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Putin: americani fermatevi, il mondo non vuole più guerre
La rettitudine e la durezza nel formulare delle valutazioni servono oggi non per punzecchiarci reciprocamente, ma per cercare di comprendere che cosa veramente sta accadendo nel mondo, perché diventa sempre meno sicuro e meno prevedibile, perché ovunque aumentano i rischi. Nuove regole del gioco oppure gioco senza regole? Formulato così, il concetto descrive puntualmente quel bivio storico in cui ci troviamo, la scelta che dovrà essere compiuta da tutti noi. L’idea che il mondo contemporaneo cambi precipitosamente non è nuova. Infatti, rimane difficile non notare le trasformazioni nella politica globale, nell’economia, nella vita sociale, nell’ambito delle tecnologie industriali, informatiche e sociali. Ma nell’analizzare la situazione attuale non dobbiamo dimenticare le lezioni della storia. In primo luogo, il cambio dell’ordine mondiale (e i fenomeni che osserviamo oggi appartengono proprio a questa scala), veniva accompagnato, di solito, se non da una guerra globale, da intensi conflitti locali. In secondo luogo, parlare di politica mondiale significa affrontare i temi della leadership economica, della pace e della sfera umanitaria, compresi i diritti dell’uomo.Nel mondo si è accumulata una moltitudine di contrasti. E bisogna chiedersi in tutta franchezza se abbiamo una rete di protezione sicura. Purtroppo, la certezza che il sistema di sicurezza globale e regionale sia capace di proteggerci dai cataclismi non c’è. Questo sistema risulta seriamente indebolito, frantumato e deformato. Vivono tempi difficili le istituzioni, internazionali e regionali, di interazione politica, economica e culturale. Molti meccanismi atti ad assicurare l’ordine mondiale si sono formati in tempi lontani, influenzati soprattutto dall’esito della Seconda Guerra Mondiale. La solidità di questo sistema non si basava esclusivamente sul bilanciamento delle forze e sul diritto dei vincitori, ma anche sul fatto che i “padri fondatori” di questo sistema di sicurezza si trattavano con rispetto, non cercavano di “spremere fino all’ultimo” ma cercavano di mettersi d’accordo. Il sistema continuava ad evolversi e, nonostante tutti i suoi difetti, era efficace per – se non una soluzione – almeno per un contenimento dei problemi mondiali, per una regolazione dell’asprezza della concorrenza naturale tra gli Stati.Sono convinto che questo meccanismo di controbilanciamenti non potesse essere distrutto senza creare qualcosa in cambio, altrimenti non ci sarebbero davvero rimasti altri strumenti se non la rozza forza. Tuttavia gli Stati Uniti, dichiarandosi i vincitori della “guerra fredda”, hanno pensato – e credo che l’abbiano fatto con presunzione – che di tutto questo non v’è alcun bisogno. Dunque, invece di raggiungere un nuovo bilanciamento delle forze, che rappresenta una condizione indispensabile per l’ordine e la stabilità, hanno intrapreso, al contrario, i passi che hanno portato a un peggioramento repentino dello squilibrio. La “guerra fredda” è finita. Però non si è conclusa con un raggiungimento di “pace”, con degli accordi comprensibili e trasparenti sul rispetto delle regole e degli standard oppure sulle loro elaborazione. Par di capire che i cosiddetti vincitori della “guerra fredda” abbiano deciso di “sfruttare” fino in fondo la situazione per ritagliare il mondo intero a misura dei propri interessi. E se il sistema assestato delle relazioni e del diritto internazionali, il sistema del contenimento e dei controbilanciamenti impediva il raggiungimento di questo scopo, veniva da loro immediatamente dichiarato inutile, obsoleto e soggetto ad abbattimento istantaneo.Il concetto stesso della “sovranità nazionale” per la maggioranza degli Stati è diventato un valore relativo. In sostanza, è stata proposta la formula seguente: più forte è la lealtà a un unico centro di influenza nel mondo, più alta è la legittimità del regime governante. Le misure per esercitare pressione sui disubbidienti sono ben note e collaudate: azioni di forza, pressioni di natura economica, propaganda, intromissione negli affari interni, rimandi a una certa legittimità di “infra-diritto”. Recentemente siamo venuti a conoscenza di testimonianze di ricatti non velati nei confronti di una serie di leader. Non è un caso che il cosiddetto “grande fratello” spenda miliardi di dollari per lo spionaggio in tutto il mondo, compresi i suoi stretti alleati. Allora facciamoci la domanda se tutti noi troviamo la nostra vita confortevole e sicura in questo mondo, chiediamoci quanto sia giusto e razionale il mondo. Forse il modo in cui gli Usa detengono la leadership è davvero un bene per tutti? Le loro onnipresenti interferenze negli affari altrui implicano pace, benessere, progresso, prosperità, democrazia? Bisogna semplicemente rilassarsi e godersela? Mi permetto di dire che non è così. Non è assolutamente così.Il diktat unilaterale e l’imposizione dei propri stereotipi producono un risultato opposto: al posto di una soluzione dei conflitti, l’escalation; al posto degli Stati sovrani, stabili, l’espansione del caos; al posto della democrazia, il sostegno a gruppi ambigui, dai neonazisti dichiarati agli islamisti radicali. Continuo a stupirmi di fronte agli errori ripetuti, una volta dopo l’altra, dei nostri partner che si danno da soli la zappa sui piedi. A suo tempo, nella lotta contro l’Unione Sovietica, avevano sponsorizzato i movimenti estremisti islamici che si erano rinvigoriti in Afghanistan, fino a generare sia i talebani sia Al-Qaeda. L’Occidente, pur senza ammettere il suo sostegno, chiudeva un occhio. Anzi, in realtà sosteneva l’irruzione dei terroristi internazionali in Russia e nei paesi dell’Asia Centrale attraverso le informazioni, la politica e la finanza. Non l’abbiamo dimenticato. Solo dopo i terribili atti terroristici compiuti nel territorio degli stessi Usa siamo arrivati alla comprensione della minaccia comune del terrorismo. Vorrei ricordare che allora siamo stati i primi a esprimere il nostro sostegno al popolo degli Stati Uniti d’America e abbiamo agito come amici e partner dopo la spaventosa tragedia dell’11 Settembre.Nel corso dei miei incontri con i leader statunitensi ed europei ho costantemente ribadito la necessità di lottare congiuntamente contro il terrorismo, che rappresenta una minaccia su scala mondiale. Non possiamo rassegnarci di fronte a questa sfida. Una volta la nostra visione era condivisa, ma è passato poco tempo e tutto è tornato come prima. Si sono verificati in seguito gli interventi sia in Iraq sia in Libia. Quest’ultimo paese, tra l’altro, ora è diventato un poligono per i terroristi. E soltanto la volontà e la saggezza delle autorità attuali dell’Egitto hanno permesso di evitare il caos e lo scatenarsi violento degli estremisti anche in questo paese-chiave del mondo arabo. In Siria, come in passato, gli Usa e i loro alleati hanno cominciato a finanziare apertamente e a fornire le armi ai ribelli, favorendo il loro rinforzo con gli arrivi dei mercenari di vari paesi. Permettetemi di chiedere dove i ribelli trovano denaro, armi, esperti militari? Com’è potuto accadere che il famigerato Isis si sia trasformato praticamente in un esercito?Si tratta non solo dei proventi dal traffico di droga, ma la sovvenzione finanziaria proviene anche dalle vendite del petrolio, la cui estrazione è stata organizzata nei territori sotto il controllo dei terroristi. Lo vendono a prezzi stracciati, lo estraggono, lo trasportano. Qualcuno lo compra, lo rivende e ci guadagna, senza pensare al fatto che così sta finanziando i terroristi, gli stessi che prima o poi colpiranno anche nella sua terra. Da dove provengono le nuove reclute? Sempre in Iraq, dopo il rovesciamento di Saddam Hussein sono state distrutte le istituzioni dello Stato, compreso l’esercito. Già allora abbiamo detto: siate prudenti e cauti. Con quale risultato? Decine di migliaia di soldati e ufficiali, ex militanti del partito Baath, buttati sulla strada, oggi si sono uniti ai guerriglieri. A proposito, non sarà nascosta qui la capacità di azione dell’Isis? Le loro azioni sono molto efficaci dal punto di vista militare, sono oggettivamente dei professionisti. La Russia aveva avvertito più volte del pericolo che comportano le azioni di forza unilaterali, delle interferenze negli affari degli Stati sovrani, delle avance agli estremisti e ai radicali, insistendo sull’inclusione dei raggruppamenti che lottavano contro il governo centrale siriano, in primo luogo dell’Isis, nelle liste dei terroristi. Tutto inutile.L’accrescimento del dominio di un unico centro di forza non conduce alla crescita del controllo dei processi globali. Al contrario, è inefficace contro le vere minacce costituite dai conflitti regionali, terrorismo, traffico di droga, fanatismo religioso, sciovinismo e neonazismo. Allo stesso tempo ha largamente spianato la strada ai nazionalismi e alla rude soppressione dei più deboli. Il mondo unipolare è la celebrazione apologetica della dittatura sia sulle persone sia sui paesi. Ed è un mondo insostenibile e difficile da gestire anche per il cosiddetto leader autoproclamatosi. Da qui nascono i tentativi odierni di ricreare un simulacro del mondo bipolare, più “comodo” per la leadership americana. Poco importa chi occuperà, nella loro propaganda, il posto del “centro del male” che spettava una volta all’Urss: l’Iran, la Cina oppure ancora la Russia. Adesso assistiamo di nuovo a un tentativo di frantumare il mondo, fabbricare delle coalizioni non secondo il principio “a sostegno di”, ma “contro”; serve l’immagine di un nemico, come ai tempi della “guerra fredda”, per legittimare la leadership e ottenere un diritto di diktat.Durante la “guerra fredda”, agli alleati si diceva continuamente: «Abbiamo un nemico comune, è spaventoso, è lui il centro del male; noi vi difendiamo, dunque abbiamo il diritto di comandarvi, di costringervi a sacrificare i propri interessi politici e economici, a sostenere le spese per la difesa collettiva; ma a gestire questa difesa saremo, naturalmente, noi». Oggi traspare evidente l’aspirazione a trarre dividendi politici ed economici tramite la riproposizione dei consueti schemi di gestione globale. Tuttavia il mondo è cambiato. Le sanzioni hanno già cominciato a intaccare le fondamenta del commercio internazionale e le normative del Wto, i principi della proprietà privata, il modello liberale della globalizzazione, basato sul mercato, sulla libertà e sulla concorrenza. Un modello i cui beneficiari, lo voglio rilevare, sono soprattutto i paesi occidentali. A mio parere, i nostri amici americani stanno tagliando il ramo su cui sono seduti. Non si può mescolare politica ed economia, ma è proprio questo che sta accadendo.Ho sempre ritenuto e ritengo ancora che le sanzioni politicamente motivate siano state un errore che danneggia tutti quanti. Comprendiamo bene in che modo e sotto quale pressione siano state adottate. Ma ciò nonostante la Russia non intende, e lo voglio mettere ben in chiaro, impuntarsi, portare rancore contro qualcuno o chiedere qualcosa a qualcuno. La Russia è un paese autosufficiente. Lavoreremo nelle condizioni di economia esterna che si sono create, sviluppando la nostra industria tecnologica. La pressione esterna non fa altro che consolidare la nostra società, ci obbliga a concentrarci sulle tendenze principali di sviluppo. Beninteso, le sanzioni ci ostacolano: stanno cercando di danneggiarci, di arrestare il nostro sviluppo, di ridurci all’auto-isolamento e all’arretratezza. Ma il mondo è cambiato radicalmente. Non abbiamo alcuna intenzione di chiuderci nell’autarchia; siamo sempre aperti al dialogo, compreso quello sulla normalizzazione delle relazioni economiche, nonché quelle politiche. In questo contiamo sulla visione pragmatica e sullo schieramento delle comunità imprenditoriali dei paesi leader. Affermano che la Russia avrebbe voltato le spalle all’Europa, cercando partner economici in Asia. Non è così. La nostra politica in Asia e nel Pacifico risale ad anni fa e non è affatto legata alle sanzioni. L’Oriente occupa un posto sempre più importante nel mondo e nell’economia e non possiamo trascurarlo. Lo stanno facendo tutti e noi continueremo a farlo, anche perché una parte notevole del nostro territorio si trova in Asia.Se non sapremo creare un sistema di obblighi e accordi reciproci e non elaboriamo i meccanismi per gestire le situazioni di crisi, rischiamo l’anarchia mondiale. Già oggi è aumentata repentinamente la probabilità di una serie di conflitti violenti con il coinvolgimento, se non diretto, ma indiretto, delle grandi potenze. Il fattore di rischio viene amplificato dall’instabilità interna dei singoli Stati, in particolar modo quando si parla dei paesi cardine degli interessi geopolitici e si trovano ai confini dei “continenti” storici, economici e culturali. L’Ucraina è un esempio – ma non l’unico – di questo genere di conflitti che dividono le forze mondiali. Da qui scaturisce la prospettiva reale della demolizione del sistema attuale degli accordi sulle restrizioni e il controllo degli armamenti. Il via a questo pericoloso processo è stato dato proprio dagli Usa quando, nel 2002, sono usciti unilateralmente dal Trattato sulla limitazione dei sistemi di difesa antimissilistica per avviare la creazione di un proprio sistema globale di difesa.Non siamo stati noi a iniziare tutto questo. Stiamo di nuovo scivolando verso tempi in cui i paesi si trattengono dagli scontri diretti non in virtù di interessi, equilibri e garanzie, ma solo per il timore dell’annientamento reciproco. È estremamente pericoloso. Noi insistiamo sui negoziati per la riduzione degli arsenali e siamo aperti alla discussione sul disarmo nucleare, ma deve essere seria, senza “doppi standard”. Che cosa intendo dire? Oggi le armi di precisione si sono avvicinate