mese fa, ma solo un autentico bidone, che vuol mandare la Mogherini in Europa? Per una volta ci sembra che la scelta di Renzi sia felice, perché la carica di Alto rappresentante ecc ecc non conta assolutamente nulla, la Mogherini è come se non esistesse: sono fatti l’una per l’altra. E allora perché tanto e così repentino astio? Una prima ragione è quella che dice esplicitamente Scalfari: Letta. Probabilmente il giullare di Firenze sottovaluta troppo il suo predecessore, che ha amici molto potenti che già hanno mal digerito il suo siluramento a Palazzo Chigi. Poi il modo della sua esternazione («Letta? Nessuno ha fatto il suo nome») deve essere sembrato a lorsignori un insopportabile effetto di rincaro. «Fassina chi?» lo può dire, appunto, a Fassina, ma quando tocca un membro della nobile schiatta dei Letta, vicepresidente dell’Aspen Italia, certe cose non se le deve permettere. E questo stile un po’ tanghero comincia a dare sui nervi a molti.In secondo luogo, si sa che il tamarro di Firenze vuole spedire la Mogherini in Europa per fare un rimpasto di governo che azzeri la presenza di montiani e alfaniani, in modo da liberare sedie per operazioni interne di partito. Solo che, in questo gioco, non tiene presente che montiani e alfaniani sono un pezzo importante del “partito del Colle” e Napolitano ha fatto capire che la cosa non gli va. Il Presidente sa si essere avviato sulla via dell’uscita, ma vuole pilotare la successione, magari a favore di un suo candidato o, quantomeno, per bloccare la strada a quelli più sgraditi. Gli oltre 150 voti di montiani, casiniani e alfaniani sono un pacchetto troppo importante, che va ad aggiungersi agli alleati lettiani, ai senatori a vita e ai pochi fedelissimi nel Pd. Un blocco che sfiora i 200 voti, che può fare la differenza in un Parlamento-spezzatino come quello attuale. Ma nel frattempo occorre tutelare questi amici; per cui niente rimpasto, che Renzi se lo metta bene in testa.Poi la riforma del Senato sta andando in modo diverso da quello auspicato da Scalfari, che vorrebbe un bel Senato «dei talenti e delle competenze» di nomina regia: docenti universitari, finanzieri, alti burocrati, “tecnici” e specialisti vari. Insomma, una cosa di mezzo fra una specie di “governo Monti” allargato e una commissione di saggi come quelle che il Presidente ama nominare. Qui, invece, si minaccia un Senato di sindaci e consiglieri comunali: gente poco fine. Quindi, questa riforma del Senato non interessa agli italiani. Sarebbe diverso se si trattasse del Senato dei talenti e delle competenze, cui gli italiani si appassionerebbero. Poi Renzi ha aperto agli insopportabili cinquestelle. Beninteso: magari non lo fa per simpatia verso di loro o per scrupolo democratico, ma per una sorta di aggiornamento della politica dei due forni di andreottiana memoria, ma non va affatto bene neanche così, perché l’uomo si sta troppo allargando, cercando di giocare a tutto campo (quell’accenno scalfariano al “suo rafforzamento personale a discapito della democrazia” parla molto chiaro).Insomma, il ragazzo poteva anche andare sino ad un certo punto, anche perché si è rivelato efficace nello sbarrare la strada ai barbari antisistema del M5S, ma ora deve stare al suo posto e occuparsi di flessibilità, che è la vera riforma che “l’Europa ci chiede”. E deve fare bene i compiti a casa. Magari ne ha trascurato qualcuno cui era particolarmente interessato l’ingegner De Benedetti. E non sta bene, torni più preparato la prossima volta. Insomma, mi pare che la luna di miele con i poteri forti stia finendo. Accade a volte che dalla primavera si passi all’autunno di colpo, saltando l’estate. Neanche le stagioni sono più quelle di una volta, signora mia…(Aldo Giannuli, “Ma come mai Renzi è cascato antipatico a De Benedetti & C?”, dal blog di Giannuli del 30 giugno 2014).Scalfari non è tipo che scriva a caso e, quando usa le parole, le sceglie una per una e le combina affilandole al meglio. Domenica, la sua abituale articolessa di un ettaro si intitolava: “Quanto è bravo il premier, ma chi ripara gli errori che sta facendo?”. Che è un bel “buongiorno!”. Il pezzo si apre con una interminabile disquisizione sulla modernità che parte da Montaigne ed arriva a Nietzsche, per poi planare su Walter Veltroni. Come dire, dall’Imperatore Tiberio e Leonardo da Vinci al pizzicagnolo sotto casa. Ma fin qui, nulla di importante. Il meglio viene dopo, quando Scalfari, intinto il pennino nel cianuro, viene «al nostro vissuto di questi ultimi giorni». Anche qui una lunga introduzione sulle sorti del sogno europeo, per poi iniziare a parlare dell’occasione che hanno gli italiani di avere un leader «di notevole capacità, che è riuscito nel giro di pochi mesi a trasformare in forza le sue qualità e i suoi difetti». Quel che sembra mettere il vento in poppa all’Italia, cosa che però è vera solo in parte.
