Archivio del Tag ‘Refuseniks’
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Antisionismo e antisemitismo, per Salvini tutto fa brodo
Visto che in Europa sopravvive la vergogna strisciante dell’antisemitismo, la follia criminale che attribuisce responsabilità politiche agli ebrei in quanto tali, Matteo Salvini coglie la palla al balzo per confondere l’antisemitismo con le critiche agli eccessi del sionismo, l’ideologia che consente a una potenza nucleare (lo Stato di Israele) di perseguitare con ogni mezzo i palestinesi, destabilizzando il Medio Oriente da mezzo secolo. Il leader della Lega, scrive Amedeo La Mattina su “La Stampa”, «ha puntato su Gerusalemme da quando, lo scorso anno, è stato accolto dal premier israeliano Benjamin Netanyahu con tutti gli onori». In quell’occasione, l’ex ministro dell’interno «aveva sostenuto che la Città Santa dovrà essere la capitale di Israele, come ha sempre detto il presidente americano Donald Trump». Salvini lo ha ripetuto il 16 gennaio nella Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani, alla presenza della presidente del Senato Elisabetta Casellati, in un convegno sulle “nuove forme dell’antisemitismo”. La “Stampa” segnala «un costante riallineamento a Washington e un conseguente allontanamento da Mosca», da parte del leghista. Barra dritta su alcuni concetti, ripetuti come un mantra: «L’antisemitismo di certa destra tradizionalista e di certa sinistra è nostro nemico», dichiara Salvini. «Abbiamo il dovere di combattere chi dice che gli ebrei siano i nazisti di oggi: c’è chi lo pensa nel mondo islamico ma anche in certi mondi in Europa».Attenti alle parole: è noto che nessuno, sano di mente, dice o pensa che “gli ebrei” siano “i nazisti di oggi”. Semmai, l’accusa investe il governo israeliano, da decenni dominato dalla destra. E’ stato Netanyahu a compiere spaventosi abusi verso i palestinesi, come i bombardamenti su Gaza costati 1.400 morti tra la popolazione civile (e la coraggiosa protesta dei Refuseniks, i militari israeliani che esercitano l’obiezione di coscienza rifiutandosi di partecipare ad azioni che rischiano di provocare vittime tra i civili). Le cronache di questi anni sono gremite di proteste: a quelle degli arabi e degli occidentali si aggiungono quelle degli stessi ebrei, scandalizzati per la brutalità della violenza israeliana. L’olandese Henk Zanoli (che salvò ebrei dalle persecuzioni naziste) ha chiesto che il suo nome venisse rimosso dal sacrario dei Giusti di Israele, dove si commemorano gli eroi che misero in salvo innocenti durante la Seconda Guerra Mondiale. Il giovanissimo soldato Udi Segal ha preferito andare in carcere, pur di non partecipare alle operazioni militari di repressione contro la popolazione di Gaza. «Ho letto i libri di Ilan Pappe», ha spiegato Segal, alludendo al maggiore storico israeliano contemporaneo, ora costretto a insegnare lontano da Israele dopo aver ricordato che la “pulizia etnica” contro gli arabi in Palestina fu avviata ben prima dell’avvento di Hitler.A descrivere la radice violenta di una certa declinazione del sionismo – sostiene Paolo Barnard – bastano i diari di David Ben Gurion: se il sionismo originario era il sogno di Theodor Herzl (una patria ebraica in Palestina, capace di convivere con gli altri popoli della regione), Ben Gurion lo interpretò in modo anche brutale, non esistando a raccomandare di sterminare donne e bambini nei villaggi palestinesi. Solo più tardi l’immane catastrofe della Shoah spinse il mondo a concedere agli ebrei il loro Stato (accompagnato però dalla nascita di quello parallelo per i palestinesi: uno Stato mai nato, quest’ultimo, in seguito alle guerre che costrinsero il neonato Israele a difendersi dai paesi arabi, che non accettarono la costituzione dello Stato israeliano). La pace separata dell’Egitto con Tel Aviv costò la vita al presidente egiziano Anwar Sadat, assassinato da fondamentalisti islamici, mentre l’unico vero accordo strategico tra israeliani e palestinesi, a metà degli anni ‘90, fu sabotato dall’omicidio del primo ministro israeliano Yitzhak Rabin, ucciso da un estremista ultra-sionista. Da allora il conflitto non ha fatto che marcire, impugnato come eterno alibi per giustificare la reciproca ostilità arabo-israeliana, costringendo i palestinesi a pagare un prezzo smisurato. Bombe al fosforo bianco su Gaza, dopo che la Striscia è finita sotto il controllo degli islamisti di Hamas, e incentivo (senza più freni) alla politica degli insediamenti israeliani nei Territori Occupati in Cisgiordania.Recenti gli ultimi due atti, fortemente simbolici: Gerusalemme promossa come futura “capitale israeliana” con la benedizione di Trump, e la trasformazione costituzionale di Israele in “Stato ebraico”, a danno della popolazione non ebrea. Protesta un grande artista come Moni Ovadia, promotore in Occidente della cultura ebraica: «La propaganda più sleale continua ad accusare di antisemitismo chi, come me, si batte semplicemente contro la politica violenta e razzista del governo israeliano». Uno dei leader occidentali del movimento che contesta gli abusi del sionismo contemporaneo è l’inglese Roger Waters: il frontman dei Pink Floyd accusa apertamente Israele di “apartheid” ai danni dei palestinesi, e invita a boicottare i prodotti israeliani. Durissimi con Tel Aviv anche musicisti come Brian Eno e il jazzista ebreo Gilad Atzmon, secondo cui non sono in alcun modo giustificabili le vessazioni quotidiane e le violenze a cui il governo di Israele sottopone l’inerme popolazione palestinese. Con Israele non si scherza: durante l’Operazione Piombo Fuso, i devastanti bombardamenti su Gaza a cavallo tra 2008 e 2009, i Refuseniks furono costretti a ricorrere ad annunci a pagamento, sul quotidiano “Haaretz”, per informare i cittadini della loro protesta: non c’era posto per la voce dei militari dissidenti nella decantata democrazia di Israele, per decenni unico paese a non proporre nelle scuole “Se questo è un uomo” data la posizione di Primo Levi, estremamente critico rispetto al sionismo.Tutt’altra storia è invece quella delle cronache europee che, specie in paesi come la Francia, ripropongono l’abominio dell’antisemitismo, un sentimento che infetterebbe ancora alcuni strati dell’opinione pubblica. Nel convegno romano di Palazzo Giustiniani, a denunciarlo è Dore Gold, presidente del Jerusalem Center for Pubblic Affairs: la lordura antisemita riemerge «nel cuore dell’Occidente», e questo «fa capire che combattere l’antisemitismo significa combattere in difesa della nostra civilizzazione». Oltre al neonazismo fanatico, Gold accusa anche una certa sinistra, che nel difendere i palestinesi tollera l’estremismo islamista, che nega ancora a Israele il diritto di esistere. Ma è proprio lo Stato di Israele, ha precisato l’ambasciatore in Italia Eydar Dror, «la polizza assicurativa di tutti gli ebrei del mondo: grazie a esso – dice Dropr – possono andare a testa alta in tutto il mondo, e in caso di necessità tornare a casa». Per l’ambasciatore, l’antisemitismo è una cartina di tornasole: «Indica il declino della società e ne prevede il crollo». È in questa chiave, sottolinea la “Stampa”, che la presidente Casellati ha parlato della necessità di preservare «una società forte della propria identità, che ripudia l’intolleranza e il razzismo».Temi tornati di attualità, secondo la Casellati, anche a causa di una globalizzazione esasperata che tende a sacrificare le nostre tradizioni e radici culturali. «Ma sono temi che chiamano in ballo