alle armi di distruzione di massa. Nel caso di rinuncia assoluta o diminuzione del potenziale nucleare, i paesi che si sono guadagnati la leadership nella produzione dei sistemi di alta precisione otterranno un netto dominio militare. Sarà spezzata la parità strategica, comportando così il rischi di una destabilizzazione: affiora così la tentazione di ricorrere al cosiddetto “primo colpo disarmante globale”. In breve, i rischi non diminuiscono ma aumentano.Un’altra minaccia evidente è l’ulteriore proliferazione dei conflitti di origine etnica, religiosa e sociale, che creano zone di vuoto di potere, illegalità e caos, in cui trovano conforto terroristi, delinquenti comuni, pirati, scafisti e narcotrafficanti. I nostri “colleghi” hanno continuato i tentativi, nel loro esclusivo interesse, di sfruttare i conflitti regionali: hanno progettato le “rivoluzioni colorate”, ma la situazione è sfuggita a loro di mano, alla faccia del “caos controllato”. E il caos globale aumenta. Nelle condizioni attuali sarebbe ora di cominciare ad accordarsi sulle questioni di principio. È decisamente meglio che non rifugiarsi nei propri angoli, soprattutto perché ci scontriamo con i problemi comuni, siamo sulla stessa barca. La via logica è quella della cooperazione tra i paesi e la gestione congiunta dei rischi, sebbene alcuni dei nostri partner si ricordino di questo solo quando risponde al loro interesse. Certo, le risposte congiunte alle sfide non sono una panacea e nella maggioranza dei casi sono difficilmente realizzabili: non è per niente semplice superare le diversità degli interessi nazionali, la parzialità delle visioni, soprattutto se si parla dei paesi di diverse tradizioni storico-culturali. Eppure ci sono stati casi in cui, guidati dagli obiettivi comuni, abbiamo raggiunto successi reali.Vorrei ricordare la soluzione del problema delle armi chimiche siriane, il dialogo sul programma nucleare iraniano e il nostro soddisfacente lavoro svolto in Corea del Nord. Perché allora non attingere a questa esperienza anche in futuro, per la soluzioni dei problemi sia locali sia globali? Non ci sono ricette già pronte. Sarà necessario un lavoro lungo, con la partecipazione di una larga cerchia di Stati, del business mondiale e della società civile. Bisogna definire in modo nitido dove si trovano i limiti delle azioni unilaterali e dove nasce l’esigenza di meccanismi multilaterali. Bisogna trovare la soluzione, nel contesto del perfezionamento del diritto internazionale, al dilemma tra le azioni della comunità mondiale volte a garantire la sicurezza e i diritti dell’uomo e il principio della sovranità nazionale e non intromissione negli affari interni degli Stati. Non c’è bisogno di ripartire da zero, le istituzioni create subito dopo la Seconda Guerra Mondiale sono abbastanza universali e possono essere riempite di contenuti più moderni. Sullo sfondo dei cambiamenti fondamentali nell’ambito internazionale, della crescente ingovernabilità e dell’aumento delle più svariate minacce abbiamo bisogno di un nuovo consenso delle forze responsabili per dare stabilità e della sicurezza alla politica e all’economia.Vorrei ricordarvi gli eventi dell’anno passato. Allora dicevamo ai nostri partner, sia americani che europei, che le decisioni frettolose, come ad esempio quella sull’adesione dell’Ucraina all’Unione Europea, erano pregne di seri rischi. Simili passi clandestini ledevano gli interessi di molti terzi paesi, tra cui la Russia, in quanto partner commerciale principale dell’Ucraina. Abbiamo ribadito la necessità di avviare una larga discussione. Una volta realizzato il progetto dell’associazione dell’Ucraina, si presentano da noi attraverso le porte di servizio i nostri partner con le loro merci e i loro servizi, ma noi non lo abbiamo concordato, nessuno ha chiesto il nostro parere a riguardo. Abbiamo dibattuto su tutte le problematiche inerenti all’Ucraina in Europa in modo assolutamente civile, ma nessuno ci ha dato ascolto. Ci hanno semplicemente detto che non era affar nostro, finito il dibattito e la faccenda è deteriorata fino al colpo di Stato e alla guerra civile. Tutti allargano le braccia: è andata così. Ma non era inevitabile.Io lo dicevo: l’ex presidente ucraino Yanukovich aveva sottoscritto tutto quanto, aveva approvato tutto. Perché allora bisognava insistere? Sarebbe questo il modo civile per risolvere le questioni? Evidentemente coloro che “producono a macchia” una rivoluzione colorata dopo l’altra si ritengono degli artisti geniali e non ce la fanno proprio a fermarsi. Voglio aggiungere che avremmo gradito l’inizio di un dialogo concreto tra L’Unione Eurasiatica e l’Unione Europea. A proposito, fino a oggi ci è stato praticamente sempre negato: e di nuovo è poco chiaro per quale motivo; cosa c’è di spaventoso? Ne ho parlato spesso in precedenza trovando l’appoggio dei molti nostri partner occidentali, almeno quelli europei: è necessario formare uno spazio comune di cooperazione economica e umanitaria, lo spazio che si stenda dall’Atlantico al Pacifico. La Russia ha fatto la sua scelta. Le nostre priorità sono costituite dall’ulteriore perfezionamento degli istituti di democrazia e di economia aperta, l’accelerazione dello sviluppo interno tenendo conto di tutte le tendenze positive nel mondo, il consolidamento della società sulla base dei valori tradizionale e del patriottismo.La nostra agenda è orientata all’integrazione, è positiva, pacifica. La Russia non vuole ricostituire un impero, compromettendo la sovranità dei vicini, e non esige un posto esclusivo nel mondo. Rispettando gli interessi altrui vogliamo che si tenga contro anche dei nostri interessi, che anche la nostra posizione sia rispettata. Abbiamo bisogno di un grado particolare di prudenza, di evitare passi sconsiderati. Dopo la “guerra fredda” i protagonisti della politica mondiale hanno perduto in certo senso queste qualità. È giunto il momento di ricordarle. In caso contrario, le speranze per uno sviluppo pacifico, sostenibile, si riveleranno una nociva illusione, mentre i cataclismi di oggi significheranno la vigilia del collasso dell’ordine mondiale. Siamo riusciti a elaborare le regole di interazione dopo la Seconda Guerra Mondiale, siamo riusciti a trovare un accordo negli anni ‘70 a Helsinki. Il nostro obbligo comune è trovare un soluzione per questo obiettivo fondamentale anche nel contesto di una nuova fase di sviluppo.(Vladimir Putin, estratti dal discorso pronunciato il 24 ottobre 2014 al Forum internazionale del “Club Valdai” a Sochi, tradotto e ripreso da “Il Giornale”).La rettitudine e la durezza nel formulare delle valutazioni servono oggi non per punzecchiarci reciprocamente, ma per cercare di comprendere che cosa veramente sta accadendo nel mondo, perché diventa sempre meno sicuro e meno prevedibile, perché ovunque aumentano i rischi. Nuove regole del gioco oppure gioco senza regole? Formulato così, il concetto descrive puntualmente quel bivio storico in cui ci troviamo, la scelta che dovrà essere compiuta da tutti noi. L’idea che il mondo contemporaneo cambi precipitosamente non è nuova. Infatti, rimane difficile non notare le trasformazioni nella politica globale, nell’economia, nella vita sociale, nell’ambito delle tecnologie industriali, informatiche e sociali. Ma nell’analizzare la situazione attuale non dobbiamo dimenticare le lezioni della storia. In primo luogo, il cambio dell’ordine mondiale (e i fenomeni che osserviamo oggi appartengono proprio a questa scala), veniva accompagnato, di solito, se non da una guerra globale, da intensi conflitti locali. In secondo luogo, parlare di politica mondiale significa affrontare i temi della leadership economica, della pace e della sfera umanitaria, compresi i diritti dell’uomo.
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Renzi: basta democrazia, frena la crescita. E noi, zitti?
«Ci sono cose che vanno cambiate in modo quasi violento, nel senso del procedimento, non della via men che pacifica. Ci vuole un cambiamento radicale, strutturale, profondo su tutto». Per una volta ci verrebbe di dire che siamo d’accordo con Matteo Renzi. E siamo stupiti dal fatto che, sui giornali, nessuno abbia commentato, neanche di sfuggita, il “salto di qualità” nella retorica del cosiddetto premier. Evocare la violenza, infatti, di solito attira strali feroci, alte lamentazioni, lunghe tirate moralistiche. Se poi a farlo è un presidente del Consiglio “paracadutato” in quel ruolo dallo spirito divino (o più probabilmente da quello finanziario-massonico), che vuole stravolgere la Costituzione con il consenso di Hindenburg-Napolitano, che si attira ogni giorno una nuova accusa di tentazioni autoritarie (ci è arrivato persino Bersani, ormai), l’evento meriterebbe almeno una piccola riflessione. Proviamo a farla noi. Come scrive anche Loretta Napoleoni parlando del capitalismo nel suo complesso, non della sola Italia, «stiamo vivendo in un sistema che non funziona più e come tutti i sistemi che non funzionano devono autodistruggersi. Non c’è una soluzione o un nuovo modello».Cosa vogliamo dire? Che questo sistema – aggravato qui in Italia da storiche “anomalie” – è assolutamente indifendibile e chiunque si ostini a “conservarne” pezzi passa facilissimamente dalla parte del torto. La situazione sta diventando invivibile, al di là di ogni possibile sopportazione, persino per quella parte di popolazione – il cosiddetto “ceto medio” che vive di stipendio e in una casa di proprietà – che di solito veniva portato ad esempio di benessere e virtù civiche, da imitare e porsi come obiettivo di autorealizzazione. È lo stesso che ora viene invece indicato come “egoista”, anacronistico, conservatore (per l’appunto), in quanto cerca – molto debolmente – di non perdere tutto e tutto insieme. Bisogna dire che i reazionari sanno fare benissimo il loro mestiere. Non altrettanto si può dire dei comunisti, e non solo in questo paese. La “difesa dei diritti” – sacrosanta – è il minimo sindacale, ma parla ormai a un blocco sociale in via di estinzione se non si costruisce una prospettiva di cambiamento generale, capace di accogliere i bisogni e gli interessi di strati sociali già da venti anni messi fuori dal ciclo “virtuoso” lavoro-contrattazione-salario-diritti.La prospettiva “moderata” fin qui egemone anche nella sinistra cosiddetta radicale (altrimenti detta “contrattazione a perdere”, o “menopeggismo”) è arrivata a fine corsa. Può solo esibirsi in contorsioni ripetitive, neppure più gratificate da un risultato elettorale positivo. Quando Renzi dice di voler fare il Jobs Act per «occuparsi di chi non si è mai occupato nessuno», dei precari e dei co.co.co., punta esplicitamente a fare delle vittime principali dei governi degli ultimi venti anni la massa di manovra per un golpe, schiera muta cui viene chiesto soltanto consenso al “cambiamento”. Che lui stesso definisce “violento”. Ma con una “procedura pacifica”. Che vuol dire “cambiamento violento con procedimento pacifico”? È un ossimoro, una contraddizione in termini. E quando c’è una contraddizione in termini siamo sicuramente di fronte a una menzogna gigantesca. Ricordate la “guerra umanitaria”, le “truppe di pace”, ecc? Diciamola così: la violenza nell’azione di governo è certa. Punta a distruggere ceti sociali, istituzioni, meccanismi di selezione della rappresentanza, culture, valori fondamentali. È insieme economica, politica e anche ideologica. Resterà pacifica nelle forme solo se non incontrerà resistenza.Sarà una violenza dall’alto, feroce nei fatti e “promettente” nella retorica. Come la cinematografia dei “telefoni bianchi” sotto il fascismo mentre si preparava il macello della Seconda Guerra Mondiale, si riempivano le galere di antifascisti o li si faceva assassinare persino all’estero. Ci stanno dicendo chiaro e forte “basta con la democrazia, ostacola la crescita”. E non saranno molti quelli che si batteranno per la prima, come stiamo vedendo. Qui tocca a noi. Sia chiaro: “noi” come classe, sindacalismo conflittuale, soggettività politiche. Vanno cancellati i ragionamenti soltanto tattici, di breve momento, finalizzati all’autoconservazione dei piccoli gruppi, alla disperata ricerca di qualche via di ritorno a una “normalità” che non solo è fattualmente impossibile, ma ti iscrive di fatto nelle fila dei “conservatori”, inutili a sé e agli altri. Bisogna resistere qui e ora, certamente, ma pensare sui tempi storici, individuare e nominare la prospettiva. Il sistema non tiene più, i reazionari alla Renzi stanno indicando una direzione di “cambiamento” presentandola come l’unica possibile. Siamo capaci di indicarne una opposta?(Dante Barontini, “La violenza di regime”, da “Contropiano” del 24 settembre 2014).«Ci sono cose che vanno cambiate in modo quasi violento, nel senso del procedimento, non della via men che pacifica. Ci vuole un cambiamento radicale, strutturale, profondo su tutto». Per una volta ci verrebbe di dire che siamo d’accordo con Matteo Renzi. E siamo stupiti dal fatto che, sui giornali, nessuno abbia commentato, neanche di sfuggita, il “salto di qualità” nella retorica del cosiddetto premier. Evocare la violenza, infatti, di solito attira strali feroci, alte lamentazioni, lunghe tirate moralistiche. Se poi a farlo è un presidente del Consiglio “paracadutato” in quel ruolo dallo spirito divino (o più probabilmente da quello finanziario-massonico), che vuole stravolgere la Costituzione con il consenso di Hindenburg-Napolitano, che si attira ogni giorno una nuova accusa di tentazioni autoritarie (ci è arrivato persino Bersani, ormai), l’evento meriterebbe almeno una piccola riflessione. Proviamo a farla noi. Come scrive anche Loretta Napoleoni parlando del capitalismo nel suo complesso, non della sola Italia, «stiamo vivendo in un sistema che non funziona più e come tutti i sistemi che non funzionano devono autodistruggersi. Non c’è una soluzione o un nuovo modello».
