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Archivio del Tag ‘regole’

  • Moiso: spiegate a Salvini che gli inglesi perderanno la sanità

    Scritto il 14/12/19 • nella Categoria: idee • (0)

    Spiegate a Salvini che non c’è niente da festeggiare, a Londra: gli inglesi perderanno il loro welfare e tra dopo dovranno pagarla a caro prezzo, la sanità che Boris Johnson privatizzerà. Lo afferma Marco Moiso, vicepresidente del Movimento Roosevelt: che stupidaggine, pensare che la Brexit sia una rivolta popolare contro “l’Europa matrigna”. Secondo Moiso, gli inglesi cadranno dalla padella alla brace: dopo i diktat di Bruxelles, quelli – ancora peggiori, se possibile – dell’ultraliberismo, di cui proprio Johnson è il massimo campione britannico. Non ci credete? Male, perché è proprio lo scalpo della sanità pubblica che il simpatico Boris ha offerto, agli sponsor di Trump, da mettere sul piatto del prossimo patto commerciale anglo-americano per bilanciare l’uscita di Londra dal mercato comune europeo. Tradotto: le cure che oggi sono gratuite, domani costeranno un sacco di soldi, come negli Usa. Assicurazioni sanitarie: un business clamoroso. «La Brexit non è mai stata nient’altro che questo: un assalto del neoliberismo al welfare britannico, che è ricco e fa gola al business privato», dice Moiso. «E mi meraviglio che Salvini non se ne sia accorto: scrive “go, Boris”, sul Twitter, e non sa che a farne le spese saranno gli inglesi, a cominciare dai meno abbienti».
    Di professione pubblicitario, con un’azienda insediata proprio a Londra, Moiso prende le distanze dal leader della Lega: con la sua opposizione al Mes – dichiara, in un video-intervento su YouTube – Salvini ci aveva illuso di aver capito la lezione. E cioè: non può essere la tecnocrazia (che risponde ai mercati, non agli Stati e quindi agli elettori) a decidere l’assetto finanziario dei nostri paesi. «In quel modo finisce la democrazia e vince esattamente la post-democrazia instaurata dal neoliberismo». Brutta bestia: «Il pensiero neoliberale pretende di escludere e squalificare qualsiasi ideologia, spacciandosi per semplice teoria economica. Ma non è vero, perché il neoliberismo ha una natura squisitamente ideologica: è infatti l’unica ideologia rimasta al potere, e i suoi risultati disastrosi si vediamo ogni giorno. Il neoliberismo è la guerra dei pochi contro i molti». Non l’ha ancora capito, Salvini? Strano: i suoi economisti keynesiani (da Alberto Bagnai ad Antonio Maria Rinaldi) avrebbero dovuto spiegarglielo. Salvini esulta perché le elezioni inglesi le ha vinte Johnson, cioè “la destra”? «Ma questa è una regressione “tribale” della politica, di stampo calcistico: la verità è che nel Regno Unito ha perso il popolo, e presto se ne accorgerà».
    Per contro, va detto che – nel votare la Brexit – gli inglesi hanno manifestato una ferma volontà democratica: impossibile farsi “sgovernare” dai tecnocrati di Bruxelles, la cricca franco-tedesca che ha messo nei guai l’Italia e ridotto alla fame la Grecia. Tutto nacque dalla sfida perduta da Cameron: un referendum, per ottenere un mandato preciso. Ovvero: rinegoziare con Bruxelles le regole dell’Ue, per una governance meno autolesionistica. Contro le previsioni dell’allora premier, tre anni fa gli inglesi votarono invece per abbandonare l’Unione. E l’interregno di Theresa May è servito solo a esasperare gli animi. Johnson ha avuto buon gioco nel presentarsi come paladino del popolo e notaio dell’esito del referendum. Votandolo, gli inglesi hanno creduto di ribadire il “no all’Europa” del 2016. Il suo fragile avversario, Corbyn, non poteva seguire Johnson su quel terreno: 7 elettori laburisti su 10 erano contrari alla Brexit. E le ardite nazionalizzazioni promesse dal capo del Labour non sarebbero mai state convalidate da questa Ue. La scommessa, infatti, era: cambiare Bruxelles. Speranza sonoramente battuta, come già con Cameron. Con una differenza: ora, la Gran Bretagna si sgancerà davvero, da Bruxelles. E gli inglesi – secondo Moiso – constateranno, fuori tempo massimo, il clamoroso errore commesso nel votare Johnson.
    La posizione del Movimento Roosevelt sull’Europa è nota: sarebbe un suicidio rifugiarsi entro le piccole frontiere del sovranismo, avendo di fronte lo smisurato potere della finanza globalista, immensamente più forte dei singoli Stati. Di qui l’idea dell’Ue (non questa, ma i veri Stati Uniti d’Europa) come baluardo sociale e democratico contro lo strapotere del business privatizzatore. I precedenti non sono comunque lusinghieri: “L’Altra Europa” promessa da Tsipras s’è visto com’è finita, soprattutto per i greci. Dall’Europa attuale – Fiscal Compact, pareggio di bilancio, Mes, Eurozona senza eurobond, Commissione Ue non-eletta – gli inglesi scappano a gambe levate. Scopriranno che Boris Johnson si appresta a tradirli? Moiso ne è certo: «E’ palese, da parte dei conservatori, l’intenzione di privatizzare innanzitutto la sanità». Con i laburisti, il fronte democratico che sogna un’Europa diversa perde un alleato strategico. Restano i capetti come Macron, coi loro maggiordomi italiani (Conte, Gualteri, Gentiloni). Senza più gli inglesi, siamo comunque più deboli. Non lo capisce, Salvini? O davvero gli sta bene “Boris”, che svenderà il patrimonio sociale della nazione?

    Spiegate a Salvini che non c’è niente da festeggiare, a Londra: gli inglesi perderanno il loro welfare e tra poco dovranno pagarla a caro prezzo, la sanità che Boris Johnson privatizzerà. Lo afferma Marco Moiso, vicepresidente del Movimento Roosevelt: che stupidaggine, pensare che la Brexit sia una rivolta popolare contro “l’Europa matrigna”. Secondo Moiso, gli inglesi cadranno dalla padella alla brace: dopo i diktat di Bruxelles, quelli – ancora peggiori, se possibile – dell’ultraliberismo, di cui proprio Johnson è il massimo campione britannico. Non ci credete? Male, perché è proprio lo scalpo della sanità pubblica che il simpatico Boris ha offerto, agli sponsor di Trump, da mettere sul piatto del prossimo patto commerciale anglo-americano per bilanciare l’uscita di Londra dal mercato comune europeo. Tradotto: le cure che oggi sono gratuite, domani costeranno un sacco di soldi, come negli Usa. Assicurazioni sanitarie: un business clamoroso. «La Brexit non è mai stata nient’altro che questo: un assalto del neoliberismo al welfare britannico, che è ricco e fa gola al business privato», dice Moiso. «E mi meraviglio che Salvini non se ne sia accorto: scrive “go, Boris”, sul Twitter, e non sa che a farne le spese saranno gli inglesi, a cominciare dai meno abbienti».