Salvini e un pezzo del suo elettorato che viene dalla destra anche estrema», scrive Amedeo La Mattina sulla “Stampa”. «Il leader leghista rifiuta accostamenti con CasaPound e Forza Nuova», e nega di alimentare intolleranza e razzismo. «Accuse assurde», precisa, aggiungendo che il contrasto all’immigrazione e la difesa dei confini non c’entrano nulla con l’intolleranza, il razzismo, la Shoah. Salvini si è detto dispiaciuto che «qualcuno non sia venuto» al convegno. Chiaro il rifermento alla senatrice a vita Liliana Segre, che non ha accettato di partecipare. «Lei ha tanto da insegnare, Carola Rackete no», ha scandito l’ex ministro. La “capitana” viene dunque presa a simbolo di quella sinistra “antisionista e antisemita” che inquieterebbe gli israeliani. Ma ad essere messa alla prova – scrive ancora La Mattina – sarà la sinistra di casa nostra: «Salvini chiede che presto il Parlamento voti sul documento dell’Ihra (International Holocaust Remembrance Alliance) che identifica l’antisemitismo oggi».Da Salvini, non una parola sugli abusi di Israele verso i palestinesi. Al contrario: per il leader della Lega, il vero problema è rappresentato da «una Ue che nega le radici giudaico-cristiane ed etichetta i prodotti israeliani, una Onu che nel 2018 dedica alla condanna di Israele 18 risoluzioni e neanche una a Iran e Turchia». Salvini fa l’ultra-israeliano, schierandosi con il blocco di potere che fa capo a Netanyahu, ignorando le posizioni critiche che emergono dalla stessa società israeliana. Quanto a Gerusalemme capitale, nell’antichissima “città santa” (per ebrei, arabi e cristiani) gli abitanti ultra-ortodossi del quartiere Mea Shearim condannano il sionismo, sostenendo che nemmeno la Bibbia autorizza in alcun modo l’esistenza di uno Stato ebraico. Ma si tratta di argomenti non abbordabili per il capo della Lega, abituato a tagliare tutto a fette grosse. Dopo aver suscitato imbarazzo anche tra i cattolici per l’ostentazione del crocifisso nei comizi politici, è stato l’unico politico europeo (insieme all’inglese Johnson) ad esultare pubblicamente per l’omicidio terroristico del generale Soleimani, eroe nazionale dell’Iran ed emblema di un paese di cui l’Italia resta, a quanto a pare, il primo partner economico. Assediato dalle indagini (tra cui quella sulla missione russa di Savoini), il leghista che ambisce a guidare l’Italia chiede aiuto all’asse Usa-Israele e confonde volutamente l’antisionismo con l’antisemitismo, dopo aver insultato 80 milioni di iraniani.Visto che in Europa sopravvive la vergogna strisciante dell’antisemitismo, la follia criminale che attribuisce responsabilità politiche agli ebrei in quanto tali, Matteo Salvini coglie la palla al balzo per confondere l’antisemitismo con le critiche agli eccessi del sionismo, l’ideologia che consente a una potenza nucleare (lo Stato di Israele) di perseguitare con ogni mezzo i palestinesi, destabilizzando il Medio Oriente da mezzo secolo. Il leader della Lega, scrive Amedeo La Mattina su “La Stampa“, «ha puntato su Gerusalemme da quando, lo scorso anno, è stato accolto dal premier israeliano Benjamin Netanyahu con tutti gli onori». In quell’occasione, l’ex ministro dell’interno «aveva sostenuto che la Città Santa dovrà essere la capitale di Israele, come ha sempre detto il presidente americano Donald Trump». Salvini lo ha ripetuto il 16 gennaio nella Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani, alla presenza della presidente del Senato Elisabetta Casellati, in un convegno sulle “nuove forme dell’antisemitismo”. La “Stampa” segnala «un costante riallineamento a Washington e un conseguente allontanamento da Mosca», da parte del leghista. Barra dritta su alcuni concetti, ripetuti come un mantra: «L’antisemitismo di certa destra tradizionalista e di certa sinistra è nostro nemico», dichiara Salvini. «Abbiamo il dovere di combattere chi dice che gli ebrei siano i nazisti di oggi: c’è chi lo pensa nel mondo islamico ma anche in certi mondi in Europa».
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Moni Ovadia: accuso Israele, infame chiamarmi antisemita
Chi critica la politica di Israele e in particolare le violazioni dei diritti umani dei palestinesi viene spesso tacciato di anti-semitismo. Come si può sfatare questa accusa? Innanzitutto denunciandola per quello che è: un’infamia, una bieca propaganda per tappare la bocca degli uomini liberi. Una viltà per impedire qualsiasi discorso sull’ingiustizia subita dal popolo palestinese e anche una forma di corto-circuito psicopatologico, di paranoia. E’ come se chi la formula vivesse nella Berlino del 1935 e non in un paese armato fino ai denti, dotato anche di armi nucleari e alleato non solo degli Stati Uniti, ma anche di fatto dell’Egitto, della Giordania e dell’Arabia Saudita. L’unico paese che fa quello che vuole e ignora le risoluzioni dell’Onu senza che la comunità internazionale muova un dito. Io stesso ho subito questa infamia. Siccome l’antisemitismo in Italia è un reato, ho sfidato i miei accusatori a trascinarmi in tribunale, così vedremo come stanno davvero le cose. Inoltre li ho invitati a farsi vedere da uno psichiatra per una lunga terapia. Come giudico la legge approvata un mese fa dal Parlamento israeliano, che dichiara Israele “Stato nazionale del popolo ebraico”? La considero una legge che istituisce “de iure” l’apartheid e il razzismo, che esisteva già “de facto”, ed esprime una logica e una mentalità colonialista. E’ una follia, quando il 20% della popolazione è arabo-palestinese e dunque Israele è già uno stato bi-nazionale.Non sto dicendo che tutti gli israeliani abbiano questa mentalità: ci sono quelli attanagliati dalla paura e preda del mito dell’accerchiamento, quelli che preferiscono non vedere la realtà e quelli che criticano questa politica e pagano le conseguenze del loro coraggio. Purtroppo questi ultimi sono una minoranza, ma nella storia sono state spesso le minoranze a redimere e salvare. La maggioranza ha il diritto di governare, ma non quello di avere ragione. Organizzazioni come “Combatants for Peace” riuniscono israeliani e palestinesi passati alla nonviolenza dopo aver partecipato ad azioni militari gli uni contro gli altri. La Marcia delle Madri ha coinvolto migliaia di donne ebree, musulmane e cristiane per esigere una soluzione nonviolenta del conflitto accettabile dalle due parti. Sono iniziative coraggiose e ammirevoli, portate avanti da persone che vengono boicottate dal governo e accusate di essere contro gli interessi di Israele. Vorrei citare anche i giovani obiettori di coscienza che preferiscono andare in carcere, piuttosto che servire come militari nei territori occupati, e associazioni per i diritti umani come B’Tselem.Due anni fa il suo direttore Hagai El-Ad ha auspicato “azioni immediate” contro gli insediamenti di Israele durante una sessione speciale del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sull’occupazione e ha denunciato «l’invisibile, burocratica violenza quotidiana» che i palestinesi subiscono «dalla culla alla tomba». Cosa possiamo fare, come europei e in particolare italiani, per contribuire a una soluzione pacifica del conflitto tra Israele e Palestina? La prima cosa è il lavoro culturale di cui parlavo prima: non smettere mai di ribadire che la denuncia delle ingiustizie e delle sopraffazioni subite dai palestinesi non c’entra niente con l’antisemitismo e la Shoà. In secondo luogo, fare pressione sui governi perché prendano posizione ed esigano il rispetto delle risoluzioni dell’Onu sempre violate da Israele. Terzo, appoggiare il movimento Bds, una campagna globale di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele, chiedendo all’Europa di sequestrare (in quanto illegali) le merci prodotte nei territori occupati e negli insediamenti dei coloni. Il messaggio è semplice, ma molto forte: “Non sono terre vostre, pertanto queste sono merci di contrabbando, fuorilegge, e noi non le vogliamo”.