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Governabilità? E’ la solita truffa per blindare i partiti
La stabilità politica non dipende dal sistema elettorale, ma dalla forma di governo. Se è il Parlamento a votare la fiducia, non c’è da giurare sulla durata del premier. L’unica forma veramente sicura, per l’esecutivo, è il presidenzialismo: si elegge un capo del governo, che spesso è anche il capo dello Stato, che resta in carica per l’intero mandato, al riparo dal voto delle Camere. Se l’obiettivo dei maggiori partiti è questo, cioè la famosa “governabilità”, perché ostinarsi a cambiare il sistema elettorale? Perché le «vere intenzioni» sono altre e restano occulte, sostiene Aldo Giannuli. Con il Porcellum e ora l’Italicum, il Parlamento viene subordinato al governo anche nella formazione delle leggi. Attraverso il maggioritario, il sistema politico viene blindato, sbarrando la strada agli outsider. Risultato: il ceto politico domina la società civile ed emargina le potenziali forze anti-sistema.Il ventennio maggioritario italiano, ricorda Giannuli nel suo blog, conferma che il sistema elettorale fondato su premio di maggioranza e soglia di sbarramento non mette affatto il governo al riparo dalle crisi: in 19 anni, dal 1994 a oggi, non c’è stato un solo governo capace di durare per l’intera legislatura. Nel ‘94 fu la Lega di Bossi a uscire dalla coalizione di centrodestra dopo soli sette mesi, determinando la caduta del governo Berlusconi. Quattro anni dopo, nel ‘98, fu Rifondazione Comunista a disertare dalla maggioranza di centrosinistra facendo cadere l’esecutivo Prodi. Il successivo governo D’Alema si dimise a sua volta nel 2000 per le tensioni interne alla maggioranza, lasciando il posto ad Amato. E ancora: nel 2005 fu l’Udc di Casini a provocare la caduta del Cavaliere, cui seguì un nuovo governo Berlusconi che concesse la riforma del sistema elettorale ( il “Porcellum”). E nel 2008 furono i gruppi di Dini e Mastella a far cadere nuovamente Prodi, aprendo la strada alle elezioni anticipate. Non si è trattato solo di rotture interne alle coalizioni, precisa Giannuli, ma anche di scissioni del partito di maggioranza: accadde nel 2010 con la defezione di Fini dal Pdl, che ridusse ai minimi termini la maggioranza di centrodestra, che poi crollò definitivamente nel novembre 2011.Finora, la regola del maggioritario è stata: chi si divide perde, ma chi vince poi non governa. «Il maggioritario tende a stabilizzare il quadro politico esistente e, pertanto, determina la formazione di sinistra e destra nominali, che in realtà sono entrambe forze di centro tendenti verso l’una o l’altra sponda del sistema», scrive Giannuli. «Non è un caso che, dal 1994, le coalizioni abbiano preso a denominarsi “centrosinistra” e “centrodestra”», a conferma del fatto che «nel maggioritario c’è solo un grande centro, più o meno caratterizzato in un senso o nell’altro». Legittimo proporre un assetto di sistema che abbia caratteristiche di centralità dell’esecutivo, «ma perché non dichiararlo apertamente e contrabbandare tutto con la truffa della governabilità? Forse perché la gente reagirebbe malissimo all’idea di blindare il ceto politico esistente?».La stabilità politica non dipende dal sistema elettorale, ma dalla forma di governo. Se è il Parlamento a votare la fiducia, non c’è da giurare sulla durata del premier. L’unica forma veramente sicura, per l’esecutivo, è il presidenzialismo: si elegge un capo del governo, che spesso è anche il capo dello Stato, che resta in carica per l’intero mandato, al riparo dal voto delle Camere. Se l’obiettivo dei maggiori partiti è questo, cioè la famosa “governabilità”, perché ostinarsi a cambiare il sistema elettorale? Perché le «vere intenzioni» sono altre e restano occulte, sostiene Aldo Giannuli. Con il Porcellum e ora l’Italicum, il Parlamento viene subordinato al governo anche nella formazione delle leggi. Attraverso il maggioritario, il sistema politico viene blindato, sbarrando la strada agli outsider. Risultato: il ceto politico domina la società civile ed emargina le potenziali forze anti-sistema.