  • Il Mes e i Miserabili: come siamo caduti in basso, e perché

    Scritto il 03/12/19 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Ma che razza di paese siamo? Si sprecano commenti sul look del conducente, mentre qualcuno ha manomesso i freni del pullman, e non da oggi. Ancora stiamo lì a disputare sulle briciole miserabili del Mes, anziché rovesciare finalmente il banco? E’ un tavolo truccato, dove i bari si giocano a dadi il futuro dei popoli, parlando abusivamente a loro nome. Un teatro dell’assurdo, questa Unione Europea spacciata per Europa. Il club ha reclutato tra le sue comparse anche Giuseppe Conte, l’ex avvocato del popolo gialloverde: ricondotto all’ovile sorvegliato da figuranti di lungo corso come Paolo Gentiloni e David Sassoli, uno commissario Ue e l’altro presidente del Parlamento Europeo. Esponenti dell’immortale Pd, premiati dopo aver perso le elezioni e messi lì per assicurare ai dormienti l’eterno riposo. Finito nella bufera, e subito smentito dall’Eurogruppo (il Mes è già stato approvato, dicono i tecnocrati), il povero Conte ha balbettato in aula la sua tiepida versione sull’ultimo trattato-capestro, vendendolo come ancora negoziabile, e comunque nient’affatto “segreto” nella sua gestazione. Falso, lo smentisce il leghista Claudio Borghi: la scorsa estate, rivela, il testo è stato visionato solo di sfuggita, a Palazzo Chigi, da tre parlamentari leghisti e un emissario del grillino Fraccaro.
    «Non firmiamo niente», conclusero, dopo aver solo potuto guardare da lontano quelle 40 pagine, scritte in inglese, senza la possibilità di fotocopiarle. Alla faccia della sovranità parlamentare. L’ha ripetuto, Borghi, nella diretta web-streaming su ByoBlu con Claudio Messora e Francesco Toscano, poche ore dopo l’infuocata assise delle Camere: la bozza di revisione del micidiale Mes, i cui funzionari si pongono al di sopra di qualsiasi legge, non punibili in nessun caso, ha seguito la stessa procedura clandestina del Ttip, il trattato-fantasma concepito per scavalcare i governi e lasciare alle multinazionali l’ultima parola sui contenziosi con gli Stati. Qui è ancora peggio, rincara Borghi: almeno, l’accesso formale al testo del Ttip (sempre in inglese, non fotografabile neppure con lo smartphone) era previsto dall’agenda. Invece, quei 40 fogli del Mes-2 sarebbero stati esibiti la scorsa estate solo per gentile concessione di Conte, in imbarazzo con i suoi azionisti di riferimento, Lega e 5 Stelle. Uno strappo alla regola: in base al rigido protocollo, le informazioni riservatissime sul rinnovato Meccanismo Europeo di Stabilità, in teoria, si sarebbero dovute limitare unicamente al premier, assistito d’ufficio dal solo ministro dell’economia (all’epoca, Giovanni Tria).
    Citato da Salvini nella sua requisitoria in aula contro Conte, l’esperto Guido Salerno Aletta, di “Milano Finanza”, conferma l’allarme già lanciato da Antonio Patuelli dell’Abi e, ancor più autorevolmente, dal governatore di Bankitalia, Ignazio Visco. E cioè: se l’Italia fosse costretta a ricorrere al Mes, il nuovo Fondo potrebbe chiedere in cambio pesantissime “condizionalità”, inclusa la “ristrutturazione” del debito. Tradotto: le banche, detentrici dei titoli di Stato, potrebbero attingere direttamente ai conti correnti degli italiani. In alternativa, il governo dovrebbe imporre una patrimoniale. Lo conferma, sempre a “ByoBlu”, un tecnocrate come Carlo Cottarelli: per l’Italia il rischio è serio, visto l’attuale sistema di finanziamento (titoli di Stato, con moneta non sovrana) e un debito che galleggia oltre il 130% del prodotto interno lordo. Il documento, infatti, prevede che tutto vada liscio solo per i paesi con un debito non superiore al 60% del Pil, in linea con la “teologia” di Maastricht. Problema: le regole del rigore, pensate trent’anni fa per un’Europa in crescita, si sono scontrate con la realtà della stagnazione, riuscendo solo ad aggravare la crisi e condannare intere economie. E oggi, nel 2019, ancora si insiste con una ricetta perversa e socialmente devastante, votata alla rovina generale?
    “Non venitemi a dire che non lo sapevate”, è la fragile autodifesa di Conte, che tenta di coinvolgere Salvini e Di Maio, entrambi vicepremier all’epoca dell’incubazione del Mes-2. Vero a metà, a quanto pare: da un lato, il capo della Lega e il portavoce dei 5 Stelle non hanno mai rigettato, a prescindere, la prospettiva dell’ex Fondo salva-Stati. Dall’altro, però, si erano riservati di analizzarlo in modo approfondito. Salvo scoprire, oggi, che il Mes avrebbe viaggiato in clandestinità: un piatto avvelenato, da servire ai Parlamenti solo a cose fatte. E qui, Conte traballa. Accusato frontalmente da Salvini e Giorgia Meloni, è isolato dalla freddezza di Di Maio: i 5 Stelle potrebbero ribellarsi e staccare la spina al governo, pur di bloccare il fondo “ammazza-Stati”? Se il Pd e i renziani fanno quadrato attorno all’attuale titolare dell’economia, cioè il tecnocrate Roberto Gualtieri (creatura di Buxelles), dalla sinistra si sfila “Liberi e Uguali”: per Stefano Fassina, già viceministro di Enrico Letta, l’Italia deve rispedire al mittente, rifiutandosi di approvarlo, questo pericoloso congegno a orologeria.
    Conte avrebbe già dato il suo ok, all’insaputa di tutti? Malissimo: proprio su questo sembra giocarsi la sopravvivenza del professor-avvocato a Palazzo Chigi, incalzato dalla Lega che si prepara alla mobilitazione popolare, a suon di firme, prima ancora di valutare una mozione di sfiducia, nel caso in cui una frangia dei 300 parlamentari grillini prendesse le distanze da quello che, sulla carta, si presenta come il più insidioso attentato alle tasche degli italiani. Mesi fa, un ex analista dell’intelligence come Fausto Carotenuto aveva confessato: «Temo il Conte-bis, la sua debolezza politica ne farà lo strumento perfetto per l’élite europea intenzionata a farci del male». Oggi, di fronte alla rissa parlamentare sull’ipotetico Fondo Monetario Europeo, un osservatore privilegiato come Gioele Magaldi, massone progressista e presidente del Movimento Roosevelt, allarga decisamente l’orizzonte: ma ci rendiamo conto, dice, di cosa stiamo parlando? Lo capiamo, per quale motivo siamo finiti così in basso? Vogliamo deciderci a vederlo, il problema? Alzi la mano chi sa spiegarsi, precisamente, per quale motivo la moneta (europea) è diventata qualcosa da mendicare, da prendere in prestito a caro prezzo, lasciando in pegno interi paesi (e ora, magari, anche il patrimonio di milioni di cittadini).
    Chiarisce l’economista Nino Galloni, che del Movimento Roosevelt è vicepresidente: ci rendiamo conto che l’Italia ha sì un enorme debito pubblico, ma in compenso vanta un debito privato irrisorio e un ingentissimo patrimonio fatto di risparmi, di capitali e immobili, a garanzia del sistema economico nazionale? E perché allora il rating delle agenzie, adottato da Bruxelles come unico parametro, considera solo il debito contabile dello Stato? Chiedetelo a Prodi, taglia corto un altro “rooseveltiano” come Gianfranco Carpeoro: fu il professore di Bologna, osannato come salvatore della patria dopo aver sfasciato l’Iri che sorreggeva l’industria italiana, a genuflettersi ai signori dell’euro, rinunciando a far pesare il valore reale dell’Italia. Quanto agli eurocrati, un grande imprenditore come Fabio Zoffi, che opera in Germania, ha avuto il coraggio di sbugiardare i guardiani dell’austerity altrui: al “Giornale” ha ricordato che Berlino, mediante svariati artifici contabili, omette enormi cifre nel computo del deficit. Il debito tedesco (quello reale) sarebbe il doppio di quello italiano. Attenzione, avverte Zoffi: proprio grazie al super-debito, sia pure occulto, la Germania funziona meglio dell’Italia. Ergo: anziché tagliare la spesa, perché non allargarla? Il famoso tetto del 3% non è certo una legge economica: è solo un diktat politico-ideologico, che ha finora depresso l’economia.
    Né si creda che sia intelligente prendersela col signor Franz, dice da parte sua il comunista Marco Rizzo, consultato sempre da Messora: il popolo tedesco non ha idea di quello che combina, alle sue spalle, l’élite che lo governa. Vale per tutti gli altri, inclusi i francesi. La soluzione? Sincronizzare i popoli, coalizzarli contro questa oligarchia che ha privatizzato la moneta. Da tutt’altro versante, quello social-liberale, Gioele Magaldi (in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”), punta il dito contro lo scandaloso dumping fiscale, su cui nessuno fiata: «Che Europa è mai questa, dove si consente che in paesi come l’Olanda e il Lussemburgo sia più conveniente pagare le tasse?». Risultato: l’emorragia di entrate fiscali (Fiat docet), grazie alla fuga delle grandi aziende. Su questo, niente da ridire? Meglio la piccola crociata, vagamente infame, contro l’idraulico che lavora in nero? E i media che fanno, continuano a dormire? Marco Travaglio, addirittura, s’è messo ad incensare Conte: «Saprebbe indicare, Travaglio, un solo illuminante atto di governo che abbia contraddistinto il premier, da quando è a Palazzo Chigi, con l’unica evidente intenzione di restarvi il più a lungo possibile, non importa come, obbedendo ai politici che contano in Europa, anche a scapito degli italiani?».
    Mai stato tenero, Magaldi, nemmeno con Lega e 5 Stelle. L’accusa: dovevano almeno avviare il cambiamento promesso. «Invece si sono limitati alle chiacchiere: esattamente come Renzi, proprio per questo scaricato a suo tempo dagli elettori». Renzi s’era rimesso in pista, ma ora è stato speronato dalle inchieste sul finanziamento della fondazione Open. «Giusto che la magistratura indaghi, ma senza far politica su questo: ipocrita pensare che i partiti vivano d’aria. Ma sopprattutto: Renzi va bocciato politicamente, perché per l’Italia non ha fatto nulla». Oggi, il mostro ha le sembianze del Mes. E prima ancora: Trattato di Maastricht e Trattato di Lisbona, Fiscal Compact, pareggio di bilancio in Costituzione. «Io sono ultra-europeista», dice Magaldi, «ma intendiamoci: un’Unione Europea non è mai esistita». Chi l’ha detto, ad esempio, che a decidere tutto sia la Bce, non controllata da politici, a loro volta tenuti a rispondere agli elettori? Ora siamo all’apice dell’aberrazione: anziché un ente prestatore di ultima istanza, deputato a finanziare gli Stati in modo virtualmente illimitato, si darebbe vita allo strozzinaggio istituzionale di un organismo ancora meno democratico, super-bancario, abilitato a ricattare popoli scavalcando definitivamente i governi.
    Al di là di come andrà a finire la miserabile vicenda Mes, incluso lo scaricabarile tra politici, Magaldi sintetizza: tutta quella robaccia va stracciata e riscritta da zero. E’ che ora di svegliarsi, tutti, ma per davvero. Le piccole Sardine? Si decidano: chiedano conto della situazione a chi comanda davvero, in Italia. I sovranisti? Vicolo cieco: a che serve trincerarsi entro i confini, quando è Bruxelles che detiene le leve strategiche, le regole che condizionano l’economia? Vale anche per i rossobruni di Vox Italia: l’oligarchia non ha nulla da temere, da chi rifiuta la battaglia continentale. La risposta? Democrazia, da imporre ai gerarchi dell’Ue. In pillole: «L’Italia sta crollando: viadotti che cadono, scuole a pezzi. Disoccupazione, tasse altissime, aziende che non vengono pagate. Servono 200 miliardi, per rimettere in corsa il paese». E si pensa di elemosinarli al Mes, mettendosi al collo il cappio degli usurai? Non è questione di virgole o di percentuali, insiste Magaldi: c’è da far saltare tutto. Cambiare le regole, da cima a fondo. Primo: «Un’Europa democratica, con la sua Costituzione, e un governo federale finalmente eletto dal Parlamento Europeo». Secondo: «Una banca centrale che emetta eurobond, e sostenga in modo illimitato i debiti pubblici, mettendo fine al ricatto dello spread». O così, o moriremo: malati di Mes, o si qualsiasi altro morbo letale fabbricato in provetta, nei laboratori segreti che hanno sabotato la democrazia per dare vita a questo morto vivente, questo zombie travestito da Sacro Romano Impero, senza più cittadini ma soltanto sudditi.

    Ma che razza di paese siamo? Si sprecano commenti sul look del conducente, mentre qualcuno ha manomesso i freni del pullman, e non da oggi. Ancora stiamo lì a disputare sulle briciole miserabili del Mes, anziché rovesciare finalmente il banco? E’ un tavolo truccato, dove i bari si giocano a dadi il futuro dei popoli, parlando abusivamente a loro nome. Un teatro dell’assurdo, questa Unione Europea spacciata per Europa. Il club ha reclutato tra le sue comparse anche Giuseppe Conte, l’ex avvocato del popolo gialloverde: ricondotto all’ovile sorvegliato da figuranti di lungo corso come Paolo Gentiloni e David Sassoli, uno commissario Ue e l’altro presidente del Parlamento Europeo. Esponenti dell’immortale Pd, premiati dopo aver perso le elezioni e messi lì per assicurare ai dormienti l’eterno riposo. Finito nella bufera, e subito smentito dall’Eurogruppo (il Mes è già stato approvato, dicono i tecnocrati), il povero Conte ha balbettato in aula la sua tiepida versione sull’ultimo trattato-capestro, vendendolo come ancora negoziabile, e comunque nient’affatto “segreto” nella sua gestazione. Falso, lo smentisce il leghista Claudio Borghi: la scorsa estate, rivela, il testo è stato visionato solo di sfuggita, a Palazzo Chigi, da tre parlamentari (di cui due leghisti) e un emissario del grillino Fraccaro.

  • E bravo Draghi, ha ridotto l’Europa a un nano economico

    Scritto il 14/11/19 • nella Categoria: segnalazioni • (31)