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Visalli: questa sporca guerra, contro tutti noi, da 19 anni
Siamo ormai al diciannovesimo anno di guerra mondiale: iniziò il 1° gennaio 1995, quando l’Uruguay Round, avviato nel 1986, si concluse con «l’inaudita decisione di abolire le barriere allo scambio dei beni, come dei servizi e delle proprietà intellettuali». Da allora, scrive Alessandro Visalli, «il potente Wto ha demolito sistematicamente ogni barriera alzata nei secoli a protezione delle vite e dei beni dei popoli del mondo, mettendo in contatto senza filtri e protezioni tradizioni e culture diverse e sistemi sociali altamente differenti». Se si considera che nella definizione di “servizi” sono sostanzialmente compresi i capitali finanziari e le funzionalità connesse, «l’evento manifesta, a quasi vent’anni di distanza, tutta la sua geometrica potenza», ora che i servizi finanziari consentono ai capitali di «alzarsi da terra, rifiutare il legame con le modalità di produzione socialmente determinate che li hanno generati e muoversi, vorticosamente, in cerca di maggiori “rendimenti” nel mondo». Cioè, «in cerca di un maggiore tasso di sfruttamento di condizioni locali».Un “tasso” che, indifferentemente, si può manifestare attraverso un intervento immobiliare speculativo, attraverso la nuvola dei derivati, attraverso la cessione dei pacchetti azionari di aziende produttive, o anche semplici movimenti su prodotti direttamente finanziari e assicurativi. «Questo mondo, da allora, brucia», scrive Visalli in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”. «Il codice denaro – e i suoi provvisori possessori – sta da allora furiosamente cavalcando il mondo e travolgendo ogni ostacolo». Ecco perché «la guerra mondiale» cesserà solo «quando il piano sarà livellato, quando i capitali alzati a Cupertino o a Londra troveranno lo stesso “saggio di rendimento” in ogni luogo». Un sogno utopico – oppure un incubo, per i detentori del super-potere, dal momento che “saggio di rendimento” «è un altro e più gentile nome di “saggio di sfruttamento”». In concreto, «vuol dire che il reddito ricavabile dal lavoro sarà diventato una media tra quello americano (o tedesco) e quello nigeriano (o cinese)», con «simili livelli di tenore di vita e di garanzie, simili livelli di sicurezza, simili prestazioni assistenziali».Solo allora cesserà, la “guerra mondiale”: quando tutti i lavoratori del mondo saranno equilibrati sulla stessa media. Oggi, invece, la concorrenza con paesi come la Cina e l’Albania, che sta attraendo molte aziende italiane, «si vince quando i nostri salari saranno intermedi tra i 1.300 euro nostri e i 400 cinesi». L’aristocrazia finanziaria punta esattamente a questo, con la “svalutazione interna” dell’economia europea, contando sull’assenza di reazioni da parte di società e lavoratori occidentali. La stessa Unione Europea, infatti, «non ha alcun senso se non si percepisce la dominazione di questo pacchetto di interessi e la trappola nel quale, intenzionalmente ma in modo poco avveduto, ha condotto tutte le forze sociali e politiche europee», ovvero «se non si comprende il disegno tecnicamente eversivo che lo sottende». E quasi nessuno se ne accorgerebbe, non fosse per le “provvidenziali” esternazioni dei tecnocrati del rigore, Draghi in primis, che pretende – apertamente – la rinuncia ad ogni residua forma di sovranità nazionale. Le “riforme strutturali” prescritte dal super-potere europeo? Semplice: «Si tratta di continuare la guerra, rendere ancora più veloce la circolazione, eliminare ogni vecchio attrito, aumentare la flessibilità», scrive Visalli.Non è altro che questo: «Consentire ai titolari dei capitali di investirli rapidamente, senza tante storie, senza precauzioni, limiti, garanzie». Più nessuna tutela per il paesaggio, ad esempio «rispetto a una speculazione immobiliare condotta da un fondo assicurativo inglese, o italiano». Zero attenzione per l’ambiente, «rispetto a un investimento industriale». Fine delle tutele per il lavoro e per i servizi. E niente più responsabilità, «a partire dalla esazione fiscale del valore prodotto nel paese». A chi sposta una fabbrica dall’altra parte dell’Adriatico per lucrare qualche centinaio di euro sul salario dei lavoratori, sostiene Visalli, bisognerebbe imporre pari condizioni di accesso: porte aperte a quella fabbrica, solo se «garantisce eguale protezione dell’ambiente, del paesaggio e delle condizioni di lavoro». Ma se il risultato della produzione «è ottenuto sfruttando il territorio in misura maggiore, generando maggiori esternalità, sfruttando i lavoratori in modo selvaggio, o grazie a facilitazioni fiscali non sostenibili (e dunque competitive) dovrebbe essere diritto difendersi». Per cui, se vogliamo parlare di riforme, iniziamo da queste: stop al dumping fiscale entro la Ue, innalzamento di barriere compensative, più tasse alle grandi corporation, welfare europeo comune e salario minimo europeo. «E parliamone nel Parlamento Europeo (e nei Parlamenti nazionali), non certo nel board della Bce».Siamo ormai al diciannovesimo anno di guerra mondiale: iniziò il 1° gennaio 1995, quando l’Uruguay Round, avviato nel 1986, si concluse con «l’inaudita decisione di abolire le barriere allo scambio dei beni, come dei servizi e delle proprietà intellettuali». Da allora, scrive Alessandro Visalli, «il potente Wto ha demolito sistematicamente ogni barriera alzata nei secoli a protezione delle vite e dei beni dei popoli del mondo, mettendo in contatto senza filtri e protezioni tradizioni e culture diverse e sistemi sociali altamente differenti». Se si considera che nella definizione di “servizi” sono sostanzialmente compresi i capitali finanziari e le funzionalità connesse, «l’evento manifesta, a quasi vent’anni di distanza, tutta la sua geometrica potenza», ora che i servizi finanziari consentono ai capitali di «alzarsi da terra, rifiutare il legame con le modalità di produzione socialmente determinate che li hanno generati e muoversi, vorticosamente, in cerca di maggiori “rendimenti” nel mondo». Cioè, «in cerca di un maggiore tasso di sfruttamento di condizioni locali».
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Pritchard: via dall’euro, Italia salva. Renzi, che aspetti?
Eugenio Scalfari, fondatore di “Repubblica” e leader dell’establishment pro-euro, propone a Renzi di sacrificare l’Italia (cioè gli italiani) per salvare la moneta unica? Renzi non gli dia retta e faccia esattamente il contrario: salvi l’Italia e lasci affondare l’euro. Come? Tornando alla lira, e di corsa, scrive il prestigioso giornalista economico inglese Ambrose Evans-Pritchard. In fondo, osserva, Renzi era ancora minorenne all’epoca del “peccato originale”, lo sciagurato Trattato di Maastricht. Finora ha sbagliato tutto: in campagna elettorale ha promesso di contrastare l’austerity Ue, poi si è sottomesso a Bruxelles confidando nei suoi cattivi consiglieri, che parlavano di ripresa imminente. Ora ci siamo: l’Italia sta crollando e il debito pubblico rischia di arrivare al 150% del Pil, con l’incubo di tagli miliardari in autunno o, peggio, il commissariamento della Troika. Renzi, dice Pritchard, è ancora in tempo: può salvare l’Italia, uscendo dall’euro. Possibile: perché i conti dell’Italia – quelli veri – sono meno peggio di quelli di tanti altri paesi, inclusi Francia, Gran Bretagna, Giappone, Olanda e Stati Uniti.«E’ un fatto incontrovertibile – scrive Pritchard sul “Telegraph”, in un articolo ripreso da “Come Don Chisciotte” – che il disastro che dura da 14 anni in Italia coincide con l’adesione all’Uem», l’unione monetaria europea. «L’Italia è in depressione da quasi sei anni». Un crollo «costellato da false riprese, sopraffatte ogni volta dai dilettanti monetari responsabili della politica Uem». L’ultima “ripresa” è svanita dopo un solo trimestre, e l’economia è di nuovo in recessione tecnica: la produzione crollata del 9,1% dal suo picco, «indietro a livelli di 14 anni fa», l’industria italiana «scesa a livelli del 1980». Incredibile: «Ci vogliono errori di politica economica madornali per realizzare un tale risultato, in una economia moderna». Basti pensare che l’Italia non aveva subito niente di simile neppure durante la Grande Depressione, «facendo segnare una crescita del 16% tra il 1929 e il 1939». Nemmeno Mussolini, aggiunge Pritchard, era così maniacale da perseguire i suoi deliri sul “gold standard”. Le autorità italiane che oggi intravvedono segnali di ripresa? Sono «come le guardie della fortezza nel “Deserto dei Tartari” di Dino Buzzati», ingannate «dalle illusioni ottiche dell’orizzonte senza vita».Bollettino della catastrofe: i prestiti bancari alle imprese sono ancora in calo, “Moody’s” dice che quest’anno l’economia si contrarrà dello 0,1%, “Société Génerale” dello 0,2 Il crollo del settore immobiliare non ha ancora toccato il fondo: se l’anno scorso per vendere una casa occorreva attendere in media 8,8 mesi, ora l’attesa è salita a 9,4 mesi. Precipita l’indice del peggioramento delle condizioni di mercato: in soli tre mesi è passato da 19,6 a 34,7%. «Non possiamo andare avanti più a lungo», protesta la filiale di Taranto di Confindustria, in una lettera aperta al presidente della Repubblica in cui segnala che la Puglia sta diventando un «deserto industriale», con le piccole imprese sull’orlo della chiusura e dei licenziamenti di massa. «Il mix letale di contrazione economica e inflazione zero sta portando la traiettoria del debito in Italia a crescere in maniera esponenziale, nonostante l’austerità e un avanzo primario del 2% del Pil», aggiunge Pritchard. Nel primo trimestre 2014 il debito è salito al 135,6%, dal 130,2% dell’anno prima. E si può arrivare al 140% entro fine anno, «in acque inesplorate per un paese che in realtà si indebita in D-Marks».«Nessuno sa quando i mercati reagiranno», dicono i banchieri italiani. La recessione, intanto, sta erodendo le entrate fiscali così gravemente che Renzi «dovrà venirsene fuori con nuovi tagli, dai 20 ai 25 miliardi di euro, per soddisfare gli obiettivi di disavanzo dell’Ue, perpetuando il circolo vizioso». Il compito, dice Pritchard, è senza speranza, come confermano tutti gli studi. Secondo il think-tank “Bruegel”, l’Italia dovrebbe realizzare un avanzo primario del 5% del Pil per stabilizzare il debito con un’inflazione al 2%. Avanzo che salirebbe al 7,8% a inflazione zero. «Qualsiasi tentativo di raggiungere questo obiettivo porterebbe ad una implosione autodistruttiva dell’economia italiana», avverte Pritchard. Ashoka Mody, già alto funzionario del Fmi in Europa, dice che è impossibile realizzare avanzi primari così abnormi, cioè tagli spaventosi alla spesa pubblica. E consiglia alle autorità italiane di «cominciare a consultare dei bravi avvocati, per garantire una ristrutturazione ordinata del debito sovrano». Avverte: «Non deve essere un cataclisma, ci sono modi di dilazionare gli obblighi di pagamento nel corso del tempo. Ma non c’è nessuna ragione di attendere fino a che il rapporto giunga al 150% del Pil. Dovrebbero andare avanti in questo senso da subito».Tutt’altra musica quella che suona Eugenio Scalfari, secondo cui l’Italia dovrebbe «mettersi sotto il controllo della Troika», cioè del boia. «Scalfari sembra pensare che la democrazia in Italia dovrebbe essere sospesa per salvare l’euro – replica Pritchard – e che il paese dovrebbe raddoppiare le politiche di terra bruciata, imbarcandosi in uno sforzo ancora più draconiano per recuperare competitività attraverso un svalutazione interna», cioè tagliando i salari e il welfare. Renzi di rifletta, insiste Pritchard: pensi a salvare gli italiani, non l’euro. Sono 14 anni che il paese è in sofferenza, ovvero da quando è nell’Eurozona, che «ha messo in moto una dinamica molto distruttiva per le particolari condizioni dell’Italia». Ed è altrettanto chiaro che ora l’Uem «impedisce al paese di uscire dalla trappola». Ci dimentichiamo, aggiunge Pritchard, che l’Italia registrava abitualmente un surplus commerciale nei confronti della Germania, prima dell’euro: «Le industrie italiane del nord erano viste