(Moni Ovadia, dichiarazioni rilasciate ad Anna Polo per l’intervista “Accusare di antisemitismo chi critica la politica di Israele è un’infamia”, pubblicata da “Pressenza” e ripresa da “Contropiano” il 9 settembre 2018).Chi critica la politica di Israele e in particolare le violazioni dei diritti umani dei palestinesi viene spesso tacciato di antisemitismo. Come si può sfatare questa accusa? Innanzitutto denunciandola per quello che è: un’infamia, una bieca propaganda per tappare la bocca degli uomini liberi. Una viltà per impedire qualsiasi discorso sull’ingiustizia subita dal popolo palestinese e anche una forma di corto-circuito psicopatologico, di paranoia. E’ come se chi la formula vivesse nella Berlino del 1935 e non in un paese armato fino ai denti, dotato anche di armi nucleari e alleato non solo degli Stati Uniti, ma anche di fatto dell’Egitto, della Giordania e dell’Arabia Saudita. L’unico paese che fa quello che vuole e ignora le risoluzioni dell’Onu senza che la comunità internazionale muova un dito. Io stesso ho subito questa infamia. Siccome l’antisemitismo in Italia è un reato, ho sfidato i miei accusatori a trascinarmi in tribunale, così vedremo come stanno davvero le cose. Inoltre li ho invitati a farsi vedere da uno psichiatra per una lunga terapia. Come giudico la legge approvata un mese fa dal Parlamento israeliano, che dichiara Israele “Stato nazionale del popolo ebraico”? La considero una legge che istituisce “de iure” l’apartheid e il razzismo, che esisteva già “de facto”, ed esprime una logica e una mentalità colonialista. E’ una follia, quando il 20% della popolazione è arabo-palestinese e dunque Israele è già uno stato bi-nazionale.
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La stampa vile e bugiarda sulla vergogna di Israele a Gaza
«Ho appena sentito il Gr2 della Rai chiedere ad un “esperto” dell’università privata Luiss il suo autorevole parere sulla strage di palestinesi. Costui ha spiegato che i palestinesi, soprattutto quelli legati ad Hamas, fanno troppi figli e poi li mandano al massacro alle frontiere di Israele che, magari con qualche eccesso, si difende. Questo schifo è ciò che gran parte di stampa e Tv italiane dicono sulla strage». Così Giorgio Cremaschi commenta, su “Contropiano”, l’ultima mattanza commessa da Israele contro la popolazione della Striscia di Gaza, insorta dopo il trasferimento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme, neo-proclamata capitale dello Stato ebraico: 55 dimostranti uccisi e centinaia di feriti, abbattuti dai cecchini dell’esercito. «Se un massacro di ben lunga inferiore a questo ci fosse stato in uno dei paesi che l’Occidente considera nemici dei diritti e della democrazia – scrive Cremaschi, già leader sindacale Fiom e ora vicino a “Potere al Popolo” – noi saremmo bombardati da titoli di giornali e servizi tv di condanna. Invece Israele per la nostra stampa ha licenza di uccidere. Se uccide quotidianamente senza troppo clamore, allora si censura. Se il sangue deborda e la strage è colossale allora si mistifica».Per la stampa italiana, che Cremaschi definisce «vile e bugiarda», la colpa di tutto è la rabbia dei palestinesi, «naturalmente senza altre spiegazioni che la loro naturale cattiveria, fomentata dai terroristi di Hamas». Un orrore filmato, fotografato: «I soldati vili e criminali che dal sicuro dei loro nascondigli con fucili di precisione assassinano i manifestanti, adulti e bambini, non sono terroristi, ma “tutori dell’ordine”. Le bombe d’artiglieria e degli aerei, i gas, sì i gas sulla popolazione civile sono “legittima difesa”. I volti sorridenti nel mare di sangue della famiglia Trump e di Netanyahu non fanno orrore, essi sono “diplomazia amica”». Inutile sperare che un po’ di giustizia affiori, dal racconto mediatico quotidiano: «Tutto viene falsato, distorto, coperto. La stampa italiana diventa complice degli assassini di Israele nel modo più disgustoso. E tacciono i difensori di regime dei diritti umani, i Saviano e compagnia, che qui si tappano bocca, occhi, orecchie». Era già accaduto con la carneficina di “Cast Lead”, l’Operazione Piombo Fuso scatenata da Israele a cavallo tra 2008 e 2009, con bombe al fosforo bianco (armi illegali di distruzione di massa) lanciata sulla popolazione di Gaza: 1400 morti, secondo l’Onu, e settimane di inaudito silenzio da parte dei media mainstream.«Tutto questo a me provoca il vomito», protesta Cremaschi. «Per questo mi tappo la bocca, lo faccio contro la vergogna della stampa italiana e dei suoi maestri di pensiero». E aggiunge: «Nessuno che abbia coperto o attenuato i crimini di Israele ha più ragione morale di parlare di diritti e democrazia. Falsi e ipocriti, vergognatevi». Una condanna senza appello: «Mi tappo un attimo la bocca davanti al vostro schifo, ma poi riprenderò ad urlare: abbasso l’apartheid assassino di Israele, viva la Resistenza del popolo di Palestina». Artisti internazionali come Brian Eno e Roger Waters dei Pink Floyd hanno lanciato rumorose campagne civili contro “l’apartheid” israeliano che discrimina i palestinesi, ma nemmeno le rockstar sono riuscite a perforare il muro di omertà che protegge i crimini del governo di Tel Aviv, denunciati anche dall’isolato eroismo del movimento dei Refuseniks, gli obiettori militari israeliani (soldati che preferiscono il carcere alle missioni di bombardamento contro i quartieri della Striscia). Non c’è speranza che i Refuseniks – ultimo caso eclatante, quello del ventenne Udi Segal – possano “bucare” il piccolo schermo italiano, dominato da telegiornali-camomilla e talkshow occupati militarmente (quelli sì) dai cantori della nientologia politica corrente, asservita al regime che assegna ai banchieri della Bce l’unica sovranità rimasta all’ex Europa dei popoli, quella che esisteva prima dell’Unione Europea.«Ho appena sentito il Gr2 della Rai chiedere ad un “esperto” dell’università privata Luiss il suo autorevole parere sulla strage di palestinesi. Costui ha spiegato che i palestinesi, soprattutto quelli legati ad Hamas, fanno troppi figli e poi li mandano al massacro alle frontiere di Israele che, magari con qualche eccesso, si difende. Questo schifo è ciò che gran parte di stampa e Tv italiane dicono sulla strage». Così Giorgio Cremaschi commenta, su “Contropiano”, l’ultima mattanza commessa da Israele contro la popolazione della Striscia di Gaza, insorta dopo il trasferimento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme, neo-proclamata capitale dello Stato ebraico: 55 dimostranti uccisi e centinaia di feriti, abbattuti dai cecchini dell’esercito. «Se un massacro di ben lunga inferiore a questo ci fosse stato in uno dei paesi che l’Occidente considera nemici dei diritti e della democrazia – scrive Cremaschi, già leader sindacale Fiom e ora vicino a “Potere al Popolo” – noi saremmo bombardati da titoli di giornali e servizi tv di condanna. Invece Israele per la nostra stampa ha licenza di uccidere. Se uccide quotidianamente senza troppo clamore, allora si censura. Se il sangue deborda e la strage è colossale allora si mistifica».
