Archivio del Tag ‘reputazione’
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Veneziani: dementi, credete che Nero sia meglio di Negro?
Ieri mi ha fermato un africano per vendermi qualcosa e mi ha detto “Fratello bianco”. Io gli ho risposto: «Ma come ti permetti?». Lui è rimasto allibito, pensando che ce l’avessi col fratello, invece ho proseguito: «A me, bianco non me l’ha mai detto nessuno», alludendo alla mia carnagione scura. Lui ha sorriso e mi ha detto: «Io però sono n., tu sei solo scuro». Non posso pronunciare la parola perché è vietata dalla polizia culturale e l’algoritmo la censura e l’inquisizione poi sospende il blog. Detesto la retorica di dire nero anziché n., sapendo che l’insulto è nell’aggettivo che può accompagnarlo o nel tono, non certo nella parola n. E mi piace che sia stato lui a dirlo. Ma si rendono conto, i retori dell’integrazione, che nero è sempre stata – salvo per i fascisti, i preti e la nobiltà nera – una connotazione negativa? Nera è la morte, il lutto e la sfortuna. Nero anzi noir è l’horror, nera è la cronaca dei delitti, nero è il lavoro sfruttato e l’evasione (ma il rosso in bilancio è peggio). Nero è il buio, nero è l’uomo cattivo dell’infanzia, nera è la giornata disastrosa. Nero è il tempo brutto, il gatto che porta male, il corvo funesto e l’abito dello iettatore.Nero è il futuro negativo, nera è la maglia della vergogna, nero è il volto dell’incazzatura, nera è la minaccia: ti faccio nero. Nera è l’anima del malvagio. Possibile che con questi precedenti si celebri come un progresso la promozione del n. a nero? Peggio di nero, c’è solo la definizione di uomo di colore, come se lui fosse un pagliaccio variopinto e noi degli esseri incolori. Due offese in un colpo solo. Più rispetto per i n., i chiari e i chiaroscuri. Quanto al calcio, io ricordo da bambino i cori e le battute degli spalti. Si accanivano contro qualunque calciatore della squadra opposta avesse uno spiccato tratto distintivo: se era pelato, se era troppo alto o troppo basso, se aveva la barba o era grassottello, se parlava in campo o se si agitava, se era nero, mulatto o rosso di capelli. Di quei cori puerili e di quelle frasi cretine non se ne faceva però un titolo di telegiornale, una campagna antirazzismo, non si istituiva una commissione o un processo, non si denunciava allarmati il ritorno di Hitler…Un crimine, un furto, un’aggressione, lo spaccio di droga non destano reazioni così decise, sanzioni così drastiche e pubblico raccapriccio come una parola scema fuori posto pronunciata in tema di colore della pelle. Se fai un commento, una battuta sul tema ti giochi il lavoro, la tua reputazione, il tuo posto in squadra, molto più che se hai compiuto veri reatiBisogna saper distinguere le cose gravi dalle cose sciocche; è molto più nociva l’abitudine di criminalizzare chiunque dica una parola sconveniente adottando la teoria demente che si comincia così e poi si finisce ai campi di sterminio. Chi prende sul serio una stupidaggine è più stupido di chi la pronuncia, o peggio è in malafede perché vuole speculare sull’incidente per criminalizzare l’intera area di chi non la pensa come lui. Salvateci dal politicamente corretto, fa più danni dell’idiozia episodica di una battuta, che viene reiterata proprio perché ha una risonanza immeritata che la moltiplica e la rende importante, quando era solo una stupida battuta.(Marcello Veneziani, “Più rispetto per i n.”, da “La Verità” del 5 novembre 2019; articolo ripreso sul blog di Veneziani).Ieri mi ha fermato un africano per vendermi qualcosa e mi ha detto: «Fratello bianco». Io gli ho risposto: «Ma come ti permetti?». Lui è rimasto allibito, pensando che ce l’avessi col fratello, invece ho proseguito: «A me, bianco non me l’ha mai detto nessuno», alludendo alla mia carnagione scura. Lui ha sorriso e mi ha detto: «Io però sono n., tu sei solo scuro». Non posso pronunciare la parola perché è vietata dalla polizia culturale e l’algoritmo la censura e l’inquisizione poi sospende il blog. Detesto la retorica di dire nero anziché n., sapendo che l’insulto è nell’aggettivo che può accompagnarlo o nel tono, non certo nella parola n. E mi piace che sia stato lui a dirlo. Ma si rendono conto, i retori dell’integrazione, che nero è sempre stata – salvo per i fascisti, i preti e la nobiltà nera – una connotazione negativa? Nera è la morte, il lutto e la sfortuna. Nero anzi noir è l’horror, nera è la cronaca dei delitti, nero è il lavoro sfruttato e l’evasione (ma il rosso in bilancio è peggio). Nero è il buio, nero è l’uomo cattivo dell’infanzia, nera è la giornata disastrosa. Nero è il tempo brutto, il gatto che porta male, il corvo funesto e l’abito dello iettatore.
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Fake news, lo Spiegel confessa: abbiamo mentito per anni
Fake news, lo Spiegel confessa: abbiamo mentito per anni, grazie a un reporter sleale che inventava le notizieComprereste un’auto usata da quest’uomo? Battuta spesso usata per colpire politici già screditati. Ma l’uomo in questione, stavolta, ha venduto ben più che rottami di automobili: ha spacciato notizie interamente false, per anni. Se n’è accorto un collega, che l’ha denunciato. Lui s’è difeso con le unghie, fin quasi a far licenziare il rivale. Poi è crollato, ammettendo tutto. E gettando nello sconforto lo “Spiegel”, cioè il settimanale più letto in Germania, di cui era una delle penne di punta. Un principe del giornalismo contemporaneo, con parecchi premi prestigiosi alle spalle. Perché ha mentito ai lettori e all’editore per così tanto tempo? Amara confessione: era perseguitato dalla paura di essere considerato un fallito. Nel mondo di oggi, dominato dalla competizione esasperata del neoliberismo, per di più in salsa severamente teutonica, può accadere questo: nel giro di pochi giorni l’eroe diventa un mostro di ipocrisia, un bugiardo patologico, un cialtrone, e infine una vittima. Il suo nome è Claas Relotius, 33 anni, ora disoccupato. Fino a ieri era una star del giornalismo europeo, cioè la grande stampa che declassa il web come regno delle “fake news” e chiama “populisti e sovranisti” i politici non amici, non alleati e non soci dell’editore.Un vero e proprio psicodramma, per il pubblico tedesco (sempre così pronto a bacchettare i vizi altrui). Sembra il replay dello scandalo dei diesel taroccati dalla Volkswagen per mascherarne le emissioni: ma i tedeschi non erano quelli ligi alle regole? Non esattamente, spiega l’imprenditore veneziano Fabio Zoffi, poliedrico “venture capitalist” con sede a Monaco di Baviera: il sistema tedesco è efficiente (incluso il welfare) perché gode di un robustissimo sostegno pubblico, ancorché occulto. Il primo a spiegarlo fu il solito guastafeste Paolo Barnard: grazie a un cavillo formale non vengono conteggiati nel debito pubblico i miliardi che ogni anno il governo di Berlino riceve dalla Kfw (istituto di credito per la ricostruzione, l’equivalente della nostra Cassa Depositi e Prestiti), così come i cospicui deficit delle Regioni. Morale, riassume Zoffi: il debito reale della Germania non è il “virtuoso” 80% del Pil sbandierato dalla Merkel, ma circa il 260% (cioè il doppio del vituperatissimo debito pubblico italiano).Beninteso: non è che sia sbagliato, investire a deficit. Il problema, precisa Zoffi, è che la Germania fa – di nascosto – quello che agli altri proibisce tassativamente di fare. Fino al caso estremo della Grecia, ridotta in miseria a causa del debito ritenuto eccessivo. Un massacro sociale – tagli feroci, licenziamenti – da cui i greci non si sono ancora ripresi. La Grecia quasi non esiste più: aziende e infrastrutture (porti, aeroporti) se l’è mangiate la Germania, mentre gli ospedali sono senza medicine per i bambini. Ma non c’erano