come concorrenti formidabili, quando la lira era debole». Antonio Guglielmi, di Mediobanca, dice che l’Italia “teneva” benissimo, prima di agganciare la lira al marco nel 1996. Solo allora è entrata in una «spirale negativa della produttività».In un rapporto che è una condanna, Guglielmi mostra come negli ultimi 40 anni la crescita della produttività e della competitività in Italia abbia vacillato ogni volta che la valuta nazionale è stata agganciata a quella tedesca, mentre si è ripresa dopo ogni svalutazione. Ennesima conferma dell’avvertimento lanciato da storici e antropologi: economie profondamente differenti non avrebbero mai potuto convergere felicemente nell’Eurozona. E ora siamo arrivati al capolinea: «L’Italia è sopravvalutata del 30% rispetto alla Germania e non può recuperare attraverso la deflazione, in quanto la stessa Germania è vicina alla deflazione». Le élite dellìunità monetaria, aggiunge Pritchard, esortano l’Italia a “fare le riforme”, «un termine che viene buttato là liberamente». Tutte storie: «Le metriche del mercato del lavoro per la Germania e l’Italia non sembrano così diverse», precisa Modi, già direttore del Fmi a Berlino. «Non è più facile assumere e licenziare in Germania». Il problema, semmai, è la mancanza in investimento in capitale umano, denuncia il professor Giuseppe Ragusa, della Luiss “Guido Carli” di Roma: «Ciò che veramente colpisce è quanto siamo indietro nell’istruzione».I dati dell’Ocse mostrano che l’Italia spende solo il 4,7% del Pil per l’istruzione, rispetto al 6.3% di tutta l’Ocse. La quota di giovani che hanno completato gli studi superiori è del 21%, rispetto ad una media del 39%. Gli insegnanti sono pagati una miseria. «Questo è davvero un grosso problema strutturale, ma non può essere risolto dalle “riforme”, figuriamoci dall’austerità». Ciò di cui l’Italia ha davvero bisogno, dice Pritchard, è di «un New Deal, un massiccio investimento in infrastrutture e competenze, sostenuto da uno stimolo monetario per sollevare il paese dalla sua soffocante tristezza cosmica». Renzi? «Deve ormai aver capito che questo non può essere fatto sotto l’attuale regime dell’Uem». Improvvisamente, il premier italiano «si ritrova nella stessa situazione terribile di François Hollande in Francia: etrambi si ritrovano con il cappio al collo». La differenza «è che Hollande è oltre ogni possibilità di salvarsi», perché «il regime depressivo dell’Uem ha distrutto la sua presidenza». “Le Figaro” sta pubblicando una fiction estiva in cui si esplora la possibilità di dimissioni anticipate. Renzi invece «non ha ancora bruciato il suo capitale politico, ed è un giocatore d’azzardo per natura», scrive Pritchard.Attenzione: «Non c’è più alcuna possibilità che Italia e Francia conducano una rivolta dei paesi latini, mettendo insieme una maggioranza in seno al Consiglio Europeo e alla Banca Centrale per imporre una strategia di rilancio a livello dell’Uem che cambi completamente il panorama economico». Con l’adesione alla Germania a tutti i costi, «la forza politica di Hollande è bruciata». E gli spagnoli pensano – sbagliando – di essere fuori dal guado, e di non avere bisogno di un “patto del Sud” con Italia e Francia. Così, «Renzi è solo». E si trova davanti una Bce «che ha sostanzialmente violato il suo contratto con l’Italia, lasciando cadere l’inflazione a 0,4% sapendo che questo avrebbe fatto andare in metastasi la crisi italiana». Poi c’è Juncker, a capo di una Commissione «che promette di attuare le stesse disastrose politiche economiche che si sono già dimostrate rovinose». In altre parole, «non vi è alcuno spazio di negoziazione», perché le istituzioni di Bruxelles non ammettono le loro responsabili nella catastrofe: «Sostenendo solo la volontà dei creditori, hanno messo a terra l’unione monetaria: non hanno più alcuna legittimità».«L’Italia deve badare a se stessa», conclude Pritchard. «Si può riprendere solo se si libera dalla trappola Uem, riprende il controllo dei suoi strumenti di politica economica e ridenomina i suoi debiti in lire, con controlli dei capitali fino a quando le acque si calmano». Missione tutt’altro che impossibile, precisa l’economista inglese: «L’Italia non si troverebbe ad affrontare una crisi immediata di finanziamento, dal momento che ha un avanzo primario di bilancio». La sua posizione patrimoniale netta sull’estero, inoltre, è al -32% del Pil, a fronte di un -92% della Spagna e -100% del Portogallo. «Il paese non soffre di eccesso di debito da un punto di vista fondamentale», dal momento che il debito ipotecario è molto basso, e che il debito aggregato (pubblico e privato) è circa il 270% del Pil, cioè «molto inferiore a quello di Francia, Gran Bretagna, Spagna, Giappone, Stati Uniti, Svezia e Paesi Bassi».Non c’è un modo “facile” di uscire dall’euro, perché «le strutture a incastro dell’unione monetaria sono andate ben oltre un aggancio di cambio fisso», e inoltre «gli interessi costituiti», quelli che hanno trasformato l’Eurozona in una sorta di lager economico cronicamente depresso, «sono potenti e spietati». Eppure non è impossibile, insiste Pritchard, secondo cui «la faccenda sicuramente precipiterà quando la traiettoria del debito italiano entrerà nella zona di pericolo». A quel punto, tutto sarà chiaro: restare nell’euro sarà il suicidio, uscirne sarà obbligatorio. Di fronte a una crisi molto forte, in autunno, «potrebbe non essere così evidente che il paese vuole essere salvato alle condizioni europee». Quindi, «Renzi può giustamente concludere che l’unico modo possibile per adempiere al suo compito», il famoso “Rinascimento” per l’Italia, «è quello di scommettere tutto sulla lira».Eugenio Scalfari, fondatore di “Repubblica” e leader dell’establishment pro-euro, propone a Renzi di sacrificare l’Italia (cioè gli italiani) per salvare la moneta unica? Il premier non gli dia retta e faccia esattamente il contrario: salvi l’Italia e lasci affondare l’euro. Come? Tornando alla lira, e di corsa, scrive il prestigioso giornalista economico inglese Ambrose Evans-Pritchard. In fondo, osserva, Renzi era ancora minorenne all’epoca del “peccato originale”, lo sciagurato Trattato di Maastricht. Finora ha sbagliato tutto: prima ha promesso di contrastare l’austerity Ue, poi si è sottomesso a Bruxelles confidando nei suoi cattivi consiglieri, che parlavano di ripresa imminente. Ora ci siamo: l’Italia sta crollando e il debito pubblico rischia di arrivare al 150% del Pil, con l’incubo di tagli miliardari in autunno o, peggio, l’arrivo della Troika. Renzi, dice Pritchard, è ancora in tempo: può salvare l’Italia, uscendo dall’euro. Possibile: perché i conti dell’Italia – quelli veri – sono meno peggio di quelli di tanti altri paesi, inclusi Francia, Gran Bretagna, Giappone, Olanda e Stati Uniti.
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La nostra economia difettosa è progettata solo per i ricchi
Esistono diverse teorie economiche, ma ancor prima di ciò esistono classi sociali di cui gli economisti – ben lungi dall’essere scienziati apolitici – difendono gli interessi consolidati. E’ questa, purtroppo, l’evidenza che è emersa nel dibattito scatenato dal libro di Thomas Piketty “Capital in the Twenty-First Century”, nel quale si mettono in evidenza le ragioni e i pericoli delle disuguaglianze, le distorsioni conseguenti la crescita delle rendite e l’ingiustizia insita nell’ereditarietà del capitale. L’esempio migliore di questo bias classista lo fornisce Gregory Mankiw, noto economista conservatore ed autore di uno dei manuali di economia più diffusi. In un recente articolo per il “New York Times”, Mankiw ha cercato di demolire la tesi di Piketty: «Poiché il capitale è soggetto a rendimenti decrescenti, un aumento della sua offerta causa il fatto che ogni unità di capitale renda di meno. E poiché l’aumento del capitale aumenta la produttività del lavoro, i lavoratori godono di salari più alti».«In altre parole, risparmiando invece di spendere, chi lascia una proprietà agli eredi causa una redistribuzione non intenzionale dei redditi da altri proprietari di capitali verso i lavoratori. La morale della favola è che la ricchezza ereditata non è una minaccia economica. Coloro che hanno conseguito proventi straordinari naturalmente vogliono condividere la loro fortuna con i loro discendenti. Quelli di noi che non hanno la fortuna di nascere in una di queste famiglie ne beneficiano comunque, poiché la loro accumulazione di capitale aumenta la nostra produttività, i salari e il tenore di vita». E’ evidente però che non è questo che è accaduto negli ultimi decenni. Nonostante gli incrementi di produttività, i salari reali sono rimasti stagnanti. Il che significa semplicemente che la quota di ricchezza aggiuntiva prodotta è andata sempre più alle altre classi sociali e non ai lavoratori, in particolare a quell’1% contro il quale nacque il movimento “Occupy Wall Street”.Mankiw non fa altro che ripetere la ben nota ideologia della “trickle-down economics”. E’ però interessante scoprire perché, nonostante l’evidenza contraria, un economista può ancor oggi permettersi di sostenere la tesi secondo la quale l’arricchimento dei più abbienti ha un riflesso positivo sui lavoratori. Cosa c’è nella teoria economica che giustifica questo risultato così in contrasto con la realtà? Lo spiega bene Peter Domar, economista e autore del noto blog “Econospeak”. Affinché sia vero quanto sostenuto da Mankiw, devono infatti essere verificate numerose e improbabili condizioni. In particolare, l’aumento dell’offerta di capitale deve rendere tale fattore della produzione meno remunerativo. Un’ipotesi che nel secolo delle tecnologie di rete diventa ogni giorno sempre meno vera: ad esempio, entro un margine molto ampio, ogni antenna di telefonia mobile installata da un operatore rende tutto il capitale di antenne già installate più redditizio, poiché permette di raggiungere più clienti che potranno telefonare ai clienti dei territori già coperti. Lo stesso discorso vale per molti altri servizi a rete e per il software.E non basta. Affinché Mankiw abbia ragione occorre ipotizzare anche: che i fattori produttivi siano pienamente impiegati (ovvero che non vi sia disoccupazione dei lavoratori e sottoutilizzazione degli impianti); che il maggiore risparmio abbassi il tasso di interesse stimolando così l’investimento (il modello che Keynes smonta nella Teoria Generale); che tutti gli atti di risparmio e investimento si verifichino all’interno dello stesso sistema economico (per esempio, i ricchi non guadagnano proventi da investimenti all’estero); che non vi siano esternalità non compensate ad incrementare “ingiustamente” i margini di guadagno delle imprese (si pensi all’inquinamento); che non vi siano monopoli tecnologici e anzi che non vi sia alcun cambiamento tecnologico, in quanto altererebbe le produttività marginali del lavoro e del capitale. Insomma, Mankiw non sta parlando del mondo reale, ma di quello immaginario descritto dai manuali di economia. Come il suo.(“Le fallacie dell’economia per i ricchi”, da “Keynesblog” del 15 luglio 2014).Esistono diverse teorie economiche, ma ancor prima di ciò esistono classi sociali di cui gli economisti – ben lungi dall’essere scienziati apolitici – difendono gli interessi consolidati. E’ questa, purtroppo, l’evidenza che è emersa nel dibattito scatenato dal libro di Thomas Piketty “Capital in the Twenty-First Century”, nel quale si mettono in evidenza le ragioni e i pericoli delle disuguaglianze, le distorsioni conseguenti la crescita delle rendite e l’ingiustizia insita nell’ereditarietà del capitale. L’esempio migliore di questo bias classista lo fornisce Gregory Mankiw, noto economista conservatore ed autore di uno dei manuali di economia più diffusi. In un recente articolo per il “New York Times”, Mankiw ha cercato di demolire la tesi di Piketty: «Poiché il capitale è soggetto a rendimenti decrescenti, un aumento della sua offerta causa il fatto che ogni unità di capitale renda di meno. E poiché l’aumento del capitale aumenta la produttività del lavoro, i lavoratori godono di salari più alti».