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Renzi? Bugiardo e pericoloso: ha troppi padroni potenti
«Matteo Renzi è un mentitore pericoloso», taglia corto Pino Cabras su “Megachip”. «Ha illuso milioni di elettori con la narrazione del Rottamatore, ma ha rottamato solo chi gli si opponeva, imbarcando ogni genere di boss e sotto-boss nella sua scalata». Una lunga sequenza di menzogne: aveva «dichiarato solennemente di non voler andare a Palazzo Chigi senza legittimazione popolare», mentre ora – abbattendo Letta – disegna il nuovo scenario «con un Parlamento eletto con una legge incostituzionale», peraltro peggiorata con l’aiuto del Cavaliere, «con il quale – altra bugia per prendere i voti – diceva che non si potevano mai fare accordi». Il nuovo capo del Pd tradisce sistematicamente chi gli ha dato fiducia? «Certo, Renzi ha un disegno. Ma questo disegno non è nelle mani di alcuno che gli abbia dato fiducia dal basso. È nelle mani dei veri potenti che detengono le cambiali politiche che Renzi ha firmato durante la fase ascendente della sua parabola». E gli “azionisti” di Renzi non sono soltanto italianiQuando negli anni ‘80 Michael Ledeen varcava l’ingresso del dipartimento di Stato, ricorda Franco Fracassi su “Popoff”, chiunque avesse dimestichezza con il potere di Washington sapeva che si trattava di una finta: quello, per lo storico di Los Angeles, rappresentava solo un impiego di facciata, per nascondere il suo reale lavoro. E cioè: consulente strategico per la Cia e per la Casa Bianca. «Ledeen è stato la mente della strategia aggressiva nella Guerra Fredda di Ronald Reagan, è stato la mente degli squadroni della morte in Nicaragua, è stato consulente del Sismi negli anni della Strategia della tensione, è stato una delle menti della guerra al terrore promossa dall’amministrazione Bush, oltre che teorico della guerra all’Iraq e della potenziale guerra all’Iran, è stato uno dei consulenti del ministero degli Esteri israeliano. Oggi – aggiunge Fracassi – Michael Ledeen è una delle menti della politica estera del segretario del Partito democratico Matteo Renzi».Forse è stato anche per garantirsi la futura collaborazione di Ledeen che l’allora presidente della Provincia di Firenze si recò nel 2007 al dipartimento di Stato Usa «per un inspiegabile tour». Non è un caso, continua Fracassi, che il segretario di Stato Usa John Kerry abbia più volte espresso giudizi favorevoli nei confronti di Renzi. Ma sono principalmente i neocon ad appoggiare Renzi dagli Stati Uniti. Secondo il “New York Post”, ammiratori del sindaco di Firenze sarebbero gli ambienti della destra repubblicana, legati alle lobby che lavorano per Israele e per l’Arabia Saudita. «In questa direzione vanno anche il guru economico di Renzi, Yoram Gutgeld, e il suo principale consulente politico, Marco Carrai, entrambi molti vicini a Israele». Carrai, scrive Fracassi, ha addirittura propri interessi in Israele, dove si occupa di venture capital e nuove tecnologie. «Infine, anche il suppoter renziano Marco Bernabè ha forti legami con Tel Aviv, attraverso il fondo speculativo Wadi Ventures». Suo padre, Franco Bernabè, fino a pochi anni fa è stato «arcigno custode delle dorsali telefoniche mediterranee che collegano l’Italia a Israele».Forse aveva ragione l’ultimo cassiere dei Ds, Ugo Sposetti, quando disse: «Dietro i finanziamenti milionari a Renzi c’è Israele e la destra americana». O perfino Massimo D’Alema, che definì Renzi il terminale di «quei poteri forti che vogliono liquidare la sinistra». Dietro Renzi, continua Fracassi, ci sono anche i poteri forti economici, a partire dalla Morgan Stanley, una delle banche d’affari responsabile della crisi mondiale. «Davide Serra entrò in Morgan Stanley nel 2001, e fece subito