solo tedeschi nella cabina di regia dell’operazione Troika: sul fronte greco, al Fmi operava l’ineffabile Cottarelli, mentre Mario Draghi (alla guida della Bce) proveniva dalla Goldman Sachs, cioè la banca d’affari che aveva manovrato il bilancio di Atene fino a spingere il paese verso la catastrofe. Ora invece è il potere tedesco a pagare dazio, per una volta, con un danno d’immagine rilevante: merito del talentuoso Claas Relotius, che – per fare sempre bella figura – non ha resistito alla tentazione di inventarle di sana pianta, le sue storie.Una vicenda penosa, riassunta da Kate Connolly sul “Guardian”. «La rivista tedesca “Der Spiegel” è precipitata nel caos dopo aver rivelato che uno dei suoi migliori giornalisti ha falsificato storie per anni», scrive il quotidiano inglese. Il mondo dei media «è sconvolto dalle rivelazioni su Claas Relotius», giornalista già vincitore di prestigiosi premi, che secondo il settimanale tedesco «ha inventato storie e protagonisti» in almeno 14 dei suoi 60 articoli apparsi sulle edizioni cartacee e online. E attenzione: «Anche altri giornali potrebbero essere coinvolti». Relotius, che ha rassegnato le dimissioni dopo avere ammesso la frode, scriveva per lo “Spiegel” da sette anni e aveva vinto numerosi premi per il suo giornalismo investigativo, tra cui il premio della “Cnn” come “Giornalista dell’Anno” nel 2014. E ora aveva vinto anche il premio tedesco “Reporterpreis” (Reporter dell’anno) per la sua storia su un bambino siriano. I giudici lo avevano elogiato per «la leggerezza, la poesia e la rilevanza» del suo servizio. «E’ però emerso che tutte le fonti del suo reportage erano quantomeno nebulose, e che molto di ciò che ha scritto era inventato».La falsificazione, aggiunge il “Guardian” in un articolo tradotto da “Voci dall’Estero”, è venuta alla luce dopo che un collega di Relotius (Juan Moreno, che aveva lavorato con lui a un articolo sulla frontiera tra Messico e Stati Uniti) ha iniziato a nutrire sospetti su alcuni dei dettagli riportati dal giornalista sleale. Alla fine, Moreno ha rintracciato due delle presunte fonti che venivano citate ampiamente nell’articolo di Relotius, pubblicato in novembre. «Entrambe le presunte fonti hanno dichiarato di non avere mai incontrato Relotius». Secondo successive indagini, Relotius si sarebbe inventato anche l’esistenza di una scritta su un muro, con la frase “Messicani, state alla larga”. Insomma, il reporter tedesco era arruolato – in servizio effettivo permanente – nell’esercito del “politically correct”, quello che criminalizza qualsiasi politico – da Salvini a Trump – che osi mettere in discussione l’imperativo categorico dell’accoglienza illimitata dei migranti. «Altre storie fraudolente – aggiunge il “Guardian” – includono quella su un presunto prigioniero yemenita a Guantanamo, e una sulla star americana del football Colin Kaepernick».In un lungo articolo, lo “Spiegel” (che vende circa 725.000 copie alla settimana e ha più di 6,5 milioni di lettori online) si è detto «scioccato» dalla scoperta, e ha chiesto scusa ai propri lettori e a chiunque possa essere stato soggetto di «citazioni fraudolente, invenzioni di dettagli personali o scene inventate in posti fittizi». Più che un giornalista, a quanto pare, Claas Relotius faceva il romanziere: sceneggiava abilmente le sue storie, destinate a suscitare commozione e indignazione. Lo “Spiegel”, rivista fondata nel 1947 ad Amburgo e rinomata per i suoi approfonditi pezzi investigativi, ha detto che Relotius ha commesso una frode giornalistica «su ampia scala», e ha descritto l’episodio come «il punto più basso» nella storia del giornale, che vanta 70 anni di onorata attività. È stata persino istituita una commissione interna per riesaminare l’intero lavoro di Relotius: si sospetta che le “invenzioni” del reporter siano ancora più numerose di quelle finora rilevate. C’è il rischio, insomma, di nuove sorprese. Anche perché Relotius scriveva pure per una serie di altri noti giornali tedeschi, tra cui il “Taz”, la “Frankfurter Allgemeine” (edizione domenicale) e “Die Welt”, che ha twittato: quell’uomo «ha abusato del proprio talento».Dal canto suo, Class Relotius ha dichiarato allo “Spiegel” di rammaricarsi per le proprie azioni e di provare profonda vergogna: «Sto male e ho bisogno di aiuto», avrebbe detto. Il collega che l’ha smascherato, Juan Moreno (in forza allo “Spiegel” dal 2007), ha rischiato il suo stesso posto di lavoro, per aver affrontato Relotius, che era difeso da altri colleghi. Non volevano credergli: «Per tre o quattro settimane – ha ammesso lo “Spiegel” – Moreno ha passato l’inferno, perché all’inizio i suoi colleghi e i suoi superiori non volevano credere alle sue accuse». Per settimane, ha precisato il settimanale, Relotius è stato perfino considerato una vittima delle trame di Moreno. Il giornalista falsario «respingeva abilmente tutti gli attacchi e tutte le prove, per quanto approfondite», esibite da Moreno. Ma un certo punto, negare l’evidenza non ha più funzionato: Relotius «non ha più potuto dormire, era perseguitato dalla paura di essere scoperto». Alla fine si è arreso, «dopo esser stato affrontato da un caporedattore del giornale».Nella confessione resa al dirigente emerge tutta la sua fragilità umana: «Non era perché volevo trovare il grande scoop», ha spiegato. «Era per la paura di fallire. E la mia sensazione di essere costretto a non potermi mai permettere di fallire diventava sempre più grande, quanto più grande diventava il mio successo». Lo “Spiegel”, aggiunge Kate Connolly sempre sul “Guardian”, è uno dei giornali più importanti in Germania: ora sta cercando di salvare la propria reputazione, ma si teme che, già alle prese con i tanti problemi dell’industria dell’informazione tedesca, farà molta fatica a recuperare. «Tutti i suoi colleghi sono profondamente scossi», ha scritto la rivista. «Sono tristi e sbalorditi: sembra come un lutto in famiglia». Li si può capire, specie di fronte alle sconcertanti motivazioni addotte dal reo, “costretto” a truccare le carte non riuscendo a tollerare l’idea di essere scartato dal sistema, in quanto non abbastanza efficiente. Problema enorme: possibile che il timore del giudizio altrui possa spingere a tanto? Vale per tutti gli operatori del mainstream: magari non hanno mai inventato niente di sana pianta, come ha fatto Claas Relotius, ma quante notizie importanti omettono ogni giorno? Quanto deformano la realtà che vendono come autentica ai lettori e ai telespettatori?Comprereste un’auto usata da quest’uomo? Battuta spesso usata per colpire politici già screditati. Ma l’uomo in questione, stavolta, ha venduto ben più che rottami di automobili: ha spacciato notizie interamente false, per anni. Se n’è accorto un collega, che l’ha denunciato. Lui s’è difeso con le unghie, fin quasi a far licenziare il rivale. Poi è crollato, ammettendo tutto. E gettando nello sconforto lo “Spiegel”, cioè il settimanale più letto in Germania, di cui era una delle penne di punta. Un principe del giornalismo contemporaneo, con parecchi premi prestigiosi alle spalle. Perché ha mentito ai lettori e all’editore per così tanto tempo? Amara confessione: era perseguitato dalla paura di essere considerato un fallito. Nel mondo di oggi, dominato dalla competizione esasperata del neoliberismo, per di più in salsa severamente teutonica, può accadere questo: nel giro di pochi giorni l’eroe diventa un mostro di ipocrisia, un bugiardo patologico, un cialtrone, e infine una vittima. Il suo nome è Claas Relotius, 33 anni, ora disoccupato. Fino a ieri era una star del giornalismo europeo, cioè la grande stampa che declassa il web come regno delle “fake news” e chiama “populisti e sovranisti” i politici non amici, non alleati e non soci dell’editore.