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Via dall’euro e addio Troika, se solo avessimo un leader
«Come si sa, questo è un paese in cui le cose serie si decidono a ferragosto. Poi, al rientro, gli italiani trovano il piatto cotto in tavola». Fatti da parte, suggerisce Scalfari a Renzi, confermando l’allarme di De Bortoli sull’imminente arrivo della Troika, caldeggiato da Draghi. «E’ stato come se il travolgente successo alle europee, non solo non consacrasse la leadership di Renzi, ma quasi la indebolisse: arginato il M5S, Renzi non serve più», secondo Aldo Giannuli. «E il preannuncio del licenziamento è arrivato con la bacchettata di Draghi, che ha detto papale papale: “Caro Renzi, non mi incanti con la riforma del Senato, sono altre le riforme che devi fare” e, il sottinteso, neanche tanto dissimulato, era “altrimenti togliti di mezzo”». Renzi prima si è messo sull’attenti, poi ha tentato di dire che sulle riforme deciderà lui. «Povero illuso, non si rende conto di avere pochissime frecce al suo arco e di avere troppi avversari: gli americani lo detestano per le sue aperture a Putin, la Merkel non lo digerisce, la Buba gli darebbe fuoco, la finanza che sogna di avventarsi sul peculio berlusconiano non gli perdona il tentativo di salvare il Cavaliere, adesso ci si mette anche Draghi».Renzi «pensava di affascinare l’Europa con la sua riforma del Senato», ma «non se l’è bevuta nessuno», scrive Giannuli nel suo blog. All’Ue, invece, «interessa la precarizzazione totale del lavoro in Italia, arraffare quel po’ che ancora ha un valore (Eni, Cdp, Telecom, forse qualche pezzetto di Finmeccanica) e che gli italiani si spremano sino all’ultima goccia di sangue, diano fondo ai risparmi e si vendano casa per pagare gli interessi sul debito pubblico e, se possibile, ne restituiscano una parte attraverso il Fiscal Compact». Tutto il resto sono solo chiacchiere. Problema: con l’economia in recessione, il debito esplode. E presto metterà fine alla bonaccia dello spread. Sul “Sole 24 Ore”, l’economista neoliberale Luigi Zingales scrive che «non saremo mai in grado di soddisfare il Fiscal Compact», e inoltre «la situazione del nostro debito pubblico è insostenibile, a meno di una significativa ripresa dell’inflazione», che è sempre stata il maggior alleato dei paesi debitori. «Ma questo – puntualizza Giannuli – presuppone la sovranità monetaria del debitore, cosa che l’euro ci ha tolto».Il problema, continua l’analista, è che, mentre gli italiani hanno capitalizzato i loro risparmi in beni reali (essenzialmente immobili), i tedeschi li hanno impiegati per l’acquisto di titoli finanziari, prevalentemente in euro. Per cui, un’inflazione al 3% sarebbe una grande boccata di ossigeno per i paesi indebitati come Italia, Grecia, Spagna, Portogallo, ma «alle orecchie dei tedeschi suonerebbe come una tassa patrimoniale di pari importo sui titoli». E siccome la moneta comune «non è mai la “moneta di tutti”, ma sempre e solo del più forte», questo non si può fare: «Per i tedeschi la soluzione sta nella spoliazione dei paesi debitori, del loro patrimonio pubblico (aziende, immobili, riserva aurea, Cdp) e di quello privato (risparmi, proprietà immobiliari e, fosse per loro, anche vendita dei figli al mercato degli schiavi)». Per liquidare l’Italia, occorre «azionare con la massima decisione la leva fiscale (ovviamente al rialzo) e svendere subito il patrimonio pubblico», due cose che Monti aveva iniziato a fare «con grande sollievo della platea “europea”». Ovviamente, «dopo una “cura” del genere un paese entra in una fase di estrema decadenza economica per interi decenni», ma questo non interessa all’“Europa”. «Per i tedeschi, i partner europei sono solo sgabelli su cui arrampicarsi per reggere la sfida della globalizzazione».Certo, Renzi «non sta dando le risposte attese», limitandosi «a giocare al “piccolo leader”, cosa sommamente irritante». Per la verità, l’“Europa” non ha soluzioni politiche di ricambio, spiega Giannuli: «La destra berlusconiana l’ha già cacciata una volta ed è decotta, il centro non esiste e nel Pd non c’è nessuno che possa dare il cambio al fiorentino». E allora che si fa? Semplice: «Si commissaria l’Italia. Si fa governare il paese dalla Troika». A costringere l’Italia a invocarne “l’aiuto”, basterà «un nuovo “assedio dello spread”»: quando il differenziale sul rendimento dei titoli di Stato risalirà oltre i 500-600 punti, «gli italiani, soprattutto grazie al loro ineffabile Capo dello Stato, faranno quello che devono fare e si troverà il Monti di turno che faccia il lacchè della Troika». Niente di difficile, peraltro: «A preparare il terreno ci sta già pensando Scalfari». Un segnale chiaro, riguardo al pensiero dei poteri forti europei e dei loro esponenti italiani. E Renzi? «Il “bersagliere del nulla” ha solo due scelte davanti: o fa quello che la Bce gli dice, alla lettera e senza capricci, oppure fa saltare il tavolo». Il ricatto del debitore: se io vado in default, mi trascino dietro tutti, comprese le banche tedesche, così salta anche l’euro. Oppure: ristrutturiamo il debito senza ricatti e rivediamo tutti gli accordi, inziando a negoziare l’uscita dall’infame moneta unica.«La forza negoziale dell’Italia sta proprio nel fatto che è un grande debitore, con i suoi oltre 2.000 miliardi di debito», continua Giannuli. «La Ue e l’euro potrebbero resistere agevolmente a un default greco, pari a 300 miliardi, e forse potrebbero incassare anche un tracollo portoghese, ma un colpo da 2.000 miliardi è decisamente troppo». Si sa: un piccolo debito è un problema del debitore, ma un grande debito è un problema del creditore. Forse, a quel punto, «potrebbero accodarsi spagnoli, greci e portoghesi», insieme ai variegati movimenti “euroscettici”. «Dunque, la via sarebbe quella di sedersi tutti al tavolo e assumere il problema del debito come problema comune a debitori e creditori. Questo non è un tempo normale: la grande crisi chiede scelte radicali. Nel nostro caso, o servi della Troika o ribelli decisi a far saltare il tavolo, tertium non datur». Questo, però, «richiederebbe una intelligenza, una preparazione, un coraggio politico di cui non sospettiamo lontanamente Renzi». La sua «patetica impennata in difesa della sovranità nazionale» resta del tutto irrilevante. Il Fiorentino «sarà travolto prima di aver finito di parlare, ma quello che verrà dopo sarà anche peggiore: prepariamoci».«Come si sa, questo è un paese in cui le cose serie si decidono a ferragosto. Poi, al rientro, gli italiani trovano il piatto cotto in tavola». Fatti da parte, suggerisce Scalfari a Renzi, confermando l’allarme di De Bortoli sull’imminente arrivo della Troika, caldeggiato da Draghi. «E’ stato come se il travolgente successo alle europee, non solo non consacrasse la leadership di Renzi, ma quasi la indebolisse: arginato il M5S, Renzi non serve più», secondo Aldo Giannuli. «E il preannuncio del licenziamento è arrivato con la bacchettata di Draghi, che ha detto papale papale: “Caro Renzi, non mi incanti con la riforma del Senato, sono altre le riforme che devi fare” e, il sottinteso, neanche tanto dissimulato, era “altrimenti togliti di mezzo”». Renzi prima si è messo sull’attenti, poi ha tentato di dire che sulle riforme deciderà lui. «Povero illuso, non si rende conto di avere pochissime frecce al suo arco e di avere troppi avversari: gli americani lo detestano per le sue aperture a Putin, la Merkel non lo digerisce, la Buba gli darebbe fuoco, la finanza che sogna di avventarsi sul peculio berlusconiano non gli perdona il tentativo di salvare il Cavaliere, adesso ci si mette anche Draghi».
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L’immenso tesoro del Papa e il custode venuto da Sydney
Lingotti e monete d’oro, banconote di ogni valuta, proprietà immobiliari sterminate: ricchezza accumulata nei secoli da preti, vescovi e cardinali, fino ad assumere proporzioni bibliche. Spulciando una relazione segreta della Cosea, la dissolta Commissione referente sull’organizzazione della struttura economica del Vaticano, “L’Espresso” scopre ad esempio che «le varie istituzioni vaticane gestiscono i propri asset e quelli di terzi a un valore dichiarato di 9-10 miliardi di euro, di cui 8-9 miliardi in titoli e uno di immobiliare». Leggendo il bilancio (mai pubblicato) dell’Apsa, l’ente che amministra il patrimonio della sede apostolica, insieme ad alcune note confidenziali firmate dal neo-presidente dello Ior, Jean-Baptiste de Franssu, «si capisce che parte importante del tesoro è nascosto proprio all’Apsa, che a differenza dello Ior non ha mai reso noti i suoi conti». Dopo che uno dei suoi contabili, monsignor Nunzio Scarano, è stato arrestato per riciclaggio, corruzione e truffa, Papa Bergoglio ha deciso di mettere il naso anche lì.“L’Espresso” ha trovato anche spese e ricavi di decine di enti pubblicati nel 2013: dalla Segreteria di Stato alle nunziature estere, passando per Radio Vaticana e il Governatorato. E’ evidente, scrive Emiliano Fittipaldi in un reportage ripreso da “Micromega”, che «le spese della curia (case, segretari, viaggi, sicurezza, rappresentanza) sono ancora senza controllo». A Place Vendôme, nel centro di Parigi, una società francese controllata dall’Apsa possiede alcuni tra i più prestigiosi immobili della zona. «La Sopridex Sa ha avuto inquilini famosi (come François Mitterrand) e oggi ha attività iscritte a bilancio che arrivano a 46,8 milioni di euro». Tra i dipendenti, anche «la bellezza di 16 portieri». Ma l’Apsa, continua “L’Espresso”, controlla anche 10 società svizzere, «tra cui la misteriosa Diversa Sa, l’Immobiliere Sur Collonge e l’Immobiliere Florimont». Società che, insieme alla Profima Sa, «gestiscono proprietà e terreni nella confederazione elvetica e in mezza Europa». Tutte insieme «valgono 18 milioni».«Va ricordato che storicamente il bilancio dell’Apsa sottostima, per questioni fiscali, i valori dei palazzi di sua proprietà», spiega a Fittipaldi una qualificata fonte dell’istituto che ha sede nel Palazzo Apostolico. «Inoltre quelle svizzere sono società non consolidate: in pancia potrebbero avere molto più di quanto dichiarato». La Profima è stata aperta a Losanna nel 1926 e fu utilizzata da Pio XI per nascondere all’estero parte dei “risarcimenti” che la Chiesa ottenne grazie ai Patti Lateranensi stipulati con il regime fascista, mentre la holding Diversa «è praticamente sconosciuta». Fondata a Lugano nell’agosto del 1942, mentre si combatteva da Stalingrado ad El Alamein, risulta oggi presieduta da Gilles Crettol, «un avvocato svizzero che gestisce gli interessi del Papa oltralpe: il suo nome spunta in quasi tutte le altre società elvetiche». Fino a qualche tempo fa, il referente italiano era invece Paolo Mennini, ma gli uomini di Papa Francesco hanno deciso di farlo fuori: da qualche settimana, al suo posto, nei Cda delle società svizzere è comparso Franco Dalla Sega, presidente della bazoliana Mittel e «manager di fiducia del nuovo boss delle finanze vaticane, il cardinale George Pell».Il Vaticano, ricorda “L’Espresso”, possiede società immobiliari anche in Inghilterra: la British Grolux Investments Ltd, fondata nel 1933, «gestisce oggi a Londra attività per la bellezza di 38,8 milioni di euro inclusi negozi di lusso in New Bond Street». Quanto all’Italia, «oltre allo sterminato forziere di Propaganda Fide, ribattezzata Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli (ha un patrimonio stimato, al netto della crisi immobiliare, di circa 7 miliardi), l’Apsa controlla pure le società Sirea e Leonina, che a bilancio valgono oltre 16 milioni». Tra affitti a privati e locazioni commerciali, tutte le sigle che fanno capo all’Apsa hanno ricavato nel 2011 circa 23,5 milioni di euro. «Il bilancio finale dell’Apsa è impressionante», rileva Fittipaldi. «Case e appartamenti sparsi in Europa nel 2013 hanno toccato il valore complessivo di 342 milioni», mentre quello del portafoglio investimenti in euro ha superato quota 475 milioni, «cui bisogna aggiungere titoli per 137 milioni di dollari, 33 milioni di sterline e 17 milioni di franchi svizzeri».Un “tesoro” che vale complessivamente più di un miliardo, e che oggi gestiscono in tre: il super-consulente Dalla Sega e i due monsignori a capo dell’Apsa, il presidente Domenico Calcagno e il segretario Luigi Mistò. «Se gli immobili dell’Apsa valgono più di quanto riportato in bilancio, anche sull’oro ci sono molte cose che non tornano», aggiunge la fonde de “LEspresso”. Leggendo i dati riservati del 2013, scrive Fittipaldi, si scopre che l’Apsa detiene metalli preziosi per 30,8 milioni di euro, e «alcune stime interne della segreteria di Stato, da prendere con le molle, parlano di un controvalore di 140 miliardi di euro, il doppio di quanto conservato dalla Banca d’Italia». Qualcuno, però, sospetta che parte importante delle riserve auree del Vaticano sia conservata nei forzieri svizzeri e inglesi. «La stima mi sembra eccessiva – chiosa il dirigente Apsa – anche perché parte cospicua del nostro metallo giallo è stato venduto tra gli anni ‘90 e l’inzio del nuovo secolo dal cardinale venezuelano Rosalio Castillo Lara, ex presidente dell’amministrazione».Oltre all’oro dell’Apsa, il Vaticano controlla anche il patrimonio dello Ior, valutato 6 miliardi di euro. «Non stupisce che sul gruzzolo, dopo l’arrivo del nuovo pontefice, si sia scatenata una battaglia (l’ennesima) per la gestione. Francesco