carriera, scalando posizioni su posizioni, in un quinquennio che lo condusse a diventare direttore generale e capo degli analisti bancari». Una carriera, quella del giovane broker italiano, punteggiata di premi e riconoscimenti per le sue abilità di valutazione dei mercati. «In quegli anni trascorsi dentro il gruppo statunitense, Serra iniziò a frequentare anche i grandi nomi del mondo bancario italiano, da Matteo Arpe (che ancora era in Capitalia) ad Alessandro Profumo (Unicredit), passando per l’allora gran capo di Intesa-San Paolo Corrado Passera».Nel 2006 Serra decise tuttavia che era il momento di spiccare il volo. E con il francese Eric Halet lanciò Algebris Investments. Già nel primo anno Algebris passò da circa 700 milioni a quasi due miliardi di dollari gestiti. L’anno successivo Serra, con il suo hedge fund, lanciò l’attacco al colosso bancario olandese Abn Amro, compiendo la più importante scalata bancaria d’ogni tempo. Poi fu il turno del banchiere francese Antoine Bernheim a essere fatto fuori da Serra dalla presidenza di Generali, permettendo al rampante finanziere di mettere un piede in Mediobanca. Definito dall’ex segretario Pd Pier Luigi Bersani «il bandito delle Cayman», Serra oggi ha quarantatré anni, vive nel più lussuoso quartiere di Londra (Mayfair), fa miliardi a palate scommettendo sui ribassi in Borsa (ovvero sulla crisi) ed è «il principale consulente finanziario di Renzi, nonché suo grande raccoglietore di denaro, attraverso cene organizzate da Algebris e dalla sua fondazione Metropolis».E così, nell’ultimo anno il gotha dell’industria e della finanza italiane si è schierato dalla parte di Renzi. A cominciare da Fedele Confalonieri che, riferendosi al sindaco di Firenze, disse: «Non saranno i Fini, i Casini e gli altri leader già presenti sulla scena politica a succedere a Berlusconi, sarà un giovane». Poi venne Carlo De Benedetti, con il suo potentissimo gruppo editoriale Espresso-Repubblica («I partiti hanno perduto il contatto con la gente, lui invece quel contatto ce l’ha»). E ancora, Diego Della Valle, il numero uno di Vodafone Vittorio Colao, il fondatore di Luxottica Leonardo Del Vecchio e l’amministratore delegato Andrea Guerra, il presidente di Pirelli Marco Tronchetti Provera con la moglie Afef, l’ex direttore di Canale 5 Giorgio Gori, il patron di Eataly Oscar Farinetti, Francesco Gaetano Caltagirone, Cesare Romiti, Martina Mondadori, Barbara Berlusconi, il banchiere Claudio Costamagna, il numero uno di Assolombarda Gianfelice Rocca, il patron di Lega Coop Giuliano Poletti, Patrizio Bertelli di Prada e Fabrizio Palenzona di Unicredit.Fracassi cita anche il Monte dei Paschi di Siena, collegato al leader del Pd attraverso il controllo della Fondazione Montepaschi gestita dal renziano sindaco di Siena Bruno Valentini. Con Renzi anche l’amministratore delegato di Mediobanca, Albert Nagel, erede di Cuccia nell’istituto di credito. «Proprio sul giornale controllato da Mediobanca, il “Corriere della Sera”, da sempre schierato dalla parte dei poteri forti, è arrivato lo scoop su Monti e Napolitano, sui governi tecnici. Il “Corriere” ha ripreso alcuni passaggi dell’ultimo libro di Alan Friedman, altro uomo Rcs. Lo scoop ha colpito a fondo il governo Letta e aperto la strada di Palazzo Chigi a Renzi». Fracassi conclude citando il defunto segretario del Psi, Bettino Craxi, che diceva: «Guarda come si muove il “Corriere” e capirai dove si va a parare nella politica».Gad Lerner, recentemente, ha detto: «Non troverete alla Leopolda i portavoce del movimento degli sfrattati, né le mille voci del Quinto Stato dei precari all’italiana. Lui (Renzi) vuole impersonare una storia di successo. Gli sfigati non fanno audience». Ormai è tardi per tutto: il Pd – già in coma, da