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L’Islanda: boicottiamo Israele, per l’Olocausto palestinese
Boicottare Israele, colpevole di genocidio contro i palestinesi. Per la prima volta in Europa, o meglio in tutto l’Occidente, la proposta è sul tavolo di un governo. Ed è appena stata approvata dalla capitale, Reykjavik, su iniziativa della consigliera comunale Björk Vilhelmsdóttir: bloccare l’importazione di tutti i prodotti israeliani (non soltanto i prodotti dei Territori Occupati, ma tutto ciò che proviene dallo Stato ebraico). «Cosa può spingere quest’isola remota, battuta dalle tempeste atlantiche e fisicamente lontana da tutto e tutti, a bandire i prodotti “made in Israel”?», si domanda Giulio Meotti sul “Foglio”. La risoluzione anti-israeliana, scrive, è stata proposta dall’Alleanza socialdemocratica, mentre il leader del Partito dell’Indipendenza, Halldór Halldórsson, ha votato contro, dicendo che «il libero scambio è il modo migliore per ottenere la pace». Durante la guerra a Gaza del 2011, il ministro dell’interno islandese, Ögmundur Jónasson, guidò una protesta di mille persone di fronte all’ambasciata americana a Reykjavik. I manifestanti si erano cosparsi di rosso sangue e il ministro accusò lo Stato ebraico di “olocausto del popolo palestinese”.Immediata (e scontata) la protesta di Tel Aviv, affidata al portavoce del ministero degli esteri, Emanuel Nachson: «Non c’è alcuna ragione o giustificazione per questo provvedimento a parte l’odio in se stesso, che si fa sentire sotto forma di appelli al boicottaggio contro Israele, lo Stato ebraico. Speriamo che qualcuno in Islanda si svegli e fermi questa cieca unilateralità rivolta contro l’unica democrazia del Medio Oriente». E mentre il Congresso ebraico valuta azioni legali contro l’Islanda, la Ong filo-israeliana “Standwithus” ha già lanciato il contro-boicottaggio dei prodotti islandesi. Dal canto suo, il ministro degli esteri islandese, Össur Skarphéinsson, ha annunciato di voler valutare con la massima attenzione la fine dei rapporti commerciali con Gerusalemme: se alla fine deciderà di non procedere, ha dichiarato, sarà soltanto perché l’Islanda intrattiene relazioni anche cone paesi non esattamente democratici, come il Sudan e la Corea del Nord.«Strano paese, l’Islanda», scrive Meotti sul “Foglio”. «Sembra un girone dantesco abitato da rari mufloni. Fatta da sterminati ghiacciai (il Vatnajokull è il più vasto d’Europa), vulcani e geyser, sorgenti minerali fredde e calde, laghi e cascate, deserti e verdi pianori». Un paese dove il termometro non scende mai oltre i cinque gradi sotto zero. «L’Islanda si pregia di essere “il popolo più pacifico d’Europa”. Sull’elenco del telefono, i nomi precedono i cognomi: e i primi sono più importanti, anche legalmente, dei secondi. Una società descritta come “giusta e felice”. Il tenore di vita è alto, senza ricchi né poveri, senza disoccupati, ed è accresciuto dal manto protettivo dello Stato assistenziale scandinavo». Durante la guerra fredda, aggiunge Meotti, si disse che dall’Islanda soffiava il “vento della pace”: era l’epoca degli incontri a Reykjavik fra Reagan e Gorbaciov sui missili. La proposta di boicottaggio contro Tel Aviv equipara dunque Israele a uno Stato-canaglia? «Oggi dall’isola nordeuropea spira un freddo vento antisemita», scrive il giornalista, che – come spesso accade del mainstream – definisce “antisemitismo”, cioè razzismo, l’anti-sionismo di chi non critica gli ebrei, ma la feroce politica del governo israeliano.Contro l’apartheid genocida di Israele, in realtà, si vanno schierando personalità influenti: la decisione di Reykjavik sembra rispondere al clamoroso appello per il boicottaggio lanciato dal leader dei Pink Floyd, Roger Waters. Nell’agosto 2014, dopo l’ultima strage di bambini a Gaza, l’eroe olandese Henk Zanoli, 91enne, è arrivato a restituire il massimo riconoscimento israeliano, quello di “Giusto tra le nazioni”, ottenuto per aver salvato un bambino ebreo durante la Shoah. In quei giorni, il giovane militare di leva Udi Segal preferì finire in carcere piuttosto che sparare sui civili di Gaza. E il più autorevole storico israeliano, Zeev Sternhell, insignito nel 2008 dal Premio Israele per le Scienze Politiche, massima onorihicenza culturale del paese, si è espresso senza mezzi termini: «L’apartheid contro i palestinesi deve finire, il mondo libero isoli Israele». Preso in parola, si direbbe, dall’attuale decisione delle autorità islandesi.Ma il potentissimo pregiudizio filo-sionista è duro a morire: «Si potrebbe suggerire ai pallidi e socialdemocratici islandesi di apporre anche una stella di Davide sulla merce», chiosa Meotti sul “Foglio”, evocando lo spettro più classico, quello del nazismo. Osservazione totalmente fuori luogo, come si evince dall’opera del caposcuola della storiografia israeliana contemporanea, il professor Ilan Pappe, che ha dovuto lasciare il paese dopo i suoi libri in cui spiega che proprio la spietata pulizia etnica, pianificata da Ben Gurion molto prima dell’orrore hitleriano, è il “peccato originale” di Israele, nascosto alla coscienza degli stessi israeliani: molti territori furono infatti strappati ai palestinesi attraverso lo sterminio sistematico della popolazione di interi villaggi, inclusi donne e bambini. Un bilancio di sangue, un abominio regolarmente rimosso. A lungo, in Israele, non è stato neppure diffuso nelle scuole “Se questo è un uomo”, il capolavoro di Primo Levi: com’è noto, lo scrittore non era tenero col regime sionista e denunciò con fermezza i crimini di Tel Aviv contro i profughi palestinesi, a partire dal massacro di Sabra e Chatila in Libano. A lungo, è rimasta isolata la voce dei “refuseniks”, i militari israeliani obiettori di coscienza. Oggi, la decisione di Reykyavik sembra premiare il loro coraggio.Boicottare Israele, colpevole di genocidio contro i palestinesi. Per la prima volta in Europa, o meglio in tutto l’Occidente, la proposta è sul tavolo di un governo. Ed è appena stata approvata dalla capitale, Reykjavik, su iniziativa della consigliera comunale Björk Vilhelmsdóttir: bloccare l’importazione di tutti i prodotti israeliani (non soltanto i prodotti dei Territori Occupati, ma tutto ciò che proviene dallo Stato ebraico). «Cosa può spingere quest’isola remota, battuta dalle tempeste atlantiche e fisicamente lontana da tutto e tutti, a bandire i prodotti “made in Israel”?», si domanda Giulio Meotti sul “Foglio”. La risoluzione anti-israeliana, scrive, è stata proposta dall’Alleanza socialdemocratica, mentre il leader del Partito dell’Indipendenza, Halldór Halldórsson, ha votato contro, dicendo che «il libero scambio è il modo migliore per ottenere la pace». Durante la guerra a Gaza del 2011, il ministro dell’interno islandese, Ögmundur Jónasson, guidò una protesta di mille persone di fronte all’ambasciata americana a Reykjavik. I manifestanti si erano cosparsi di rosso sangue e il ministro accusò lo Stato ebraico di “olocausto del popolo palestinese”.