    Mario Draghi alla scadenza del suo mandato è stato celebrato come il salvatore della Ue e dell’euro, e non c’è dubbio che abbia fatto di tutto per evitare il collasso della moneta unica e che ci sia riuscito. Ma per l’economia reale – ecco il rovescio della medaglia – questo non ha portato ad alcun giovamento. Nei dieci anni successivi alla crisi, dal 2007 al 2017, secondo i dati della World Bank, il Pil globale nel mondo è aumentato del 22%. Tutto merito della Cina e l’India? Per la verità gli Usa sono cresciuti del 29%. E l’Europa della Ue e dell’euro? Il dato clamoroso è che l’Europa dell’euro in dieci anni è cresciuta, come Pil, dell’1,7%. Questo è incredibile. L’Europa ha a disposizione scienza e tecnologia quanto l’America e l’Asia e si lavora in media otto ore al giorno anche qui. Americani, giapponesi e cinesi prendono un po’ meno vacanze e hanno meno mesi in maternità, vanno in pensione qualche anno più tardi. Ma la differenza non è poi così grande come si pensa. Una differenza così abissale della crescita economica su dieci anni non la si spiega con le ore lavorate, che sono in Eurozona solo un 10 o 15% di meno complessivamente.E in ogni caso questa differenza esisteva anche vent’anni fa, quando invece la crescita europea era paragonabile a quella del resto dei paesi Ocse.
    Questo enorme divario di crescita si spiega soprattutto con le politiche molto espansive del credito e dei deficit pubblici, che il resto del mondo ha fatto e noi nella Ue no. In Usa, il Pil è aumentato da 15.000 a 19.300 miliardi, mentre il deficit pubblico aumentava da 10.000 a 21.000 miliardi, più che raddoppiato in dieci anni (e tuttora l’America mantiene un deficit pubblico di 1.000 miliardi l’anno). In Cina il totale del debito (incluso quello di imprese e famiglie) era meno di 10.000 miliardi, e in dieci anni è esploso a oltre 40.000 miliardi. In Italia invece il credito totale a famiglie e imprese è calato, negli ultimi dieci anni, perché quello alle imprese è stato tagliato moltissimo (da 940 a 650 miliardi) e quello alle famiglie è salito solo leggermente. E la politica di Draghi alla Bce, che ha espanso il bilancio della Bce di quasi 3.000 miliardi? Questi miliardi sono andati a comprare debito pubblico, sia direttamente che indirettamente (dandoli alle banche che poi compravano ad esempio Btp). Sarebbe stato utile all’economia se si fossero aumentati i deficit tagliando le tasse, ma “le regole Ue” lo hanno impedito. E allora a cosa sono serviti i 3.000 miliardi di Draghi? Solo a far scendere a zero (o sottozero) il rendimenti di tutti i titoli di Stato, persino quell greci.
    Questo danneggia i risparmiatori, che infatti oggi in Italia hanno abbandonato i titoli di Stato comprando polizze, fondi e prodotti del risparmio gestito, e poi mettendo 300 miliardi nei conti correnti, che sono saliti a 1.400 miliardi. Se schiacci a zero i rendimenti dei titoli, chi vuole risparmiare deve spendere un poco di meno per compensare il reddito che non riceve più sui suoi soldi messi da parte. In compenso, a questi tassi artificialmente bassi diventa più facile indebitarsi per chi opera speculativamente sui mercati. Buona fortuna. Nel resto del mondo si è reagito alla crisi con politiche aggressive di aumento dei deficit e del credito per far circolare più soldi con ogni mezzo anche tra famiglie e imprese. Si sono tagliate le tasse e si è aumentata la spesa, e le banche sono state spinte ad aumentare il credito. Le statistiche mondiali del debito privato e pubblico mostrano un enorme aumento del debito delle imprese specie in Usa e Cina. Oggi il debito equivale in pratica alla moneta che circola, e se si vuole aumentarla bisogna aumentare il debito. Nessuno lo ha capito meglio dei giapponesi e dei cinesi. Il Giappone infatti come si sa ha un debito pubblico doppio del nostro, e la Cina ha trascinato l’economia globale negli ultimi dieci anni aumentando il debito privato di 30.000 miliardi!
    Se invece non si aumenta il deficit e non si stimolano le banche a prestare alle imprese, stampare moneta come ha fatto Draghi fa solo scendere i tassi sui titoli di Stato a zero o sottozero. Una cosa irrazionale, mai successa in 4.000 anni di storia, e che accade più che altro in Eurozona. Draghi ha pompato liquidità solo per comprare e far comprare alla banche titoli sui mercati. Poco o niente è andato all’economia reale. Questi dati sull’enorme divario tra il resto del mondo che cresce del 22% e l’Eurozona che cresce dell’1% indicano che siamo diventati una eccezione nel mondo; siamo l’area della crescita demografica zero o negativa, come in Italia, perché siamo prigionieri di una gabbia finanziaria che soffoca l’economia e riduce l’occupazione. L’Eurozona sacrifica le prospettive dei suoi figli, che non riproduce più, per rispettare “vincoli finanziari e di bilancio” di cui il resto del mondo se ne frega.
    C’è chi usa più che altro il debito privato, come i cinesi (ma le loro banche sono pubbliche), chi usa sia quello pubblco come Usa e Uk, e chi usa il debito pubblico, come i giapponesi: sì anche i giapponesi, i quali hanno goduto di un incremento del reddito pro capite dal 2008 di circa il 7% contro un calo dell’8% dell’Italia, nonostante il loro debito pubblico sia il doppio del nostro. La politica della Bce di Draghi è servita solo a impedire che la zona euro si sfaldasse; ma occorre – in Europa, e in Italia prima di ogni altro paese – uno “shock monetario”, una espansione dell’ordine dei 100 miliardi di euro, sotto forma soprattutto di riduzioni di tasse, per rilanciare gli investimenti. L’attuale legge di bilancio mette il paese in coma farmacologico, ma il prossimo anno ci saranno elezioni politiche anticipate e Salvini andrà a Palazzo Chigi; sarà meglio preparere sin d’ora un valido programma per rianimare l’Italia.
    (Paolo Becchi e Giovanni Zibordi, “I disastri dell’Euro: l’Ue è cresciuta un decimo rispetto al mondo”, da “Libero” del 3 novembre 2019; articolo ripreso sul blog di Becchi).

    Mario Draghi alla scadenza del suo mandato è stato celebrato come il salvatore della Ue e dell’euro, e non c’è dubbio che abbia fatto di tutto per evitare il collasso della moneta unica e che ci sia riuscito. Ma per l’economia reale – ecco il rovescio della medaglia – questo non ha portato ad alcun giovamento. Nei dieci anni successivi alla crisi, dal 2007 al 2017, secondo i dati della World Bank, il Pil globale nel mondo è aumentato del 22%. Tutto merito della Cina e l’India? Per la verità gli Usa sono cresciuti del 29%. E l’Europa della Ue e dell’euro? Il dato clamoroso è che l’Europa dell’euro in dieci anni è cresciuta, come Pil, dell’1,7%. Questo è incredibile. L’Europa ha a disposizione scienza e tecnologia quanto l’America e l’Asia e si lavora in media otto ore al giorno anche qui. Americani, giapponesi e cinesi prendono un po’ meno vacanze e hanno meno mesi in maternità, vanno in pensione qualche anno più tardi. Ma la differenza non è poi così grande come si pensa. Una differenza così abissale della crescita economica su dieci anni non la si spiega con le ore lavorate, che sono in Eurozona solo un 10 o 15% di meno complessivamente.E in ogni caso questa differenza esisteva anche vent’anni fa, quando invece la crescita europea era paragonabile a quella del resto dei paesi Ocse.

  • Ilva, la tomba neoliberista: se tagli lo Stato uccidi il paese

    Scritto il 14/11/19 • nella Categoria: idee • (12)

    Ilva e Alitalia, Fca in fuga insieme a Whirlpool ed Embraco. E poi altri mille “tavoli di crisi” che disegnano il tramonto del sistema industriale italiano. Chi si concentra solo sulle notizie del giorno (è colpa di chi ha messo in discussione lo “scudo legale”, non si cambiano le regole in corso d’opera, Arcelor Mittal voleva 5.000 esuberi e ha giocato sporco) è destinato a non capire cosa sta davvero succedendo, afferma Dante Barontini su “Contropiano”: «C’è un paese che sta affondando nella de-industrializzazione, senza peraltro avere mai costruito un modello di sviluppo alternativo». Le colpe, secondo il “giornale comunista online”, vanno equamente divise «tra una classe imprenditoriale di inqualificabile viltà e una classe politica, se si può, anche peggiore». Entrambe, infatti, «davanti alla costruzione europea che toglieva sovranità alle scelte economiche, hanno reagito fuggendo», ciascuno a modo suo: gli imprenditori «girando i loro profitti nella finanza speculativa», e i politici (nessuno escluso, da Berlusconi a Salvini) di fatto «accettando i diktat europei, spogliandosi di qualsiasi responsabilità e rifugiandosi nella bolla della “comunicazione”, ossia nella menzogna professionale».
    Da quasi trent’anni, dal Trattato di Maastricht in poi – ricorda Barontini – la “politica industriale” di tutti i governi è consistita in privatizzazioni e soldi a pioggia alle imprese. In sostanza: “regali industriali” – da Telecom a Italsider, ad Autostrade – accompagnati da generose “dazioni” liquide (sotto forma di decontribuzione, finanziamenti a fondo perduto, taglio del cuneo fiscale), «oltre che da politiche criminali sul lavoro», ovvero «precarietà contrattuale legalizzata, allungamento dell’età lavorativa, eliminazione delle tutele dei lavoratori, deflazione salariale», con la piena “complicità” di Cgil, Cisl e Uil. E tutto questo, «accettando sempre la tagliola del “divieto agli aiuti di Stato” imposta dall’Unione Europea». Di fatto, aggiunge Barontini, «sono state consegnate alle imprese le chiavi dello sviluppo o della morte del paese». Le imprese ovviamente hanno pensato ai loro affari, in una situazione di cortissimo respiro: «I “mercati” valutano le relazioni trimestrali, mica le prospettive strategiche». Rimosso a monte l’obiettivo sistemico (lo sviluppo del paese, il benessere diffuso, posti di lavoro e salari accettabili) non resta che il calcolo costi-benefici «tra costo del lavoro, incentivi a pioggia, efficienza delle infrastrutture, politiche fiscali nazionali».
    Inevitabile, secondo Barontini, che le imprese «decidessero per la morte, ponendo ogni volta il ricatto con modalità mafiose: o ci date mano libera o ce ne andiamo da un’altra parte». Amarezza: «C’erano una volta i lavoratori che si trasferivano là dove c’erano le industrie, con la valigia di cartone legata con lo spago. Oggi sono le imprese multinazionali a viaggiare, spostando linee di montaggio e casseforti gonfie di soldi». Globalizzazione selvaggia, delocalizzazioni facili: «Da questa condizione storica non si esce con misure una tantum, con un finanziamento in più e neanche con una “partecipazione pubblica” nei casi più disperati», sostiene “Contropiano”, segnalando che «dopo anni, è arrivato a chiederla – per la sola Ilva – persino il segretario della Cgil». Di fronte alla dimensione del disastro economico e sociale, per Barontini c’è bisogno di una visione e di una programmazione di lungo periodo: «C’è bisogno di decidere che cosa produrre e come farlo». Soprattutto: «C’è bisogno di investire in barba a qualsiasi “patto di stabilità europeo”, perché un paese di 60 milioni di persone non può accettare di finire nel baratro della storia solo per rispettare “regole” scritte per favorire altri sistemi industriali, altri paesi e altre multinazionali». Giusto nazionalizzare, ma non basta più: serve «una diversa visione del mondo e della produzione». In altre parole, «si tratta di prendere atto che il capitalismo neoliberista non funziona più e va superato prima che esploda», seminando (come sempre nella storia) «morte e distruzione».

    Ilva e Alitalia, Fca in fuga insieme a Whirlpool ed Embraco. E poi altri mille “tavoli di crisi” che disegnano il tramonto del sistema industriale italiano. Chi si concentra solo sulle notizie del giorno (è colpa di chi ha messo in discussione lo “scudo legale”, non si cambiano le regole in corso d’opera, Arcelor Mittal voleva 5.000 esuberi e ha giocato sporco) è destinato a non capire cosa sta davvero succedendo, afferma Dante Barontini su “Contropiano“: «C’è un paese che sta affondando nella de-industrializzazione, senza peraltro avere mai costruito un modello di sviluppo alternativo». Le colpe, secondo il “giornale comunista online”, vanno equamente divise «tra una classe imprenditoriale di inqualificabile viltà e una classe politica, se si può, anche peggiore». Entrambe, infatti, «davanti alla costruzione europea che toglieva sovranità alle scelte economiche, hanno reagito fuggendo», ciascuno a modo suo: gli imprenditori «girando i loro profitti nella finanza speculativa», e i politici (nessuno escluso, da Berlusconi a Salvini) di fatto «accettando i diktat europei, spogliandosi di qualsiasi responsabilità e rifugiandosi nella bolla della “comunicazione”, ossia nella menzogna professionale».