anni – si è completamente arreso all’ex Rottamatore. «Dove mai andrà il “voto utile” in mano a Renzi? In quale manovra di palazzo, in quale strategia dell’alta finanza verrebbe bruciato? In quale menzogna da Piano di rinascita democratica?», si domanda Pino Cabras. «Ogni complicità con il nuovo Sovversore dall’alto diventa intollerabile ogni minuto di più». Fine della cosiddetta sinistra italiana. Fuori tempo massimo, ora, «in tanti saranno costretti ad aprire gli occhi, e a comprendere la differenza fra militanti e militonti. Ma hanno riflessi troppo lenti. La riscossa – a trent’anni dalla morte di Enrico Berlinguer – passerà da altre parti».«Matteo Renzi è un mentitore pericoloso», taglia corto Pino Cabras su “Megachip”. «Ha illuso milioni di elettori con la narrazione del Rottamatore, ma ha rottamato solo chi gli si opponeva, imbarcando ogni genere di boss e sotto-boss nella sua scalata». Una lunga sequenza di menzogne: aveva «dichiarato solennemente di non voler andare a Palazzo Chigi senza legittimazione popolare», mentre ora – abbattendo Letta – disegna il nuovo scenario «con un Parlamento eletto con una legge incostituzionale», peraltro peggiorata con l’aiuto del Cavaliere, «con il quale – altra bugia per prendere i voti – diceva che non si potevano mai fare accordi». Il nuovo capo del Pd tradisce sistematicamente chi gli ha dato fiducia? «Certo, Renzi ha un disegno. Ma questo disegno non è nelle mani di alcuno che gli abbia dato fiducia dal basso. È nelle mani dei veri potenti che detengono le cambiali politiche che Renzi ha firmato durante la fase ascendente della sua parabola». E gli “azionisti” di Renzi non sono soltanto italiani.
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No-Euro: un italiano su due boccia la moneta della Bce
«Euro? No, grazie». Gli italiani – in maggioranza, ormai – bocciano la moneta unica europea. Lo rivela un sondaggio proposto da “Scenari economici” a un campione di 2.400 persone, che include ogni categoria sociale e produttiva, da nord a sud, e tutte le principli fasce di età. Contro l’euro soprattutto il settentrione e gli elettori del centrodestra e del “Movimento 5 Stelle”, compresi fra i 30 e 59 anni: operai, casalinghe, disoccupati, artigiani e lavoratori autonomi. Cioè l’Italia che – più di ogni altra – subisce la devastazione socio-economica della grande recessione: tagli ai salari e alle pensioni, enti locali senza più soldi per scuola, sanità e assistenza, crisi del credito e dei consumi, fatturati a picco, chiusure e licenziamenti, erosione dei risparmi, inaudito inasprimento fiscale. Risultato: a pochi mesi dalle europee, il partito “No-Euro” raccoglie già il 24% di voti “sicuri”, mentre un altro 32% ammette: «Prenderei in considerazione l’ipotesi di votarlo». Il restante 44%, quello dei “fedeli” alla moneta della Bce, corrisponde alla roccaforte storica del centrosinistra, quella delle regioni “rosse”.“Scenari economici” mostra l’inesorabile progressione dell’opposizione all’euro: ad aprile 2013, il centrodestra era schierato al 68% contro la moneta di Francoforte, mentre a ottobre la quota dei contrari è salita al 76%. Percentuali analoghe a quelle dei “grillini”, mentre il centro – Monti e Casini – resta ancorato alla valuta della Bce, anche se in modo più tiepido (dal 94 si passa all’83%), mentre il consenso verso l’euro cresce solo nel centrosinistra, che passa dall’89 al 90%. La bocciatura dell’euro diventa definitiva nella terza tornata di sondaggi, effettuata lo scorso dicembre. Un italiano su due (il 49%) si dichiara «favorevole alla reintroduzione di una valuta nazionale al posto dell’euro». Postilla: occorre ovviamente affiancare questo processo «con il ripristino della Banca d’Italia come prestatore d’ultima istanza, al