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Zanoli: orrore Gaza, cancellatemi dai Giusti d’Israele
anoli, riferisce la Bbc, ha scritto all’ambasciata israeliana all’Aja affermando che il 20 luglio un F-16 israeliano ha distrutto la casa della sua pronipote a Gaza, uccidendo tutti coloro che si trovavano al suo interno. L’ambasciata israeliana non ha voluto rilasciare commenti. «Il gesto di Henk Zanoli è per me dolorosissimo – scrive Gad Lerner – ma non posso che definirlo nobile».Avvocato in pensione, Zanoli ha mosso aspre critiche all’operazione “Margine protettivo”, avvertendo che le «vergognose» azioni dell’esercito di Tel Aviv potrebbero portare a possibili condanne per «crimini di guerra» e «crimini contro l’umanità», racconta il “Fatto Quotidiano”. Zanoli ricorda inoltre di aver perso suo padre nel lager nazista di Mauthausen, dove fu internato nel 1941 per aver osato protestare contro l’occupazione militare dell’Olanda da parte di Hitler. L’uomo resistette alle atroci crudeltà del campo di sterminio fino al febbraio 1945, morendo poco prima della liberazione dei prigionieri superstiti. Zanoli e sua madre Johana avevano ricevuto il riconoscimento di “Giusto tra le nazioni” nel 2011 per avere salvato la vita a Elhanan Pinto, un piccolo ebreo tenuto al riparo dai nazisti nella loro abitazione di famiglia di Eemnes, vicino a Utrecht, tra il 1943 e il 1945.Poi, la storia della famiglia Zanoli è tornata a intrecciarsi con la Terrasanta: la pronipote di Zanoli, Angelique Eijpe, divenuta un diplomatico olandese, ha sposato l’economista palestinese Ismail Ziadah, nato in un campo profughi nel centro della Striscia. Durante gli ultimi bombardamenti israeliani, la coppia non si trovava a Gaza. Ma la madre di Ziadath, tre fratelli, una cognata e una nipotina di tre anni hanno perso la vita nei raid. Così, Zanoli ha chiesto la cancellazione del suo nome dal Giardino dello Yad Vashem, il memoriale di Gerusalemme che celebra la memoria di salvatori di ebrei, come l’Oskar Schindler protagomista del kolossal di Spielberg. Il piccolo salvato da Zanoli oggi vive in Israele – fu lui a segnalare allo Yad Vashem l’eroismo dei suoi salvatori olandesi – mentre i suoi genitori furono barbaramente sterminati in un lager, insieme ad altri milioni di ebrei europei.Come racconta il sito ufficiale del museo dell’Olocausto, nel 1943 Henk Zanoli, allora poco più che ventenne, da Emmes fece un rischiosissimo viaggio verso Amsterdam (guardie e controlli erano ovunque) per andare a prendere il bambino e accompagnarlo a casa. Intollerabile, quindi, il dolore per i parenti appena uccisi a Gaza. Per Gad Lerner, giornalista di fede ebraica, il drammatico gesto di Henk Zanoli «esplicita una lacerazione che viviamo in molti: l’Israele che c’è offusca l’eterno Israele che è in noi». Per Paolo Barnard, assai più critico con le autorità di Tel Avibv, il massacro di Gaza «infanga la memoria delle vittime di Auschwitz». Roger Waters, leader dei Pink Floyd, chiede di boicottare Israele denunciando l’apartheid che conduce ogni giorno contro i palestinesi. Zeev Sternhell, considerato il più autorevole storico israeliano, chiede addirittura che la comunità internazionale isoli il governo di Tel Aviv. Per il collega Ilan Pappe, secondo cui il “peccato originale” di Israele è proprio la “pulizia etnica” della Palestina, Israele è ormai «fuori dal mondo civile», vista la barbarie dei bombardamenti su Gaza. A cui si sono opposti 50 soldati “obiettori di coscienza”, tra cui il giovanissimo Udi Segal: meglio il carcere, piuttosto che uccidere innocenti.«E’ davvero terribile che oggi, quattro generazioni dopo, la nostra famiglia debba sopportare l’uccisione di altri suoi membri a Gaza. Uccisioni di cui è responsabile lo Stato di Israele. Per me, dunque, conservare questa medaglia sarebbe un insulto alla memoria della mia coraggiosa madre». Così Henk Zanoli, olandese, 91 anni, fino a ieri “Giusto tra le Nazioni” insieme alla madre Johana per aver salvato un bambino ebreo durante la Shoah, “restituisce” la massima onorificenza israeliana per protesta contro il genocidio dei palestinesi nella Striscia. E spiega, al quotidiano israeliano “Haaretz”: «Continuare a sentirmi orgoglioso dell’onore concessomi dallo Stato di Israele, in queste circostanze sarebbe un insulto». Zanoli, riferisce la Bbc, ha scritto all’ambasciata israeliana all’Aja affermando che il 20 luglio un F-16 israeliano ha distrutto la casa della sua pronipote a Gaza, uccidendo tutti coloro che si trovavano al suo interno. L’ambasciata israeliana non ha voluto rilasciare commenti. «Il gesto di Henk Zanoli è per me dolorosissimo – scrive Gad Lerner – ma non posso che definirlo nobile».