  • Magaldi: sta cambiando tutto, e adesso ve ne accorgerete

    Scritto il 29/10/19 • nella Categoria: idee • (12)

    Forse adesso anche i più sprovveduti, i teorici della “follia estiva” del Papeete, capiranno perché Salvini ha staccato la spina al governo gialloverde, una volta capito che Conte e Tria gli avrebbero impedito di alleggerire la pressione fiscale e inaugurare una politica finalmente espansiva. Ultimo tradimento, il voto dei grillini per Ursula von der Leyen alla Commissione Europea. Ragionamento del leghista: guai se resto al governo, costretto a firmare una manovra che rappresenta l’esatto contrario di quanto promesso. Risultato: Salvini ora fa il pieno alle regionali in Umbria (57,5%), umiliando Zingaretti e in particolare Di Maio, con i 5 Stelle al di sotto dell’8%. «Logico che gli italiani, a partire dall’Umbria, puniscano le forze del Conte-bis e la loro manovra finanziaria deprimente, persino preoccupante», con la crociata contro i mini-evasori e la demonizzazione del contante. Gioele Magaldi canta vittoria: il suo Movimento Roosevelt si è schierato con la Tesei sostenendo “Umbria Civica” del battitore libero Nilo Arcudi: «Non per rieditare l’obsoleto e deludente centrodestra, ma per promuovere un dialogo trasversale coi progressisti del centrosinistra, contro i conservatori di entrambe le coalizioni».
    Un esito scontato: «Nel 2018, i gialloverdi avevano promesso un vero cambiamento: assaporato il quale, ora gli elettori non possono digerire l’imbarazzante Conte-bis», sottomesso ai consueti vincoli-capestro imposti da Bruxelles. Per Magaldi, tutto sta insieme: gli elettori umbri premiano il Salvini che si è circordato di economisti post-keynesiani come Bagnai e Rinaldi, contrari alla “teologia” del rigore Ue. Nel frattempo, Giuseppe Conte è sulla graticola: oltre alla débacle umbra, che taglia le gambe alla grottesca alleanza tra il Pd  e i grillini che proprio in Umbria li avevano denunciari, facendo cadere la giunta “rossa” di Catiuscia Marini, il premier teme sviluppi dal caso Russiagate, dopo le strane omissioni (segnalate dal “Corriere della Sera”) che rendono incompleta, se non reticente, la sua prima audizione al Coapasir. Il sospetto: Conte avrebbe usato in modo improprio i servizi segreti italiani, mettendoli a disposizione del ministro statunitense William Barr, impegnato a cercare prove contro Joe Biden, rivale di Trump. Non è tutto: proprio mentre Perugia si trasformava nella Caporetto di “Giuseppi”, il “Financial Times” ipotizzava che Conte potrebbe essere accusato di conflitto d’interessi per aver fatto da consulente a un fondo d’investimento di area vaticana, ora accusato di corruzione.
    «Me ne compiaccio», dichiara Magaldi, irridente, pensando alla “macchina del fango” scatenata contro Salvini per “Moscopoli”, anche attraverso il servizio di “Report” trasmesso in prossimità dell’audizione di Conte al Copasir e alla vigilia delle elezioni in Umbria. «Segno che tra i cosiddetti “poteri forti” non ci sono soltanto quelli di segno reazionario, che sostengono il Conte-bis, dopo aver sorretto i governi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni». Esponente italiano del network massonico progressista internazionale (Grande Oriente Democratico, Rito Europeo Universale), Magaldi annuncia: i massoni progressisti sono impegnati in una controffensiva, in tutto il mondo, dopo i decenni devastanti della globalizzazione neoliberista. Il presidente del Movimento Roosevelt cita la Cina, che ha rimosso la governatrice di Hong Kong contestata dalla popolazione, e segnala anche l’esultanza di Trump per l’annuncio della morte del capo dell’Isis, «il massone reazionario e terrorista Abu Bakr Al-Baghdadi, esponente della superloggia “Hathor Pentalpha” fondata dal clan Bush per terremotare il pianeta anche col terrorismo, grazie ad affiliati come lo stesso Osama Bin Laden».
    Se le creazioni supermassoniche chiamate Isis e Al-Qaeda avevano marcato l’ultima svolta (terroristica) del piano di dominio del pianeta, fondato sulla strategia della tensione internazionale per imporre a mano armata questa globalizzazione a senso unico e senza diritti, secondo Magaldi – autore del bestseller “Massoni” (Chiarelettere, 2014) – tutto era cominciato l’11 settembre 1973 in Cile, con il golpe di Pinochet che aveva introdotto con la massima violenza la dottrina neoliberista della “scuola di Chicago” di Milton Friedman. A maggior ragione, dice oggi Magaldi, riempie il cuore – oggi – assistere a una protesta spettacolare come quella in corso a Santiago del Cile, sfidando il coprifuoco imposto da un governo che, come allora, ha schierato i carri armati nelle strade. «Tutto sta cambiando, a livello planetario, grazie alla regia della massoneria progresista», avverte Magaldi, lasciando capire che lo stesso Salvini – in apparenza esaltato dai mojito del Papeete, ad agosto – è stato «sapientemente consigliato» sul da farsi. «Salvini sta studiando», disse Magaldi, dopo il divorzio del leader leghista dal governo coi grillini. «E’ vero, sto studiando», ha confermato Salvini, nel “duello” televisivo con Renzi, da Bruno Vespa.
    «Fortemente trasformata da Salvini, la Lega è comunque ancora caratterizzata da un’impostazione tradizionalista, ad esempio in merito ai diritti civili (unico merito di Renzi, l’aver varato almeno le “unioni civili”)». Tuttavia, aggiunge Magaldi, «il Carroccio di Bossi e Maroni era apertamente liberista, mentre la Lega di Salvini si è affidata a economisti progressisti, dotati di una visione che prevede il ritorno dell’intervento dello Stato nell’economia: meno tasse e investimenti strategici da non inserire nel computo del deficit». Se son rose fioriranno, sembra dire Magaldi: anche perché, in ogni caso, tutti gli altri (Conte e Di Maio, Zingaretti e Renzi, lo stesso Berlusconi) non hanno mai osato neppure ipotizzare un cambio delle regole, da intavolare a Bruxelles. Potrebbe farlo ora l’ipotetico “nuovo” Mario Draghi, che – di colpo – evoca la sovranità monetaria, con l’emissione di denaro illimitata prescritta dalla Modern Money Theory? Meglio non correre con la fantasia, raccomanda Magaldi: Draghi potrebbe sostituire Conte «solo se si facesse garante con Bruxelles di una vera espansione della spesa strategica per l’Italia», e dopo aver fatto ammenda delle sue “malefatte”. «Come per la mafia contano i pentiti, che ne scardinano l’organizzazione, così Draghi dovrebbe dimostrare di essere davvero pentito della sua pessima governance reazionaria e neoaristocratica, prima di Bankitalia e poi della Bce».

    Forse adesso anche i più sprovveduti, i teorici della “follia estiva” del Papeete, capiranno perché Salvini ha staccato la spina al governo gialloverde, una volta capito che Conte e Tria gli avrebbero impedito di alleggerire la pressione fiscale e inaugurare una politica finalmente espansiva. Ultimo tradimento, il voto dei grillini per Ursula von der Leyen alla Commissione Europea. Ragionamento del leghista: guai se resto al governo, costretto a firmare una manovra che rappresenta l’esatto contrario di quanto promesso. Risultato: Salvini ora fa il pieno alle regionali in Umbria (57,5%), umiliando Zingaretti e in particolare Di Maio, con i 5 Stelle al di sotto dell’8%. «Logico che gli italiani, a partire dall’Umbria, puniscano le forze del Conte-bis e la loro manovra finanziaria deprimente, persino preoccupante», con la crociata contro i mini-evasori e la demonizzazione del contante. Gioele Magaldi canta vittoria: il suo Movimento Roosevelt si è schierato con la Tesei sostenendo “Umbria Civica” del battitore libero Nilo Arcudi: «Non per rieditare l’obsoleto e deludente centrodestra, ma per promuovere un dialogo trasversale coi progressisti del centrosinistra, contro i conservatori di entrambe le coalizioni».

  • Il folle riconosce il mondo, il genio ci mostra com’è davvero

    Scritto il 27/10/19 • nella Categoria: idee • (1)

    Il genio e il folle sono fratelli, forse gemelli. In entrambi il possibile eccede sul reale, ma nel pazzo il possibile sconfina nell’impossibile. Il genio non si accontenta del rapporto tra la realtà e la sua mente; stabilisce nuovi, più arditi contatti. Il pazzo invece ha perso quella relazione e va a ruota libera. Chesterton notava che il pazzo non è colui che ha perso la ragione ma chi ha perso tutto tranne la ragione: ha perso il rapporto col mondo reale. Genio e sregolatezza, si dice. Ma debordare dalle regole è un effetto della genialità, non è la prova del genio. La pazzia è l’emisfero in ombra dell’umanità, il lato b che percorre come una trama a rovescio la storia della civiltà, dell’arte, del pensiero e dei rapporti umani. Il sogno, il gioco, la fiction sono le dosi giornaliere di pazzia dei “savi”; quando la mente va in libera uscita e danza a corpo libero. Osate esser pazzi, esortava Papini. Come in una pulp fiction filosofica, artistica e letteraria scorre la divina pazzia di cui scriveva Platone e le tragedie greche da Eschilo a Euripide; la pazzia vissuta, studiata o narrata di Torquato Tasso ed Erasmo da Rotterdam, Cervantes con don Chisciotte e Shakespeare con Enrico IV, Hölderlin e Nietzsche, van Gogh e Ligabue, Dino Campana ed Ezra Pound, Pirandello e Strindeberg, Bukovski e Pessoa, Jaspers e Foucault, Mario Tobino e Alda Merini.
    Per Thomas Beckett nasciamo tutti pazzi, alcuni poi lo restano. Il genio mette a frutto la pazzia, cavalca la follia senza esserne dominato. A volte finisce irretito nella sua follia, perché ne è congenitamente predisposto, è ipersensibile o ha preteso l’infinito, l’assoluto. Ma chi è il genio, cosa lo distingue dal resto degli uomini? Dal ’68 in poi serpeggia l’illusione di una genialità di massa, attraverso l’uso estroso della trasgressione: si ritiene che la sregolatezza decreti il genio. Creatività diffusa, fantasia, la vita come capriccio e stravaganza di massa sono i suoi indizi fino al paradosso di sentirsi tutti speciali, fuori dal comune. Si abusa dell’aggettivo geniale. In giro troppi geni estemporanei per autoacclamazione o per esagerazione di chi li ama (ogni scarrafone è genio a mamma sua). Per Arthur Schopenhauer, che visse con la frustrazione del genio incompreso, genio è colui che sa vedere l’assoluto nel particolare, sa andare oltre i fenomeni e trascende la soggettività in una visione più ampia.
    Il genio ha una conoscenza intuitiva; vede le cose collegate da una postazione più alta, vede il mondo alla luce del sole, non al lume della sua candela. La fantasia è un suo strumento indispensabile per trascendere il reale nel possibile. Vede il generale nel particolare, a differenza dell’uomo comune e delle donne, nota Schopenhauer. Coglie l’essenza delle cose e supera la natura che invece congiunge intelletto e volontà. Ciò porta il genio a somigliare alla follia: entrambi, notava Pessoa, sono disadattati. Il genio non è mai un moderato o un flemmatico, spiega Schopenhauer, ma è sempre un eccessivo, frutto di un’esaltazione anormale della sua vita neuro-cerebrale. Il genio si dedica all’inutile e i suoi frutti saranno colti nel futuro. Un’opera geniale non è mai utile; è il suo rango, la sua nobiltà, come la fioritura. Il genio non serve al suo tempo, ed eccedendo dalla norma è destinato ad essere incompreso. Le persone comuni possono apprezzare il talento o il tipo brillante, difficilmente il genio che vive in perenne discordanza col mondo esterno e col proprio tempo. Avvertenza d’obbligo: per un genio incompreso ci sono mille presunti incompresi che geni non sono.
    Il genio è per natura solitario. È troppo raro per poter incontrare suoi simili e troppo diverso dagli altri per poter stare in compagnia e pensare in comune. Perciò si apparta, è a disagio. Se il genio è misantropo anche qui non vale l’inverso, che la misantropia non è il segno certo di una superiorità. Il genio è malinconico, anche se si delizia quando dà sfogo alla sua vena. Lo diceva già Aristotele, lo ripeteva Cicerone, poi anche Goethe. Schopenhauer spiega che la sua mente è più capace di percepire la miseria della condizione umana. Dunque il genio non può che essere pessimista, come lo era lui. Ripeto la controtesi: se il genio è malinconico, non tutti i tristi e i depressi sono geniali. Infine il genio è come un bambino, ha uno sguardo puro e disinteressato sul mondo. Anzi, ogni bambino è in un certo senso un genio potenziale e ogni genio è in un certo senso un bambino (S. cita Mozart e Goethe, noi potremmo citare Dalì e Fellini).
    Nel fanciullo, nota S., l’intelletto prevale sulla volontà (ma i suoi capricci non prefigurano la volontà?). Al bambino come al genio manca l’arida serietà tipica degli uomini comuni; c’è una vena giocosa e grottesca. Qui si affaccia la sindrome di Peter Pan: ma l’infantilismo in sé non è sintomo di genialità. Per Schopenhauer la genialità originaria del bambino viene poi rubata dalla genitalità: la pulsione sessuale è il focolaio della volontà e dunque nemica della conoscenza. Come dire che il genio tende a restare sessualmente bambino. Il genio, insomma, è un bambino malinconico che trascura sé e si cura del mondo. Il suo soffitto è il cielo, la sua vista è la visione del mondo, che è la sua penetrazione. Schopenhauer fa notare che l’orangutan è intelligente da piccolo e diventa poi brutale da adulto, in un rapporto inverso tra età e intelligenza. Ma non mancano capolavori del genio in età senile. Se il genio è sregolatezza, anche l’età precoce non può essere una regola. Il genio è puer eternus, bambino perenne. Ma la sua ombra è il pazzo, che a volte lo accoppa.
    (Marcello Veneziani, “Rari geni, pochi pazzi, tanti imitatori”, da “La Verità” del 23 ottobre 2019; articolo ripreso sul blog di Veneziani).