fine di calmierare i tassi d’interesse sui titoli del debito pubblico italiano». Era solo la fine del 2011 – due anni fa – e proprio l’alibi dello spread aveva spianato la strada a Mario Monti ed Elsa Fornero, saliti al potere per “rimettere in ordine in conti”, come se lo Stato fosse un’azienda privata.Un po’ è davvero così, da quando la repubblica italiana ha perso il suo “bancomat” istituzionale, la Banca d’Italia, come finanziatrice “illimitata” del governo, attraverso il Tesoro, grazie alla “privatizzazione” del debito a vantaggio della finanza privata. Poi, con l’euro, il definitivo ko: l’impossibilità tecnica di risalire la china, emettendo moneta come fa il resto del mondo, fino al caso-limite del Giappone il cui debito raggiunge il 250% del Pil senza timore di attacchi speculativi: gli “squali” sanno benissimo che la banca centrale di Tokyo sarebbe in grado in qualsiasi momento di sostenere il debito con emissione di valuta sovrana a costo zero. All’Italia invece è stata inferta la peggiore delle terapie: tagli su tagli, col pretesto neoliberista di dover eliminare il debito (cioè il motore economico dello Stato e quindi dell’economia privata), fino alla tagliola del Fiscal Compact e al delirio puro del pareggio di bilancio inserito in Costituzione dalle “anime morte” del Parlamento, ipnotizzate dal referendum permanente su Berlusconi. Risultato finale, meno servizi e più tasse: senza più disponibilità monetaria, lo Stato è costretto a dipendere dal denaro che riceve dai cittadini, sotto forma di imposte e bollette.Silenzio totale, sull’euro, anche da Confindustria e dagli stessi sindacati: nessuna analisi approfondita sulla crisi, nessuna soluzione alternativa, nessuna proposta. Micidiale, su questo fronte, il black-out dei media: per giornali e televisioni, l’euro è stato un sostanziale tabù, un dogma intoccabile. Ed eccezione della Lega Nord – ferma comunque ai soli slogan – il grande silenzio ha allineato tutti i partiti, a cominciare dal Pd, mentre l’ostilità verso l’euro affiora a tratti nella “pancia” del centrodestra e tra i grillini, anche se Grillo – anche nel V-Day di Genova – sulla moneta unica si è limitato a proporre un semplice referendum. La rilevazione di dicembre effettuata da “Scenari economici” parla da sola: l’euro “resiste” solo nel centrosinistra e viene travolto sia dal centrodestra (77%) che dal M5S (73%) e dall’area del non-voto (58%). Il partito virtuale No-Euro vince al nord con 8 punti di scarto e al centro-sud con 4 punti, mentre nelle “regioni rosse” si ferma al 43%, contro un 50% di “fedelissimi” pro-euro. In caso di elezioni, se ci fosse «una formazione fortemente anti-euro», Forza Italia potrebbe perdere quasi l’8% dei suoi elettori (e Grillo il 6,7%), mentre centro e centrosinistra manterrebbero quasi invariato il proprio bottino elettorale. A conti fatti, già oggi una lista anti-euro varrebbe almeno il 24% dei consensi – un italiano su quattro – ma la percentuale potrebbe più che raddoppiare: si ottiene addirittura il 56% dei consensi, sommando i contrari all’euro e la quota di italiani disponibili a “prendere in considerazione” l’ipotesi di votare un partito capace di dire no alla moneta della Bce.Le elezioni europee – maggio 2014 – potrebbero rivelarsi un vero e proprio referendum sull’attuale Unione Europea a guida tedesca e sul suo strumento principale di potere, l’Eurozona: «Sovranità monetaria, svalutazione, parametri di Maastricht, Fiscal Compact, politiche di austerity, vincoli di bilancio e rapporti con la Germania – sottolinea “Scenari economici” – saranno temi che verranno discussi ed approfonditi durante la campagna elettorale, e molti cittadini potrebbero votare in modo diverso rispetto ad una consultazione per il Parlamento