ha innanzitutto spazzato via gli uomini di Tarcisio Bertone che dal 2007 guidavano lo Ior e, attraverso Calcagno, la cassaforte dell’Apsa. Troppi gli scandali della decadente “lobby italiana”: a parte le scorribande di Scarano e le vicende di Bertone (i casi Carige e Lux Vide promettono sviluppi), le inchieste per riciclaggio hanno fatto saltare il direttore dello Ior Paolo Cipriani, il suo vice Massimo Tulli e il tesoriere della banca, mentre presto la prefettura degli Affari economici guidata da Giuseppe Versaldi, amico intimo di Bertone, potrebbe essere soppressa». Per ricostruire un sistema più trasparente, continua “L’Espresso”, Bergoglio ha poi chiamato dall’Australia il cardinale George Pell e lo ha nominato capo di un nuovo dicastero, la Segreteria dell’Economia. Una sorta di super-ministero che controllerà, di fatto, tutti gli enti finanziari dentro le Mura Leonine.Noto al Papa per le sue doti di economo, dopo aver gestito con buoni risultati una grande diocesi come quella di Sidney, il cardinale Pelle è soprattutto un uomo di comando. Ha subito silurato il presidente dello Ior, Ernst von Freyberg, rottamando le vecchie strutture di governance e accentrando nei suoi uffici i poteri esecutivi: la segreteria di Stato è stata ridimensionata (il successore di Bertone, Pietro Parolin, si occuperà prevalentemente di diplomazia), mentre lo Ior e l’Apsa sono stati commissariati. In Vaticano c’è chi teme ambizioni dell’australiano: «Se Parolin ha sotterrato l’ascia di guerra solo perché Francesco lo ha ammesso nel C9, il gruppo ristretto di cardinali che devono aiutarlo nella guida della Chiesa, il presidente del Governatorato Giuseppe Bertello sta tentando in tutti i modi di bloccarne l’ascesa». Tra i nuovi potenti, però, a «limitare il raggio d’azione di Pell» ci hanno priovato, «per ora senza successo», solo Oscar Rodriguez Maradiaga, arcivescovo di Tegucigalpa e coordinatore del C9, e il cardinale Santos Abril y Castelló, presidente della commissione cardinalizia dello Ior.In Australia, i cattolici progressisti rimproverano al prelato di Sydney le posizioni ultra-conservatrici e le sparate pubbliche sull’Islam («religione guerresca», piena di «invocazioni alla violenza»). Inoltre, Pell fu scagionato nel 2002 dall’accusa di aver abusato di un ragazzino di 12 anni, mentre nel 2008 un’altra presunta vittima di abusi lo aveva incolpato di aver “coperto” un sacerdote pedofilo. «Lo scorso marzo, infine, il cardinale è stato chiamato a testimoniare di fronte alla Commissione nazionale d’inchiesta sugli abusi contro i minori istituita dal governo di Canberra, in merito a una causa che un altro ex chierichetto, John Ellis, aveva fatto alla Chiesa e allo stesso Pell in seguito a violenze sessuali avvenute tra il 1974 e il 1979». Pell ha chiesto scusa, continua “L’Espresso”, ma in molti sono restati sconcertati per la sua promozione decisa da Bergoglio. «Nella giungla vaticana – aggiunge Fittipaldi – il ranger venuto da Sydney non si muove da solo. Il capo segue i consigli di tre fidati consiglieri: il neo presidente dello Ior, Jean-Baptiste de Franssu, il tycoon maltese Joseph Zahra (entrambi membri del Consiglio dell’Economia, l’altro neonato ufficio economico guidato da Reinhard Marx), e l’amico Danny Casay, manager che ha gestito con lui la diocesi di Sydney».Gli sconfitti, i vecchi cardinali di curia, li chiamano “la banda dei maltesi”, adombrando il pericolo di conflitti d’interessi: l’unico membro italiano chiamato a far parte del Consiglio dell’Economia, Francesco Vermiglio, ha fondato con l’amico Zahra (patron del colosso finanziario Misco Malta) la Misco Advisory Ltd, «una joint venture per invogliare i nostri connazionali a investire nell’isola, fino a pochi anni fa vero paradiso fiscale». A marzo 2014, inoltre, il figlio di de Franssu, Luis Victor, è stato assunto dalla Promontory, società Usa che da un anno sta spulciando i conti dello Ior. «Ma il numero uno dello Ior pare abbia buoni rapporti anche con alcuni giovani consulenti della McKinsey che hanno lavorato sui bilanci dell’Apsa. Tra loro c’era pure Filippo Sciorilli Borrelli. Classe 1981, è un figlio d’arte: suo padre Ivo è infatti tra gli azionisti di maggioranza di Banca Arner, l’istituto svizzero che ha tra i suoi (pochi) correntisti Silvio Berlusconi». Non c’è nessuna lobby maltese, ha ribattuto Pell, indignato. Tuttavia, ribatte “L’Espresso”, proprio i finanzieri de Franssu e Zahra – titolari di società di investimento – avevano ideato i nuovi assetti del business vaticano, secondo un modello «che rispecchia in gran parte quello annunciato da Pell», ovvero: potere assoluto della Segreteria dell’Economia, Apsa trasformata in Banca centrale e nascita di un nuovo Vatican Asset Management (Vam) per gestire titoli e obbligazioni.Nelle mire di Pell, aggiunge Fittipaldi, c’è anche un altro patrimonio della Santa Sede: i musei vaticani, tra i più visitati e redditizi al mondo: nel 2011 l’utile netto è stato di 58,7 milioni, e gli incassi (tra biglietti e merchandising) superiori a 91 milioni. Per contro, le spese 2013 della Curia romana ammontano a 77,9 milioni, e l’Apsa ha chiuso il suo bilancio in perdita di 48,4 milioni. «Se l’Obolo di San Pietro grazie alla beneficenza dei fedeli nel 2013 ha portato nelle casse 78 milioni, la mitica Radio Vaticana ha perso, secondo un report interno pubblicato nel 2013 e riferito al 2011, ben 26,6 milioni», scrive Fittipaldi. «Anche la tipografia che stampa “L’Osservatore romano” ha chiuso i conti a meno 5,5 milioni». Un salasso, a cui aggiungere il deficit delle 170 nunziature all’estero (meno 25,1 milioni) e i 5,8 milioni che servono a pagare le 110 guardie svizzere. «Chissà, infine, se la spending review minacciata da Pell peserà anche sulle messe di papa Francesco: nel 2011 l’Ufficio celebrazioni liturgiche ha speso per Ratzinger 1,1 milioni. Viste le dimensioni del tesoro di Dio, si tratta poco più di una mancia».Lingotti e monete d’oro, banconote di ogni valuta, proprietà immobiliari sterminate: ricchezza accumulata nei secoli da preti, vescovi e cardinali, fino ad assumere proporzioni bibliche. Spulciando una relazione segreta della Cosea, la dissolta Commissione referente sull’organizzazione della struttura economica del Vaticano, “L’Espresso” scopre ad esempio che «le varie istituzioni vaticane gestiscono i propri asset e quelli di terzi a un valore dichiarato di 9-10 miliardi di euro, di cui 8-9 miliardi in titoli e uno di immobiliare». Leggendo il bilancio (mai pubblicato) dell’Apsa, l’ente che amministra il patrimonio della sede apostolica, insieme ad alcune note confidenziali firmate dal neo-presidente dello Ior, Jean-Baptiste de Franssu, «si capisce che parte importante del tesoro è nascosto proprio all’Apsa, che a differenza dello Ior non ha mai reso noti i suoi conti». Dopo che uno dei suoi contabili, monsignor Nunzio Scarano, è stato arrestato per riciclaggio, corruzione e truffa, Papa Bergoglio ha deciso di mettere il naso anche lì.
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Donbass: via i russi, a cannonate, per far posto alla Shell
Programmata a tavolino, la pulizia etnica nel Donbass, per sfrattare la popolazione e far posto agli 80-140.000 pozzi di estrazione del gas di scisto, “prenotati” già nel gennaio 2013 dalla Shell grazie all’accordo firmato con l’allora presidente ucraino Viktor Yanukovich. Secondo Olga Četverikova, la Royal Dutch Shell sta semplicemente attendendo l’esecusione del programma – cioè la strage nell’Est Ucraina – per poter mettere le mani sul sottosuolo, per la precisione i ricchissimi giacimenti di Yuzosk, al confine delle regioni di Donetsk e Kharkov nella zona petrolifera del Dnepr-Donets. Questo il motivo per cui avanza spedita la pulizia contro russi e russofoni, cioè gli abitanti delle repubbliche di Donetsk e Lugansk, dove vengono rasi al suolo interi quartieri con missili Grad senza che nessuna autorità internazionale intervenga. Liberare il terreno per l’estrazione del gas di scisto: questo il vero motivo delle violentissime operazioni belliche scatenate dal regime golpista insediato dagli Usa nella capitale ucraina.Con la Shell, ricorda la Četverikova in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”, l’Ucraina ha firmato un contratto agevolato della durata di 50 anni, con obbligo di proroga. Oggi, la compagnia petrolifera che l’inizio dello sfruttamento del giacimento è previsto «dopo la de-escalation del conflitto e la stabilizzazione della situazione», cioè quando sarà stata sterminata o cacciata di casa a cannonate la popolazione che vive nell’area del giacimento. Un territorio immenso, che si espande su 7.886 chilometri quadrati, che comprende la città di Slavyansk (situata al centro del giacimento), Izyum, una grossa parte di Kramatorsk, così come centinaia di piccoli insediamenti: Krasnyj Liman, Seversk, Yasnogorka, Kamyševka. Sempre secondo l’accordo, «gli abitanti che risiedono su questo territorio, come da contratto, devono vendere la proprietà della loro terra». In caso di rifiuto, la terra «verrà loro tolta con la forza a favore di Shell». E tutte le spese della società per l’“appropriazione del territorio” verranno risarcite dallo Stato ucraino con il ricavato dell’estrazione del gas. Per questo, Kiev è tenuta a garantire il rispetto di tutte le clausole, imponendole alle autorità locali.Oltre alla Shell, a dividersi la torta ci sono la Eurogas Ucraina (di proprietà della britannica Mc Callan Oil & Gas, a sua volta acquistata dalla statunitense Euro Gas) e la Burisma Holdings, nella quale Hunter Biden, figlio del vicepresidente americano Joe Biden, è da poco diventato uno dei membri del consiglio direttivo. Vero obiettivo della “operazione antiterrorismo”, cioè la carneficina del Donbass, è «stabilire il pieno controllo delle regioni di Donetsk e Lugansk», scrive Olga Četverikova. Missione: «La totale “bonifica” della sua superficie totale per avviare, senza intoppi, il lavoro di estrazione dello “shale gas”: sul territorio, “ripulito” dalla popolazione, è prevista l’installazione di 80-140 mila pozzi)». Ciò significa «la distruzione della terra seminabile, la demolizione di impianti industriali, di edifici residenziali, di luoghi di culto, per il mantenimento delle infrastrutture del gas». Altra preda di guerra, le fertilissime “terre nere”, di cui l’Ucraina possiede il 27% del patrimonio mondiale: «In tempo di pace sarebbe difficile realizzare tutto ciò, ma la guerra copre tutto».Kiev punta dunque a «ottenere una brusca riduzione del numero della popolazione locale, e lasciare sul territorio dei giacimenti solo le persone necessarie per i lavori di estrazione del gas». I sindaci insediati dal governo golpista ucraino già promettono nuovi posti di lavoro, al posto del lavoro perso in seguito alla distruzione delle industrie. Per cui, «sopprimere la resistenza degli abitanti di Donetsk e Lugansk e ristabilire il controllo sul territorio» consentirà presto di «tagliar fuori la Russia da gran parte del mercato europeo del gas». Carte scoperte dall’autunno 2014: il segretario Nato, Rasmussen, il 20 giugno a Londra ha accusato Mosca di aver complottato per interrompere la produzione di gas di scisto, mentre già il 1° maggio al Congresso Usa è stato proposto un progetto di legge “prevenzione delle aggressioni dalla Russia – 2014”. «Proprio il desiderio di mantenere il controllo da parte delle grandi corporazioni transnazionali sui giacimenti petroliferi del Dnepr-Donets ha portato alla guerra contro il popolo di Donetsk e Lugansk, una guerra di sterminio», accusa la Četverikova.«Il massacro di civili e il clima di paura che costringe le persone a lasciare la loro patria per diventare profughi sono stati i principali strumenti per attuare gli interessi delle multinazionali, per le quali il potere installatosi a Kiev dopo il colpo di Stato è solo un abbellimento per coprire la grande pulizia etnica della popolazione russa e russofona del Donbass». In un drammatico video-messaggio diffuso il 4 luglio, il presidente della regione Donetsk, Igor Strelkov, è stato chiarissimo: «Se la Russia non otterrà un cessate il fuoco, o se non inizierà un’operazione di pace, Slavyansk con la sua popolazione di oltre 30.000 abitanti sarà distrutta in una settimana, al massimo due». Come da contratto con la Shell, nel silenzio totale dell’Europa e del resto del mondo.Programmata a tavolino, la pulizia etnica nel Donbass, per sfrattare la popolazione e far posto agli 80-140.000 pozzi di estrazione del gas di scisto, “prenotati” già nel gennaio 2013 dalla Shell grazie all’accordo firmato con l’allora presidente ucraino Viktor Yanukovich. Secondo Olga Četverikova, la Royal Dutch Shell sta semplicemente attendendo l’esecusione del programma – cioè la strage nell’Est Ucraina – per poter mettere le mani sul sottosuolo, per la precisione i ricchissimi giacimenti di Yuzosk, al confine delle regioni di Donetsk e Kharkov nella zona petrolifera del Dnepr-Donets. Questo il motivo per cui avanza spedita la pulizia contro russi e russofoni, cioè gli abitanti delle repubbliche di Donetsk e Lugansk, dove vengono rasi al suolo interi quartieri con missili Grad senza che nessuna autorità internazionale intervenga. Liberare il terreno per l’estrazione del gas di scisto: questo il vero motivo delle violentissime operazioni belliche scatenate dal regime golpista insediato dagli Usa nella capitale ucraina.