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Udi Segal, eroe: in galera, pur di non sparare su Gaza
«Fuoco sui civili di Gaza? Non in mio nome. Piuttosto, vado in prigione». E’ il destino che attende Udi Segal, 19 anni, soldato israeliano: sei mesi di carcere, per essersi rifiutato di partecipare all’ennesimo massacro contro i palestinesi. «Verrà un giorno in cui si riconoscerà che il vero eroe di questa guerra è stato il diciannovenne Udi Segal che, disertando per non colpire dei civili in una guerra ingiusta, ha salvato l’onore di Israele», sostiene Aldo Giannuli. «Tanto più importante, la scelta di Udi e degli altri come lui, di fronte al vergognoso e complice silenzio della cosiddetta comunità internazionale», rincara la dose Fabio Marcelli sul “Fatto Quotidiano”. «Comunità di ipocriti, bugiardi e mestatori che ha un esponente esemplare nel “nostro” Matteo Renzi e nella sua ministra degli esteri Mogherini, incapaci di articolare una proposta o protesta degna di questo nome di fronte alla strage degli innocenti che continua ad aver luogo a poche centinaia di chilometri dalle nostre coste».Lo stesso Marcelli racconta che, anni fa, ebbe occasion di incontrare a Tel Aviv alcuni “Refuseniks”, esponenti del movimento israeliano contro la guerra, molti dei quali militari. «Erano i tempi della seconda Intifada: altri massacri, tuttora impuniti, si erano svolti da poco a Jenin ed altrove». Aggiunge Marcelli: «Rimasi colpito davvero dalla tranquilla fermezza di quelle persone, degne esponenti di una cultura millenaria cui l’umanità deve moltissimo, degni continuatori dei ribelli che difesero con le armi la loro vita e la loro dignità nel ghetto di Varsavia contro gli assassini nazisti». Una cultura civile e una nobile storia «che oggi Netanyahu e altra gentaccia della sua risma, i veri antisemiti, rischiano di gettare per sempre in una pattumeria piena di sangue e di bugie». Costretti a vivere in una società ostile, i giovani obiettori israeliani, in un paese in cui «crescono a vista d’occhio le malepiante dell’odio razziale e del fascismo». Eppure, «coraggiosamente, continuano a chiedere il dialogo e una pace giusta, così come chiedono giustizia per tutte le vittime innocenti di questa guerra insensata».Udi Segal sarà rinchiuso per sei mesi nel carcere militare Prison Six. «Israele può continuare questa occupazione, “but not in my name”, non nel mio nome», dichiara a Gianni Rosini del “Fatto”. Se un sondaggio del “Jerusalem Post” rivela che l’86% dei cittadini israeliani si dichiara favorevole all’operazione “Protective Edge”, sul fronte opposto sono almeno 50 i soldati dell’Idf, l’Israel Defense Force, che hanno annunciato il loro rifiuto di partecipare all’operazione. «E migliaia di rappresentanti delle comunità ebraiche di tutto il mondo, guidate dal movimento di ebrei ortodossi antisionisti “Neturei Karta”, stanno manifestando nelle piazze contro l’attacco israeliano a Gaza». L’appoggio del paese alla politica di Netanyahu è ancora forte, ammette il giovane Segal, «ma ci sono molte persone che sono stanche di questa guerra: solo tra i miei coetanei, conosco almeno 120 o 130 ragazzi che hanno preso la mia stessa decisione».«Quando mi sono avvicinato all’età della leva obbligatoria – racconta Segal – ho iniziato a leggere, studiare e documentarmi sul conflitto tra Israele e Palestina. È più di un anno che mi informo sui giornali e studio la storia e ho deciso che non posso prendere parte a questa occupazione». In Terra Santa molte altre persone hanno deciso di fare obiezione di coscienza per protestare contro l’occupazione israeliana nella Striscia di Gaza e nella West Bank, rischiando il carcere come Udi Segal. «Non so ancora di preciso quanto rimarrò in cella – continua il ragazzo – anche se la pena prevista in questi casi è di circa 6 mesi. Non basterà questo a farmi cambiare idea in futuro». Gli altri 50 soldati obiettori la pensano come lui. Lo spiegano in una lettera al “Washington Post”: «Ci opponiamo all’esercito israeliano e alla legge sulla leva obbligatoria perché ripudiamo questa operazione militare».Gli israeliani, scrive Giannuli, sono già al massimo dei rapporti di forza nei confronti dei loro avversari, «a meno di non pensare davvero ad un genocidio, cosa che immaginiamo (e speriamo) ripugni la maggioranza della stessa opinione pubblica israeliana». A ben vedere, osserva lo storico dell’ateneo milanese, «lo Stato d’Israele esce indebolito da questa “brillante” operazione militare: persino gli Usa mostrano maggiore freddezza del passato e cresce il suo isolamento internazionale, l’opinione pubblica europea è disgustata mentre si risolleva una preoccupante ondata di antisemitismo», al punto che «la memoria del genocidio ebraico ne è sporcata e logorata», mentre nei paesi arabi «si ridestano gli umori più ostili a Israele rimettendo in discussione l’accettazione della sua esistenza. Vi sembrano costi politici da poco? E per aver ottenuto cosa? Questa offensiva ha comportato autentici crimini di guerra che non saranno perseguiti solo perché sul banco degli imputati ci vanno i vinti, e Israele non lo è».Domanda: quanto peserà l’obiezione di coscienza di alcune decine di militari, di fronte all’ennesima mattanza? Furono molti i soldati che, all’epoca, rifiutarono di combattere per Israele al confine con il Libano. Un “rifiuto selettivo” che poi si estese ai Territori Occupati. Il più famoso e nutrito gruppo di militari che hanno deciso di non combattere in Cisgordania e Gaza, ricorda ancora il “Fatto”, si chiama “Ometz LeSarev” o anche “Courage to Refuse”, coraggio di rifiutare. I 623 componenti del movimento dei “refuseniks”, formatosi nel 2002 e guidato da un ex generale dell’aviazione, si sono rifiutati di combattere nella Striscia di Gaza e in West Bank, ma hanno giurato di servire fedelmente il loro paese in qualsiasi altra operazione militare: per questo, nel 2004, il gruppo è stato candidato al Premio Nobel per la Pace.Tutto inutile, però, secondo Fabio Marcelli, fino a quando l’ipocrita Occidente continerà imperterrito «il traffico di armi e il sostegno, sia politico che militare, nei confronti del governo assassino» di Netanyahu, perfettamente consapevole che i tre studenti israeliani rapiti – casus belli dell’ultimo massacro – non erano finiti nelle mani di Hamas. I colpevoli siamo anche noi: il Tribunale Penale Internazionale rifiuta di tutelare i palestinesi. «A fronte di questa e altre vergognose manifestazioni di codardia e realpolitik», cioè subalternità al potere imperiale Usa, «occorre continuare la lotta per una giusta pace in Medio Oriente: lo dobbiamo alle mille e più vittime innocenti di Gaza, lo dobbiamo a Udi, ai giovani israeliani che rifiutano la guerra».«Fuoco sui civili di Gaza? Non in mio nome. Piuttosto, vado in prigione». E’ il destino che attende Udi Segal, 19 anni, soldato israeliano: sei mesi di carcere, per essersi rifiutato di partecipare all’ennesimo massacro contro i palestinesi. «Verrà un giorno in cui si riconoscerà che il vero eroe di questa guerra è stato il diciannovenne Udi Segal che, disertando per non colpire dei civili in una guerra ingiusta, ha salvato l’onore di Israele», sostiene Aldo Giannuli. «Tanto più importante, la scelta di Udi e degli altri come lui, di fronte al vergognoso e complice silenzio della cosiddetta comunità internazionale», rincara la dose Fabio Marcelli sul “Fatto Quotidiano”. «Comunità di ipocriti, bugiardi e mestatori che ha un esponente esemplare nel “nostro” Matteo Renzi e nella sua ministra degli esteri Mogherini, incapaci di articolare una proposta o protesta degna di questo nome di fronte alla strage degli innocenti che continua ad aver luogo a poche centinaia di chilometri dalle nostre coste».