italiano». Cresce il desiderio di tornare alla sovranità monetaria, individuata come toccasana per difendere il bilancio statale e quindi il benessere della comunità nazionale: il ritorno a una lira garantita dalla Banca d’Italia piace «non solo tra gli elettori del centrodestra e del “Movimento a 5 Stelle”, ma anche nell’area degli indecisi e del non-voto». A favore della “permanenza nell’euro” resta invece «granitico» l’elettorato del Pd, e a livello di categorie i favorevoli alla moneta “ammazza-Italia” «sono maggioritari unicamente tra pensionati e dipendenti pubblici».«Euro? No, grazie». Gli italiani – in maggioranza, ormai – bocciano la moneta unica europea. Lo rivela un sondaggio proposto da “Scenari economici” a un campione di 2.400 persone, che include ogni categoria sociale e produttiva, da nord a sud, e tutte le principli fasce di età. Contro l’euro soprattutto il settentrione e gli elettori del centrodestra e del “Movimento 5 Stelle”, compresi fra i 30 e 59 anni: operai, casalinghe, disoccupati, artigiani e lavoratori autonomi. Cioè l’Italia che – più di ogni altra – subisce la devastazione socio-economica della grande recessione: tagli ai salari e alle pensioni, enti locali senza più soldi per scuola, sanità e assistenza, crisi del credito e dei consumi, fatturati a picco, chiusure e licenziamenti, erosione dei risparmi, inaudito inasprimento fiscale. Risultato: a pochi mesi dalle europee, il partito “No-Euro” raccoglie già il 24% di voti “sicuri”, mentre un altro 32% ammette: «Prenderei in considerazione l’ipotesi di votarlo». Il restante 44%, quello dei “fedeli” alla moneta della Bce, corrisponde alla roccaforte storica del centrosinistra, quella delle regioni “rosse”.
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Costituzione fai da te, Giulietto Chiesa: senatori golpisti
Ma Laura Puppato non avrebbe dovuto opporsi al “golpe bianco” per cambiare la Costituzione, come annunciato da lei stessa in piazza il 12 ottobre? E’ stata “convinta” in extremis da Anna Finocchiaro a votare a favore, spiega lei stessa nella sua pagina Facebook. «La Costituzione è in mano a queste rocce saldissime», commenta Giulietto Chiesa, che annuncia: «Noi faremo resistenza», contro la manomissione della Carta. Per soli 4 voti, il Senato ha approvato il dispositivo che modifica l’articolo 138 e apre la strada a rapide modifiche dell’impianto costituzionale, come suggerito dal “garante” Napolitano. Risultato: per cambiare le regole della democrazia in Italia non sarà più necessario disporre del consenso dei due terzi del Parlamento: si potrà procedere più alla svelta, magari come auspicato da uno dei potenti della Terra, il “ceo” di Jp Morgan Chase, Jamie Dimon, ansioso di veder sparire dall’Europa le “vecchie” Costituzioni come quella italiana, così attente ai diritti del lavoro.Questo Senato sbrigativo non ci rappresenta, protesta su “Megachip” Giulietto Chiesa, presidente del laboratorio politico “Alternativa”. «E’ una Camera che ha una maggioranza di provocatori, di lanzichenecchi che operano contro l’ordine e la pace sociale». Dettaglio decisivo: questa «maggioranza indegna» non è certo appannaggio dei soli “berluscones”, di Casini e di Monti, visto che «ne è parte integrante il Partito Democratico», che dopo lo “smacchiatore” Bersani propone il neoliberista Renzi, col contraltare mediatico di un uomo d’apparato come Cuperlo, che richiama la sinistra ai suoi doveri storici ma senza ovviamente disturbare il manovratore europeo, che col limite del deficit al 3% rende vuoto qualsiasi proclama sociale e democratico. Molte delle attuali direttive europee e degli accordi-capestro (Maastricht, Lisbona, Fiscal Compact) da cui dipende la nostra crisi, accusa un giurista come l’ex ministro Giuseppe