    Il genio e il folle sono fratelli, forse gemelli. In entrambi il possibile eccede sul reale, ma nel pazzo il possibile sconfina nell’impossibile. Il genio non si accontenta del rapporto tra la realtà e la sua mente; stabilisce nuovi, più arditi contatti. Il pazzo invece ha perso quella relazione e va a ruota libera. Chesterton notava che il pazzo non è colui che ha perso la ragione ma chi ha perso tutto tranne la ragione: ha perso il rapporto col mondo reale. Genio e sregolatezza, si dice. Ma debordare dalle regole è un effetto della genialità, non è la prova del genio. La pazzia è l’emisfero in ombra dell’umanità, il lato b che percorre come una trama a rovescio la storia della civiltà, dell’arte, del pensiero e dei rapporti umani. Il sogno, il gioco, la fiction sono le dosi giornaliere di pazzia dei “savi”; quando la mente va in libera uscita e danza a corpo libero. Osate esser pazzi, esortava Papini. Come in una pulp fiction filosofica, artistica e letteraria scorre la divina pazzia di cui scriveva Platone e le tragedie greche da Eschilo a Euripide; la pazzia vissuta, studiata o narrata di Torquato Tasso ed Erasmo da Rotterdam, Cervantes con don Chisciotte e Shakespeare con Enrico IV, Hölderlin e Nietzsche, van Gogh e Ligabue, Dino Campana ed Ezra Pound, Pirandello e Strindeberg, Bukovski e Pessoa, Jaspers e Foucault, Mario Tobino e Alda Merini.

  • Uber, non solo taxi: lavoratori sottopagati, come nell’800

    Scritto il 24/10/19 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Ci sono professioni che da tempo sono divenute obsolete e che rimangono in auge solo perché godono di una forte protezione legale. L’attività notarile è una di queste attività. La tecnologia però non minaccia mai davvero questo tipo di professioni, anche se sulla carta sembrerebbe proprio così. Il sistema dei blocchi algoritmici promossa dalla tecnologia blockchain, ad esempio, consentirebbe già a partire da domani mattina di sostituire i notai. Detto diversamente, non abbiamo più bisogno che qualcuno ci dica che l’immobile che abbiamo appena acquistato è di nostra proprietà… (e forse non ce n’è mai stato davvero bisogno). Eppure, questi retaggi ottocenteschi rimangono attuali grazie alla forte pressione politica che le notarili corporazioni riescono ad esercitare. Chi si deve davvero preoccupare delle nuove tecnologie sono invece i lavoratori comuni, i piccoli artigiani, gli autisti, ma se ciò avviene non è solo colpa dello sviluppo delle applicazioni informatiche.

  • Campiglio: Def senza soldi, più tasse a carico delle famiglie

    Scritto il 23/10/19 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Gran parte della manovra è legata al disinnesco delle clausole di salvaguardia, che assorbono più dei due terzi dei 30 miliardi in gioco. Dalle risorse messe in campo non ci possiamo attendere una grande spinta. La cautela è dettata dal fatto che la pressione fiscale aumenterà: nel 2019 è al 41,9% del Pil e nel 2020 subirà un leggero aumento al 42%, e comunque non in diminuzione. Il divario dell’Italia rispetto a paesi come la Germania o la Francia per i provvedimenti a favore della famiglia è da molto tempo intorno allo 0,5-1% del Pil. E’ chiaro che i 200 milioni per gli asili nido vanno accolti con favore, ma bisogna considerare i tempi, perché se diventano operativi quando i bambini sono grandi, forse arrivano un po’ in ritardo. E non è una battuta, è quello che è accaduto finora. Anche quando c’erano le risorse non è stato fatto nulla. Il dato centrale che ne è seguito è che in modo rapsodico un governo sì e un governo no ha introdotto qualcosa per la famiglia, in sostanza bonus a scadenza. Quasi una beffa: gli aumenti delle tasse non finiscono mai – noi ancora oggi abbiamo pagato accise sulla benzina per il finanziamento della guerra in Etiopia – ma le agevolazioni su diversi aspetti della vita familiare scadono sempre. Speriamo che prima o poi ci sia la volontà politica di varare provvedimenti che abbiano una stabilità nel tempo che vada al di là dei 5 anni.
    Intanto il governo ha annunciato l’istituzione del Fondo assegno unico e servizi per la famiglia, che dovrebbe contare su una dotazione crescente fino ai 2,5 miliardi entro il 2022. Come verrà finanziato? I 2,5 miliardi possono essere un punto di partenza di grande interesse se si raccolgono risorse fresche, e non una partita di giro di altre risorse esistenti con cui lo Stato sociale interviene a sostegno della famiglia in modo diretto o indiretto. Anche qui suggerisco cautela, perché se la pressione fiscale torna a crescere, ciò che conta è il reddito netto delle famiglie in moneta e in natura. Se metto risorse con una mano e le tolgo con un’altra, l’effetto è quanto meno imprevedibile. E mi riferisco alla filosofia di fondo di questa manovra. Fondamentalmente è il primo passo verso il rientro definitivo nelle regole fiscali che i differenti Parlamenti negli anni recenti hanno votato a larga maggioranza. In buona sostanza, nel 2019 si prevede un rapporto debito/Pil pari al 135,7%, sulla base dei nuovi dati Istat e Banca d’Italia, e sulla base del Documento programmatico di bilancio in diminuzione al 135,2% nel 2020, al 133,4% nel 2021 e al 131,4% nel 2022.
    Nell’aggiornamento di settembre al Def (NaDef del precedente governo) vi è un esercizio particolarmente elaborato su sentieri e tempi di rientro del rapporto debito/Pil, a legislazione corrente o con scenario ottimistico o pessimistico, da qui al 2030. Il messaggio implicito della NaDef è: stiamo lavorando per un rientro del rapporto debito/Pil che – nello scenario più ottimistico – da oggi al 2030 dovrebbe tornare sotto quota 100, ai livelli cioè del 2007. In un scenario di mercato pessimistico rimarrebbe invece intorno al 120%. Negli ultimi anni è vero che l’Italia è cresciuta un po’ più dell’1%, ma tutto è avvenuto in una congiuntura mondiale molto favorevole, in cui il nostro paese era sempre, purtroppo, fanalino di coda nei tassi di crescita. Adesso il quadro globale è diventato più incerto e questo rientro decennale significa altri dieci anni, non diciamo di austerity, parola che fa paura, ma di parsimonia. Una parsimonia – ecco il punto vero – anche per chi la sta usando suo malgrado da più tempo, cioè i ceti più deboli. Occorre perciò un intervento più robusto e meno controverso: il Fondo europeo di stabilità finanziaria potrebbe essere il nuovo soggetto da attivare per un cambio di rotta. Le clausole di salvaguardia? Introdotte come fossero un’ ipoteca sulla casa, per le manovre del passato. Il mancato aumento dell’Iva comporta un minor gettito tributario e la necessità di aumentare le tasse o ridurre la spesa.
    A legislazione vigente e in assenza di una ripresa della crescita, lo spazio di manovra che esiste per rilanciare o irrobustire l’economia del paese o delle famiglie si riduce di molto. Il disinnesco delle clausole contabilmente figura come entrate mancate, e se ci sono meno entrate da una parte bisogna trovarle da un’altra parte. La lotta all’evasione, per esempio? Mettere in bilancio 7 miliardi dal contrasto all’evasione utilizzando solo lotta al contante e fatturazione elettronica è, con tutto il rispetto, eccessivo. Le attività reali difficilmente sfuggono all’imposizione fiscale. In particolare la casa, che è la vera ricchezza degli italiani, è candidata a subire un effetto ingiusto, e cioè che il saldo netto tra micro-bonus e micro-tasse sia casuale: ci sarà chi guadagna di più e chi invece paga di più. Ma il punto decisivo – lo ripeto – è che complessivamente la pressione fiscale potrebbe aumentare. Di spazio per la crescita ce n’è poco, perché mancano le risorse. E se far quadrare i conti diventa difficile, è molto probabile che verranno toccate altre voci di bilancio, come il sistema di deduzioni e detrazioni. Ma attenzione: intervenire, azzerandole progressivamente sui redditi più alti, rischia di diventare un boomerang, perché si prefigura un gettito che non ci sarà: chi ha alti redditi ha infatti anche un’assicurazione privata, e di conseguenza si potrebbero di nuovo ridurre le spese sulla sanità per chi ne ha bisogno.
    (Luigi Campiglio, dichiarazioni rilasciate a Marco Biscella nell’intervista “Zero crescita, famiglie stangate: ecco la nuova crisi”, pubblicata sul “Sussidiario” il 18 ottobre 2019, in relazione alla manovra 2020 del Conte-bis. Il professor Campiglio è docente di politica economica all’Università Cattolica di Milano).

    Gran parte della manovra è legata al disinnesco delle clausole di salvaguardia, che assorbono più dei due terzi dei 30 miliardi in gioco. Dalle risorse messe in campo non ci possiamo attendere una grande spinta. La cautela è dettata dal fatto che la pressione fiscale aumenterà: nel 2019 è al 41,9% del Pil e nel 2020 subirà un leggero aumento al 42%, e comunque non in diminuzione. Il divario dell’Italia rispetto a paesi come la Germania o la Francia per i provvedimenti a favore della famiglia è da molto tempo intorno allo 0,5-1% del Pil. E’ chiaro che i 200 milioni per gli asili nido vanno accolti con favore, ma bisogna considerare i tempi, perché se diventano operativi quando i bambini sono grandi, forse arrivano un po’ in ritardo. E non è una battuta, è quello che è accaduto finora. Anche quando c’erano le risorse non è stato fatto nulla. Il dato centrale che ne è seguito è che in modo rapsodico un governo sì e un governo no ha introdotto qualcosa per la famiglia, in sostanza bonus a scadenza. Quasi una beffa: gli aumenti delle tasse non finiscono mai – noi ancora oggi abbiamo pagato accise sulla benzina per il finanziamento della guerra in Etiopia – ma le agevolazioni su diversi aspetti della vita familiare scadono sempre. Speriamo che prima o poi ci sia la volontà politica di varare provvedimenti che abbiano una stabilità nel tempo che vada al di là dei 5 anni.

