Archivio del Tag ‘premier’
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Renzi teme il referendum contro le sue riforme piduiste
Mentre – in piena catastrofe Eurozona – il presidente della Repubblica indica “l’evasione fiscale” come il vero problema del disastro economico che sta retrocedendo l’Italia lontano dal G20 (folle super-tassazione imposta dalla moneta unica, e quindi crollo del Pil, fallimenti, chiusure, licenziamenti), il premier Matteo Renzi completa la narrazione ufficiale, istituzionale, con «l’esaltazione ridicola di quel +0,8% di Pil con cui si chiuderà il 2015 (dopo quattro anni di segni meno, e in presenza di circostanze eccezionalmente favorevoli come il quantitative easing della Bce e il tracollo del prezzo del petrolio)», scrive Dante Barontini, sottolineando che al centro del «soliloquio renziano» di fine anno resta, soprattutto, «il tema “spartiacque” della sua avventura politica», che non sono ovviamente le amministrative di primavera, «ma il referendum confermativo sulla oscena “riforma costituzionale” che sostanzialmente abolisce la Costituzione “nata dalla Resistenza”», quella a cui lo stesso Mattarella non manca di rendere continuamente omaggio.«Inutile star qui a ricordare che alcuni di quelli che Renzi considera “successi” sono in realtà macelleria sociale, a partire dal Jobs Act e dall’abolizione dell’articolo 18, che hanno consegnato la vita e la dignità di ogni singolo lavoratore dipendente al capriccio delle singole imprese o addirittura dei singoli “capetti” e caporali», scrive Barontini su “Contropiano”. «Inutile anche insistere sulla nauseante vicenda delle quattro banche “salvate” sacrificando i correntisti più ingenui, truffati allo sportello con l’offerta di obbligazioni-carta-straccia». Renzi, in realtà, era stato scelto per la bisogna: «Lo abbiamo messo lì noi», rivendicò allegramente Sergio Marchionne quasi agli inizi. Messo lì, Renzi, «per distruggere definitivamente il patto costituzionale del dopoguerra, già duramente sfibrato dal ventennio berlusconiano e dalla lenta scomparsa di una qualsiasi rappresentanza politica “di sinistra” (la cui azione, insomma, fosse coerente con le parole)».E quindi, conclude Barontini, ha perfettamente senso che il premier non-eletto leghi al referendum d’autunno il suo destino politico, «anche se non giureremmo sulle sue effettive dimissioni in caso di sconfitta». Ma attenzione: «Non c’è solo la nefasta grandezza del legare il proprio nome a una svolta reazionaria di portata storica, che manda in soffitta il “patto tra i produttori” (con tutti i compromessi del dopoguerra) e disegna una Terza Repubblica piduista e repubblichina (in combinazione con l’Italicum), in cui soltanto i ceti dominanti possono disporre di rappresentanza e accedere ai palazzi del potere (o quel che ne è rimasto, dopo i molti trasferimenti di sovranità all’Unione Europea)». Secondo l’analista, c’è anche la certezza di una catastrofe del Pd alle elezioni amministrative di primavera. Soprattutto in quelle città dove, per motivi diversi, il partito del premier è quasi scomparso dalla scena politica: Roma e Napoli. «Due città opposte, con la prima che ha visto il Pd gestire l’amministrazione all’interno del sistema chiamato Mafia Capitale, e la seconda che lo aveva espulso già quattro anni fa, scegliendo De Magistris anziché uno dei tanti maneggioni del circo barnum “democratico”».«Il rottamatore quindi lascia che siano i suoi uomini a gestire e perdere la partita di primavera, svalutandone il significato politico generale già cinque mesi prima delle elezioni. E cerchia in rosso la data del referendum per stabilire se la reazione – con lui al balcone – avrà davvero vinto o no». Per Barontini sarà una partita complicata, «perché la retorica del “nuovo” (le riforme, i giovani ministri sempre sorridenti, le facce ignote – più che nuove – che ammoniscono il popolo ogni giorno dallo schermo) ha in genere facile gioco contro tutto quel che – per le ragioni più diverse, dalle nobili alle ignobili – viene comunque racchiuso sotto l’etichetta del “vecchio”». Se non si vuol essere solo spettatori passivi «bisognerebbe saper rovesciare questi termini», perché «non c’è nulla di più “vecchio” di una società in cui chi non possiede un’impresa non ha nemmeno diritto di parola. Non c’è nulla di più “preistorico” di un rapporto di lavoro in cui il “prestatore d’opera” deve essere sempre flessibile e muto, “liquido” e sostituibile in ogni istante. È il mondo disegnato dal capitale multinazionale e dall’Unione Europea, cui Renzi presta temporaneamente la faccia e le battutine».Mentre – in piena catastrofe Eurozona – il presidente della Repubblica indica “l’evasione fiscale” come il vero problema del disastro economico che sta retrocedendo l’Italia lontano dal G20 (folle super-tassazione imposta dalla moneta unica, e quindi crollo del Pil, fallimenti, chiusure, licenziamenti), il premier Matteo Renzi completa la narrazione ufficiale, istituzionale, con «l’esaltazione ridicola di quel +0,8% di Pil con cui si chiuderà il 2015 (dopo quattro anni di segni meno, e in presenza di circostanze eccezionalmente favorevoli come il quantitative easing della Bce e il tracollo del prezzo del petrolio)», scrive Dante Barontini, sottolineando che al centro del «soliloquio renziano» di fine anno resta, soprattutto, «il tema “spartiacque” della sua avventura politica», che non sono ovviamente le amministrative di primavera, «ma il referendum confermativo sulla oscena “riforma costituzionale” che sostanzialmente abolisce la Costituzione “nata dalla Resistenza”», quella a cui lo stesso Mattarella non manca di rendere continuamente omaggio.
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Francia: la guerra civile evocata da Valls, perfetto imbecille
Ci sono affermazioni che non meritano commento alcuno, ma che debbono essere censurate per sottolineare la profonda bestialità di chi le fa. E’ il caso di Valls, degno primo ministro di quel genio di Hollande, che ha dichiarato papale papale che, se vince il Fn c’è rischio di guerra civile. In meno di dieci parole è riuscito a condensare il manuale del perfetto cretino in politica. Perché? Ve lo spiego. 1. Se non c’è un rischio reale di guerra civile, a dirlo si fa la figura del cioccolataio che, pur di avere qualche effetto elettorale, si inventa una balla del genere. Se il rischio è reale, peggio ancora, perché un capo di governo, in quel caso, deve mandare messaggi distensivi e tranquillizzanti, almeno sinché possibile, non certo dichiarazioni incendiarie che chiamano lo scontro. 2. Certe cose, alla vigilia di un voto, può dirle (e sarebbe cosa discutibile) un capo partito, ma le autorità istituzionali (capo dello Stato, capo del governo o ministro dell’interno) devono mantenere una posizione di garanti di tutti e non cercare di delegittimare uno dei contendenti con un argomento del genere.3. Con questo attacco, per certi versi, il favore è reso – e gratis – a Sarkozy accreditato come unico contendente accettabile, con il risultato di contribuire a mettere in pista un futuro antagonista più pericoloso della Le Pen, proprio perché può più facilmente attirare elettori moderati anche del Ps. 4. Anche dal punto di vista tattico è una bestialità, perché questa indiretta attestazione di “legittimità” data a Sarkozy contro il Fn, e la decisione di desistere a favore dei sarkozysti ha l’unico risultato di confermare l’affinità fra socialisti e centrodestra, confermando che l’unica vera alternativa di sistema è il Fn: bella autorete! Il che non significa affatto che il Fn sia una alternativa decente al sistema, ma alla fine, è un favoloso assist alla Le Pen. 5. Perché quando un partito di governo ha un tracollo di quel tipo nelle amministrative, ha tutto l’interesse a sdrammatizzare la situazione, sminuendo l’importanza del voto (“Sono solo amministrative… alle politiche sarà diverso… vediamo che sanno fare”, ecc.) mentre la dichiarazione dell’imbecille moltiplica la rilevanza del voto, con il risultato di ingigantire un eventuale successo del Fn e questo anche se il Fn perdesse i ballottaggi ma con un risultato del 45-48%6. Perché se davvero ci fosse rischio di guerra civile ed il modo di bloccarla fosse la vittoria del “centrodestra pulito”, vorrebbe dire che già da ora i socialisti sono irrilevanti e possono al massimo fare da portatori d’acqua di Sarkozy. E per ora fermiamoci qui: siamo all’Abc della politica, questo Valls può fare politica alla bocciofila per farsi eleggere presidente della medesima. Nella mia città d’origine c’è un detto che vi traduco: “Quello è così scemo che a una gara di scemi arriva secondo”. Tradotto: è più fesso di Hollande, che ovviamente sarebbe il primo. E voi non volete che questi partiti dell’Internazionale “socialista” non spariscano per sempre dalla faccia della terra?!(Aldo Giannuli, “Valls: ma si può essere più bestie di così?”, dal blog di Giannuli dell’11 dicembre 2015).Ci sono affermazioni che non meritano commento alcuno, ma che debbono essere censurate per sottolineare la profonda bestialità di chi le fa. E’ il caso di Valls, degno primo ministro di quel genio di Hollande, che ha dichiarato papale papale che, se vince il Fn c’è rischio di guerra civile. In meno di dieci parole è riuscito a condensare il manuale del perfetto cretino in politica. Perché? Ve lo spiego. 1. Se non c’è un rischio reale di guerra civile, a dirlo si fa la figura del cioccolataio che, pur di avere qualche effetto elettorale, si inventa una balla del genere. Se il rischio è reale, peggio ancora, perché un capo di governo, in quel caso, deve mandare messaggi distensivi e tranquillizzanti, almeno sinché possibile, non certo dichiarazioni incendiarie che chiamano lo scontro. 2. Certe cose, alla vigilia di un voto, può dirle (e sarebbe cosa discutibile) un capo partito, ma le autorità istituzionali (capo dello Stato, capo del governo o ministro dell’interno) devono mantenere una posizione di garanti di tutti e non cercare di delegittimare uno dei contendenti con un argomento del genere.