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Gaza, strage per il gas: insulto alla memoria di Auschwitz
«Il “nazismo” sionista precede quello tedesco di 30 anni. Il sionismo è un’aberrazione dell’umanità. Israele è il più ignobile insulto esistente alla memoria di sei milioni di ebrei sterminati in Germania». Paolo Barnard, autore del saggio “Perché ci odiano” sul risentimento arabo contro il brutale colonialismo occidentale e sionista – condanna senza mezzi termini l’ennesima operazione di pulizia etnica che le truppe di Tel Aviv stanno conducendo a Gaza sparando nel mucchio e colpendo donne, vecchi e bambini. La musica è sempre la stessa: «Dobbiamo dire ai palestinesi dei territori occupati che non esiste soluzione per loro, continueranno a vivere come cani, e se vogliono possono andarsene», tagliò corto Moshe Dayan nel 1967. Se lo sfratto dei palestinesi prosegue anche oggi con tanta disumanità, aggiunge un osservatore internazionale come Pepe Escobar, dipende anche da un motivo contingente: il colossale giacimento di gas naturale davanti alla costa di Gaza, “la prigione a cielo aperto più grande del mondo”. Sangue in cambio di gas: i palestinesi devono preparasi a lasciare anche Gaza, perché «Israele vuole tutto», anche le loro risorse energetiche.Alla fine, scrive Escobar su “Rt” in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”, il premier “Bibi” Netanyahu «ha avuto la sua guerra nuova di zecca». L’Operazione Barriera Protettiva, «ovvero l’attuale pulizia etnica al rallentatore messa in atto a Gaza» dall’esercito israeliano, «è il sogno erotico del primo ministro» di Tel Aviv. Prezioso il pretesto del rapimento di tre studenti israeliani, dopo che l’Anp e Hamas avevano formato un governo unitario in Cisgiordania, mentre il segretario di Stato americano John Kerry «stava portando avanti un gioco ipocrita chiamato “tavolo di pace” tra Israele e Palestina», piano che «come previsto è fallito miseramente». Due palestinesi – non appartanenti ad Hamas – hanno rapito tre coloni adolescenti israeliani mentre facevano autostop di notte vicino a Hebron. «Uno degli autostoppisti in qualche modo è riuscito a chiamare il numero di emergenza della polizia israeliana con il cellulare», così «i rapitori hanno perso la testa e sparato immediatamente ai ragazzi, sbarazzandosi poi dei corpi». La testa in realtà l’hanno persa tutti gli israeliani, continua Escobar: per tre settimane l’esercito ha condotto feroci rastrellamenti, con decina di migliaia di soldati, mentre «i media si sono scatenati, immolando i palestinesi in una pira funeraria di stampo razzista».Ipotesi dietrologica: sono stati gli 007 israeliani a simulare un rapimento condotto da palestinesi, per poi incolpare Hamas e bombardare Gaza? Escobar smentisce: le prove, scrive, puntano alla tribù Qawasmeh della regione di Hebron, storicamente conosciuta come antagonista di Hamas e ostile verso i coloni israeliani. «C’è anche la possibilità che i rapitori volessero usare gli autostoppisti come merce di scambio per la restituzione di prigionieri palestinesi». Quello che conta è che Netanyahu e la sua intelligence, lo Shin Bet, «sapevano fin dall’inizio che i ragazzi erano morti – e chi era responsabile». Ma “Bibi”, semplicemente, «non poteva sorvolare sulla possibilità di sfruttare l’accaduto – durante le tre settimane di folle ricerca – come motivazione per perseguire Hamas nella Zona Ovest e a Gaza, un’operazione già pianificata da tempo». I numeri, aggiunge Escobar, non rendono giustizia all’orribile massacro: in un solo giorno 167 morti, per lo più civili, inceneriti da 30 missili israeliani e sepolti dalle macerie di 200 case distrutte, senza contare gli oltre mille feriti e 1.500 edifici lesionati.In Israele, ovviamente, nemmeno un morto. Un portavoce militare «si è macabramente vantato che Gaza – un campo di concentramento-baraccopoli de facto – stava venendo bombardata ogni 4 minuti e mezzo». Il messaggio: «Che “Bibi” la possa fare franca è tutto ciò che le strade arabe – e di tutto il sud del mondo – devono sapere circa il depositario delle navi da guerra e degli aerei statunitensi in Medio Oriente». Quello che invece pochi sanno, continua Escobar, è che 14 anni fa sono stati scoperti al largo della costa di Gaza 1,4 trilioni di piedi cubi di gas naturale, del valore di almeno 4 miliardi di dollari. Altra “dimenticanza”: durante l’ultima invasione israeliana di Gaza – l’Operazione Piombo Fuso – i giacimenti di gas palestinesi furono confiscati da Israele. Quella “operazione” era già una guerra energetica, come denunciò Nafeez Ahmed. «Bisogna guardare al tutto da fuori», avverte Escobar: «I 122 trilioni di piedi cubi di gas, più i potenziali 1,6 miliardi di barili di greggio del bacino del Levante sparsi nelle acque territoriali di Israele, Siria, Libano, Cipro e ovviamente Gaza: queste acque territoriali sono alacremente contese come quelle del Mar Cinese del Sud. Neanche a dirlo, Tel Aviv le vuole tutte».Per integrare il quadro, «Israele si sta preparando ad affrontare un crescente incubo di sicurezza energetica». E’ coinvolto nell’operazione persino Tony Blair, responsabile politico della falsificazione delle prove sulle “armi di distruzione di massa” di Saddam e ora insider strategico della Jp Morgan: l’ex premier britannico ha proposto di “sviluppare” lo sfruttamento dei giacimenti di gas di Gaza attraverso un accordo tra la British Gas e le autorità palestinesi, escludendo totalmente Hamas e la popolazione di Gaza. «Il modo in cui Gaza è mantenuta come un campo di concentramento, soggetto a violenze di massa ininterrotte, è già abbastanza rivoltante», continua Escobar. In più, «bisogna aggiungere la componente-chiave economica: in tutti i modi possibili a Gaza deve essere impedito di accedere ai giacimenti Marina-1 e Marina-2», i quali «verranno inghiottiti da Israele», che già controlla «tutte le risorse naturali palestinesi – acqua, terra ed energia». Ecco il “segreto” dell’Operazione Barriera Protettiva: «Senza schiacciare Hamas, che controlla Gaza, gli israeliani non potranno trivellare la costa». Per Israele, quindi, i palestinesi vanno sfrattati da Gaza.Secondo Michael Klare, «la nuova, ininterrotta e collettiva aggressione a Gaza è soprattutto una guerra energetica che versa sangue in cambio di gas». Tutto questo, naturalmente, può avvenire senza che il resto del mondo lo impedisca, anche grazie al consenso che il mainstream ha sempre assicurato al colonialismo israeliano, fingendo di non sapere che la fine della secolare convivenza pacifica tra ebrei e arabi in Palestina è stata imposta unilateralmente dai sionisti, decisi a ottenere l’esclusiva sulla Terra Santa anche a prezzo del bagno di sangue. La pulizia etnica, avviata tre decenni prima di Auschwitz, secondo il grande storico israeliano Ilan Pappe è “il peccato originale di Israele”, sempre sottaciuto dai media. E’ Paolo Barnard a ricordare le terribili parole contenute nelle memorie di David Ben Gurion, padre dello Stato ebraico: «C’è bisogno di una reazione brutale», scriveva Ben Gurion nel 1948. «Dobbiamo essere precisi su coloro che colpiamo. Se accusiamo una famiglia palestinese non c’è bisogno di distinguere fra colpevoli e innocenti. Dobbiamo fargli del male senza pietà, altrimenti non sarebbe un’azione efficace».