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Gilet Gialloverdi, ora gli italiani si aspettano risposte vere
In campagna elettorale sembravano impazziti: reddito di cittadinanza, Flat Tax, abolizione della legge Fornero. Baravano? Ovvio, ma lo facevano anche gli altri. Loro di più? Infatti hanno vinto. O meglio: hanno vinto i 5 Stelle, col doppio dei voti di Salvini. Già l’indomani, però, Di Maio disorientava il pubblico votante, dichiarandosi disposto ad allearsi con chicchessia, dalla Lega al Pd, pur di andare al governo. D’accordo, ma per fare cosa? Poi è arrivato il Contratto, con dentro quasi tutto: reddito di cittadinanza, Flat Tax, abolizione della legge Fornero. Baravano ancora? Possibile, ma forse a fin di bene: sapevano che sarebbe stata dura, con Bruxelles, ma ne erano consapevoli e si preparavano a dare battaglia. Davvero? Non si direbbe, vista la mala parata di fronte ai cani da guardia della Commissione Europea, gli stessi che invece ora si preparano a condonare all’anti-italiano Macron persino il massimo sacrilegio possibile, nell’euro-santuario: la violazione del sacro vincolo del 3% nel rapporto deficit-Pil. Prima ancora che il “governo del cambiamento” nascesse, del resto, i gialloverdi avevano dovuto ingoiare un super-rospo: il “niet” del Quirinale su Paolo Savona all’economia. Di Maio ventilò l’impeachment per Mattarella, Salvini se ne guardò bene. Oggi Di Maio è in caduta libera, mentre Salvini si muove da padrone della scena. Un caso?Salvini è abile, si dice. Ha osato rompere il tabù dell’accoglienza obbligatoria a costo di fare la faccia feroce coi più deboli, anche per smascherare l’ipocrisia egoistica dell’Ue e quella di chi – sui migranti – ha costruito carriere milionarie. Poi però è arrivato il decreto sicurezza, con limitazioni allarmanti alle libertà personali, specie quelle di chi ha motivo di esprimere la propria sofferenza sociale e quindi potrebbe protestare: pesantissime sanzioni per il blocco stradale e l’occupazione di terreni. Poi Salvini ha difeso a oltranza il topo morto che sta marcendo nella pancia del Piemonte, cioè un progetto-vergogna come il Tav Torino-Lione, notoriamente utile solo a chi costruisse tunnel e ferrovia. Infine, dopo aver chiesto mandato “a 60 milioni di italiani” per trattare con l’Ue, ha proposto alla Germania “un asse Roma-Berlino” (alla Germania, cioè al paese che più di ogni altro ha danneggiato l’Italia da quando esiste l’Eurozona). Poco dopo s’è involato verso Israele per la più classica delle genuflessioni diplomatiche, sperando di ottenere l’agognato sdoganamento come leader credibilmente moderato. Solo che si è fatto fotografare “alla Salvini”, tra soldati sorridenti e Stelle di David. Una foto lo ritrae mentre, addirittura, impugna una mitragliatrice. Non pago, il neoleghista post-padano s’è sbilanciato sul terreno della politica estera, definendo “terrorista” il network libanese Hezbollah, impegnato in Siria contro i terroristi veri, quelli dell’Isis.Baravano fin dall’inizio, i gialloverdi? Hanno preso in giro gli elettori italiani fin dal primo giorno di vita del “governo del cambiamento” o si sono semplicemente accorti di aver catastroficamente sottovalutato l’avversario? La flessione ingloriosa di fronte ai ragionieri finto-europeisti della Commissione Europea è un ultimo tentativo (tattico) per prendere tempo in attesa di una prossima controffensiva pro-Italia o è solo il classico inizio della fine, con la sepoltura delle illusioni e la rassegnazione alla consueta chemio-economia del rigore ammazza-Stati? Domande sospese ma ormai ridondanti, vista la rapida evoluzione dello scenario: i francesi nelle strade fanno tremare l’ex onnipotente Macron costringendolo alla resa, mentre il governo italiano (“populismo” in carica, regolarmente insediato) anziché rilanciare sull’onda dei Gilet Gialli si lascia prendere a sberle dal primo Moscovici di passaggio. Era sbagliato sbilanciarsi in campagna elettorale per un’espansione del deficit? Niente affatto. Però poi bisognava tenere il punto, a tutti i costi, pena la perdita della propria reputazione pubblica, italiana e internazionale. Era così assurdo, dare credito ai gialloverdi? No, perché l’espansione del deficit è esattamente la direzione appropriata – necessariamente eretica – per sconfessare il pretestuoso economicismo delle oligarchie finanziarie che utilizzano per i loro scopi la tecnocrazia di Bruxelles.Chi sono, in realtà, i due politici che avrebbero dovuto condurre una storica vertenza “sindacale” a favore dell’Italia? Di Maio è sbucato quasi dal nulla, attraverso il videogame elettorale interno messo in piedi da Grillo e Casaleggio, e prima delle elezioni vagava tra gli Usa e Londra in cerca di endorsement nei palazzi del massimo potere, quello che ha organizzato la globalizzazione unilaterale che ha messo in ginocchio anche l’Italia. Fino ad allora, sull’euro e l’Europa, i 5 Stelle erano riusciti a dire tutto e il contrario di tutto, senza mai delineare né un’analisi chiara né una linea politica definita, fino alla clamorosa pagliacciata del trasloco (tentato, ma non riuscito) tra gli ultra-euristi dell’Alde al Parlamento Europeo. La nuova Lega salviniana, per converso, è partita da posizioni radicalmente euroscettiche, arrivando a portare in Parlamento un economista keynesiano come Bagnai, salvo poi cominciare progressivamente a cedere ai soliti diktat di Bruxelles – spettacolo triste, solo in parte occultato dal quotidiano agitarsi di Salvini, nel tentativo di distrarre l’opinione pubblica dai fallimenti governativi. Al di là dei limiti strutturali di un’alleanza debole – i grillini “anticasta” e i leghisti “anti-migranti” – restano oscuri i piani della sovragestione da parte del vero potere, vista la confusione che regna sovrana dalle parti dell’esecutivo.Ancora non è dato sapere quanto durerà la coabitazione gialloverde, e se per caso i suoi sponsor dietro le quinte non abbiano già mollato Di Maio per puntare sul solo Salvini, a patto che scenda a più miti consigli – cosa che ha tutta l’aria di fare, a giudicare dalle recenti sterzate verso l’elettorato più tradizionalmente cauto. C’è un disegno di più lungo respiro, non ancora visibile? L’unica vera certezza riguarda la crisi dell’assetto europeo: la Francia in panne, la Germania in affanno, la Gran Bretagna ancora alle prese con l’irrisolta Brexit, l’Est Europa che scalpita per ritagliarsi spazi di autonomia. Salvini e Di Maio avevano illuso moltissimi spettatori, lasciando credere che l’Italia potesse diventare il motore di un cambiamento capace di smontare i dogmi dell’Ue, che hanno rapidamente impoverito il continente. Se non altro, i due esponenti gialloverdi hanno costretto gli italiani (e gli europei) a prendere atto, almeno, della necessità di una diversa narrazione: non è più possibile continuare ad accettare passivamente le politiche di rigore, che l’élite finanziaria neoliberista somministra alle nazioni attraverso i tecnocrati dell’Unione. Il funesto “ce lo chiede l’Europa” non è più proponibile, anche grazie a Salvini e Di Maio. Troppo poco, certo.Persino il tormentato governo Conte, comunque, potrebbe rivelare a posteriori una sua effettiva utilità, se domani – dopo le europee – prendesse corpo un vasto movimento politico, trasversale, disposto a rivendicare per l’Europa il diritto alla sovranità democratica, cominciando da una Costituzione Europea che insedi finalmente a Bruxelles un vero governo federale, regolarmente votato dal Parlamento Europeo eletto dai cittadini. Sogni, speranze e grandi incognite, a cominciare dalla paventata grande recessione in arrivo, che potrebbe far precipitare tutte le crisi politiche in atto. E gli italiani come reagirebbero, se dovessero arrendersi all’evidenza di una vera e propria resa? Che fine farebbe Di Maio, se non riuscisse a varare neppure l’ombra dello sbandieratissimo reddito di cittadinanza? E dove finirebbero i tatticismi del disinvolto Salvini, di fronte alla porta che l’Ue pare stia per sbattere il faccia all’Italia? Da più parti si osserva come manchi, tuttora, una classe dirigente all’altezza della situazione politica. Grazie al governo gialloverde sono caduti alcuni tabù e un bel po’ di leggende, per esempio sull’intoccabilità dei deficit. Ma resta, a monte, il macigno di un’Europa non democratica, non alleata, non amica. Anche grazie alla Lega e ai 5 Stelle, oggi gli italiani il problema lo vedono benissimo. A farsi attendere, ancora, è la soluzione.(Giorgio Cattaneo, “Bravi i gialloverdi a denunciare il rigore Ue, ma ora gli italiani si aspettano i fatti”, dal blog del Movimento Roosevelt del 14 dicembre 2018).In campagna elettorale sembravano impazziti: reddito di cittadinanza, Flat Tax, abolizione della legge Fornero. Baravano? Ovvio, ma lo facevano anche gli altri. Loro di più? Infatti hanno vinto. O meglio: hanno vinto i 5 Stelle, col doppio dei voti di Salvini. Già l’indomani, però, Di Maio disorientava il pubblico votante, dichiarandosi disposto ad allearsi con chicchessia, dalla Lega al Pd, pur di andare al governo. D’accordo, ma per fare cosa? Poi è arrivato il Contratto, con dentro quasi tutto: reddito di cittadinanza, Flat Tax, abolizione della legge Fornero. Baravano ancora? Possibile, ma forse a fin di bene: sapevano che sarebbe stata dura, con Bruxelles, ma ne erano consapevoli e si preparavano a dare battaglia. Davvero? Non si direbbe, vista la mala parata di fronte ai cani da guardia della Commissione Europea, gli stessi che invece ora si preparano a condonare all’anti-italiano Macron persino il massimo sacrilegio possibile, nell’euro-santuario: la violazione del sacro vincolo del 3% nel rapporto deficit-Pil. Prima ancora che il “governo del cambiamento” nascesse, del resto, i gialloverdi avevano dovuto ingoiare un super-rospo: il “niet” del Quirinale su Paolo Savona all’economia. Di Maio ventilò l’impeachment per Mattarella, Salvini se ne guardò bene. Oggi Di Maio è in caduta libera, mentre Salvini si muove da padrone della scena. Un caso?