  • Feltri: rimpiango Sandro Pertini, il coraggio della coerenza

    Scritto il 19/10/19 • nella Categoria: idee • (3)

    Tra qualche mese si celebra il 30° anniversario della morte di Sandro Pertini, mitico presidente della Repubblica. In anticipo sull’evento ci piace ricordare la vicenda umana di quest’uomo che ha segnato la storia del nostro Paese. Pertini è morto, viva Pertini. La gente non lo dimenticherà mai. Stavolta, queste parole abusate e lise, non sono retoriche ma riflettono perfettamente lo stato d’animo degli italiani che, a prescindere dalle preferenze politiche e dalle passioni ideologiche, hanno avuto stima profonda, se non simpatia, per il presidente “senza peli sulla lingua”. Ovvio: in un Paese in cui, dai segretari di partito all’ultimo assessore di campagna, chi amministra la cosa pubblica si esprime per eufemismi, in un gergo oscuro, badando agli interessi di corrente o di casta piuttosto che a quelli dell’elettorato, un uomo che, viceversa, parlava chiaro fino alla brutalità, non poteva che essere acclamato come l’unica persona seria della compagnia romana. Un’esagerazione? Forse. Sta di fatto che il brusco Sandro, la popolarità se l’era meritata non soltanto usando magistralmente i mass media per consolidare il feeling con la base, ma anche soprattutto con una condotta di vita esemplare, non offuscata dai soliti immancabili detrattori.
    Quando egli entrò al Quirinale sulle ali del trionfo (832 voti su 995 votanti: un primato) circolò una battuta: finalmente ci tocca un evaso e non un evasore. Il riferimento era duplice. Al passato del nuovo inquilino, che tra carcere e confino, durante il fascismo, fu prigioniero del regime per 15 anni; e alla sua proverbiale onestà. Quest’ultima qualità non è considerata sufficiente per reggere uno Stato, però non guasta. Pertini aveva una forma maniacale di rispetto per il denaro non suo. «Andai a trovarlo – racconta Enzo Biagi – alla Camera, di cui era presidente. Bevemmo un caffè, e lui accennò a pagare. Ma gli uscieri glielo impedirono. Un finimondo. Lui si offese a morte, protestò. E alla fine riuscì a saldare il conto. Non si può dire che a quel tempo gli premeva che si sapesse in giro dei suoi scrupoli: non era ancora capo dello Stato, e nessuno avrebbe scritto l’episodio sui giornali. No, sulla sua correttezza non vi sono dubbi in assoluto». Aneddoti simili si sprecano. Forse vale la pena di rammentare solo l’ultimo, o almeno il più clamoroso. Il Parlamento propose di aumentare l’appannaggio del Quirinale, che era veramente ridicolo: poco più di cento milioni. La legge sarebbe stata approvata in cinque minuti e all’unanimità. Ma Pertini, come ne venne a conoscenza, si inalberò: «Finché qui rimango io, non verrà dentro una lira in aggiunta. Quel che piglio, mi basta e avanza». Mentiva. Era in bolletta nera.
    Se non ci fosse stato Maccanico, che si faceva anticipare di un biennio gli stipendi del personale, e depositandoli in banca usufruiva degli interessi, i quattrini per pagare tutti ogni mese non ci sarebbero stati. Onestà non soltanto in senso generale, ma anche intellettuale. Pertini non è mai venuto meno agli ideali, neanche a quelli che considerava doveri. Fin da giovanissimo. Era contrario all’intervento dell’Italia nella Prima Guerra Mondiale, essendo già simpatizzante socialista, ma al primo tonare di cannone era già in prima linea: allievo ufficiale nei mitraglieri. Aveva poco più di 19 anni e appena terminato il liceo. Non riteneva nemici coloro che erano al di là della linea, ma compagni di sventura; tuttavia, benché pacifista e convinto che sotto il sole nascente non vi fossero divisioni nazionali, combatté senza mai risparmiarsi. Aveva il senso dello Stato, e sapeva che “imboscarsi” avrebbe danneggiato i suoi compagni di trincea. Fu proposto addirittura per una medaglia d’argento, che non ebbe mai per “disguidi burocratici”. Questo il motivo agli atti. In realtà, non gliela diedero perché era “rosso”.
    Dopo il conflitto, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza a Genova. E alla sezione socialista del suo paese, Stella (Savona), dov’era nato nel ‘96. Il padre, piccolo proprietario terriero, morto giovane; la madre, Maria Muzio, ebbe altri tre figli, due maschi e una femmina. Una famiglia borghese, tradizionalista, né ricca né povera. Sandro si laureò in fretta, e bene. Ma aveva altri orizzonti oltre quelli del diritto. E si trasferì a Ca’ Foscari, a Venezia, dove – sempre a gran velocità – ottenne il secondo dottorato: scienze sociali. Non era soltanto un uomo d’azione come è apparso a noi negli ultimi anni e si evince dal suo curriculum nella Resistenza: aveva una inclinazione piuttosto schietta per gli studi. Nei quali, però, non esauriva tutta la carica che aveva dentro. Ecco perché, nel partito, si buttò con ardore. Conobbe Treves e Turati e stabilì con loro una collaborazione intensa. Non si limitava ad arringare le folle; in piazza, ci andava anche a fare i volantinaggi, da umile attivista. E fu in una di queste circostanze, nel 1925, che esordì in galera.
    Era di maggio. Lo sorpresero nei pressi di casa sua, a Stella, mentre distribuiva una rudimentale pubblicazione intitolata: “Sotto il barbaro dominio fascista”, stampata in proprio. Scattarono le manette. Processo al tribunale di Savona: otto mesi di reclusione. Comincia per lui il “dentro e fuori”. Un dettaglio rivelatore dal carattere dell’uomo: durante l’udienza, egli non si difende affatto. Anzi, con un tono quasi di sfida, ammette di essere socialista e sottoscrive ogni responsabilità che gli viene addebitata. Accanto, c’è un colonnello dei carabinieri che strabilia. È ammirato da quel giovane col «pelo sullo stomaco», e si mette sugli attenti in segno di deferenza. Se non nei riguardi dell’imputato, almeno del suo coraggio. Nel ‘26 Pertini è a Milano, ospite di Carlo Rosselli. E insieme con Adriano Olivetti e Ferruccio Parri organizza la fuga di Filippo Turati. Un’impresa da matti. Partono in motoscafo da Savona e arrivano in Corsica per miracolo: il mare è grosso, l’imbarcazione sta insieme con lo spago. Turati scende. I “complici” si sparpagliano. Parri, Olivetti e Rosselli rientrano, e come mettono piede dalle nostre parti sono prelevati e condotti in cella. Sandro, che è rimasto in Francia per tenere i collegamenti con gli esuli, è condannato in contumacia.
    Sono anni tremendi. Gli tocca fare di tutto: lavamacchine, muratore. Cose di cui si è già scritto molto. Ma un particolare forse, se non inedito, è poco noto. Pertini, a un certo punto, decide che è ora di svegliare gli italiani. Come? La stampa clandestina è un fiasco perché non riesce a penetrare nelle maglie della censura; di fare riunioni carbonare, non se ne parla neanche. La circolazione delle idee, anche se affidata alle chiacchiere, è pericolosa: ogni persona può essere una spia. La soluzione ci sarebbe, la radio. Ma i costi sono pazzeschi. Lui, il “ribelle”, fa presto: vende la sua quota di eredità – podere e fattoria – e investe il ricavato in un impianto adatto all’alfabeto morse. Il “bip” del dissenso valica il confine e giunge in Liguria. L’autore dei messaggi si firma con lo pseudonimo Jaques Gauvin, ma suscita subito sospetti nelle autorità del fascismo che fanno una soffiata alla polizia d’oltralpe. L’emittente è costretta a tacere, sequestrata. E il proprietario rischia cinque anni di galera e l’espulsione.
    Ma gli va bene che i francesi colgano l’occasione del processo per svergognare la dittatura del Duce; la magistratura lo condanna a un mese con la condizionale e gli consente di rimanere sulla Costa Azzurra. Chiunque altro si sarebbe calmato, almeno per un periodo. Pertini non molla un secondo: con passaporto falso intestato a Luigi Roncaglia, va in Svizzera ampliando i reticoli dell’opposizione al regime. Poi si stufa di stare all’estero ed eccolo a Milano. Non si contenta, gira al Centro e al Meridione, su e giù in treno: nella borsa, solito materiale sovversivo. Fatale che lo becchino. Ancora prigioni, in una delle quali incontra Gramsci e diventano amici, per quanto, ogni tanto non manchino di litigare. Il leader sardo un giorno esprime un giudizio pesantuccio su Turati e Treves. Apriti cielo. L’altro gli risponde malamente e si imbroncia: non c’è verso di rasserenarlo. E soltanto quando Gramsci si scuserà, affermando che si trattava esclusivamente di una valutazione politica, Sandro sorriderà e gli stringerà la mano.
    La madre, che da anni non lo vede, preoccupata per la sua salute, di sua iniziativa chiede la grazia e lui non ne vuol sapere, scrive questa lettera al presidente del tribunale speciale: «Non mi associo a simile domanda perché sento che mancherei alla mia fede politica, che più d’ogni altra cosa, della mia stessa vita, mi preme». E rimprovera la povera donna che aveva agito per amore: «Mamma, con quale animo hai potuto fare questo». Anche a lei terrà a lungo il broncio. Intanto, fra un’amnistizia e nuovi arresti, condoni e libertà provvisorie, Pertini compie 40 anni: in pratica è sempre stato detenuto. Ovvio che il suo livore per le camicie nere sia incontenibile, e si traduca col tempo, specialmente durante il secondo conflitto mondiale, in un piano per toglierle di mezzo. Nella guerra partigiana, dal 1943, alla Liberazione, il suo ruolo sarà determinante insieme con quelli di Saragat e Nenni e di molti altri. Due capitone fondamentali: le insurrezioni di Firenze nel ‘44 e di Milano nel ‘45 furono capeggiate da lui. Fece di tutto: lo stratega e il manovale, l’ideologo e la sentinella, a seconda del bisogno.
    E a Liberazione avvenuta, nonostante la medaglia d’oro (stavolta arrivò), i meriti acquisiti sul piano politico e militare, e per la solidificazione del socialismo, nel partito gli riservano sistematicamente posti senza potere, benché di prestigio: direttore dell’“Avanti!” e del “Lavoro”, per esempio. È naturale, non aveva correnti, aborriva gli intrighi di corridoio, le cordate, le scalate; nessuna vocazione ai patteggiamenti, alle mediazioni, alle spartizioni, alle lottizzazioni. Mai entrato nella stanza dei bottoni dal 1946 al 1968, quando fu eletto presidente della Camera, seggiola che abbandonò nel 1976, l’indomani dell’avanzata comunista, e qualcuno pensò che alla falce e martello spettasse la guida di un ramo del Parlamento, a scopo di legittimazione democratica. Pertini, che negli otto anni aveva avuto esclusivamente consensi per aver retto la carica alla grande, mai guardando in faccia a nessuno se occorreva far osservare le regole, abbozzò: salutò il nuovo presidente, Pietro Ingrao, e non accese polemiche, per quanto non gli mancassero le ragioni.
    Il salto al Quirinale, due anni più tardi, fu casuale. Leone era stato costretto a dimettersi su pressioni del Pci, che era nella maggioranza e contava. Ma non esisteva un’alternativa accettabile a tutti i partiti della famosa ammucchiata, eufemisticamente definita “solidarietà nazionale”. Ogni candidato si bruciava in tre minuti. Inutile, trascorsero 10 giorni; quindici scrutini vani. Il paese non ne poteva più. Ci fu del panico nelle segreterie della Dc, del Psi e dello stesso Pci: che figura facciamo? Craxi tirò fuori dal cilindro la vecchia bandiera: Pertini. Sul quale – al punto in cui si era – piovvero i voti del cosiddetto arco costituzionale al completo. Alla gente il vecchio fu subito simpatico: immaginiamo che le ispirasse tenerezza, almeno all’inizio; poi venne la venerazione. Fu una conquista lenta e graduale, la sua; il pubblico cominciò ad apprezzare. E ora lo rimpiangiamo.
    (Vittorio Feltri, ritratto di Sandro Petrini pubblicato su “Libero” il 9 ottobre 2019).