«Gli inglesi – disse nel 2000 il futuro presidente israeliano Chaim Weizmann – ci hanno detto che in Palestina ci sono dei negri, gente di nessun valore». E’ un destino di sangue, deciso a tavolino e imposto al mondo, per il quale i palestinesi di Gaza sono ancora oggi dei “negri” senza diritti. E’ storia: il sionista Yossef Weitz, continua Barnard, aveva preparato una lista dettagliata dei villaggi palestinesi da distruggere, «coi nomi e cognomi di uomini, donne e bambini disarmati, e questo anni prima dei Protocolli di Wannsee compilati dai nazisti per sterminare gli ebrei in Europa». La coscienza israeliana viene mantenuta in letargo da una disinformazione martellante, nonostante la rivolta civile di molti israeliani che si oppongono al militarismo, intellettuali e pacificisti, studiosi, veterani dell’esercito come i “Refuseniks” che si rifiutano di partecipare a operazioni di sterminio della popolazione palestinese. Già nel 1948, un uomo come Aharon Ciszling, ministro del primo governo del neonato Stato di Israele, rifletteva amaramente: «Adesso anche gli ebrei si sono comportati (contro i palestinesi) come i nazisti, e tutta la mia anima ne è turbata». Oltre mezzo secolo dopo, la politica di Israele non è cambiata. Ora tocca a Gaza, che ha la “colpa” di essere affacciata su un mare di gas.«Il “nazismo” sionista precede quello tedesco di 30 anni. Il sionismo è un’aberrazione dell’umanità. Israele è il più ignobile insulto esistente alla memoria di sei milioni di ebrei sterminati in Germania». Paolo Barnard, autore del saggio “Perché ci odiano” sul risentimento arabo contro il brutale colonialismo occidentale e sionista, condanna senza mezzi termini l’ennesima operazione di pulizia etnica che le truppe di Tel Aviv stanno conducendo a Gaza sparando nel mucchio e colpendo donne, vecchi e bambini. La musica è sempre la stessa: «Dobbiamo dire ai palestinesi dei territori occupati che non esiste soluzione per loro, continueranno a vivere come cani, e se vogliono possono andarsene», tagliò corto Moshe Dayan nel 1967. Se lo sfratto dei palestinesi prosegue anche oggi con tanta disumanità, aggiunge un osservatore internazionale come Pepe Escobar, dipende anche da un motivo contingente: il colossale giacimento di gas naturale davanti alla costa di Gaza, “la prigione a cielo aperto più grande del mondo”. Sangue in cambio di gas: i palestinesi devono preparasi a lasciare anche Gaza, perché «Israele vuole tutto», anche le loro risorse energetiche.
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Io, israeliano, cedo il mio voto a un cittadino palestinese
Chi salva una vita, salva il mondo intero. L’antico adagio della cultura ebraica si riverbera nella decisione che, nel 2013, alla vigilia delle elezioni, hanno preso alcuni cittadini israeliani indignati per la condizione dei palestinesi, vessati dal governo di Tel Aviv che nega loro anche il diritto di voto. Come fare per non sentirsi “complici” di Netanyahu? Semplice: basta “cedere” il proprio voto a un cittadino palestinese che non può votare. «Caro Mohamed, tu come voteresti? Dimmelo, via Facebook, e lo farò io per te». L’hanno chiamata “ribellione elettorale”, come spiega Rossana Zena sul newsmagazine “Nena News”: «I cittadini israeliani rinunciano al loro voto alle prossime elezioni a favore di un qualsiasi palestinese che viva in Cisgiordania, a Gaza o a Gerusalemme Est, sotto l’occupazione israeliana».
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Israele, scuola di odio: oggi bimbi, domani killer in uniforme
Palestinesi? No, meglio: arabi. A meno che non ci sia di mezzo l’argomento principe: il terrorismo. Allora, come d’incanto, gli “arabi” che vivono tra Betlemme e Gaza diventano, magicamente, “palestinesi”. Per il resto, rimangono semplicemente “arabi”, magari a dorso di cammello, vestiti come Ali Babà. «Spregevoli, devianti e criminali, gente che non paga le tasse, che vive a spese dello Stato, che non vuole progredire». E’ quello che raccontano i libri di testo israeliani, che a partire dalla scuola elementare preparano i futuri soldati di leva a prendere a fucilate gli “arabi” dei Territori Occupati e magari qualche scomodo attivista loro amico, come l’americana Rachel Corrie o l’italiano Vittorio Arrigoni. Un’indecenza, alla quale ora si ribella una docente universitaria israeliana, Nurit Peled-Elhanan.
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Dossier choc: così Israele ha macellato bambini a Gaza
Come sterminare intere famiglie inermi, bambini compresi, massacrati a freddo. E’ il 7 gennaio 2009, il villaggio di Izbat Abd Rabbo viene circondato dai tank israeliani, nell’ambito dell’operazione Piombo Fuso contro la Striscia di Gaza. Dalle abitazioni, i palestinesi odono la voce di un megafono, che intima loro di abbandonare le case. Da una di queste, venti minuti dopo, escono in fila indiana un uomo, sua moglie, le loro tre figlie e la nonna. La famigliola sventola bandiere bianche. Le bambine non lo sanno, ma stanno per morire. Saranno macellate senza pietà dai soldati israeliani.
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L’Egitto ordina la pace tra le fazioni palestinesi
Il generale Omar Suleiman, braccio destro del presidente egiziano Mubarak e uomo forte dell’Egitto nello scacchiere mediorientale, ha imposto ai palestinesi un ultimatum: entro il 7 luglio, l’Anp di Abu Mazen (Cisgiordania) e Hamas, che controlla la Striscia di Gaza, dovranno raggiungere un accordo che ponga fine alla lotta fratricida tra palestinesi. La mossa dell’Egitto fa seguito al gelido incontro tra il presidente Usa, Barack Obama, e il premier israeliano Netanyahu. Come l’America, l’Egitto vuole uno Stato palestinese nei territori illegalmente occupati da Israele. Primo passo necessario, la fine della faida che oppone i laici eredi di Arafat e gli islamici di Hamas.
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Crimini di guerra a Gaza, i soldati israeliani ora confessano
«Sì, abbiamo sparato su donne e bambini. Perché le vite umane dei palestinesi di Gaza erano considerate molto meno importanti delle nostre». A squarciare il silenzio di Tel Aviv sulle atrocità commesse durante l’operazione “Piombo Fuso” sono ora i racconti dei soldati, reduci dal massacro della Striscia. «E’ a rischio la tenuta morale del nostro esercito», hanno confessato durante una testimonianza-choc all’accademia militare ”Yitzhak Rabin”