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Il giovane Renzi e l’idea (geniale) del Ponte sullo Stretto
Il Jobs Act, l’Italicum, il taglio del Senato, la rottamazione della Costituzione, le privatizzazioni selvagge come quella di Poste Italiane. Ma Renzi non ci fa mancare nulla, e ora rispolvera persino il Ponte sullo Stretto, per anni in pole-position nella classifica horror di berlusconiana memoria. «Non bastavano i regali alle lobby delle fonti fossili e degli inceneritori, ora rassicuriamo anche chi vorrebbe guadagnare dalla realizzazione di un’opera tanto faraonica (soprattutto nei costi) quanto inutile», protesta il presidente di Legambiente, Vittorio Cogliati Dezza. «Il premier sa bene, e lo dice, che le emergenze italiane sono ben altre: perché allora continua a sostenere le lobby del ‘900 e le loro idee vecchie e superate?». Rigenerazione urbana, fonti rinnovabili, mobilità sostenibile, chimica verde? Voci non pervenute, così come agricoltura di qualità, raccolta differenziata, sicurezza delle scuole, ferrovie utili. Niente da fare: la leggenda del Ponte sullo Stretto – fabbrica di progetti costosi, più che di pilastri veri e propri – va sempre bene per dare la caccia all’elettorato in fuga dal Cavaliere.«Tre anni fa il futuro premier bocciava il Ponte sullo Stretto, auspicando che quella montagna di denaro pubblico necessaria – 8 miliardi di euro – fosse indirizzata piuttosto a realizzare nuove scuole e a migliorare quelle esistenti», ricordano Fabio Granata, Anna Donati e Annalisa Corrado, esponenti di “Green Italia”, che in un post ripreso da “Il Cambiamento” condannano questa «spericolata inversione a U», augurandosi che l’uscita di Renzi sia solo «la sua ennesima promessa non mantenuta». Gli italiani, del resto, «credevano che quello del Ponte fosse un capitolo chiuso, perché di fronte ad un paese costantemente piegato dal dissesto idrogeologico, con infrastrutture che collassano per il maltempo e situazioni come quelle di Messina senz’acqua potabile, indegne di un paese civile, anche solo parlare di Ponte sullo Stretto è uno schiaffo alla realtà». Già, la realtà: «E’ quella dei cittadini dell’Aquila ancora sfollati, quelli della Liguria che passano da un’alluvione con smottamenti e morti a un piano-casa tutto cemento, o il popolo inquinato di Taranto e di Crotone». Allegria: «Dopo le trivelle, gli inceneritori, le autostrade, mancava solo il Ponte assurto a ‘nuovo simbolo per l’Italia’ per dimostrare che il premier crede che le ricette da boom economico degli anni ‘60 siano ancora attuali, mentre c’è un mondo che va in un’altra direzione».«Di straordinario – ricorda Leandro Janni, presidente siciliano di Italia Nostra – il ponte sullo Stretto di Messina ha solo il tempo e i soldi sprecati per un’opera insostenibile dal punto di vista tecnico, ambientale ed economico». Il progetto definitivo, elaborato da Eurolink SpA, è considerato talmente lacunoso dalla Commissione di valutazione di impatto ambientale da far avanzare la richiesta, il 10 novembre 2011, di ben 223 integrazioni su tutti gli aspetti nodali (strutturali, trasportistici, economico-finanziari, geologici, idrogeologici, naturalistici, paesaggistici, relativi alle emissioni atmosferiche, ai rumori e alle vibrazioni), a cui Eurolink non è ancora riuscita rispondere esaurientemente. Sconcertante, se si pensa che da oltre 10 anni la cattiva politica – cui ora si associa il “giovane” Renzi – vorrebbe costruire, «in una delle aree a più alto elevato rischio sismico del Mediterraneo, un ponte sospeso, ad unica campata di 3,3 km di lunghezza, sorretto da torri di circa 400 metri di altezza, a doppio impalcato stradale e ferroviario». Oggi il ponte più lungo al mondo, il Minami Bisan-Seto in Giappone, è lungo un terzo di quello progettato per Messina.Si tratta di un’opera che ad oggi verrebbe a costare 8,5 miliardi di euro, continua il “Cambiamento”: oltre mezzo punto di Pil, e senza un piano economico-finanziario che ne dimostri la redditività e l’utilità. Impietoso il dossier dei prestigiosi tecnici italiani ingaggiati dagli ambientalisti per “smontare” il disastroso progetto di Eurolink. Primo problema, il terremoto: viene garantita l’invulnerabilità del manufatto solo per eventi sismici fino a 7,1 Richter, escludendo quindi «in maniera ascientifica» che ci possa essere un sisma di maggiore energia in una zona di rischio molto elevato. Inoltre, nel calcolo dei materiali da scavo viene dimenticato il conteggio di 3,5 milioni di metri cubi di terreno estratto o movimentato. Sos ambiente: non è stata ancora elaborata una valutazione di incidenza credibile sullo Stretto di Messina, area di pregio naturalistico teoricamente a tutela europea. L’ultimo progetto, poi, considera “trascurabili” le modifiche apportate: un incremento di 17 metri dell’altezza delle torri, che arriverebbero a quota 400 metri, per sollevare l’impalcato sino ad 80 metri sul livello del mare. Poi lo spostamento della torre sul lato della Calabria, la variazione del tipo d’acciaio e quindi il peso delle funi e delle strutture portanti, e infine il cambiamento dell’altezza dell’impalcato del viadotto Pantano, lato Sicilia.Non è tutto. «Sono state presentate analisi trasportistiche insufficienti ed elaborati progettuali incompleti – aggiungono gli ambientalisti – da cui emerge che a 25 anni dalla realizzazione dell’opera ponte si registrerebbe un traffico pari a 11,6 milioni di auto all’anno per un’infrastruttura dimensionata per 105 milioni di auto l’anno, con un grado di utilizzo, quindi, dell’11% circa». Mostruoso, super-costoso e super-inutile: bravo Renzi. Non fa che aggiungere malinconia e desolazione l’esame dell’équipe tecnica che ha “fatto le pulci” all’improbabile progetto Eurolink. Tra gli oltre 30 esperti che hanno lavorato con le associazioni ambientaliste, scrive il “Cambiamento”, fra gli specialisti dell’università di Messina troviamo Emilio Di Domenico (oceanografia biologica), Gaetano Gargiulo (botanica), Lucrezia Genovese (Cnr), Salvatore Giacobbe (ecologia). Poi Domenico Gattuso (ingegneria, Reggio Calabria), i geologi Giuseppe Gisotti, Alessandro Guerricchio e Gioacchino Lena.Ci sono tecnici come Piero Polimeni, ingegnere pianificatore, esperto di cooperazione e sviluppo locale; Guido Signorino, professore ordinario del dipartimento economia, statistica e sociologia dell’Università di Messina. E poi Stefano Sylos Labini, ricercatore dell’Enea e geologo come Carlo Tansi (Università della Calabria). Non manca il geologo più famoso d’Italia, il conduttore televisivo Mario Tozzi. E ci sono specialisti come il professor Vincenzo Vacante (agraria, Reggio), l’ingegner Claudio Villari, un urbanista come il professor Alberto Ziparo dell’ateneo di Firenze. «Serve altro?», si domanda “Il Cambiamento”. Sì, certo: tanto per cominciare servirebbe un altro premier, magari regolarmente eletto. E poi un’altra Italia, in cui a nessuno verrebbe in mente di proporre opere demenziali e succulente per il sistema mafioso degli appalti, dalla linea Tav Torino-Lione al suo gemello mediterraneo, l’inaffondabile Ponte sullo Stretto.Il Jobs Act, l’Italicum, il taglio del Senato, la rottamazione della Costituzione, le privatizzazioni selvagge come quella di Poste Italiane. Ma Renzi non ci fa mancare nulla, e ora rispolvera persino il Ponte sullo Stretto, per anni in pole-position nella classifica horror di berlusconiana memoria. «Non bastavano i regali alle lobby delle fonti fossili e degli inceneritori, ora rassicuriamo anche chi vorrebbe guadagnare dalla realizzazione di un’opera tanto faraonica (soprattutto nei costi) quanto inutile», protesta il presidente di Legambiente, Vittorio Cogliati Dezza. «Il premier sa bene, e lo dice, che le emergenze italiane sono ben altre: perché allora continua a sostenere le lobby del ‘900 e le loro idee vecchie e superate?». Rigenerazione urbana, fonti rinnovabili, mobilità sostenibile, chimica verde? Voci non pervenute, così come agricoltura di qualità, raccolta differenziata, sicurezza delle scuole, ferrovie utili. Niente da fare: la leggenda del Ponte sullo Stretto – fabbrica di progetti costosi, più che di pilastri veri e propri – va sempre bene per dare la caccia all’elettorato in fuga dal Cavaliere.