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Giulietto Chiesa: m’ero sbagliato, in Russia la gente soffre
Non è da tutti, ammettere i propri errori, specie se si ha alle spalle una lunga storia fatta anche di coraggio. E’ il caso di Giulietto Chiesa, amico personale di Mikhail Gorbaciov. Nell’agosto del ‘91, mentre il golpista Ghennadi Janaev tentava di mascherare il colpo di Stato in corso, accampando ipotetici “problemi di salute” da parte del padre della Perestrojka, Giulietto Chiesa lo sfidò, in mondovisione, con una semplice domanda: «E lei come si sente, signor Janaev?». Per anni corrispondente da Mosca per “L’Unità”, poi per “La Stampa” e per il “Tg5”, Chiesa fu tra i primi, in Italia, con il saggio “La guerra infinita” uscito nel 2003 per Feltrinelli, a denunciare le trame (altrettanto golpiste) dei “neocon” Usa, sospettati di aver incubato la strage dell’11 Settembre, comodamente attribuita all’islamico Bin Laden. Giulietto Chiesa – riconobbe anni fa il caustico Paolo Barbard – è stato l’unico, degli esponenti della “casta” giornalistica italiana, a mettere a repentaglio la sua reputazione (e i suoi privilegi di ospite fisso, in televisione) pur di denunciare una verità che il manistream non voleva accettare. Oggi, a parte le sfortunate avventure politiche con Antonio Ingroia, Chiesa dirige sul web la voce libera di “Pandora Tv”, da cui spessissimo difende la politica di Putin e la Russia in generale, esponendosi alla facile accusa di coltivare nostalgie sovietiche. Ora fa pubblica ammenda: sulla Russia mi sono sbagliato, dice; Putin non è riuscito a rimediare agli orrori di Eltsin, e così il popolo soffre.Beninteso: non è mai stato facilissimo il rapporto tra Giulietto Chiesa e la Russia, neppure ai tempi dell’Unione Sovietica. «Giulietto Chiesa mente», scrisse l’agenzia del Cremlino, la “Tass”, per ottenere la rimozione del corrispondente italiano, ritenuto scomodo (e difeso invece con ostinazione da Berlinguer, il segretario del Pci che l’aveva scelto come giornalista da inviare a Mosca). Caduta l’Urss, dopo tanti saggi sull’ex impero sovietico, oggi Giulietto Chiesa ammette: purtroppo ho visto in ritardo i problemi che affliggono i russi, alle prese con una politica interna non all’altezza della politica estera brillantemente svolta da Putin. A richiamarlo sul tema, scrive lo stesso Chiesa su “Megachip”, è un’affezionata lettrice, russa, che gli scrive dalla Russia “profonda”, dove non è mai arrivato il recente benessere di Mosca e San Pietroburgo. «Non metto la sua firma, per la sua sicurezza, né il luogo dove abita». Una premessa poco rassicurante: dimostra che il dissenso politico, in Russia, è tuttora pericoloso. «Credo che le cose che lei mi dice siano purtroppo vere», premette Chiesa, «come lo sono i processi degenerativi anche da noi». E’ delusa, la lettrice russa, dall’ultimo intervento del giornalista a “Radio Padania”, che l’ha resa «molto triste». Motivo: «Mi sono resa conto – gli scrive – di come il tuo giudizio sulla Russia intera sia influenzato da ciò che vedi a Mosca. E anche di quanto questa Mosca benestante sia completamente disinteressata a ciò che succede nel resto del paese».I nuovi intellettuali democratici citati da Chiesa a “Radio Padania”? «Io non so nulla di questa nuova generazione di intellettuali – aggiunge la donna – perché il nostro eroe principale, da queste parti, è il delinquente marginale, che ruba e non fa niente di niente. E le leggi lo difendono». Non solo: grazie a questa “esemplare” impunità, aggiunge la lettrice, si forma la nuova generazione che appare allo sbando. «Vorrei che tu vedessi e sentissi come ragazzi e ragazze, giovanissimi, parlano tra loro, con un linguaggio dove altro non c’è che la più bassa volgarità. Perché non conoscono altro linguaggio che quello». Tutto ciò, aggiunge la donna, «mentre le persone normali sono ormai minoranza, e per loro non esiste alcun ordine pubblico, nemmeno l’elementare sicurezza, poiché chiunque voglia può infierire su di loro». Soprattutto, continua la lettera, «non c’è all’orizzonte alcuna prospettiva, non c’è luogo o occasione dove ognuno possa impiegare le sue forze e energie intellettuali. Non c’è posto per realizzare semplicemente il proprio desiderio di fare qualche cosa che abbia un senso, un’utilità, per la quale sacrificare se stessi». E questo, assicura, non accade soltanto nella sua piccola città: «Anche nel capoluogo più vicino alla piccola città in cui vivo è difficilissimo incontrare qualcuno che riesce a trovare un posto di lavoro che corrisponda alle sue capacità e alla sua professione. Io, per lo meno, di queste persone non ne conosco nemmeno una. Avverto perfino fisicamente come nella società crescono la stanchezza e l’insofferenza. Nessuno è però in grado di esprimere l’una e l’altra cosa in forme civilizzate».Un esempio italiano? La lettrice russa cita il ministro Toninelli, che ha parlato della “nostra infelice Italia”. «Ti risulta che qualcuno del nostro governo abbia mai pronunciato qualcosa di simile alla “nostra infelice Russia”? Da noi si sentono soltanto lodi sperticate di grandi successi», scrive la donna. «La gente, in Occidente, può manifestare e protestare, mentre da noi non può. Forse perché non abbiamo idea di cosa sia la società civile, o forse semplicemente per la sensazione che “tutto è inutile, e che in ogni caso loro faranno come gli pare”». Negli ultimi tempi, poi, «l’insofferenza si va dirigendo non solo contro i burocrati in generale ma anche contro Putin (al quale in un certo senso molto veniva perdonato, anche perché da noi è ancora forte l’esigenza di uno “zar buono”)». Il dissenso è tale che «può accadere qualche cosa di imprevisto e terribile». Una profezia, confidata a Chiesa: «Probabilmente tu non mi crederai se ti dico che Putin non resterà al suo posto fino alla fine del mandato». La donna manifesta «una grande paura». Teme cioè che la Russia «non sopravviva a un’altra rivoluzione». E conclude con un appello, ben poco ottimistico, alla divina provvidenza: «Che Dio non ci costringa a essere testimoni della rivolta russa, insensata e senza pietà».A tanta franchezza, Giulietto Chiesa replica senza giri di parole: «Cara amica, penso che la tua descrizione dei fatti sia purtroppo molto vicina alla realtà». Ma, aggiunge, «non so se lo siano anche le tue previsioni circa il futuro». E spiega: «Per quel poco che so del popolo russo, penso che il “bunt”, la rivolta, sia molto lontana. La vostra pazienza secolare ha impedito che essa si affacciasse molte volte». Di “bunt”, Giulietto Chiesa assicura di averne visto uno solo: quell’immensa protesta di popolo, a Mosca, nell’ottobre 1993, che precedette il bombardamento del Parlamento (la Casa Bianca) deciso da Boris Eltsin, «con il successivo massacro di cui nessuno parlò». E anche allora, «per quanto immensa fosse quella folla, la rivolta non andò a finire bene». Ma non c’è nessun dubbio, ammette Chiesa, che la politica interna della Russia stia andando assai male, «come non c’è dubbio che la distanza tra l’élite moscovita e pietroburghese e le masse popolari sia in crescita geometrica». Non c’è dubbio, aggiunge Chiesa, «che la corruzione sia dilagante, che la solidarietà sia in calo verticale», e che la cultura «stia degradando, così come l’istruzione». Non c’è alcun dubbio, insomma, «che la fiducia dei cittadini nelle istituzioni dello Stato sia ormai logorata». Il motivo? «La democrazia non ha fatto passi avanti rispetto al momento in cui iniziò la Perestrojka, sollevando grandi speranze in milioni di persone», come lo stesso Chiesa potè vedere con i suoi occhi.«Ma questo distacco dalle masse, che il potere non fa nulla per riempire – aggiunge il giornalista – è, anche per me, fonte di grande preoccupazione». Giulietto Chiesa pensa che la Russia, se vuole risolvere i suoi problemi, «debba in qualche modo essere di esempio al resto del mondo». Ovvero: «Debba, in primo luogo, ridurre la disuguaglianza sociale, impedire che la degenerazione consumistica e intellettuale, e morale, entri nel suo corpo con gli effetti devastanti», peraltro identici – in questo senso – a quelli che stanno investendo tutto l’Occidente. Nello stesso tempo, aggiunge, «io so qual è il peso mondiale della Russia». Sa bene, Chiesa, «qual è stato in questi anni il ruolo di pace che, con Putin, essa ha svolto». Per questo, ribadisce, continua ad appoggiare «la ragionevolezza delle sue prese di posizione, politiche a pratiche». Una precisa visione geopolitica: «Penso che, senza la Russia e il suo ruolo deterrente, il mondo sarebbe già assai più vicino a una guerra gigantesca e definitiva». E tuttavia, ammette Chiesa, il suo consenso rispetto al Cremlino «finisce sui confini della politica estera della Russia», dal momento che «il sistema sociale che è emerso dalla contro-rivoluzione etsiniana è stato un gravissimo passo indietro, al quale fino ad ora non è stato posto rimedio».Sempre secondo Chiesa, «la democratizzazione, nelle forme “russe” che essa non potrebbe non avere (non certo scimmiottando la democrazia “elitaria” che oggi domina l’Occidente) sarebbe indispensabile per ricostruire un rapporto decente tra dirigenti e diretti, e per aiutare il formarsi di una società civile moderna, da cui emergerebbero forze intellettuali e morali», oggi assenti nella Russia “profonda” descritta dalla lettrice. Non ha paura, Giulietto Chiesa, di sottoscrivere la più sincera delle ammissioni: «Credo, per quanto mi riguarda, di essere involontariamente caduto – raccontando la Russia in questi ultimi anni – nell’errore che invece non commisi durante i miei venti anni come corrispondente dall’Urss e poi dalla Russia: quello di pensare che la “vetrina” corrispondesse al paese». Non è così, scrive Chiesa: la “vetrina” non è lo specchio fedele della Russia. «Penso di aver commesso questo errore – aggiunge – confondendo e mettendo sullo stesso piano due cose assai distinte», come appunto «la politica estera e quella sociale interna». E cioè: «Volendo sostenere la prima posso avere dato l’impressione di appoggiare anche la seconda. Con questa mia risposta pubblica – conclude – intendo ristabilire la differenza».Non è da tutti, ammettere i propri errori, specie se si ha alle spalle una lunga storia fatta anche di coraggio. E’ il caso di Giulietto Chiesa, amico personale di Mikhail Gorbaciov. Nell’agosto del ‘91, mentre il golpista Ghennadi Janaev tentava di mascherare il colpo di Stato in corso, accampando ipotetici “problemi di salute” da parte del padre della Perestrojka, Giulietto Chiesa lo sfidò, in mondovisione, con una semplice domanda: «E lei come si sente, signor Janaev?». Per anni corrispondente da Mosca per “L’Unità”, poi per “La Stampa” e per il “Tg5”, Chiesa fu tra i primi, in Italia, con il saggio “La guerra infinita” uscito nel 2003 per Feltrinelli, a denunciare le trame (altrettanto golpiste) dei “neocon” Usa, sospettati di aver incubato la strage dell’11 Settembre, comodamente attribuita all’islamico Bin Laden. Giulietto Chiesa – riconobbe anni fa il caustico Paolo Barbard – è stato l’unico, degli esponenti della “casta” giornalistica italiana, a mettere a repentaglio la sua reputazione (e i suoi privilegi di ospite fisso, in televisione) pur di denunciare una verità che il manistream non voleva accettare. Oggi, a parte le sfortunate avventure politiche con Antonio Ingroia, Chiesa dirige sul web la voce libera di “Pandora Tv”, da cui spessissimo difende la politica di Putin e la Russia in generale, esponendosi alla facile accusa di coltivare nostalgie sovietiche. Ora fa pubblica ammenda: sulla Russia mi sono sbagliato, dice; Putin non è riuscito a rimediare agli orrori di Eltsin, e così il popolo soffre.
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Foa su Wikipedia: come distruggere un giornalista scomodo
È così che si distrugge la reputazione di un giornalista scomodo: il 28 luglio alle 16:37 (cioè soltanto sabato, “casualmente” nel pieno della discussione per la sua nomina alla presidenza Rai!) è stata modificata la pagina Wikipedia di Marcello Foa, aggiungendo la sezione “Controversie” (prima inesistente, basta controllare la cronologia che riporto qui sotto) in cui viene denigrato come un “complottista” per aver sostenuto l’esistenza di “false flag” e per aver parlato della teoria gender (che viene liquidata come una “teoria del complotto nata nell’ambito ecclesiastico negli anni ’90”). Ho la fortuna di conoscere personalmente Foa da qualche anno. Ci siamo incontrati a una riunione per il Wac (Web Activists Community) a Roma nello studio di Giulietto Chiesa quando scesi in rappresentanza della Uno Editori per discutere del progetto. Ovviamente lo conoscevo già di fama, lo avevo spesso citato nelle mie opere, a partire dal mio libro-inchiesta su Renzi. Lo avevo sentito telefonicamente ma non lo avevo mai incontrato di persona. Mi sono trovata davanti un uomo gentilissimo, tanto umile quando disponibile, dotato di carisma e di ironia (dote rara), mentalmente elastico e al contempo metodico. Da quel momento ho potuto soltanto rafforzare la stima che ho di lui.