Guarino, sono tecnicamente illegali, Costituzione alla mano. E, anziché rimediare impugnando la Carta, la si preferisce cambiare, neutralizzandola, in modo che non possa più ostacolare il super-potere europeo.La maggioranza con cui è passato al Senato il testo della deroga all’articolo 138 della Costituzione, storico baluardo contro tentazioni manipolatorie della Carta su cui si è finora basata la Repubblica nata dalla Resistenza, ha superato i due terzi con appena 218 a favore rispetto ai 214 del quorum richiesto (58 i contrari e 12 gli astenuti). Hanno votato a favore la stragrande maggioranza dei senatori Pd, Pdl e “Scelta Civica”. Contrari M5S e Sel, cui si aggiungono 5 senatori Pd: Felice Casson astenuto, mentre non hanno partecipato al voto Walter Tocci, Silvana Amati e Renato Turano. Con loro anche l’ex direttore di “RaiNews24”, Corradino Mineo, che pure – accettando di candidarsi – sperava in una “legislatura costituente” di ben altro livello. Decisivo, osserva il “Fatto Quotidiano”, il supporto numerico offerto della Lega Nord per sostenere il provvedimento, fortemente voluto dal governo delle larghe intese su sollecitazione del Quirinale. Se il quorum dei due terzi venisse superato anche alla Camera, sarà possibile evitare il referendum confermativo per le leggi di riforma costituzionale.Molte, al Senato, anche le defezioni nel Pdl, tra cui quella di Francesco Nitto Palma, senatore campano e presidente della commissione giustizia. Nel Pdl, scrive il “Fatto”, il colpo di mano sulla Costituzione ripropone lo scontro tra “falchi” e “colombe”: la fronda interna al partito berlusconiano nel voto sul ddl costituzionale ha coinvolto 11 senatori, che si sono astenuti al momento del voto (al Senato, l’astensione vale come un voto contrario). Oltre a Palma, gli altri sono Maria Elisabetta Alberti Casellati, Vincenzo D’Anna, Domenico De Siano, Ciro Falanga, Pietro Iurlaro, Pietro Langella, Eva Longo, Antonio Milo, Domenico Scilipoti e l’ex direttore del Tg1, Augusto Minzolini. «Di questi solo Nitto Palma, Minzolini e Falanga hanno annunciato in aula la loro astensione, in disaccordo col fatto che il ddl non affronta il tema della riforma della giustizia. Altri 12 senatori del Pdl, compreso Silvio Berlusconi, non erano invece presenti in aula». Alla Camera, ovviamente, la strada sarà spianata. E gli appelli di Zagrebelsky e Rodotà per non manomettere pericolosamente la Costituzione? Tutto inutile. «Faremo quanto è possibile per cancellare questa vergogna», annuncia Giulietto Chiesa. «Un Parlamento di nominati non rappresenta il paese e, tanto meno, può arrogarsi il diritto di cambiarne la carta costituzionale con un colpo di mano. Questo è un golpe bianco, che esegue il piano eversivo della P2. Noi faremo resistenza».Ma Laura Puppato non avrebbe dovuto opporsi al “golpe bianco” per cambiare la Costituzione, come annunciato da lei stessa in piazza il 12 ottobre? E’ stata “convinta” in extremis da Anna Finocchiaro a votare a favore, spiega ora nella sua pagina Facebook. «La Costituzione è in mano a queste rocce saldissime», commenta Giulietto Chiesa, che annuncia: «Noi faremo resistenza», contro la manomissione della Carta. Per soli 4 voti, il Senato ha approvato il dispositivo che modifica l’articolo 138 e apre la strada a rapide modifiche dell’impianto costituzionale, come suggerito dal “garante” Napolitano. Risultato: per cambiare le regole della democrazia in Italia non sarà più necessario disporre del consenso dei due terzi del Parlamento: si potrà procedere più alla svelta, magari come auspicato da uno dei potenti della Terra, il “ceo” di Jp Morgan Chase, Jamie Dimon, ansioso di veder sparire dall’Europa le “vecchie” Costituzioni come quella italiana, così attente ai diritti del lavoro.