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L’Italia obbedisce, con Renzi e il Re Travicello al Quirinale
Da diversi anni vado spiegando che la funzione reale del presidente della Repubblica italiano, nell’ordinamento reale, è quella di assicurare l’obbedienza del governo e del Parlamento, cioè delle istituzioni elettive, ai suoi padroni stranieri e ai loro interessi. In questo senso, il presidente Napolitano dapprima impose con la cosiddetta “moral suasion” a Berlusconi di partecipare alla per noi rovinosa guerra contro la Libia, con la quale aveva appena stretto un trattato di riconciliazione e collaborazione, e poco dopo lo sostituì con l’altrettanto rovinoso governo non eletto di Mario Monti, che egli prima fece senatore a vita. Ossia, il presidente della Repubblica sinora ha assicurato che chiunque il popolo avesse messo al potere con il suo voto elettorale, si sarebbe conformato alle direttive delle potenze dominanti sull’Italia. Molti ritengono che i suddetti interventi di re Giorgio costituissero colpi di Stato, ma si sbagliano, perché per fare un colpo di Stato bisogna che prima ci sia uno Stato indipendente, mentre l’Italia, dalla sua capitolazione nel 1943, è un paese a sovranità limitata.Poi ha ceduto anche quella che le rimaneva, cioè anche quella monetaria, legislativa e di bilancio, ad istituzioni dominate da capitali stranieri. Con le riforme della legge elettorale e della Costituzione attuate dal governo Renzi, viene molto ridotto il contenuto del potere di scelta politica da parte del popolo, perché i poteri dello Stato vengono in gran parte riuniti nelle mani del primo ministro e il Parlamento diviene un Parlamento di nominati diretto dal medesimo grazie a un ampio premio di maggioranza, che gli consente persino di trasformare la Costituzione. Quindi adesso è il primo ministro, ovviamente non eletto dal popolo, che assicura l’obbedienza dell’Italia agli interessi stranieri dominanti e alle loro direttive europee e bancarie. Un leone in casa, un cagnolino all’estero. Renzi in effetti ruggisce in Italia ma poi, nel vertici europei, se ne sta tranquillo fuori dalla porta chiusa, con la ciotola vuota, ad aspettare per le decisioni e le direttive: un vero Amministratore Capo della colonia Italia.A seguito del suddetto spostamento di funzioni e di poteri, il presidente della Repubblica, che ora viene praticamente nominato dal primo ministro, può svolgere semplicemente il ruolo notarile, di rappresentanza e supporto moralmente legittimante, a favore del primo ministro stesso. Anche il primo ministro britannico ha vasti poteri, è quasi un dittatore temporaneo sul Parlamento e sul suo partito, però non nomina e non controlla il capo dello Stato, ovviamente, dato che questi è il re o la regina. Lo stesso Mussolini, a differenza di Hitler, era sottoposto al re, il quale in effetti, al momento opportuno, lo fece arrestare. Il primo ministro che esce dalle riforme dell’attuale governo non ha questo limite. E così, finito il regno di re Giorgio, inizia la dinastia dei re Travicelli.(Marco Della Luna, “Re Travicello”, dal blog di Della Luna dell’11 novembre 2015).Da diversi anni vado spiegando che la funzione reale del presidente della Repubblica italiano, nell’ordinamento reale, è quella di assicurare l’obbedienza del governo e del Parlamento, cioè delle istituzioni elettive, ai suoi padroni stranieri e ai loro interessi. In questo senso, il presidente Napolitano dapprima impose con la cosiddetta “moral suasion” a Berlusconi di partecipare alla per noi rovinosa guerra contro la Libia, con la quale aveva appena stretto un trattato di riconciliazione e collaborazione, e poco dopo lo sostituì con l’altrettanto rovinoso governo non eletto di Mario Monti, che egli prima fece senatore a vita. Ossia, il presidente della Repubblica sinora ha assicurato che chiunque il popolo avesse messo al potere con il suo voto elettorale, si sarebbe conformato alle direttive delle potenze dominanti sull’Italia. Molti ritengono che i suddetti interventi di re Giorgio costituissero colpi di Stato, ma si sbagliano, perché per fare un colpo di Stato bisogna che prima ci sia uno Stato indipendente, mentre l’Italia, dalla sua capitolazione nel 1943, è un paese a sovranità limitata.
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Saskia Sassen: è il golpe dei predatori, ci vogliono espellere
La disuguaglianza è inevitabile in sistemi complessi e altamente differenziati, e ci accompagna sin da quando i primi essere umani hanno costruito delle città. Dobbiamo quindi interrogarci sulle condizioni della disuguaglianza: per esempio, dovremmo chiederci quand’è che la disuguaglianza diventa profondamente ingiusta, e quando è accettabile. Anche le economie successive alla seconda guerra mondiale producevano disuguaglianza, ma era una forma di disuguaglianza più o meno ragionevole. Oggi la disuguaglianza, al contrario, è estrema. Il linguaggio sulla “maggiore disuguaglianza”, sulla “maggiore povertà”, sull’aumento dell’incarcerazione, sulla crescita della distruzione ambientale e così via, è insufficiente a individuare il periodo attuale. Ci sono delle rotture in corso. Non si tratta soltanto di un “di più” della stessa cosa. Siamo di fronte a una serie – imponente e diversificata – di espulsioni, una serie che segnala una più profonda trasformazione sistemica, che viene documentata a pezzi, in modo parziale, in studi specialistici diversi, ma che non viene narrata come una dinamica onnicomprensiva che ci sta conducendo in una nuova fase del capitalismo globale, e della distruzione globale.Quella di espulsioni va distinta dalla più comune nozione di “esclusione sociale”: quest’ultima avviene all’interno di un sistema e in questo senso può essere ridimensionata, migliorata, perfino eliminata. Nei sistemi complessi ci sono invece margini sistemici multipli, e le espulsioni attraversano domini e sistemi diversi, dalle prigioni ai campi profughi, dallo sfruttamento finanziario alle distruzioni ambientali. Per come le concepisco io, le espulsioni avvengono nel margine sistemico.Uso il termine “espulsioni” per descrivere una varietà di processi che producono esiti estremi da un lato, e che dall’altro potrebbero essere familiari e ordinari. Tra gli esempi dei processi di espulsione, potrei citare il crescente numero degli indigenti; degli sfollati nei paesi poveri ammassati nei campi profughi formali o informali; dei discriminati e perseguitati nei paesi ricchi depositati nelle prigioni; dei lavoratori i cui corpi sono distrutti dal lavoro e resi superflui a un’età troppo giovane; della popolazione attiva considerata in eccesso che vive nei ghetti e negli slum.Potrei aggiungere le parti della biosfera espulse dal loro spazio vitale a causa delle tecniche estrattive o dell’accaparramento di terre. E insisto sul fatto che il mite linguaggio del “cambiamento climatico” in questo ambito non riesce ad afferrare il fatto che, al livello empirico, esistono vaste distese di terra morta e di acqua morta. Di fronte all’estremo tendiamo a fermarci. È troppo, e troppo sgradevole. Ci mancano i concetti per comprenderlo. Per questo, diventa facilmente il mostruoso. O diviene invisibile, indipendentemente da quanto sia materiale. In “Espulsioni” esamino un ampio raggio di processi che a un certo punto diventano così estremi che il linguaggio familiare del “più” non serve più a spiegarli. Il momento dell’espulsione è il momento in cui una condizione familiare diviene estrema: non si è semplicemente poveri, si è senza casa, affamati, si vive in una baracca. O, per quel che riguarda la terra e l’acqua: come dicevo non è semplicemente degradata, insalubre. É morta, finita.Dovremmo preoccuparci delle “formazioni predatorie”. Sono formazioni complesse, che assemblano una varietà di elementi: élite, capacità sistemiche, mercati, innovazioni tecniche (di mercato e finanziarie) abilitate dai governi. Ci sono per esempio nuovi strumenti legali e contabili, sviluppati nel corso degli anni, che condizionano ciò che oggi ci appare come un contratto legittimo. Ci sono le banche centrali che forniscono quantitative easing: nel caso degli Stati Uniti, 7 bilioni di dollari dei cittadini sono stati messi a disposizione del sistema finanziario internazionale a tassi molto bassi, e poi usati per la speculazione, non per fornire prestiti alle piccole imprese che ne avrebbero disperato bisogno. In questo senso, abbiamo a che fare con zone complesse che assemblano una varietà di elementi, una condizione che eccede il semplice fatto di avere una elite di super-ricchi potenti. Anche se ci liberassimo di tutti i super-ricchi, continueremmo ad avere