    Tra qualche mese si celebra il 30° anniversario della morte di Sandro Pertini, mitico presidente della Repubblica. In anticipo sull’evento ci piace ricordare la vicenda umana di quest’uomo che ha segnato la storia del nostro paese. Pertini è morto, viva Pertini. La gente non lo dimenticherà mai. Stavolta, queste parole abusate e lise, non sono retoriche ma riflettono perfettamente lo stato d’animo degli italiani che, a prescindere dalle preferenze politiche e dalle passioni ideologiche, hanno avuto stima profonda, se non simpatia, per il presidente “senza peli sulla lingua”. Ovvio: in un Paese in cui, dai segretari di partito all’ultimo assessore di campagna, chi amministra la cosa pubblica si esprime per eufemismi, in un gergo oscuro, badando agli interessi di corrente o di casta piuttosto che a quelli dell’elettorato, un uomo che, viceversa, parlava chiaro fino alla brutalità, non poteva che essere acclamato come l’unica persona seria della compagnia romana. Un’esagerazione? Forse. Sta di fatto che il brusco Sandro, la popolarità se l’era meritata non soltanto usando magistralmente i mass media per consolidare il feeling con la base, ma anche soprattutto con una condotta di vita esemplare, non offuscata dai soliti immancabili detrattori.

  • Conte-bis: manovra da incubo ma semiseria, salvo intese

    Scritto il 18/10/19 • nella Categoria: segnalazioni • (5)

    «Più che una sensazione, l’aumento delle tasse è una certezza: al netto della sterilizzazione dell’Iva, ci sono 12,5 miliardi in più di tasse compensati da 3 miliardi mal contati di cuneo fiscale e da qualcosa sul super-ticket sanitario». Per Alessandro Sallusti, direttore del “Giornale”, «aumentano le tasse di un paese che ha già un’imposizione fiscale tra le più alte d’Europa», e la caotica manovra finanziaria dell’imbarazzante Conte-bis «mette tutto in carico alle partita Iva e al ceto medio: sarà un caso che oggi nessuno esulta? Nessuna categoria, nessun gruppo sociale». La cosa meno seria di tutte, sottolinea Sergio Luciano sul “Sussidiario”, è che il documento destinato all’esame di Bruxelles è stato licenziato “salvo intese”, testualmente. «Mai era accaduto – scrive – che neanche dopo sei ore di confronto il documento che l’Italia è obbligata a inviare alla Commissione Europea fosse approvato senza un’intesa stabile tra le forze politiche che appoggiano l’esecutivo». Tutto, quindi, è ancora reversibile, tra ministri e partiti, prima che in Parlamento se ne possa discutere formalmente, tra «le infinite tensioni e negoziazioni che intercorrono tra Cinquestelle, Pd e renziani, con patetica partecipazione di Leu».
    «La manovra è espansiva, dobbiamo ritenerci soddisfatti», ha detto Conte, «quel buontempone», rivendicando lo scampato pericolo sull’aumento dell’Iva. Ma non c’è da fidarsi, prosegue Luciano, proprio per quel “salvo intese”. Torna in mente nientemeno che Mario Monti, che il 23 marzo 2012 aveva emesso un comunicato che iniziava così: «Il Consiglio dei Ministri ha approvato oggi, salvo intese, il disegno di legge di riforma del mercato del lavoro». Cioè, ieri come oggi – scrive Luciano – il governo si riservava di modificare il disegno di legge prima di sottoporlo al Parlamento: dunque «un atto politico del governo contro se stesso». Un modo, da parte del premier e dei ministri per dire: “Noi non bastiamo a noi stessi”, decidendo di non decidere. Dunque siamo solo ai “probabili contenuti”, da prendersi con beneficio d’inventario. «Il giudizio che sorge spontaneo su questa procedura non richiede circonlocuzioni: è uno schifo. Ma così è», scrive Luciano. E i contenuti (amcora ipotetici) della manovra? Scongiurato il rincaro dell’Iva (23 miliardi per il 2020), resiste “Quota 100”, a dispetto di Renzi che voleva abolirla. «Per le famiglie si destina poco e nulla, 600 milioni, che il ministro dell’economia Gualtieri ha sintetizzato come “una serie di misure a partire dalla gratuità degli asili nido per gran parte della popolazione e un piano per la costruzione di nuovi asili nido”. Si cancellerà il superticket e dovrebbe aumentare il sostegno alla disabilità».
    La riduzione del cuneo fiscale ci sarà sin dall’anno prossimo ma di soli 3 miliardi, forse destinati a salire a 5 nel 2021 (sempre “salvo intese”, anzi “intese sulle intese”), a premiare i redditi fino a 35.000 euro: soldi che verrano dati ai lavoratori, ma non alle imprese, scontetando Confindustria. «Il tetto al contante scenderà dai 3.000 euro attuali a 2.000 l’anno venturo e a 1.000 nel 2022, e anche su questo Renzi medita sfracelli», continua Sergio Luciano. «La lotta al contante si direbbe l’unica mossa di qualche rilievo nel pomposo ma vacuo capitolo della lotta all’evasione, che pure contiene numerose regolette seminuove, come il contrasto alle elusioni delle cooperative e l’inasprimento delle pene per i grandi evasori (fino a otto anni per falsa dichiarazione)». Venendo alle misure per l’industria, «lo strombazzato “green new deal” di Conte si limiterà ad un non meglio precisato fondo per la promozione degli investimenti sostenibili». Si prosegue con gli incentivi del programma “Industria 4.0” per sostenere gli investimenti privati e favorire il rinnovo dei sistemi produttivi. Confermate le detrazioni per la riqualificazione energetica e le ristrutturazioni, per l’acquisto dei mobili e degli elettrodomestici “verdi”, e arriva un bonus per i condomini che restaurano la facciata. «E le coperture? I 7 miliardi attesi dall’evasione dimagriscono a 3. E forse, non a caso – chiosa Luciano – il carcere agli evasori resta tra le misure non precisate».

    «Più che una sensazione, l’aumento delle tasse è una certezza: al netto della sterilizzazione dell’Iva, ci sono 12,5 miliardi in più di tasse compensati da 3 miliardi mal contati di cuneo fiscale e da qualcosa sul super-ticket sanitario». Per Alessandro Sallusti, direttore del “Giornale”, «aumentano le tasse di un paese che ha già un’imposizione fiscale tra le più alte d’Europa», e la caotica manovra finanziaria dell’imbarazzante Conte-bis «mette tutto in carico alle partita Iva e al ceto medio: sarà un caso che oggi nessuno esulta? Nessuna categoria, nessun gruppo sociale». La cosa meno seria di tutte, sottolinea Sergio Luciano sul “Sussidiario”, è che il documento destinato all’esame di Bruxelles è stato licenziato “salvo intese”, testualmente. «Mai era accaduto – scrive – che neanche dopo sei ore di confronto il documento che l’Italia è obbligata a inviare alla Commissione Europea fosse approvato senza un’intesa stabile tra le forze politiche che appoggiano l’esecutivo». Tutto, quindi, è ancora reversibile, tra ministri e partiti, prima che in Parlamento se ne possa discutere formalmente, tra «le infinite tensioni e negoziazioni che intercorrono tra Cinquestelle, Pd e renziani, con patetica partecipazione di Leu».

  • Della Luna: anche senza tagli, il Parlamento non è sovrano

    Scritto il 17/10/19 • nella Categoria: idee • (6)

    La “decostruzione” parlamentare è un processo in atto e inevitabile: i Parlamenti «sono ormai marginali, in un mondo in cui il capitale finanziario apolide, concentrato in mani private, ha conquistato il potere di dettare i modelli di sviluppo e di regolare e riformare lo Stato e le istituzioni anziché essere regolato da essi». Lo afferma Marco Della Luna, commentando il taglio dei parlamentari voluto dai grillini, a cui si sono rassegnati anche gli altri principali partiti, dal Pd alla Lega. «Principi costituzionali quali la sovranità popolare e il lavoro come fondamento della repubblica, contrastanti col capitalismo finanziario – dice Della Luna – sono materialmente inattuabili e narrativamente derisi come sovranismo e populismo». E i partiti, che si dice li incarnino? «In realtà restano dentro il modello del finanz-capitalismo: non lo criticano, anzi neanche ne parlano, lo accettano tacitamente come la realtà, l’unica realtà». Ciò premesso, aggiunge l’analista, l’enfasi sul taglio dei parlamentari (se sia giusto o sbagliato), e sulla riforma elettorale (se farla maggioritaria o proporzionale) ha senso sul piano della logica costituzionale, ma poco peso sul piano pratico, per due ragioni: ormai l’Italia è completamente scavalcata, e gli stessi parlamentari si limitano a eseguire ordini di scuderia imposti dal mondo economico.
    Al Parlamento italiano, precisa Della Luna, rimangono da prendere «solo decisioni secondarie, perlopiù spartitorie, da quando quelle importanti (a cominciare dal modello generale di Stato, ossia quello liberista-capitalista) sono prese da organismi extranazionali, indipendenti dall’elettorato, i quali anche producono il grosso della legislazione». Inoltre, nella cultura e nella prassi consolidata, i parlamentari, agiscono comunque «come rappresentanti non del popolo, ma degli interessi loro propri e di chi li fa eleggere, ossia di segreterie di partito e sponsor economici». E sul piano della logica costituzionale? «Il taglio dei parlamentari sarebbe di per sé indifferente, se non fosse presentato come un taglio di spese per poltronisti». E invece, a questo siamo arrivati: «Insegnare al popolo che i suoi rappresentanti sono parassiti poltronisti implica insegnargli che votare è tempo perso». Questo “insegnamento”, aggiunge Della Luna, «concorre al processo generale di decostruzione del Parlamento ed è contrario alla Costituzione vigente, basata com’è sul principio della democrazia rappresentativa, e sul principio che la politica regola l’economia e non viceversa».
    Per Della Luna, si tratta di un “insegnamento” in realtà «commissionato dalla grande finanza ai suoi portatori d’acqua, agli operai analfabeti nella vigna del signor Banchiere, che è il vero parassita delle nazioni, che promuove l’insegnamento che i parassiti siano invece i parlamentari, celando così il parassitismo proprio». Sempre sul piano della logica costituzionale, «è evidente che la Costituzione italiana ammette soltanto una legge elettorale proporzionale, per la semplice ragione che il Parlamento ha funzioni non soltanto di votare la fiducia al governo e le leggi ordinarie, ma anche di garanzia, ossia di eleggere gli organi di garanzia (capo dello Stato, membri della Consulta, del Csm, delle commissioni di controllo) e di votare le regole fondamentali, come le leggi e le riforme costituzionali, la stessa legge elettorale, le leggi sulla cittadinanza, i trattati in cui si dispone della sovranità nazionale». La stessa prescrizione costituzionale di maggioranze qualificate per l’elezione del capo dello Stato e per le riforme costituzionali «perderebbe senso, se il 60% dei parlamentari andasse a chi rappresenta solo il 40% dei votanti». Avendo il Parlamento queste funzioni di garanzia, «è costituzionale solo una legge elettorale proporzionale».
    Ma proprio questa distinzione tra funzioni ordinarie e funzioni di garanzia. Aggiunfe Della Luna, indica la soluzione al dilemma di come avere insieme governabilità e rappresentanza, ossia di come avere maggioranze parlamentari più chiare e stabili, e insieme un Parlamento capace di svolgere le funzioni di garanzia. Per Della Luna basterebbe «assegnare a una Camera, eletta con un sistema maggioritario, le funzioni ordinarie», mentre «all’altra Camera, eletta con sistema proporzionale, le funzioni di garanzia». Avremmo così «una Camera della governabilità e un Senato delle garanzie». La prima Camera potrebbe essere sciolta anticipatamente dal capo del governo, salvo che sia votata una fiducia costruttiva; la seconda Camera invece si scioglierebbe soltanto alla sua scadenza. «Ulteriormente, per aumentare la stabilità e la coesione dei governi, scoraggiando i ricatti», sarebbe bene che il capo del governo fosse «un cancelliere che nomina e revoca i ministri, i viceministri e i sottosegretari».