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Murray: a colpire Skripal è stato il Mossad, non la Russia
Porta la firma del Mossad israeliano il tentato omicidio in Inghilterra dell’ex agente russo Sergej Skripal, che ha innescato la guerra tra Londra e Mosca con espulsioni simmetriche di diplomatici. Lo sostiene Craig Murray, già ambasciatore britannico in paesi come l’Uzbekistan. Murray non è un fan di Putin. Al contrario: ritiene che siano stati i russi ad assassinare col polonio Alexandr Litvinenko nel 2006, in più imputa alla Russia l’occupazione “illegale” della Crimea e dell’Ossezia del Sud (Georgia), e arriva ad accusare il Cremlino di aver organizzato auto-attentati allo scopo di avere il pretesto del «brutale assalto alla Cecenia». E’ infatti emerso che fu proprio Boris Eltsin a promuovere il “separatismo ceceno”, per poi procedere con l’intervento militare (cui mise fine proprio Putin). Ma stavolta i russi non c’entrano, con l’attentato che ha ridotto in fin di vita l’ex 007 Skripal e sua figlia Yulia nella città inglese di Salisbury. E’ più che sospetta la determinazione con la quale il governo britannico ha subito puntato il dito contro Mosca: la premier Theresa May e il ministro degli esteri Boris Johnson additano la Russia come unico mandante. La loro tesi: l’ex agente del Gru (l’intelligence militare di Mosca, poi passato agli inglesi) è stato avvelenato con gas nervino. Ma è l’agenzia internazionale per il disarmo chimico a chiarire che la Russia non dispone più di gas letali. E poi, perché rischiare un simile autogoal d’immagine?La versione di Londra, scrive “L’Antidiplomatico”, non convince affatto l’ex ambasciatore britannico Craig Murray, che invita ad approfondire una strada diversa: quella che conduce direttamente a Israele e al Mossad. Lo riporta il giornalista investigativo Nafeez Ahmed su “Insurge”. Semmai è Israele a possedere l’agente nervino, spiega Murray, e il suo servizio segreto, il Mossad, «è estremamente abile negli omicidi in territorio straniero». Theresa May ha rivendicato la propensione russa all’assassinio all’estero far credere che ci sia Mosca dietro all’attentato? «Se è per questo, il Mossad ha una propensione ancora maggiore all’assassinio all’estero», afferma Murray. «E mentre mi sto sforzando per trovare un motivo valido per cui la Russia avrebbe dovuto rischiare di danneggiare la sua reputazione internazionale in modo così penoso – aggiunge – Israele ha una chiara motivazione per danneggiare la reputazione russa in modo così profondo». E spiega: «L’azione russa in Siria ha minato la posizione israeliana in Siria e Libano in modo fondamentale, e Israele ha tutti i motivi per voler danneggiare la posizione internazionale della Russia con un attacco che mira a gettare responsabilità su Mosca». Murray inoltre evidenzia come sia improbabile che i russi «abbiano atteso otto anni per colpire», dopo la “diserzione” del loro vecchio agente. Allo stesso modo, «non ha alcun senso assassinare improvvisamente una spia liberata attraverso uno scambio di prigionieri, e che per ben otto anni ha vissuto a Londra alla luce del sole».Nel caso Skripal, scrive “L’Antidiplomatico”, a colpire è la determinazione, la pervicacia, con cui le autorità britanniche si affannano a incolpare la Russia, «senza peraltro fornire alcuna prova a sostegno delle tesi accusatorie», peraltro seccamente smentite persino dall’Opcw, l’organizzazione internazionale per la proibizione delle armi chimiche. «L’agenzia, con sede a L’Aia, ha infatti certificato che la Russia ha distrutto il proprio arsenale di armi chimiche, agenti nervini compresi». L’Opcw non ha quindi trovato alcuna evidenza indicante che la Russia mantenga una capacità di “avvelenamento” da gas nervino, «mentre non si può dire lo stesso per Stati Uniti, Gran Bretagna e Israele». A far da detonatore, dopo il successo russo in Siria, potrebbe anche esser stato il clamoroso annuncio del 1° marzo, nel quale Putin – presentando i nuovi missili atomici iper-sonici, come nuova frontiera della deterrenza (armi che annullerebbero l’arsenale nucleare Usa) – ha di fatto mutato, in modo clamoroso, l’aspetto militare dell’equilibrio geopolitico. Al punto che Donald Trump è giunto alla rimozione di Rex Tillerson. Nuovo segretario di Stato, il “falco” antirusso Mike Pompeo, che lascia la guida della Cia a Gina Haspel, accusata di aver introdotto l’uso sistematico della tortura (come il “waterboardig”) per i sospetti terroristi, inclusi quelli detenuti a Guantanamo in flagrante violazione dei diritti umani.Porta la firma del Mossad israeliano il tentato omicidio in Inghilterra dell’ex agente russo Sergej Skripal, che ha innescato la guerra tra Londra e Mosca con espulsioni simmetriche di diplomatici. Lo sostiene Craig Murray, già ambasciatore britannico in paesi come l’Uzbekistan. Murray non è un fan di Putin. Al contrario: ritiene che siano stati i russi ad assassinare col polonio Alexandr Litvinenko nel 2006, in più imputa alla Russia l’occupazione “illegale” della Crimea e dell’Ossezia del Sud (Georgia), e arriva ad accusare il Cremlino di aver organizzato auto-attentati allo scopo di avere il pretesto del «brutale assalto alla Cecenia». E’ infatti emerso che fu proprio Boris Eltsin a promuovere il “separatismo ceceno”, per poi procedere con l’intervento militare (cui mise fine proprio Putin). Ma stavolta i russi non c’entrano, con l’attentato che ha ridotto in fin di vita l’ex 007 Skripal e sua figlia Yulia nella città inglese di Salisbury. E’ più che sospetta la determinazione con la quale il governo britannico ha subito puntato il dito contro Mosca: la premier Theresa May e il ministro degli esteri Boris Johnson additano la Russia come unico mandante. La loro tesi: l’ex agente del Gru (l’intelligence militare di Mosca, poi passato agli inglesi) è stato avvelenato con gas nervino. Ma è l’agenzia internazionale per il disarmo chimico a chiarire che la Russia non dispone più di gas letali. E poi, perché rischiare un simile autogoal d’immagine?
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Sei scomodo al potere? Rischi l’accusa di molestie sessuali
«Ormai, cari maschi eterosessuali, siamo tutti potenziali molestatori sessuali, è inutile girarci intorno. E’ sufficiente che una donna, anche a distanza di anni, cambi idea». Scrive Fabrizio Marchi: basta che una donna che quel giorno ha fatto sesso con qualcuno dica è stata costretta, «e siamo fottuti». Perché, al di là del risvolto penale «si viene condannati a priori, esposti alla pubblica gogna e cacciati da qualsiasi contesto civile». In altre parole, sostiene Marchi, «se si vuole far fuori qualcuno in tempi brevissimi, il metodo più efficace è accusarlo di molestie sessuali: anche solo mediaticamente, non c’è neanche necessità di denunciarlo». Detto fatto, e «si viene immediatamente marchiati a fuoco e letteralmente cancellati dalla vita civile (in attesa dei risvolti penali)». Fino ad ora, osserva Marchi su “L’Interferenza”, questa tecnica è stata utilizzata per eliminare politicamente personaggi scomodi, sia pure per ragioni diverse, come Julian Assange, il fondatore di Wikileaks, o Dominique Strauss-Kahn, già a capo del Fmi, candidato in pectore all’Eliseo al posto di Hollande, che fu una scelta di ripiego dopo, appunto, lo scandalo Dsk. Ora l’accusa seriale di molestie è esplosa nel mondo del cinema, ed è già iniziato un effetto-cascata. Attenzione, però: caduti i Vip, «vittime di questa forma di epurazione sociale», tra poco saremo tutti potenzialmente a rischio: «Del resto, quale modo migliore per eliminare il dissenso?».Al netto dei casi più drammatici, dove si sono avute molestie vere, secondo Marchi il più delle volte si celebrano processi sommari e mediatici, senza appello: «E’ sufficiente scaricare addosso al soggetto di turno una montagna di fango, accusandolo di quello che ormai è considerato – e non vuole essere una boutade – il reato più infamante, quello di essere un molestatore sessuale», peggio ancora se seriale. «Non è necessario produrre delle prove, è sufficiente la parola di una donna che dica che in realtà quel rapporto sessuale “consumato” in quella determinata occasione è stato da lei vissuto come una molestia, una costrizione, un condizionamento». Una cosa è certa, aggiunge Marchi: «Se si viene accusati di qualsiasi altro reato, anche molto grave, come corruzione, violenza fisica, rapina a mano armata, addirittura omicidio, non si viene sottoposti alla stessa gogna mediatica». E c’è anche la possibilità di uscirne bene, qualora si riesca a dimostrare la propria estraneità ai fatti: una volta riabilitato, c’è chi ha superato la tempesta, tornando a occupare un ruolo pubblico. «Al contrario, se si viene accusati di molestia o violenza sessuale, anche qualora si venisse assolti per non aver commesso il fatto, il marchio a fuoco non ce lo toglierà più nessuno e non si verrà mai più riabilitati e riammessi nella vita civile».Un destino segnato: lo dimostra la vicenda di Strauss-Kahn. «Assolto dall’accusa di violenza sessuale (è ormai evidente che si è trattato di una trappola per eliminarlo politicamente) è completamente sparito dalle scene». Termini di paragone? «In Cina per far fuori un dirigente politico o un manager bisogna accusarlo di corruzione: è quello il reato considerato più grave». In tutto l’Occidente, invece, la colpa più riprovevole è diventata senza dubbio la molestia sessuale, insiste Marchi. «E se qualcuno pensa di poter essere al riparo perché non appartiene all’upper class o agli ambienti Vip, si sbaglia di grosso», dato che proprio presso l’élite sociale sarebbe in voga questa “pratica”, magari per «ottenere vantaggi in sede giudiziale», tipo «affidamento dei figli, mantenimento della casa, alimenti, allontanamento dell’altro coniuge dai figli». La gran parte di queste accuse «si rivelano in un secondo momento essere false», scrive Marchi: «Non lo dico io, ma i numeri e le statistiche». Ma queste, aggiunge il corsivista, sono solo “prove tecniche di trasmissione”, perché questa formula «verrà presto utilizzata per colpire il dissenso». Lo stesso Assange è stato accusato «a scoppio ritardato» di violenza sessuale, da due donne, per aver fatto sesso senza profilattico, «cosa che per la legge svedese è considerato stupro: non esiste contesto forse più bacchettone di quello falsamente evoluto, ultrafemminista e ultralaicista svedese».Se quello del leader di Wikileaks è un caso eclatante, «possono esserci migliaia di “piccoli casi Assange”, soprattutto fra coloro che sottopongono a critica l’attuale ordine ideologico e sociale dominante», conclude Marchi. Uomo avvisato, mezzo salvato? Purtroppo no, aggiunge l’analista: «Non ci si può salvare dall’accusa di molestia sessuale, perché anche laddove la propria innocenza venisse riconosciuta, non sarebbe sufficiente e reintegrare nella società la persona falsamente accusata». Prima conseguenza, psicologica? Il diffondersi una crescente diffidenza: «Non resta che fare molta, moltissima attenzione a chi frequentiamo». Ma è evidente, dice Marchi, che questa situazione ha già generato un clima psicologicamente “terroristico”: «La relazione fra i sessi è già difficilissima, al giorno d’oggi, per tante ragioni. Ma è ovvio che questa campagna sistematica non potrà che renderla ancora più difficile e torbida». Per Marchi, si tratta di un’altra delle strategie del potere: strategia ultra-sofisticata perché camuffata, messa in campo dall’attuale sistema di dominio sociale «per esorcizzare, allontanare, disinnescare alla radice lo spettro, potenzialmente sempre presente, del conflitto di classe», cioè «il solo che le classi dominanti temono come la peste e che fanno di tutto per cancellare dall’immaginario comune».«Ormai, cari maschi eterosessuali, siamo tutti potenziali molestatori sessuali, è inutile girarci intorno. E’ sufficiente che una donna, anche a distanza di anni, cambi idea». Scrive Fabrizio Marchi: basta che una donna che quel giorno ha fatto sesso con qualcuno dica è stata costretta, «e siamo fottuti». Perché, al di là del risvolto penale «si viene condannati a priori, esposti alla pubblica gogna e cacciati da qualsiasi contesto civile». In altre parole, sostiene Marchi, «se si vuole far fuori qualcuno in tempi brevissimi, il metodo più efficace è accusarlo di molestie sessuali: anche solo mediaticamente, non c’è neanche necessità di denunciarlo». Detto fatto, e «si viene immediatamente marchiati a fuoco e letteralmente cancellati dalla vita civile (in attesa dei risvolti penali)». Fino ad ora, osserva Marchi su “L’Interferenza”, questa tecnica è stata utilizzata per eliminare politicamente personaggi scomodi, sia pure per ragioni diverse, come Julian Assange, il fondatore di Wikileaks, o Dominique Strauss-Kahn, già a capo del Fmi, candidato in pectore all’Eliseo al posto di Hollande, che fu una scelta di ripiego dopo, appunto, lo scandalo Dsk. Ora l’accusa seriale di molestie è esplosa nel mondo del cinema, ed è già iniziato un effetto-cascata. Attenzione, però: caduti i Vip, «vittime di questa forma di epurazione sociale», tra poco saremo tutti potenzialmente a rischio: «Del resto, quale modo migliore per eliminare il dissenso?».
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Scienza express: tutto pubblicabile, su riviste a pagamento
Quanto è semplice pubblicare un articolo su una rivista poco prestigiosa? È semplicissimo, purché venga corrisposta la giusta cifra. La rincorsa alle pubblicazioni da parte dei giovani ricercatori ha favorito lo sviluppo di riviste piratesche disposte a tutto pur di essere pagate, tanto da illudere i vari autori di aver superato controlli rigidissimi e di poter aver accesso a un palcoscenico luminoso all’interno del mondo delle pubblicazioni scientifiche. Un medico statunitense ha voluto saggiare la serietà di una di queste riviste e ha escogitato un’esilarante presa in giro, andata a buon fine. I fan più sfegatati della vecchia sitcom “Seinfeld” saranno sorpresi nel ricevere la notizia che la sindrome da “avvelenamento da uromisite”, tradotto dall’originale “uromycitisis poisoning”, è diventata una malattia “ufficiale” tanto da meritare una pubblicazione su una rivista “scientifica” dedicata all’urologia. La storia della pubblicazione dell’articolo “Uromycitisis Poisoning Results in Lower Urinary Tract Infection and Acute Renal Failure: Case Report” è esilarante e come molti episodi delle sitcom americane racchiude un messaggio finale. La storia inizia con una mail ricevuta dal dottor John H. McCool, inviatagli da un nuovo giornale: “Urology and Nephrology Open Access Journal”.La mail invitava il medico a inviare un articolo per contribuire alla pubblicazione di un nuovo numero. McCool, il quale ha fondato un sito dedicato a coloro che desiderano ricevere un aiuto per la costruzione di un articolo scientifico da pubblicare in inglese, ha da subito sentito puzza di imbroglio, l’invito gli è sembrato inopportuno non essendo un esperto di urologia o nefrologia, e ha deciso di verificare la qualità del giornale provando a proporre un articolo totalmente inventato. Essendo un grande fan della serie “Seinfeld”, l’autore ha preso spunto da un vecchio episodio della serie per inventarsi il caso di studio: durante una puntata il protagonista si trova costretto da varie disavventure a dover urinare all’interno di un parcheggio pubblico; sorpreso dalla guardia si inventa una malattia rarissima che lo costringe a dover urinare forzatamente ogniqualvolta ne abbia necessità, pena un possibile avvelenamento da “uromisite” e una morte atroce. L’articolo contenente la descrizione di questo caso a dir poco peculiare è stato condito con varie citazioni inventate e da una serie di nomi sempre ripresi dalla medesima sitcom.L’articolo è stato dunque inviato alla rivista affinché potesse essere sottoposto al processo di peer-review: il processo di revisione del contenuto dell’articolo da parte di esperti del settore. Si tratta di una pratica fondamentale all’interno della comunità scientifica, perché questo passaggio dovrebbe essere il momento del controllo imparziale della plausibilità, della ripetibilità e dell’utilità conoscitiva dello studio. Per essere pubblicato l’articolo deve essere accettato dalla totalità o dalla maggior parte dei revisori. In questo caso, con non troppa sorpresa dell’autore, l’articolo è stato accettato in tempi brevissimi, sono bastati tre giorni: i recensori hanno indicando solamente qualche correzione da aggiungere nell’abstract e altre sottigliezze di poco conto. L’articolo sarebbe stato dunque pubblicato, ma a una condizione: che venissero pagati 799 dollari più tasse. Ed ecco svelato l’imbroglio. Quello che interessa ai fantomatici editori della rivista sono i soldi che possono sottrarre a ricercatori alla disperata ricerca di pubblicazioni.Per chi è del settore questo genere di riviste ha un nome: “predatory journals”. Si tratta di “riviste” fittizie, che si propongono come open access, nella maggior parte dei casi senza una vera redazione, senza un comitato scientifico reale. Si presentano spesso come nuove risorse emergenti alla ricerca di giovani talenti da mettere in luce e offrono