esiti simili a quelli attuali.Anche i governi sono parte delle formazioni predatorie. Dovremmo archiviare la tesi secondo la quale lo Stato-nazione nel suo complesso è una vittima dei processi di globalizzazione economica. Ed è particolarmente sbagliato quando ci si riferisce al ramo esecutivo dei governi, perché sono i Parlamenti e il ramo legislativo ad aver subito una perdita massiccia di funzioni e potere. Mentre il ramo esecutivo – dunque i presidenti o i primi ministri – hanno ottenuto un particolare, nuovo tipo di potere grazie alla globalizzazione: sono loro a istituire le politiche, ad articolare i trattati commerciali e di investimento che sostengono le corporation. E allo stesso tempo le banche centrali sostengono il sistema finanziario, non i poveri o i piccoli imprenditori.Per lei, la decadenza dell’economia politica del ventesimo secolo inizia negli anni Ottanta del Novecento, benché abbia genealogie spesso più antiche. Alcuni segnali erano evidenti già negli anni Settanta, ma è negli anni Ottanta che l’economia comincia a cambiare rotta, e a restringersi: l’indebolimento dei sindacati, i minori investimenti nelle infrastrutture a beneficio di tutti, incluse quelle per i quartieri e le famiglie meno ricche, l’aumento della concentrazione di potere e ricchezza al vertice, anziché dello sviluppo della classe media. Nel mio libro ho incluso uno schema che mostra come negli anni Ottanta i nostri governi fortemente sviluppati abbiano cominciato a diventare più poveri, mentre nel mondo meno sviluppato, invece di investire nella produzione manifatturiera gli investimenti sono stati dirottati all’estrazione mineraria, al petrolio e ad altri settori primari. Ciò è accaduto per esempio nell’Africa subsahariana, che si era sviluppata negli anni Sessanta e Settanta con il successo dei processi di indipendenza. Questo processo ha prodotto ricchezza per le aziende e per le elite governative corrotte, ma povertà per la popolazione.Questo passaggio da una logica inclusiva a una logica di espulsione segna una vera e propria rottura rispetto alla fase precedente, quella del capitalismo keynesiano del secondo dopoguerra. Negli anni Ottanta c’è stata una rottura radicale, una frattura rispetto al capitalismo keynesiano, la cui logica dominante – nonostante tutti i limiti – era l’inclusione, la riduzione delle tendenze sistemiche alla disuguaglianza, perché il sistema si reggeva sulla produzione e sul consumo di massa, su una logica espansiva dunque. La manifattura di massa, il consumo di massa, la costruzione di case e strade anche per i meno abbienti: tutto ciò è stato ottenuto espandendo lo spazio dell’economia e incorporando le persone nel sistema. Oggi alcuni settori ancora beneficiano di una certa espansione, ma altri settori chiave non ne hanno bisogno, per cui abbiamo una crescita intensa dei profitti totali delle corporation, ma uno spazio economico complessivamente più circoscritto. I profitti delle corporation crescono, ma lo spazio economico si contrae, complessivamente.Il settore del consumo è stato parzialmente distrutto dalla finanziarizzazione dell’economia, che può produrre profitti molto più alti rispetto al settore del consumo. Contestualmente, avviene una ridefinizione de facto dello spazio economico, una contrazione dell’economia, dalla quale viene espulso tutto ciò che (incluse le persone) non è più considerato produttivo secondo i criteri standard. La crescita economica, misurata secondi i criteri convenzionali, è il veleno della nostra epoca. C’è bisogno di economie che rispondano a logiche distributive: più coinvolgono le persone e le realtà territoriali e locali, più le economie ne beneficiano e producono benefici. Oggi avviene il contrario. Ci si libera di tutti i lavoratori sindacalizzati, delle classe media, esclusa dai servizi statali, degli studenti che avrebbero bisogno di università gratuite. La mia tesi è che quando la Germania o il Regno Unito dicono: “la Grecia è il problema, noi siamo a posto”, sbagliano. Le tendenze sono le stesse per tutti questi paesi. La Grecia è soltanto la versione più estrema della stessa tendenza. Nel libro presento un grafico che dimostra in che misura tutte le principali economie dell’Unione Europea, inclusa la Germania, presentino un calo netto, dopo che nel 2008 la crisi è esplosa.La Germania ha un settore manifatturiero forte, che gli ha permesso di recuperare presto. La Grecia ha gli oligarchi che hanno sfruttato il paese, che non pagano le tasse e fondamentalmente non contribuiscono all’economia greca. Le Olimpiadi ne sono l’esempio più evidente. Ma la tendenza è la stessa. La maggior parte degli Stati liberali oggi è in decadenza. Le ragioni sono complesse, e le esamino in dettaglio nel mio libro precedente, “Territorio, autorità, diritti” (Bruno Mondadori, 2008). Le privatizzazioni e la deregolamentazione sono stati fattori cruciali. Un altro fattore è il numero crescente di ricchi e di corporation potenti che pagano sempre meno tasse. La finanziariazzazione dell’economia e il graduale restringimento dei settori economici distributivi come il manifatturiero, è un altro fattore ancora. L’impoverimento delle classi medie, i prezzi più elevati per le case che hanno compromesso la possibilità per i figli di vivere fuori casa, la contrazione del sistema di sostegno sociale organizzato dallo Stato. Sono gli esiti di una logica distorta che ha catturato lo Stato liberale. Agli estremi, gli esiti sono le espulsioni.(Saskia Sassen, estratti dell’intervista “Le nuove logiche del capitalismo predatorio” rilasciata a Giuliano Battiston per “L’Espresso” e ripresa da “Micromega” il 4 novembre 2015. Docente di sociologia alla Columbia University di New York, la Sassen è autrice di “Espulsioni. Brutalità e complessità nell’economia globale”, Il Mulino, 296 pagine, 25 euro).La disuguaglianza è inevitabile in sistemi complessi e altamente differenziati, e ci accompagna sin da quando i primi essere umani hanno costruito delle città. Dobbiamo quindi interrogarci sulle condizioni della disuguaglianza: per esempio, dovremmo chiederci quand’è che la disuguaglianza diventa profondamente ingiusta, e quando è accettabile. Anche le economie successive alla seconda guerra mondiale producevano disuguaglianza, ma era una forma di disuguaglianza più o meno ragionevole. Oggi la disuguaglianza, al contrario, è estrema. Il linguaggio sulla “maggiore disuguaglianza”, sulla “maggiore povertà”, sull’aumento dell’incarcerazione, sulla crescita della distruzione ambientale e così via, è insufficiente a individuare il periodo attuale. Ci sono delle rotture in corso. Non si tratta soltanto di un “di più” della stessa cosa. Siamo di fronte a una serie – imponente e diversificata – di espulsioni, una serie che segnala una più profonda trasformazione sistemica, che viene documentata a pezzi, in modo parziale, in studi specialistici diversi, ma che non viene narrata come una dinamica onnicomprensiva che ci sta conducendo in una nuova fase del capitalismo globale, e della distruzione globale.
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Svuota-Italia, ultimo atto: le riforme neofasciste di Renzi
La strategia applicata all’Italia dall’Europa produce scarsità monetaria, perdita di competitività, deindustrializzazione, disoccupazione, indebitamento. Il suo scopo è privare il paese di liquidità e di capacità industriale riempiendolo di debiti e disoccupati, in modo che i capitali stranieri, costituiti da masse di moneta contabile creata dalle banche estere a costo zero, possano arrivare, invocati come salvatori dalla disoccupazione e dalla scarsità monetarie così prodotte, e rilevare tutto sottocosto, cioè le aziende e gli immobili, la ricchezza reale prodotto dal lavoro reale, e possano per tale via impadronirsi del paese. Questo sta già avvenendo: Italcementi è l’ultimo esempio. Per conseguire questo obiettivo è stato adoperato l’euro, moneta forte, perciò adatta ad ostacolare le esportazioni italiane e favorire quelle tedesche. All’euro si aggiungono le cosiddette regole di austerità, nonché la politica di saldi primari attivi di bilancio pubblico – cioè per vent’anni lo Stato ha prelevato con le tasse 100 e restituito con la spesa pubblica 90 (cifre esemplificative), in modo di prosciugare la liquidità del paese.Molto importante è stata la politica fiscale di Monti, diretta a distruggere il valore degli immobili come garanzia con cui le aziende e le famiglie italiane ottenevano liquidità dalle banche, le quali ora praticamente non accettano quasi più il mattone per dare credito ad esse. In questo modo si è arreso il paese, molto più povero e dipendente dal