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Israele, il genocidio dell’acqua per sterminare i palestinesi
L’accesso all’acqua potabile è un presupposto essenziale per la sopravvivenza di ogni comunità, e i servizi igienico-sanitari sono altrettanto essenziali per la salute pubblica. Le leggi internazionali universalmente accettate, istituite per proteggere il diritto di accesso all’acqua potabile, sono sistematicamente violate dal governo israeliano nella Palestina occupata, accusa Elias Akleh: Israele «ha trasformato l’acqua in un’arma di genocidio lento e graduale». Cisgiordania e Gaza soffrono la sete, mentre le comunità rurali dipendono dalle magre forniture israeliane. Numeri: nelle principali città, un palestinese ha accesso ad appena 70 litri d’acqua al giorno, contro i 100 litri raccomandanti dall’Oms, l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Nelle campagne la dose scende ad appena 20-30 litri, mentre negli insediamenti israeliani verdeggiano parchi e giardini con piscine. «È stato stimato che il 44% dei bambini palestinesi nelle zone rurali soffrono di diarrea – la maggiore causa di morte dei bambini sotto i 5 anni nel mondo a causa della scarsa qualità dell’acqua e degli standard di igiene».Secondo l’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, mentre i coloni israeliani irrigano i loro frutteti consumando anche 400 litri d’acqua al giorno a persona, le comunità beduine devono cavarsela con 10-20 litri al giorno, acqua di cisterna a bassa qualità. «Consapevoli della disastrosa situazione dell’acqua nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza – scrive Akleh in un post ripreso da “Come Don Chisciotte” – i paesi donatori hanno sostenuto gli sforzi dell’Autorità Palestinese per sviluppare il settore idrico e igienico-sanitario, e hanno destinato fondi per la costruzione di bacini idrici, impianti di trattamento delle acque reflue, e per la riparazione e l’ampliamento delle reti idriche e fognarie». Sono strutture vitali per la popolazione, finanziate dall’Ewash, coalizione che raggruppa 30 Ong internazionali. Eppure, annota Akleh, «con la sua lunga storia di violazioni di molte leggi internazionali, grazie alla collaborazione della sua società idrica nazionale Mekorot e della società agro-industriale israeliana Mehadrin, il governo israeliano ha adottato politiche discriminatorie sistematiche, gravi e dannose, per ostacolare l’accesso all’acqua ai palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, combinato con l’imponente furto delle risorse idriche».Un rapporto dell’Onu rivela che le società Mekorot e Mehadrin minano gravemente l’accesso dei palestinesi all’acqua, in particolare nella valle del Giordano, pompando l’acqua dei pozzi e delle sorgenti d’acqua palestinesi verso le colonie illegali israeliane (insediamenti) in Cisgiordania. «L’acqua palestinese è stata rubata e convogliata in Israele a costo zero», poi una parte della “refurtiva” viene rivenduta alle città palestinesi: «In questo modo Israele sta rubando ai palestinesi sia la loro acqua che il loro denaro». Tel Aviv, continua Akleh, esercita un potere sottile: «Attraverso la lentezza della burocrazia, blocca la maggior parte delle licenze e i permessi per i nuovi impianti idrici in Cisgiordania, ponendo come condizione la reciproca approvazione da parte dei palestinesi dei progetti nelle colonie illegali, gli insediamenti: un accordo che l’Autorità Nazionale Palestinese rifiuta per paura di legittimare queste colonie». Così, l’Anp non è stata in grado di realizzare infrastrutture su larga scala per proteggere la popolazione: tra il ‘95 e il 2011, i palestinesi si sono visti approvare solo 4 progetti su 30 per le acque reflue e appena 3 pozzi agricoli sui 38 richiesti nel solo 2011.«A causa delle artificiose carenze di acqua imposte da Israele e della mancanza di impianti di trattamento delle acque reflue e delle reti fognarie, la maggioranza dei palestinesi ha dovuto ricorrere alla vecchia pratica di costruire pozzi d’acqua privati, pozzi neri e fosse settiche», racconta Akleh. «Nelle aree rurali i palestinesi dipendono dalle vasche di raccolta d’acqua piovana, dalle cisterne e dai serbatoi d’acqua. Ciò aumenta i timori per la salute pubblica e per i danni all’ambiente». Non è tutto. «Oltre ai tempi prolungati della burocrazia israeliana e al libero furto dell’acqua palestinese, il governo israeliano ha adottato ed attuato politiche e pratiche immorali e illegali, con l’obiettivo di distruggere le risorse idriche palestinesi e di contaminare i loro terreni agricoli per stimolare l’auto-evacuazione dei palestinesi da una zona ambita e la diffusione di una malattia mortale tra i loro bambini cagionevoli». Anche per questo, l’esercito israeliano «svolge ordinariamente quelli che vengono chiamati ordini di demolizione di cisterne comunali e pozzi d’acqua in terreni agricoli privati a causa di una presunta mancanza di autorizzazione». Molte di queste cisterne «sono vecchie di centinaia di anni, più vecchie dello stesso stato illegale di Israele», e includono «serbatoi di acqua trainati da animali e da trattori».Solo nel 2011 l’esercito israeliano ha demolito 89 strutture “Wash” in Cisgiordania, tra cui 21 pozzi, 34 cisterne e molti piccoli serbatoi rurali nella valle del Giordano. «Tale demolizione comprendeva anche la distruzione degli orti, delle stalle e delle baracche degli animali». Una devastazione che viola l’articolo 53 della Quarta Convenzione di Ginevra, che vieta la distruzione di proprietà privata o pubblica, ed è una chiara violazione del diritto all’acqua, tutelato dall’articolo 11 della Convenzione internazionale sui diritti economici, sociali e culturali. «Il governo israeliano – continua Akleh – utilizza questa negazione dell’accesso all’acqua per innescare gli spostamenti delle persone, soprattutto nelle zone che fanno parte del programma per l’espansione coloniale, in particolare per il fatto che queste comunità sono composte per lo più da agricoltori, che dipendono dall’acqua per il loro sostentamento. Di solito, l’interruzione della fornitura delle risorse idriche precede l’esproprio dei terreni per nuovi progetti coloniali».Il muro di separazione per l’apartheid israeliano, 700 chilometri in costruzione dal 2002, «è stato deliberatamente deviato attraverso la Cisgiordania per includere, nella parte israeliana, il ricco e fertile terreno agricolo palestinese con grandi falde acquifere sotterranee, in particolare all’interno delle provincie di Jenin, Qalqilya e Tulkarem». Il muro, continua Akleh, ha ulteriormente ridotto l’accesso dei palestinesi all’acqua e ha portato alla perdita di accesso a 49 pozzi e serbatoi ad uso agricolo e domestico. A Gaza invece si usano i raid aerei per bombardare le risorse idriche e gli impianti di trattamento dell’acqua, le strutture fognarie, e persino le cisterne agricole antecedenti all’istituzione dello Stato ebraico. «Dal 2005 le incursioni militari israeliane hanno intenzionalmente distrutto almeno 300 pozzi agricoli situati nella zona cuscinetto designata da Israele», devastando anche serbatoi d’acqua sui tetti e molti chilometri di tubazioni e reti d’irrigazione. Durante l’operazione “Piombo Fuso”, sono state rase al suolo strutture idriche per un valore di 6 milioni di dollari.«La situazione a Gaza è particolarmente terribile», sottolinea Akleh. «I palestinesi si basano interamente sulla falda acquifera quasi esaurita, contaminata da acqua salata e dalle acque reflue inquinate, la cui acqua è inadatta al consumo umano». Il brutale assedio imposto da Israele limita l’importazione di molti beni essenziali, tra cui il combustibile necessario per il funzionamento dell’unica centrale elettrica di Gaza. «Senza energia elettrica, gli impianti di trattamento delle acque reflue e le pompe d’acqua in buono stato non possono funzionare, con il conseguente inquinamento prodotto dalle acque reflue». Risultato: «Si stima che 89 milioni di litri di liquami scorrano ogni giorno nel Mar Mediterraneo ad aumentare il livello di nitrati in acqua, fino a sei volte superiore ai limiti dell’Oms di 50 milligrammi per litro. Questo contamina anche il pesce da cui molti palestinesi a Gaza dipendono come principale prodotto alimentare». Fino al 95% dell’acqua estratta dalla falda costiera di Gaza non è adatta al consumo umano. Molte famiglie ripiegano sull’acqua di cisterna, che però è contaminata dai batteri: per l’Onu, diarrea ed epatite virale sono le principali cause di morbosità nella popolazione dei rifugiati della Striscia di Gaza.Il danno peggiore alle risorse idriche palestinesi, ai loro terreni agricoli e all’ambiente, è causato dai coloni, gli estremisti religiosi ebraici armati fino ai denti, «guidati dalla loro religione di suprematismo razzista e senza ostacoli», e protetti dal tacito incoraggiamento del governo di Tel Aviv. «Occupano illegalmente e con la forza le cime delle colline dei terreni agricoli palestinesi, vi costruiscono le loro colonie illegali e iniziano ad attaccare le comunità palestinesi limitrofe». Veri e propri pogrom: attaccano le case palestinesi, incendiano i loro raccolti e le stalle degli animali, confiscano le sorgenti d’acqua. E poi «avvelenano i pozzi con sostanze chimiche, li inquinano con i pannolini sporchi, con le proprie feci o con i polli morti», giungendo a crivellare di colpi di serbatoi sui tetti, dopo averli rovesciati a terra. Colonizzatori fanatici: «Sono i maggiori produttori pro capite di acque reflue in Cisgiordania, e scaricano grandi quantità di acque reflue direttamente nell’ambiente, contaminando il terreno agricolo adiacente e i corsi d’acqua ad uso agricolo».Strategia: inquinare la campagna palestinese, scaricandovi le acque fognarie senza alcuna depurazione, per favorire la propagazione di malattie e sfrattare la popolazione. Secondo le Nazioni Unite, il problema è devastante da quando ai palestinesi sono state strappate le sorgenti: i coloni «hanno usato minacce, intimidazioni e recinzioni». Israele, riassume Elias Akleh, sta deliberamente violando tutte le leggi internazionali che ha sottoscritto: il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali (Icescr), il Patto internazionale sui diritti civili e politici (Iccpr), la Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale, la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia (Crc), la Convenzione Onu sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (Cedaw), la Quarta Convenzione di Ginevra e il suo protocollo aggiuntivo sulla protezione delle vittime dei conflitti armati, nonché molti dei regolamenti dell’Aja. Negare il diritto all’acqua «è considerato un crimine di genocidio», per il quale Israele «è molto famoso».L’accesso all’acqua potabile è un presupposto essenziale per la sopravvivenza di ogni comunità, e i servizi igienico-sanitari sono altrettanto essenziali per la salute pubblica. Le leggi internazionali universalmente accettate, istituite per proteggere il diritto di accesso all’acqua potabile, sono sistematicamente violate dal governo israeliano nella Palestina occupata, accusa Elias Akleh: Israele «ha trasformato l’acqua in un’arma di genocidio lento e graduale». Cisgiordania e Gaza soffrono la sete, mentre le comunità rurali dipendono dalle magre forniture israeliane. Numeri: nelle principali città, un palestinese ha accesso ad appena 70 litri d’acqua al giorno, contro i 100 litri raccomandanti dall’Oms, l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Nelle campagne la dose scende ad appena 20-30 litri, mentre negli insediamenti israeliani verdeggiano parchi e giardini con piscine. «È stato stimato che il 44% dei bambini palestinesi nelle zone rurali soffrono di diarrea – la maggiore causa di morte dei bambini sotto i 5 anni nel mondo a causa della scarsa qualità dell’acqua e degli standard di igiene».
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Farsi votare dalle proprie vittime: il capolavoro di Renzi
Le elezioni del 25 maggio sono state un mega-sondaggio sul rapporto che i cittadini d’Europa intrattengono con l’Unione Europea, lo Stato multinazionale in costruzione al di fuori di ogni loro possibile controllo: tutto infatti resta affidato alla concertazione intergovernativa, quindi dei paesi economicamente più forti, ma soprattutto alla pressione dei “mercati”. Il sondaggio, scrive Dante Barontini su “Contropiano”, ha mostrato un continente diviso in “nazioni”, preoccupato del futuro dipinto dai tecnocrati di Bruxelles e – per mancanza di alternative chiare – tentato dal semplice ritorno al nazionalismo. «Lo avevano in qualche modo dimostrato le campagne elettorali di tutti i partiti, in ogni paese, incentrate esclusivamente sui problemi e le dinamiche interne, anziché su quelle comunitarie. Gli unici paesi relativamente stabili sono la Germania, come ampiamente previsto, e l’Italia renziana (molto a sorpresa)». L’Europa non c’è come “spirito pubblico”: esiste solo una Unione Europea «arcigna custode di regole e conti che non tornano più».La retorica europeista degli spot istituzionali sulla libera circolazione delle persone (studenti, professionisti, imprese, turisti) dimenticava completamente i disastri materiali provocati sia dalla crisi. «Le preoccupazioni espresse immediatamente da Barroso (presidente uscente della Commissione) sono ben più realistiche dell’ottimismo di facciata sparso dai media mainstream italiani», scrive Barontini. «Con le politiche fin qui adottate, la “costruzione europea” è a rischio». Quella costruzione aveva due pilastri fondamentali, Francia e Germania. «La prima è in frantumi, avendo subito tutti gli svantaggi della costruzione comune; la seconda è relativamente stabile solo perché ha beneficiato in modo clamoroso della sua posizione “centrale” sul piano produttivo, manifatturiero, finanziario e monetario». Se a Berlino c’è solo qualche scricchiolio, il 7% dei centristi no-euro di Afd, Alternative fur Deutschland, dagli altri paesi – anche senza calcolare la evidente fuga transatlantica della Gran Bretagna – sono arrivati segnali univoci: così non si va avanti.Quasi ovunque, i governi in carica hanno pagato dazio alle misure di austerità «imposte a schiaffi, ricatti e manganellate in piazza». Le contromisure, da spacciare come “riforme” dei trattati europei, sono già in via di definizione. «È più che probabile un innalzamento di alcuni dei parametri di Maastricht (in primo luogo quel ridicolo 3% nel rapporto tra deficit e Pil)», aggiunge “Contropiano”, «ma intanto si è approvato un trucco statistico-contabile di immense proporzioni: da ottobre di quest’anno tra i fattori economici validi per il calcolo del Pil di un paese saranno compresi anche “attività economiche” come la prostituzione, lo spaccio di droga e il contrabbando». Una dose incredibile di droga “statistica”, dice Barontini, per un paese come l’Italia, dove queste voci sono stimate intorno al 27% del Pil (senza calcolare le ricadute da “indotto” su buona parte dell’economia sommersa). Truccati i conti, «resta il problema di far pagare le tasse alle varie mafie e ai “papponi”, ma basterà attingere alle legislazioni di altri paesi Ue per raccogliere qualche risultato “vendibile” al grande pubblico». L’alterazione contabile – che alleggerisce di colpo il rapporto deficit-Pil – è un “regalo” dell’Unione Europea che però a Bruxelles non costerà nulla, e serve ad evitare il costo (insostenibile) del “salvataggio” di paesi come l’Italia.Sul piano politico, da noi «è in corso un’operazione reazionaria assai più complessa, quasi da manuale». Il governo Renzi? «Era troppo recente per poter essere riconosciuto colpevole delle peggiorate condizioni di vita e lavoro». Così, «nonostante la sua perfetta continuità con i governi precedenti – sia “politici” che “tecnici” – ha giocato con spregiudicatezza la carta della “rottamazione” delle vecchie facce dell’establishment per mantenere al posto di comando esattamente gli stessi assetti di potere». Un’operazione di chirurgia estetica, continua Barontini, fondata su uno sforzo comunicativo eccezionale per dimensioni, intensità, capacità innovativa. «Sembra l’eterno ritorno del pessimo destino italiota: tutto deve cambiare perché tutto resti uguale». Una parte considerevole del blocco sociale ex berlusconiano «ha piantato le tende in campo renziano, dando dimensioni “eccezionali” a una vittoria giocata sullo stesso campo degli avversari più temuti, i grillini: stesso “tutti a casa”, stesso giovanilismo esteriore, stesse incompetenze messe davanti alle telecamere». Ma l’operazione-Renzi è stata gestita con «una regia ferrea, “rassicurante”, di potere e per il potere, con un progetto chiaro (le riforme anticostituzionali e la dissoluzione delle regole del mercato del lavoro, la blindatura della rappresentanza politica e sidacale)», mentre Grillo è apparso «ondivago e verboso», e così «ha conquistato meno cuori di quante menti è riuscito a inquietare», relegando nell’astensionismo molti ex supporter.Domanda: come mai, solo in Italia, il precipitare della crisi e l’esplosione del malessere non si traducono in una solenne bocciatura del governo e del regime Ue? Premesse: c’è da fare i conti con una struttura sociale opaca, incluso quel 27% di Pil-fantasma. Inoltre, «buona parte della popolazione mette ancora insieme redditi “spurii”, cioè provenienti da fonti diverse: case di proprietà, risparmio investito in titoli di Stato, lavoro nero che affianca quello ufficiale». C’è anche una notevole “flessibilità” comportamentale, che permette di adottare strategie di sopravvivenza articolate, dalla “riscoperta della coabitazione” all’utilizzo dei pensionati come ammortizzatore sociale familiare. «Di fatto – sottolinea Barontini – la crisi ha fin qui “asfaltato” in modo selettivo», colpendo soprattutto i percettori di un solo reddito. Persone che si sentono isolate, e faticano a coalizzarsi: «Una condizione che istiga al suicidio, più che alla lotta, mentre nella maggioranza della popolazione che stringe la cinghia prevale ancora un atteggiamento alla “io speriamo che me la cavo”, dove la riduzione delle entrate è affrontata con la contrazione dei consumi e l’erosione del “patrimonio”».Se così è, prosegue “Contropiano”, la stessa forza politica di Renzi è altamente volatile: «Regge sulla eventuale disponibilità tedesca ad allentare alcuni parametri e su questo fronte potrà farsi forte della debolezza francese (e spagnola). Si glorierà del miglioramento statistico dei conti truccati. Ma resta in balia di una crisi globale che non passa e che sta per celebrare l’ingresso nell’ottavo anno consecutivo». Di sicuro, il “nuovo” potere «andrà avanti come un treno inarrestabile, o almeno ci proverà: il “semestre europeo” a guida Renzi è da questo punto di vista sia un banco di prova sia un’assicurazione contro “nervosismi” interni al blocco dominante». Servirebbe un contro-semestre ispirato a un’opposizione radicale: «Un’epoca è definitivamente chiusa», conclude Barontini. «Siamo già in un contesto post-costituzionale e ben poco “democratico”». Per i movimenti sociali si avvicina la tolleranza zero, a meno che non sappiano – ora o mai più – costruire un’allenza capace di contrastare il disegno egemonico che si nasconde dietro la maschera di Renzi.Le elezioni del 25 maggio sono state un mega-sondaggio sul rapporto che i cittadini d’Europa intrattengono con l’Unione Europea, lo Stato multinazionale in costruzione al di fuori di ogni loro possibile controllo: tutto infatti resta affidato alla concertazione intergovernativa, quindi dei paesi economicamente più forti, ma soprattutto alla pressione dei “mercati”. Il sondaggio, scrive Dante Barontini su “Contropiano”, ha mostrato un continente diviso in “nazioni”, preoccupato del futuro dipinto dai tecnocrati di Bruxelles e – per mancanza di alternative chiare – tentato dal semplice ritorno al nazionalismo. «Lo avevano in qualche modo dimostrato le campagne elettorali di tutti i partiti, in ogni paese, incentrate esclusivamente sui problemi e le dinamiche interne, anziché su quelle comunitarie. Gli unici paesi relativamente stabili sono la Germania, come ampiamente previsto, e l’Italia renziana (molto a sorpresa)». L’Europa non c’è come “spirito pubblico”: esiste solo una Unione Europea «arcigna custode di regole e conti che non tornano più».