    La “decostruzione” parlamentare è un processo in atto e inevitabile: i Parlamenti «sono ormai marginali, in un mondo in cui il capitale finanziario apolide, concentrato in mani private, ha conquistato il potere di dettare i modelli di sviluppo e di regolare e riformare lo Stato e le istituzioni anziché essere regolato da essi». Lo afferma Marco Della Luna, commentando il taglio dei parlamentari voluto dai grillini, a cui si sono rassegnati anche gli altri principali partiti, dal Pd alla Lega. «Principi costituzionali quali la sovranità popolare e il lavoro come fondamento della repubblica, contrastanti col capitalismo finanziario – dice Della Luna – sono materialmente inattuabili e narrativamente derisi come sovranismo e populismo». E i partiti, che si dice li incarnino? «In realtà restano dentro il modello del finanz-capitalismo: non lo criticano, anzi neanche ne parlano, lo accettano tacitamente come la realtà, l’unica realtà». Ciò premesso, aggiunge l’analista, l’enfasi sul taglio dei parlamentari (se sia giusto o sbagliato), e sulla riforma elettorale (se farla maggioritaria o proporzionale) ha senso sul piano della logica costituzionale, ma poco peso sul piano pratico, per due ragioni: ormai l’Italia è completamente scavalcata, e gli stessi parlamentari si limitano a eseguire ordini di scuderia imposti dal mondo economico.

  • Il cinismo della disperazione: Di Maio svuota la democrazia

    Scritto il 11/10/19 • nella Categoria: idee • (14)

    Lo scellerato auto-affondamento del Parlamento, voluto da un Di Maio ridotto alla disperazione, produrrà danni incalcolabili al sistema democratico italiano. Prossimo colpo, magari: il divieto di cambiare casacca, riducendo il parlamentare a burattino. La primogenitura dell’attacco alla rappresentanza popolare «va molto più in là del governo gialloverde». Secondo Federico Ferraù «arriva fino ai “politici ladri” degli anni di Tangentopoli, passando per la “casta”, indimenticata bandiera antipolitica che tanto senso comune ha prodotto negli anni novanta e duemila». Gioele Magaldi va ancora più indietro: evoca il Piano di Rinascita Democratica della P2 e, prima ancora, il “dimagrimento” delle Camere voluto da Mussolini. «Ovvio: se i parlamentari sono pochi, il potere oligarchico nemico della democrazia li controlla più facilmente». Secondo il professor Alessandro Mangia, ordinario di diritto costituzionale alla Cattolica di Milano, è penoso lo spettacolo dei parlamentari che corrono a decurtare le proprie file: «Siamo al cinismo della disperazione», all’autoliquidazione di chi non è più classe politica e pertanto non ha più ragione di esistere. Perché mantenerlo in vita, un Parlamento, se è solo un peso?
    Ci rimette anche la Lega, rimasta «imbottigliata per una anno e mezzo sullo scambio tra autonomia differenziata e riduzione del numero dei parlamentari». Già, l’autonomia per il Nord-Est: «Per mesi è stata avvolta da una nebbia fittissima», e oggi «non se ne vede nemmeno l’ombra». Innanzitutto, osserva Mangia nella sua analisi offerta a Ferraù sul “Sussidiario”, si dovrebbe aver capito che il taglio dei parlamentari «è un modo per bloccare il funzionamento del sistema elettorale, rendere impossibili elezioni a breve e creare le premesse per un dialogo infinito sulla legge elettorale prossima ventura». Che dovrà essere infinito, «perché altrimenti questa situazione di democrazia sospesa, che permette di evitare le elezioni, finisce». E se Lega e Pd assecondano il populismo di Di Maio, a “vincere” è il Movimento 5 Stelle: «Il dato veramente incredibile è che i 5 Stelle siano riusciti, in momenti diversi, e per una serie di casi fortunati, a portare prima la Lega e poi il Pd su un progetto tanto inutile e pretestuoso rispetto agli obiettivi dichiarati». Di Maio parla di un risparmio di 100 milioni all’anno. «Appunto: roba che uno Stato con un bilancio di 800 miliardi nemmeno se ne accorge», sottolinea Mangia. L’Osservatorio di Cottarelli, poi, parla di un risparmio reale di appena 57 milioni all’anno, cioè la metà di quanto propagandato.
    Ma il vero pericolo è più serio: «Se il parlamentare oggi si concepisce come uno schiacciabottoni, tanto da dirlo apertamente – osserva il professore – significa che il problema non è il taglio dei parlamentari, ma l’involuzione della classe politica nel suo complesso, tanto da arrivare per prima a concepirsi come inutile. Tanto da credere di potersi rigenerare attraverso un’automutilazione». È un atteggiamento che ricorda da vicino la riforma delle immunità del 1993 votata in piena Tangentopoli, sotto la pressione di Mani Pulite. «Anche allora si pensava che spogliando il parlamentare dell’immunità, e denudandolo di fronte alla magistratura, la classe politica si sarebbe rigenerata». E invece, «quell’automutilazione non solo ha cambiato gli equilibri tra i poteri dello Stato, ma ha spianato la strada alla dissoluzione di una classe politica, dopo la quale non ce ne è mai stata un’altra». Ma a quel punto, allora, «perché non risolvere tutto in un vertice tra segretari di partito, dove ciascuno pesa in ragione del pacchetto di azioni che rappresenta, come in un’assemblea degli azionisti?».
    Qualcuno potrebbe dire: sapete quanti soldi continuano a costare 400 deputati e 200 senatori? «Se si sfonda una linea, trovare poi un limite davanti al quale fermarsi diventa difficile», avverte Mangia. «Tant’è vero che da allora, e cioè da Tangentopoli, si è sempre andati avanti nella stessa direzione in un gioco di delegittimazioni reciproche». Una classe politica «ha coscienza di sé e del suo ruolo, e la coscienza del ruolo ha un implicito effetto di legittimazione». Non a caso, in altri tempi, «i re non tagliavano la testa agli altri re, perché se no passava l’idea che ai re si poteva tagliare la testa e il sistema crollava». Se manca la consapevolezza di un ruolo – dice il costituzionalista – alla fine di quel ruolo manca anche la percezione tra chi lo deve rispettare. Dunque: parlamentari tagliati «non perché siano troppi, ma perché, tutti assieme, non fanno una classe politica». Fermare lo scempio con un referendum? Il professor Mangia è scettico: «Dopo 25 anni di delegittimazione della classe politica, chi andrebbe oggi a dire ai cittadini che lasciare il Parlamento così com’è non sarebbe affatto un male? Ci si esporrebbe alla solita obiezione del voler salvare le poltrone».
    Secondo il professore «si congelerà la situazione per un po’ e ci si sposterà sulla legge elettorale». Su quella non c’è accordo, perché i leader «si sono accorti che il proporzionale enfatizzerebbe a dismisura quanto sta accadendo: l’imperversare di Renzi e forse, un domani, dell’amico-nemico Di Maio». Cosa fare? «Non lo sa nessuno. Qualcuno vuole un proporzionale puro; altri lo vogliono con lo sbarramento “alto” per mettere in difficoltà Renzi; altri lo sbarramento alto con la sfiducia costruttiva; qualcuno parla di doppio turno da vent’anni e continua a farlo oggi». Per prendere tempo «si allargherà il campo e si giocherà sull’abbassamento dell’età per votare, sulla base regionale per l’elezione del Senato, sui regolamenti parlamentari». Secondo Mangia, «è il solito armamentario delle riforme che gira da vent’anni senza però riuscire a cambiare granché, se non in peggio». Perché quell’armamentario «è il figlio dell’illusione che basti cambiare le regole per cambiare la politica: un’illusione che ha guidato la fase dello sperimentalismo costituzionale». Adesso è solo «materiale per una tattica parlamentare che usa spregiudicatamente la Costituzione per comprare tempo. È il cinismo della disperazione», sintetizza il professore.
    Alessandro Mangia inquadra con precisione il disegno politico dei 5 Stelle: «Ridurre il peso politico del Parlamento, spostare quel peso sulle consultazioni dirette – e cioè Twitter, referendum e Rousseau: tanto nella loro ottica è tutto uguale». In questo modo, si finisce per cambiare il funzionamento delle istituzioni. «Non a caso le due riforme, taglio dei parlamentari e riforma del referendum, sono sempre andate di pari passo». Tant’è vero che ora se n’è ricominciato a parlare: «Sarà la prossima frontiera». Altra mina, i cambi di casacca: il vincolo di mandato. Limitazioni che i 5 Stelle erano già riusciti a inserire nel “contratto di governo” con la Lega, e che hanno cercato di introdurre con le sanzioni ai dissidenti che abbandonano il gruppo. Il tribunale di Roma le ha già dichiarate nulle, «come è nullo ogni contratto contrario a norme imperative». Ma il rischio è dietro l’angolo: «Credete che sarebbe difficile, volendo, far partire una campagna contro i parlamentari voltagabbana che si staccano e fanno un loro gruppo o che passano da una maggioranza all’altra? È la stessa tecnica usata per il taglio ai parlamentari». Fatto quello, a che serviranno deputati e senatori? «Più a nulla. Nemmeno a schiacciare il bottone. Basterà il palmare o il telecomando». Del resto, chiosa Mangia, se è vero che se “uno vale uno”, allora “uno vale l’altro”, a prescindere dalla volontà degli elettori.

    Lo scellerato auto-affondamento del Parlamento, voluto da un Di Maio ridotto alla disperazione, produrrà danni incalcolabili al sistema democratico italiano. Prossimo colpo, magari: il divieto di cambiare casacca, riducendo il parlamentare a burattino. La primogenitura dell’attacco alla rappresentanza popolare «va molto più in là del governo gialloverde». Secondo Federico Ferraù «arriva fino ai “politici ladri” degli anni di Tangentopoli, passando per la “casta”, indimenticata bandiera antipolitica che tanto senso comune ha prodotto negli anni novanta e duemila». Gioele Magaldi va ancora più indietro: evoca il Piano di Rinascita Democratica della P2 e, prima ancora, il “dimagrimento” delle Camere voluto da Mussolini. «Ovvio: se i parlamentari sono pochi, il potere oligarchico nemico della democrazia li controlla più facilmente». Secondo il professor Alessandro Mangia, ordinario di diritto costituzionale alla Cattolica di Milano, è penoso lo spettacolo dei parlamentari che corrono a decurtare le proprie file: «Siamo al cinismo della disperazione», all’autoliquidazione di chi non è più classe politica e pertanto non ha più ragione di esistere. Perché mantenerlo in vita, un Parlamento, se è solo un peso?

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