potere bancario straniero. Inoltre, colpire il settore immobiliare è servito per colpire il risparmio degli italiani e l’industria edilizia come volano di occupazione e crescita. Incominciando con il governo Monti, imposto da Berlino attraverso Napolitano, e continuando con Letta e Renzi, che Napolitano ha sostenuto politicamente allargando notevolmente il suo ruolo prescritto dalla Costituzione, l’Italia è stata preparata per l’occupazione finanziaria straniera. Al fine di sviare l’attenzione da questa strategia generale e impalpabile, agli italiani viene anche offerto un nemico tangibile e immediato con cui prendersela, ossia gli immigrati o invasori.Per completare l’occupazione finanziaria straniera bisognerà spingere il paese a più elevati livelli di sofferenza e paura, per raggiungere i quali basterà, ad esempio, togliere i puntelli del quantitative easing; quindi è urgente creare le strutture giuridiche con cui il governo possa controllare la popolazione e reprimere possibili sollevamenti popolari contro il regime e i suoi piani. Questa è la ragione dell’urgenza di attuare la riforma fascista dello Stato (elezioni, Senato, Rai, bail in…) che il governo Renzi sta realizzando, e che altrimenti non avrebbe ragion d’essere, dato che si tratta di riforme a basso o nullo impatto sull’economia. E che aumentano, anziché diminuire, il potere della partitocrazia parassitaria e inefficiente, anzi, della parte peggiore di essa, cioè degli amministratori regionali, che diventano la base per il Senato renziano. Il presidente Mattarella, ovviamente, essendo stato nominato da Renzi, lo lascia andare avanti.La riforma neofascista del Partito Democratico consiste, essenzialmente, nel concentrare i poteri dello Stato nelle mani del primo ministro, eliminando in pratica gli organi di controllo e di bilanciamento, e creando un Parlamento di nominati, cioè limitando radicalmente la possibilità del popolo di scegliere i propri rappresentanti, che vengono legati alle mani del primo ministro con rapporti di dipendenza e interesse poltronale. Belpaese, brutta fine. Onorevoli e senatori formalmente rappresentano il popolo, ma votano qualsiasi cosa voglia il premier, altrimenti il premier non li ricandida o rinomina e non li lascia mangiare: un perfetto sistema di voto di scambio legalizzato. Belpaese, brutta fine. Questo è il piano per l’Italia, che ha già perduto circa un quarto della sua forza industriale. Il piano per l’Europa, portato avanti da Washington e dai banchieri privati che possiedono la Fed, attraverso il vassallo tedesco appoggiato e coperto moralmente da Parigi, mira invece a impedire che l’Europa si unisca, che diventi una potenza economica e tecnologica effettivamente concorrente rispetto agli Stati Uniti, e che abbia una moneta propria e funzionante, concorrente col dollaro.Strumento perfetto per questi scopi è risultato l’euro, che sta creando disunione, divergenze, instabilità e recessione nell’ambito europeo. Esso sta creando addirittura i presupposti affinché ancora una volta gli Usa siano legittimati a intervenire, non necessariamente in modo materiale, per salvare i paesi minacciati dalla sopraffazione tedesca, recuperando così la loro oggi vacillante supremazia sull’Occidente. Mentre collabora a questo piano, la Germania riceve evidenti benefici a spese dei paesi deboli, così come i governanti collaborazionisti (italiani e non solo italiani) li ricevono a spese dei loro popoli. E l’euro, finché serve a questo piano, viene mantenuto e dichiarato irreversibile, assieme alle sue regole, nonostante i danni che l’uno e le altre causano, e i loro evidenti difetti strutturali. Tutto quadra e corrisponde ai fatti osservabili.(Marco Della Luna, “Renzicratura: partito democratico, riforme neofasciste”, dal blog di Della Luna del 6 agosto 2015).La strategia applicata all’Italia dall’Europa produce scarsità monetaria, perdita di competitività, deindustrializzazione, disoccupazione, indebitamento. Il suo scopo è privare il paese di liquidità e di capacità industriale riempiendolo di debiti e disoccupati, in modo che i capitali stranieri, costituiti da masse di moneta contabile creata dalle banche estere a costo zero, possano arrivare, invocati come salvatori dalla disoccupazione e dalla scarsità monetarie così prodotte, e rilevare tutto sottocosto, cioè le aziende e gli immobili, la ricchezza reale prodotto dal lavoro reale, e possano per tale via impadronirsi del paese. Questo sta già avvenendo: Italcementi è l’ultimo esempio. Per conseguire questo obiettivo è stato adoperato l’euro, moneta forte, perciò adatta ad ostacolare le esportazioni italiane e favorire quelle tedesche. All’euro si aggiungono le cosiddette regole di austerità, nonché la politica di saldi primari attivi di bilancio pubblico – cioè per vent’anni lo Stato ha prelevato con le tasse 100 e restituito con la spesa pubblica 90 (cifre esemplificative), in modo di prosciugare la liquidità del paese.
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Hanno ucciso la Grecia, non esiste più. Poi toccherà a noi?
Ma cosa ha a che fare il cosiddetto accordo per la Grecia con l’Europa dei popoli? Cosa ha a che fare il massacro della Grecia e del suo popolo con l’integrazione e l’unità politica europee? Cosa ha a che fare questa Ue con quella prospettiva di crescita, solidarietà, democrazia che milioni di europei hanno creduto e auspicato in questi decenni? Il presunto accordo è soltanto la garanzia perché i creditori e le banche siano soddisfatti. La Grecia è già al default e quelle condizioni servono soltanto a costringere il Parlamento greco a rendere legittime le scorrerie predatorie sui beni pubblici. Un intero paese privatizzato. Beni culturali, paesaggistici, risorse naturali, costituiranno il fondo di garanzia di 52 miliardi di euro per i creditori. Non hanno mai voluto davvero un esito ‘Grexit’: né i tedeschi per i loro maledettissimi interessi né gli americani preoccupati di non regalare la Grecia, che resta strategica nello scacchiere mediterraneo, alla Russia di Putin.È invece quello dell’appropriazione dei beni comuni il tema principale, e senza entrare nel merito delle altre micidiali condizioni come la riforma delle pensioni e del codice civile. Ogni Paese ha delle risorse che non vengono calcolate in termine di ricchezza e Pil: musei, opere d’arte, storiche, monumentali, collezioni, patrimonio librario, isole, coste. Su queste pregiatissime risorse pubbliche stanno orientando i loro artigli le potentissime lobby economico-finanziarie internazionali. E credo che questo sia un rischio assai concreto anche per l’Italia la cui ricchezza in materia è davvero inestimabile. Se il Peloponneso o il Partenone rischiano così in un futuro prossimo di diventare patrimonio privato, lo stesso potrebbe accadere all’Italia. Qualcuno direbbe “ma la Costituzione tutela questi beni”; vero, però i signori della finanza hanno costretto alla costituzionalizzazione del vincolo del pareggio di bilancio: un vero e proprio monstrum giuridico.Vedremo, se una volta chiuso il capitolo ellenico, si riaprirà quello italiano con i licenziamenti nelle Pa e un’ulteriore riforma delle pensioni, preludio all’aggressione ai nostri beni comuni rispetto ai quali, purtroppo dimentichiamo sempre troppo in fretta, un referendum stravinto è rimasto inapplicato! Se davvero dopo la Grecia toccherà all’Italia, i mastini che condurranno l’Eurosummit non dovranno neppure reggere la fatica di sottoporre il premier di turno al massiccio ‘waterboarding mentale’ riservato a Tsipras: temo che cederà subito…(Orazio Licandro, “Grecia, come si privatizza un paese”, dal “Fatto Quotidiano” del 14 luglio 2015).Ma cosa ha a che fare il cosiddetto accordo per la Grecia con l’Europa dei popoli? Cosa ha a che fare il massacro della Grecia e del suo popolo con l’integrazione e l’unità politica europee? Cosa ha a che fare questa Ue con quella prospettiva di crescita, solidarietà, democrazia che milioni di europei hanno creduto e auspicato in questi decenni? Il presunto accordo è soltanto la garanzia perché i creditori e le banche siano soddisfatti. La Grecia è già al default e quelle condizioni servono soltanto a costringere il Parlamento greco a rendere legittime le scorrerie predatorie sui beni pubblici. Un intero paese privatizzato. Beni culturali, paesaggistici, risorse naturali, costituiranno il fondo di garanzia di 52 miliardi di euro per i creditori. Non hanno mai voluto davvero un esito ‘Grexit’: né i tedeschi per i loro maledettissimi interessi né gli americani preoccupati di non regalare la Grecia, che resta strategica nello scacchiere mediterraneo, alla Russia di Putin.