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Tanaticismo: questo regime produce morte. E ci odia
Non so perché continuiamo a chiamarlo capitalismo. È come se ci trovassimo di fronte a una sorta di fallimento o di blocco della funzione poetica del pensiero critico. Anche i suoi adepti non hanno problemi a non chiamarlo più capitalismo. I suoi critici, invece, sembrano essersi ridotti ad aggiungere degli aggettivi: postfordista, neoliberale, oppure il quanto mai ottimista e seducente “tardo” capitalismo. Un termine agrodolce, dal momento che il capitalismo sembra destinato a seppellirci tutti. Mi sono svegliato da un sogno con in testa l’idea che avrebbe più senso chiamare il capitalismo “tanaticismo” – da Thanatos, figlio di Nyx (notte) e Erbos (oscurità), gemello di Hypnos (sonno), come Omero ed Esiodo sembrano più o meno concordare. Ho provato con “tanatismo” su Twitter, e Jennifer Mills mi ha risposto: «Sì, ma penso che siamo di fronte a qualcosa di più entusiasticamente suicida. Tanaticismo?».Questa parola mi sembra pertinente. Tanaticismo, come fanati[ci]smo: una gioiosa ed entusiasta voglia di morire. L’assonanza con “thatcherismo” è di aiuto. Tanaticismo: un ordine sociale che subordina la produzione di valori d’uso ai valori di scambio, a tal punto che la produzione di valori di scambio minaccia di estinguere le condizioni di esistenza dei valori d’uso. Come definizione approssimativa potrebbe funzionare. Bill McKibben ha suggerito che gli esperti di clima dovrebbero andare in sciopero. Il Comitato Intergovernativo sul Cambiamento Climatico ha fatto recentemente uscire il suo report per il 2013. Il documento più o meno ricalca quello del 2012, ma con maggiori prove, maggiori dettagli e con peggiori previsioni. Tuttavia non sembra accadere nulla che possa fermare il tanaticismo. Perché fare uscire un altro report? Non è la scienza che ha fallito, ma la scienza politica. O forse l’economia politica.Nella stessa settimana, Bp ha fatto presente la sua intenzione di dare fondo alle riserve di carbone di cui detiene i diritti. Gran parte del valore di questa azienda, dopotutto, consiste nel valore di quei diritti. Non estrarre, succhiare o fratturare il carbone per ottenere benzina sarebbe un suicidio per l’azienda. Tuttavia trasformare il carbone in benzina per poi bruciarla, rilasciando il carbone nell’aria, mette seriamente a rischio il clima. Ma questo non conta nulla nella produzione di valori di scambio. Il valore di scambio srotola la sua logica intrinseca sino alla fine: l’estinzione di massa. La coda (il capitale) fa scodinzolare il cane (la Terra). Forse non è un caso che la privatizzazione dello spazio fa capolino all’orizzonte come opportunità di investimento proprio in questo momento in cui la Terra è un cane sotto il controllo del capitale.I nostri governanti stanno coscientemente contribuendo all’esaurimento della Terra. È per questo che stanno sognando di costruire degli hotel nello spazio. Non vogliono essere toccati dall’esaurimento della Terra e vogliamo continuare a sviluppare grandi progetti. In questo quadro è ovvio che agenzie come la Nsa spiino chiunque. I governanti sono coscienti di essere i nemici dell’intera specie a cui apparteniamo. Sono i traditori della nostra specie. Per questo vivono nel panico e nella paranoia. Immaginano che siamo tutti là fuori pronti a catturarli. Quindi lo Stato diventa un agente di sorveglianza collettiva e una forza armata in difesa della proprietà. Il ruolo dello Stato non è più quello di amministrare il biopotere. Lo Stato è sempre meno interessato al benessere delle popolazioni. La vita è una minaccia per il capitale ed è trattata come tale.Il ruolo dello Stato non è di amministrare il biopotere ma di amministrare il tanatopotere. Chi sono i primi a cui va negato il sostegno alla vita? Quali popolazioni dovrebbero marcire e scomparire per prime? Innanzitutto quelle che non possono essere usate come forza lavoro o come consumatori, e che hanno smesso di essere fisicamente e mentalmente adatte per servire nell’esercito. Molte di quelle popolazioni non hanno più il diritto di voto. A breve perderanno il diritto ad avere i buoni pasto e altre forme di supporto biopolitico. Solo chi vorrà e saprà difendersi dalla morte avrà il diritto alla vita. Questo per quanto riguarda il mondo sovra-sviluppato. Mentre nel resto del mondo centinaia di milioni di persone vivono attualmente in condizioni di pericolo dovute all’innalzamento del livello dei mari, alla desertificazione e ad altre gravi fratture metaboliche fra società e ambiente. Tutti lo sappiamo: quelle popolazioni sono trattate come dispensabili.Tutti sappiamo che le cose non possono continuare ad andare avanti così come sono. È semplicemente ovvio. A nessuno, però, piace pensarlo. Tutti amiamo le nostre distrazioni. Tutti ci facciamo adescare dal fascino del clic. Ma davvero: lo sappiamo tutti. E tuttavia c’è chi trae vantaggi dal mettersi a servizio della morte. Ogni accenno di scusa in favore del tanaticismo viene riempito da cascate di elogi. Da tempo non possiamo più contare sulla figura dell’intellettuale pubblico; siamo però pieni di pubblici idioti. Chiunque abbia una storia da raccontare o un’idea su come “cambiare le cose” può avere un po’ di attenzione mediatica, nella misura in cui riesce a distogliere l’attenzione dal tanaticismo – o meglio, a giustificarlo. Perfino il migliore dei pubblici idioti di quest’epoca, alla fine, si rivela per ciò che è, ossia un venditore di auto usate. Non è certo un gran periodo per le arti retoriche.È chiaro che l’università, per come la conosciamo, sparirà. Le scienze naturali, le scienze sociali e le discipline umanistiche, ciascuna nei propri modi, lottavano per accrescere i nostri saperi. Ma è molto difficile, a prescindere dalla disciplina, evitare di approdare alla conclusione che il regime oggi vigente sia il tanaticismo. Tutto ciò che le discipline tradizionali possono fare è focalizzarsi su qualche piccolo problema assai circoscritto, su qualche dettaglio, al fine di evitare il quadro generale. E questo non è più sufficiente. Tuttavia, quelle forme di produzione di conoscenza che si concentrano su questioni minori o sussidiarie sono ancora pericolose. Esse stanno iniziando a scoprire ovunque tracce di tanaticismo all’opera. Di conseguenza, l’università deve essere distrutta. Al suo posto, un’apoteosi di ogni forma di non-conoscenza.Stanno già emergendo tante nuove discipline, come le discipline inumane o le scienze antisociali: i loro oggetti di indagine non sono i problemi dell’umanità o delle società. Il loro oggetto è il tanaticismo: la sua descrizione, la sua giustificazione. È necessario identificarsi con (e celebrare) tutto ciò che si oppone alla vita. Un insieme di credenze così poco plausibile e disfunzionale necessita, per imporsi, di cancellare qualunque rivale. Tutto ciò è deprimente. Ma la depressione, d’altronde, è sussidiaria al tanaticismo. È previsto che tu sia depresso, ed è previsto che tu ritenga di esserlo per via di un tuo problema o di una tua carenza individuale. Il tuo brillante e illusorio mondo fantastico cade di colpo in mille pezzi, ed ecco che ti appare la nuda realtà tanatica – e tu pensi che sia per colpa tua. È colpa tua perché hai smesso di crederci. Vai da uno strizzacervelli. Prendi un po’ di psicofarmaci. Oppure fatti un po’ di shopping-terapia.Il tanaticismo cerca anche di assimilare coloro i quali sollevano dubbi su questo modo di governare, ma lo fanno attraverso una cosmesi della loro critica. Esso li trasforma in nuove iterazioni di produzione tanatica. «Comprati una macchina ecologica!», «Fa’ la raccolta differenziata! No, cazzo, falla bene! Separa quella merda!». Ancora una volta, come nel caso della depressione, tutto si riduce alle tue virtù e alla tua responsabilità personale. È colpa tua se il tanaticismo vuole distruggere il mondo. È colpa tua perché sei tu che consumi, ma d’altronde non hai scelta. «Anche le nostre civilizzazioni sanno di essere mortali», scrisse Paul Valéry nel 1919. In quegli anni, dopo la più feroce e inutile tra le guerre mai verificatesi, una considerazione del genere appariva in tutta la sua chiarezza. Ma noi abbiamo perso quella chiarezza. Quindi faccio una modesta proposta. Chiamiamo almeno le cose con il loro nome. Questa è l’era del tanaticismo: il modo di produzione della non-vita. Svegliatemi quando sarà finito.(McKenzie Wark, “Nascita del Tanaticismo”, da “Lavoro culturale” del 23 aprile 2014).Non so perché continuiamo a chiamarlo capitalismo. È come se ci trovassimo di fronte a una sorta di fallimento o di blocco della funzione poetica del pensiero critico. Anche i suoi adepti non hanno problemi a non chiamarlo più capitalismo. I suoi critici, invece, sembrano essersi ridotti ad aggiungere degli aggettivi: postfordista, neoliberale, oppure il quanto mai ottimista e seducente “tardo” capitalismo. Un termine agrodolce, dal momento che il capitalismo sembra destinato a seppellirci tutti. Mi sono svegliato da un sogno con in testa l’idea che avrebbe più senso chiamare il capitalismo “tanaticismo” – da Thanatos, figlio di Nyx (notte) e Erbos (oscurità), gemello di Hypnos (sonno), come Omero ed Esiodo sembrano più o meno concordare. Ho provato con “tanatismo” su Twitter, e Jennifer Mills mi ha risposto: «Sì, ma penso che siamo di fronte a qualcosa di più entusiasticamente suicida. Tanaticismo?».