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Partiti fantasma, a pezzi, per una democrazia senza popolo
Non è esagerato parlare di partiti in pezzi: divisi e già scissi di fatto, sebbene formalmente si esiti ancora a lacerare l’involucro dell’unità. Osservando quanto accade in vista delle elezioni regionali di fine maggio, lo spettacolo è quello di una scomposizione di forze politiche e alleanze: la conseguenza fisiologica di uno sgretolamento progressivo delle identità, dei blocchi sociali, delle nomenklature. In pochi anni, non solo i «cartelli» elettorali sono invecchiati come se ne fossero passati dieci. La dimensione locale della politica ha subito un’involuzione che la fa apparire quasi impazzita. È il prodotto della subalternità del sistema dei partiti ad interessi che lo dominano e lo umiliano; e dell’impoverimento culturale di piccole tribù autoreferenziali che sommano i difetti del dilettantismo a quelli del professionismo del potere. Le tante inchieste della magistratura che convergono sulle cosiddette classi dirigenti locali confermano questa deriva. E fanno apparire molti Comuni e Regioni come epicentri di un’economia studiatamente inefficiente, funzionale al malaffare.Lo iato tra livello nazionale e “periferia” non potrebbe essere più vistoso, dal Veneto alla Puglia. Ma rischia di suggerire una contrapposizione tra due fenomeni in realtà speculari. L’esplosione dei legami dentro e tra i partiti non è soltanto la certificazione del fallimento di un’idea di federalismo. Riflette anche le scissioni sociali che sono avvenute in questi anni in un’Italia affacciata sul vuoto dell’azione politica. Sono la versione minore e moltiplicata delle migrazioni parlamentari registrate in questi anni alle Camere: indizi di un malessere ormai cronico. Le spaccature e le riaggregazioni locali nel centrodestra, nella Lega, perfino nel Pd, imitano alla perfezione i conflitti alla Camera e al Senato. Replicano “cambi di casacca” che non sono solo frutti dell’opportunismo: rivelano un trasversalismo privo di nobiltà, e alimentato da identità debolissime e stralunate. Il cemento è il micro-interesse, e tanti micro-narcisismi collettivi che rendono difficile qualunque aggregazione forte e duratura.La domanda è se e chi riuscirà a ricompattare questo magma centrifugo. In apparenza, il modello verticale di Matteo Renzi lo sta facendo. Ma la distanza tra il premier o il capo della Lega, Matteo Salvini, o Beppe Grillo, i tre oggi in auge, e il caotico agitarsi di anonimi candidati regionali, non esalta solo la loro capacità di leadership. Finisce anche per sottolineare i loro limiti: quasi l’impossibilità, oltre che l’incapacità, di trasformare dall’alto una realtà prosaicamente mediocre e fuori controllo. La politica nazionale inspira a pieni polmoni i miasmi locali anche perché non appare in grado di trasmettere messaggi forti di rinnovamento come quelli che si sforza di offrire all’Europa. Il risultato è che a vincere sembra sia la “periferia” non governata, immutabile e misteriosa nei suoi gangli più oscuri: quelli che solo la magistratura finora tende a portare alla luce, delegittimando partiti che arrivano sempre dopo; e che mostrano riflessi difensivi automatici, lasciando ai giudici una supplenza di fatto che assume contorni ambigui e mostra limiti oggettivi, seguendo logiche non politiche. Sono fenomeni che corrodono quotidianamente la credibilità degli eletti, e si proiettano sulle scelte nazionali.Vedremo come si evolverà la campagna elettorale. Ma il turbinìo di liste, unioni e rotture trasmette una pessima impressione. Il crollo della partecipazione a livello locale che si è registrato negli ultimi anni non è un segno di modernità “all’americana”: anche per la rapidità con la quale sta avvenendo, suona come la risposta patologica ad una rappresentanza inadeguata e malata. Se si dovesse confermare a maggio, significherebbe un rifiuto di metodi e di formazioni non disinvolti ma, appunto, ormai percepiti come “impazziti”. Sarebbe una sconfitta che nessuna riforma elettorale, né la prevalenza di uno schieramento sull’altro, potrebbero attenuare o nascondere. Il guaio maggiore, tuttavia, non sarebbe il fallimento di una politica locale che per paradosso oggi fornisce tanti governanti, premier compreso; né la scissione di alcuni partiti, ridotti a gusci di identità irriconoscibili. Il rischio vero è quello della scissione tra l’elettorato e chi non è in grado di offrirgli una scelta degna di questo nome. Sarebbe la premessa di una pericolosa democrazia con sempre meno popolo.(Massimo Franco, “Piccole miserie locali”, dal “Corriere della Sera” del 15 aprile 2015).Non è esagerato parlare di partiti in pezzi: divisi e già scissi di fatto, sebbene formalmente si esiti ancora a lacerare l’involucro dell’unità. Osservando quanto accade in vista delle elezioni regionali di fine maggio, lo spettacolo è quello di una scomposizione di forze politiche e alleanze: la conseguenza fisiologica di uno sgretolamento progressivo delle identità, dei blocchi sociali, delle nomenklature. In pochi anni, non solo i «cartelli» elettorali sono invecchiati come se ne fossero passati dieci. La dimensione locale della politica ha subito un’involuzione che la fa apparire quasi impazzita. È il prodotto della subalternità del sistema dei partiti ad interessi che lo dominano e lo umiliano; e dell’impoverimento culturale di piccole tribù autoreferenziali che sommano i difetti del dilettantismo a quelli del professionismo del potere. Le tante inchieste della magistratura che convergono sulle cosiddette classi dirigenti locali confermano questa deriva. E fanno apparire molti Comuni e Regioni come epicentri di un’economia studiatamente inefficiente, funzionale al malaffare.
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I potenti al tempo di Matteo, fuoriclasse nel fregare tutti
“I potenti al tempo di Renzi” è il titolo di un libro venuto alla luce in questi giorni, suscitando curiosità. Scritto da Luigi Bisignani con Paolo Madron (entrambi giornalisti, anche se il primo non si è limitato a lavorare in redazione: si è occupato di molto altro), racconta i retroscena della politica e le gesta dei suoi protagonisti, quasi tutti arrampicatori, alcuni acrobati. Da quel che si legge nel volume, edito da “Chiarelettere”, si capisce che nella presente congiuntura il più abile e spericolato scalatore è l’attuale premier, il quale sin da quando frequentava la scuola materna ha sempre puntato non a essere il primo della classe, cosa di cui non gli importava e non gli importa nulla, bensì a impadronirsi del potere. Si è talmente allenato nell’esercizio di conquistarlo e amministrarlo da non avere, oggi, alcun rivale in grado di contrastarlo. Bisignani e Madron, stimolandosi a vicenda, ricostruiscono per filo e per segno i passi da gigante compiuti dal giovin fiorentino per giungere in fretta sulle più alte vette istituzionali.Contornandosi di amici di ogni tipo, specialmente democristiani, ex boy scout, progressisti all’acqua di rose e cattolici opportunisti, a 28 anni Renzi aveva già il bastone del comando in mano e l’ha utilizzato per farsi eleggere presidente della Provincia di Firenze, infinocchiando col sorriso sulle labbra i reduci del comunismo militante che avevano visto in lui un astro nascente. Nell’arte sovrana di fottere i compagni, Matteo ha la stoffa del fuoriclasse. Basti pensare alla destrezza con cui è passato da sindaco del capoluogo toscano a segretario del Pd: si è mangiato l’ottimo Pier Luigi Bersani come una merendina, poi si è divorato in un sol boccon l’ingenuo Enrico Letta e si è insediato a Palazzo Chigi, da cui medita di uscire coi piedi davanti, cioè post mortem. Le premesse affinché il suo piano – resistere a capo del governo sino al termine della vita – si compia, ci sono tutte. Le ha create egli stesso assegnando i posti chiave a pretoriani fidatissimi che lo proteggono; di più, lo adorano perché senza la sua spinta non sarebbero mai entrati nelle stanze che contano.Renzi in pratica si è dotato di un esercito di miracolati, la sopravvivenza dei quali è legata alla sua. Per cui essi si batteranno senza risparmio per salvarlo in quanto è l’unico modo per salvare sé medesimi. Così si fa per durare. Nell’estensione e nella conservazione del potere, Renzi ha fatto proprie le tecniche dei vecchi principi della Democrazia cristiana (Amintore Fanfani e Giulio Andreotti), affinandole, perfezionandole e adeguandole alla velocità che caratterizza la nostra epoca. Egli vuole tutto e subito. Se non lo ottiene, finge di averlo ottenuto e strombazza risultati illusori camuffandoli in maniera che sembrino autentici, credibili agli occhi del popolo, ovviamente bue. Il presidentino non si arrende, ma arretra, cambia idea e tattica, spacciando ogni mutamento di linea come un aggiustamento di tiro. Il suo ottimismo è persuasivo e contagioso. I suoi discorsi si bevono come acqua fresca e rigenerante, fanno digerire il politichese che gli italiani hanno ingoiato per 70 anni fino a provarne nausea.Egli è imbattibile nel prendere in giro l’uditorio e nel sedurlo inondandolo di parole che dipingono sogni irrealizzabili. “L’Italia riparte” è il suo slogan preferito e idoneo a far scattare l’applauso. Oddio, il paese in effetti è ripartito, però a marcia indietro; questo almeno si evince dall’esame dei dati macroeconomici. Pochi si accorgono dei bluff renziani. L’uomo ama sorprendere. Non calcola i propri attacchi, li azzarda, prende alla sprovvista gli avversari e li rottama. Non conosce né la coerenza né la lealtà: va dritto verso l’obiettivo e, se non lo raggiunge, si giustifica così: calma, quasi ci siamo. Non sarà facile scalzarlo. Manca chi sia attrezzato per dargli lo spintone decisivo. La destra è impegnata a riorganizzarsi e non è pronta a superarlo. La sinistra è disorientata dal proprio leader e lo subisce come una calamità naturale. Insomma, il cosiddetto “uomo solo al comando” arriva sempre primo proprio perché corre da solo, privo di antagonisti all’altezza.La vicenda dell’elezione al Quirinale di Sergio Mattarella, nella ricostruzione di Bisignani e Madron, merita di essere letta. Nei giorni delle votazioni, dentro il Palazzo è successo di tutto. Nelle trattative mise il becco anche Pier Ferdinando Casini, e ciò spiega perché il centrodestra se la pigliò in saccoccia. Pagine che oscillano tra la cronaca e la barzelletta: imperdibili per chi desideri comprendere in quale paese ci tocca campare. Alla stessa stregua si gustano i brani del capitolo che affronta le fregature rifilate da Renzi al suo mentore Francesco Rutelli. Matteo gli ha sfilato i migliori collaboratori, isolandolo completamente. Invece di premiarlo per l’aiuto ricevuto, lo ha scaricato senza indugio, considerandolo probabilmente un pezzo di ferro arrugginito. Il cinismo è l’arma migliore del signorino premier. Un’arma che egli maneggia con maestria. Quanto alle donne, di cui ama circondarsi quali collaboratrici (domestiche), le usa e da esse non si fa usare. Chiamatelo fesso.(Vittorio Feltri, “Matteo fuoriclasse, a fregare gli altri”, da “Il Giornale” del 16 aprile 2015. Il libro: Luigi Bisignani e Paolo Madron, “I potenti al tempo di Renzi”, Chiarelettere, 250 pagine, 15 euro).“I potenti al tempo di Renzi” è il titolo di un libro venuto alla luce in questi giorni, suscitando curiosità. Scritto da Luigi Bisignani con Paolo Madron (entrambi giornalisti, anche se il primo non si è limitato a lavorare in redazione: si è occupato di molto altro), racconta i retroscena della politica e le gesta dei suoi protagonisti, quasi tutti arrampicatori, alcuni acrobati. Da quel che si legge nel volume, edito da “Chiarelettere”, si capisce che nella presente congiuntura il più abile e spericolato scalatore è l’attuale premier, il quale sin da quando frequentava la scuola materna ha sempre puntato non a essere il primo della classe, cosa di cui non gli importava e non gli importa nulla, bensì a impadronirsi del potere. Si è talmente allenato nell’esercizio di conquistarlo e amministrarlo da non avere, oggi, alcun rivale in grado di contrastarlo. Bisignani e Madron, stimolandosi a vicenda, ricostruiscono per filo e per segno i passi da gigante compiuti dal giovin fiorentino per giungere in fretta sulle più alte vette istituzionali.
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Robecchi: e bravo Renzi, che ora privatizza pure le elezioni
Fate la prova renzino. Non è difficile e non serve nemmeno un laboratorio, basta il tavolino di un bar. Procuratevi soltanto una mezz’oretta e un devoto seguace del premier, di quelli acritici e ultramoderni, di quelli che sono per la “disintermediazione”, parola difficile che serve a descrivere, senza dirla, una gran voglia di discorsi dal balcone, o da Twitter, davanti a folle osannanti. Fatto? Ecco. Ora chiedetegli se Matteo Renzi, nel suo anno di governo, ha cambiato le cose, se ha fatto le riforme. Ne avrete in cambio un profluvio di argomenti entusiasti. Certo che sì! Matteo (lo chiamano così, è un vezzo moderno) ha fatto in un anno quello che lui (lui il renzino) aspettava da trent’anni (sentito dire anche da chi ne ha venticinque). Le Province, il Jobs Act, la pubblica amministrazione, il Senato… Insomma, avrete, in risposta alla vostra domanda, la granitica certezza dell’interlocutore: Renzi sta cambiando il paese. Ora passate alla seconda domanda: perché serve una legge elettorale come l’Italicum?La risposta sarà altrettanto convinta ed entusiasta: perché con l’attuale legge elettorale si è costretti a barcamenarsi e non si fanno le riforme. Ecco fatto: possiamo fermarci qui, a queste due risposte che sono la sostanza del problema. Punto uno: si fanno finalmente le riforme. Punto due: serve una legge elettorale che permetta di fare le riforme perché così non si riesce. È una contraddizione così palese che non meriterebbe commenti. Se Renzi è così bravo da fare tutte queste riforme anche con il risultato ottenuto da Bersani alle ultime elezioni – che tutti definiscono insufficiente, una “non vittoria” – perché vuole una legge elettorale che premi ancora di più l’esecutivo? Una legge che i migliori costituzionalisti descrivono come “pericolosa”? Il refrain non è nuovo e ha illustri precedenti. Bettino Craxi, da capo del governo, lamentava gli scarsi poteri del capo del governo. Berlusconi uguale. E ora Renzi dice lo stesso.Il disegno, insomma, è sempre quello: dare più poteri all’esecutivo a scapito della democrazia parlamentare o del voto dei cittadini (non si vota più per le Province, non si voterà più per il Senato…). E la motivazione è anche quella più o meno uguale: questo “eccesso di democrazia”, di pesi e contrappesi, impedisce di fare le riforme, cosa che si grida a gran voce proprio mentre si grida forte anche: “Ehi, stiamo facendo le riforme!”. Per corroborare questa tesi si descrive il paese come una palude immobile e putrescente, da cui ci salverà finalmente una nuova legge elettorale che annichilisca ogni opposizione. Insomma, mani libere, più potere e meno contrappesi. È l’identico meccanismo del capitalismo italiano, che per tradizione strepita che ci sono, a fermarne la luminosa marcia, troppi “lacci e lacciuoli”, mentre se avesse le mani totalmente libere, sai la cuccagna!Una filosofia che ha le sue varianti con la cosa pubblica: la si indebolisce con clientelismi e gestioni demenziali, si buttano i soldi dalla finestra, la si rende ingiusta e impresentabile, e poi – ultima e conseguente mossa – si chiede che venga privatizzata, un classico. Ecco, l’Italicum è questo: una privatizzazione. Poi uno pensa alle grandi riforme italiane, quelle vere, tipo il Servizio Sanitario Nazionale, e vede che si facevano, eccome, pure con il bicameralismo perfetto, pure con il proporzionale, con governi che cadevano ogni sei mesi e decine di partiti in Parlamento. Senza Italicum, insomma, e senza rischi per la democrazia.(Alessandro Robecchi, “Renzi ha fatto le riforme! E l’Italicum? Serve per le riforme”, da “Micromega” del 2 aprile 2015).Fate la prova renzino. Non è difficile e non serve nemmeno un laboratorio, basta il tavolino di un bar. Procuratevi soltanto una mezz’oretta e un devoto seguace del premier, di quelli acritici e ultramoderni, di quelli che sono per la “disintermediazione”, parola difficile che serve a descrivere, senza dirla, una gran voglia di discorsi dal balcone, o da Twitter, davanti a folle osannanti. Fatto? Ecco. Ora chiedetegli se Matteo Renzi, nel suo anno di governo, ha cambiato le cose, se ha fatto le riforme. Ne avrete in cambio un profluvio di argomenti entusiasti. Certo che sì! Matteo (lo chiamano così, è un vezzo moderno) ha fatto in un anno quello che lui (lui il renzino) aspettava da trent’anni (sentito dire anche da chi ne ha venticinque). Le Province, il Jobs Act, la pubblica amministrazione, il Senato… Insomma, avrete, in risposta alla vostra domanda, la granitica certezza dell’interlocutore: Renzi sta cambiando il paese. Ora passate alla seconda domanda: perché serve una legge elettorale come l’Italicum?
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Spia canadese confessa: reclutavo giovani per l’Isis
L’ambasciata del Canada in Giordania si è vista coinvolta in uno scandalo internazionale sul terrorismo e sullo spionaggio, dopo la detenzione in Turchia di un proprio impiegato che reclutava nuovi membri per lo “Stato Islamico” in Siria. L’impiegato, di origine siriana, ha confessato di aver lavorato per l’intelligence del Canada. Varie agenzie di informazione internazionali hanno rivelato che la Turchia ha detenuto una spia straniera per aver aiutato tre ragazze minorenni britanniche ad unirsi con il gruppo terroristico dello “Stato Islamico” in Siria. Successivamente si è saputo che era sta arrestata la spia siriana Mohammed Mehmet Rashid, impiegato dell’ambasciata canadese nella capitale della Giordania, Amman. Lo rivela il periodico “Ottawa Citizen”, citando numerose informative dei media turchi. Il Canada ancora non ha rigettato ufficialmente la accuse.Secondo “Ottawa Citizen”, il detenuto avrebbe confessato che lavorava per l’intelligence canadese e che aspettava di ricevere la cittadinanza di quel paese. Questi era impiegato presso l’ambasciata canadese dell’Oman, anche responsabile per l’Iraq, diretta dall’ambasciatore Bruno Saccomani, che non è un diplomatico professionista, ma che proviene dalla “Polizia Montada” del Canada ed è responsabile della sicurezza del primo ministro canadese, Stephen Harper. Secondo il portale “Global Research”, allora aveva indagato in stretta relazione con il Csis, l’agenzia di intelligence canadese. Nel computer sequestrato alla spia arrestata, oltre alle foto delle tre minorenni britanniche, sono state trovate altre foto di passaporti per almeno altre 17 persone.Se si conferma il collegamento con l’intelligence canadese, per paradossale che possa sembrare, risulterebbe che quel paese, pur facendo parte della coalizione internazionale che bombarda l’Isis in Siria e in Iraq, ha partecipato al reclutamento dei membri dell’Isis, inclusi minorenni, per conto degli jihadisti. Finalmente, anche quando si trattasse di una operazione per ricavare dati sui membri dell’Isis, o qualcosa di simile, le leggi proprie del Canada proibiscono di farlo, secondo il periodico, a cui si dovrebbero aggiungere gli aspetti etici della questione. Il doppio gioco nella lotta con il terrorismo sembra sia una prassi comune non soltanto per gli Stati Uniti ma anche per il suo alleato, lo Stato del Canada.(“Rivelazione scandalo, l’intelligence canadese ha reclutato terroristi dell’Isis”, da “Contrainjerencia” del marzo 2015, ripreso dal blog “Vox Populi”).L’ambasciata del Canada in Giordania si è vista coinvolta in uno scandalo internazionale sul terrorismo e sullo spionaggio, dopo la detenzione in Turchia di un proprio impiegato che reclutava nuovi membri per lo “Stato Islamico” in Siria. L’impiegato, di origine siriana, ha confessato di aver lavorato per l’intelligence del Canada. Varie agenzie di informazione internazionali hanno rivelato che la Turchia ha detenuto una spia straniera per aver aiutato tre ragazze minorenni britanniche ad unirsi con il gruppo terroristico dello “Stato Islamico” in Siria. Successivamente si è saputo che era sta arrestata la spia siriana Mohammed Mehmet Rashid, impiegato dell’ambasciata canadese nella capitale della Giordania, Amman. Lo rivela il periodico “Ottawa Citizen”, citando numerose informative dei media turchi. Il Canada ancora non ha rigettato ufficialmente la accuse.
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Asse Londra-Pechino: ciao Usa e Ue, godetevi la Merkel
Nessuno se ne accorge, ma la Gran Bretagna sta divorziando dall’Europa “tedesca” e stringe un’alleanza strategica con la Cina, nemico numero uno degli Stati Uniti. Lo rivela l’economista Giulio Sapelli: i media non ne parlano, avverte, e la cosa non è affatto casuale, data l’enormità delle conseguenze che comporta. In pratica, Londra “saluta” anche Washington e annuncia che d’ora in poi “farà da sé”, sul piano geopolitico, aderendo al gigantesco complesso finanziario messo in piedi da Pechino, nel Pacifico, per contrastare l’egemonia degli Usa e del Giappone. Per Sapelli, storico dell’università di Milano, si tratta di una vera e propria “guerra”, assolutamente clamorosa e non più sotterranea, da quando il Regno Unito ha aderito formalmente all’Aiib, l’Asian Infrastructure Investment Bank fondata dai cinesi nel 2013. Un gigante che «si propone la missione di creare infrastrutture nella regione asiatico-pacifica in diretta concorrenza con il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e la Banca Asiatica di Sviluppo», quest’ultima con sede a Manila.«Com’è noto – scrive Sapelli sul “Sussidiario” – queste tre istituzioni sono dominate dagli Usa e dal Giappone, unitamente a un ruolo secondario, ma importante, degli europei». In una sua relazione del 2010, la Banca Asiatica di Sviluppo sosteneva che, per realizzare il complesso di infrastrutture necessarie allo sviluppo dell’area euro-asiatica, si sarebbero dovuti come minimo investire 8 trilioni di dollari dal 2010 al 2020. «Finora nulla è stato fatto, ed è per questo che la nuova istituzione, promossa dalla Cina, nel lasso di tempo dal 2013 al 2014, aumentava il suo capitale da 50 a 100 miliardi con l’intervento decisivo dell’India nella cofondazione della stessa banca». In breve, racconta Sapelli, nel 2014 a Pechino si svolse una cerimonia di insediamento della nuova banca a cui parteciparono, oltre alla Cina e all’India, paesi come Thailandia, Malesia, Singapore, Filippine, Pakistan, Bangladesh e Brunei, insieme a Cambogia, Laos, Birmania, Nepal, Sri Lanka, e persino Uzbekistan e Mongolia. «Significative anche le firme del Kuwait, dell’Oman e del Qatar, a cui si aggiunsero nel 2015 anche quella della Giordania e dell’Arabia Saudita, nonché del Tagikistan e infine del Vietnam». Ma attenzione: nel 2015 hanno aderito anche Nuova Zelanda e Inghilterra.Sapelli considera «straordinaria» già la notizia dell’adesione della Nuova Zelanda, «che aspira sempre più manifestamente a una politica differenziata rispetto all’Australia», che non a caso nel contesto del “Trans-Pacific Pact” ha firmato con gli Stati Uniti un accordo militare in funzione anti-cinese e dichiaratamente pro-giapponese. «Ma la notizia bomba – sottolinea Sapelli – è quella dell’adesione dell’Inghilterra». Cameron e Osborne, primo ministro e titolare degli esteri, sono stati chiari fin da subito, anche sul “Telegraph”, dichiarando che «il Regno Unito, in primo luogo, ha di mira i suoi interessi nazionali». Il problema, avverte Sapelli, ha gà avuto i suoi risvolti nel contesto della Nato, in cui «il Regno Unito ha diminuito i suoi investimenti in armamenti portandoli sotto il tetto del 2%, soprattutto in armi convenzionali, mentre invece, di contro, aumentava la sua spesa difensiva sul fronte nucleare missilistico, in terra, in cielo, in mare». Il Regno Unito? Non si sta affatto “isolando”. Al contrario: «Si sta sempre più allontanando dall’Europa», e quindi «guarda sempre più al mondo e in primo luogo all’Asia e, con atteggiamento più incerto, all’Africa».Quello a cui Londra sta voltando le spalle è «l’Europa deflazionistica, germanico-teutonica, antirussa». Per Sapelli, questo è «il trionfo postumo della Thatcher, che fu costretta a dimettersi dal suo stesso partito perché non credeva nell’accrocchio di un euro costruito a immagine del marco». Secondo l’analista, questa decisione inglese «avrà conseguenze devastanti in Europa, perché la Francia, da sola, non osa opporsi alla Germania». Quanto all’Europa del Sud, «è profondamente infetta dall’ideologia blairista e neoliberista, che altro non è che l’altra faccia dell’ordoliberalismus tedesco». Di fatto, «il Regno Unito abbandona l’Europa per ritornare a essere una potenza mondiale intracontinentale». E per far questo, «sceglie di allearsi con la Cina in una prospettiva di lungo periodo», ampliando così il solco apertosi con la crisi di Suez del ‘56, quando gli Usa (e l’Urss) si opposero all’invasione inglese dell’Egitto non-allineato di Nasser, mettendo fine al monopolio britannico sul Mediterraneo. Alla nascita del clamoroso asse Londra-Pechino, gli Stati Uniti hanno reagito «in modo convulso, come al solito nervoso, indispettito e privo di lungimiranza strategica». In ogni caso, continua Sapelli, è indubbio che «la ferita è profonda». E l’incapacità egemonica degli Usa «in quest’occasione è apparsa in modo preclaro e drammatico». Infatti, «tutte le famiglie politiche degli Usa sono in preda al caos».La divisione tra Stati Uniti e Gran Bretagna «non potrà che rafforzare la Cina e, di fatto, anche la Russia, con conseguenze inaspettate anche nel Mediterraneo». Nella nuova super-banca cinese, infatti, sono presenti anche Giordania, Arabia Saudita, Oman e Qatar: «Una chiara dichiarazione di guerra diplomatica agli Usa, impegnati in trattative sul nucleare con l’Iran». Inutile aggiungere, conclude Sapelli, che le conseguenze saranno «drammatiche» anche per l’Italia, «paese a sovranità limitata e verso cui il Regno Unito aveva avuto dagli Usa la delega di occuparsi dei suoi esiti governativi e oltre, com’era stato reso manifesto dalla non lontana visita privata della Regina Elisabetta e del suo consorte all’allora presidente Giorgio Napolitano», evento che Sapelli definisce «caso unico al mondo di visita privata di un monarca a un presidente della Repubblica». Tra le ombre che gravano sul nostro paese, anche l’influenza israeliana nell’eventuale dopo-Netanyahu e i rivolgimenti in Libia per mano dell’Isis. Tutto questo, anche alla luce della svolta inglese: chi condizionerà le decisioni strategiche italiane nel Mediterraneo?Sullo sfondo, naturalmente, l’impressionante iniziativa della Cina di Xi Jingping, che «ha iniziato a costruire una possente rete di istituzioni alternative al potere dominante del mondo di oggi, ossia agli Usa». In particolare, Pechino «sta costruendo una rete di istituzioni finanziarie alternative a quelle egemonizzate dagli Usa e dai suoi alleati europei». Si è iniziato con la Brics Bank, che oltre ai cinesi raccoglie Brasile, Russia e India, e si è continuato con la “New Silk Road”, «che unisce in un progetto infrastrutturale e finanziario i paesi che, dalla Mongolia all’Afghanistan, sino alla Turchia, costituiscono il cuore dell’Eurasia, o meglio dell’Heartland, sulla rotta che fu di Alessandro Magno, al quale Xi Jinping si dice spesso idealmente si accomuni». Dinanzi a queste iniziative, «l’Occidente è rimasto muto, sprofondando nel suo autismo germanico in Europa e nella sua dissociazione schizofrenica negli Usa», dove «l’isterico ometto» Netanyahu, invitato dai repubblicani, ha potuto parlare al Congresso sfidando «l’inconsapevole povero Obama». Insomma, «il disordine sta diventando caos». E in questo caos, la Cina avanza. Reclutando addittura l’Inghilterra.Nessuno se ne accorge, ma la Gran Bretagna sta divorziando dall’Europa “tedesca” e stringe un’alleanza strategica con la Cina, nemico numero uno degli Stati Uniti. Lo rivela l’economista Giulio Sapelli: i media non ne parlano, avverte, e la cosa non è affatto casuale, data l’enormità delle conseguenze che comporta. In pratica, Londra “saluta” anche Washington e annuncia che d’ora in poi “farà da sé”, sul piano geopolitico, aderendo al gigantesco complesso finanziario messo in piedi da Pechino, nel Pacifico, per contrastare l’egemonia degli Usa e del Giappone. Per Sapelli, storico dell’università di Milano, si tratta di una vera e propria “guerra”, assolutamente clamorosa e non più sotterranea, da quando il Regno Unito ha aderito formalmente all’Aiib, l’Asian Infrastructure Investment Bank fondata dai cinesi nel 2013. Un gigante che «si propone la missione di creare infrastrutture nella regione asiatico-pacifica in diretta concorrenza con il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e la Banca Asiatica di Sviluppo», quest’ultima con sede a Manila.