opportunità di pubblicazione a coloro che bramano espandere il proprio curriculum. Le loro strategie sono stereotipate: solitamente si riceve una mail dove si viene invitati a scrivere un articolo per un nuovo numero (in altri casi si chiede di diventare membri dell’editorial board), viene presentato un sito dedicato apparentemente regolare dove si troveranno nomi di sconosciuti o di persone che inconsapevolmente fanno parte della redazione, ma per chiunque abbia tempo per approfondire la qualità di questi siti essi risulteranno irrimediabilmente vuoti. Il loro fine è riuscire a farsi pagare per la pubblicazione dell’articolo, che si può star sicuri non verrà rifiutato dai revisori. Coloro che decidono di pagare possono veder scomparire la rivista non appena effettuato il bonifico, oppure rimangono delusi dal veder pubblicato il proprio articolo su un qualche sito vuoto, delegittimato e screditato.McCool ha voluto prendersi gioco in maniera esemplare di uno di questi approfittatori per riportare ancora una volta l’attenzione su un fenomeno in aumento. Sono state contate circa 10.000 riviste del genere sulle quali sono stati pubblicati nel 2015 circa mezzo milione di articoli. Nell’epoca del “publish or perish”, o si pubblicano tanti articoli oppure si muore affogati nel mare della competizione spietata. Essendo i ricercatori valutati soprattutto per il peso e la quantità delle loro pubblicazioni, trovare una rivista dove pubblicare è una necessità vitale. Le possibilità di fare carriera o di ricevere sostanziosi finanziamenti ruotano tutte attorno alle proprie pubblicazioni. Per molti scendere a compromessi con riviste dall’impact factor nullo o dalla dubbia reputazione è una via di fuga disperata. Si è così innescato questo circolo vizioso che spinge i ricercatori a trovare qualsivoglia piattaforme sulle quali pubblicare i propri articoli, dall’altra parte molti furbi hanno trovato un modo semplice per fare danari. Recentemente ha suscitato altrettanta ilarità una denuncia simile a quella di McCool: la rivista “International Journal of Comprehensive Research in Biological Sciences” ha pubblicato senza troppe remore un articolo scritto da un bambino di sette anni incentrato su quanto fossero “cool” i pipistrelli.Navigando sul web si possono trovare altri simpatici esperimenti del medesimo tipo e come ultimo esempio non si può non menzionare l’articolo “Get me off your fucking mailing list”, il cui titolo e il lungo contenuto coincidono pedissequamente e in modo ossessivo. Questo memorabile sunto di scienza è stato accettato da una rivista ed è divenuto tanto famoso da meritarsi una pagina su Wikipedia. Tutti questi esempi mettono in luce l’intreccio dannoso di certe caratteristiche del mondo della ricerca scientifica che si sono ormai consolidate. Le modalità di pubblicazione in seguito al pagamento di una sorta di tassa sono divenute una pratica sempre più frequente con il crescere delle riviste open access. È oggi difficile discriminare quando si debba o meno pagare la giusta cifra, e più in generale quanto sia etica questa forma di pagamento. Purtroppo le denunce non hanno fino ad oggi sortito un reale effetto positivo, gli sciacalli continuano a proliferare e i ricercatori ad essere turlupinati. Sul web esistono però programmi e liste in grado di rintracciare e scovare i predatory journals, utili a non far cadere in trappola i più sprovveduti. L’intreccio di interessi economici ed esigenze di carriera genera ancora una volta effetti perversi nel mondo della ricerca scientifica, anche se talvolta questi effetti riescono a regalarci qualche risata.(Olmo Viola, “Tutto è pubblicabile, purché si paghi?”, da “Micromega” del 22 agosto 2017).Quanto è semplice pubblicare un articolo su una rivista poco prestigiosa? È semplicissimo, purché venga corrisposta la giusta cifra. La rincorsa alle pubblicazioni da parte dei giovani ricercatori ha favorito lo sviluppo di riviste piratesche disposte a tutto pur di essere pagate, tanto da illudere i vari autori di aver superato controlli rigidissimi e di poter aver accesso a un palcoscenico luminoso all’interno del mondo delle pubblicazioni scientifiche. Un medico statunitense ha voluto saggiare la serietà di una di queste riviste e ha escogitato un’esilarante presa in giro, andata a buon fine. I fan più sfegatati della vecchia sitcom “Seinfeld” saranno sorpresi nel ricevere la notizia che la sindrome da “avvelenamento da uromisite”, tradotto dall’originale “uromycitisis poisoning”, è diventata una malattia “ufficiale” tanto da meritare una pubblicazione su una rivista “scientifica” dedicata all’urologia. La storia della pubblicazione dell’articolo “Uromycitisis Poisoning Results in Lower Urinary Tract Infection and Acute Renal Failure: Case Report” è esilarante e come molti episodi delle sitcom americane racchiude un messaggio finale. La storia inizia con una mail ricevuta dal dottor John H. McCool, inviatagli da un nuovo giornale: “Urology and Nephrology Open Access Journal”.
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Germania SpA, smascherata la mafia più onesta d’Europa
La prossima volta che un ministro tedesco farà la lezioncina a qualche altro paese dell’Unione Europea sulla necessità di obbedire alle regole, il malcapitato bersaglio potrà essere perdonato se gli renderà la pariglia. Il paese che tanto ama fustigare gli altri per i danni legati all’azzardo morale, che chiede una rigida disciplina nell’applicare le regole fiscali della Ue e che dipinge i paesi dell’Europa del Sud come endemicamente corrotti, è caduto proprio lui nel pantano. Gli scandali hanno colpito la sua tanto decantata industria automobilistica, il suo più grande settore ingegneristico (Siemens) e la sua maggiore banca (Deutsche Bank) – e c’è più di un sospetto che Berlino abbia chiuso un occhio su tutto questo, per molto tempo. Può essere che la Germania non sia né più sporca né più pulita di qualsiasi altro paese europeo. Ma è certamente più presuntuosa. Ed è per questo che oggi è difficile non essere percorsi da un brivido di gioia maligna quando si leggono i sempre più frequenti resoconti sui comportamenti scorretti – e forse anche illegali – di alcune delle sue maggiori aziende.L’ultimo scandalo che ha macchiato la reputazione di Deutschland Ag – “Germania Spa”, come viene spesso soprannominata la relazione un po’ troppo intima tra mondo degli affari e politica – riguarda più di due decenni di presunte collusioni tra le cinque maggiori case automobilistiche tedesche. Lo riporta “Der Spiegel”. Le autorità tedesche ed europee sull’antitrust stanno investigando per appurare se Mercedes-Benz, proprietario di Daimler, Volskwagen, Bmw, Porsche e Audi abbiano svolto riunioni segrete per concordare gli standard tecnici, le forniture e i prezzi, a scapito dei concorrenti stranieri. Secondo il report è stata Volkswagen, nel disperato tentativo di ripulirsi ed evitare ulteriori problemi legali dopo essere stata scoperta a imbrogliare sistematicamente nei test di emissione di sostanze inquinanti negli Stati Uniti, a informare l’Ufficio federale tedesco per l’antitrust. In seguito, dice l’inchiesta, è risultato che Daimler potrebbe avere preceduto Volkswagen nel fare la soffiata.Le prove sull’esistenza di un presunto cartello sarebbero state poi insabbiate per un anno, fino a che “Der Spiegel” non ha pubblicato il suo report. Bmw ha negato qualsiasi comportamento illegale. Le altre case automobilistiche non hanno commentato, mentre la Vda (associazione tedesca dell’industria automobilistica, ndt) ha dichiarato di non essere coinvolta. Le case automobilistiche confermate colpevoli di violazione delle regole europee sulla concorrenza potrebbero essere multate fino al 10 per cento del loro fatturato totale: ma il sistema prevede che il primo dei partecipanti a denunciare l’esistenza dei comportamenti anticoncorrenziali illeciti sia esentato dal pagamento della multa. Per esempio, due dei maggiori costruttori tedeschi di camion – Man e Daimler – erano tra le cinque aziende coinvolte in un cartello per concordare i prezzi che lo scorso anno è stato sanzionato dalla Commissione Europea con una multa di 2,93 miliardi di euro. Però Man non è stata multata, perché è stata la prima a rivelare l’esistenza del cartello, nel 2011.Ma non è solo la tanto decantata industria automobilistica tedesca ad essersi messa in cattiva luce negli ultimi tempi. Lo scorso anno Deutsche Bank ha patteggiato 7,2 miliardi di dollari con il Dipartimento della Giustizia statunitense per un’indagine sulle modalità scorrette di vendita di titoli garantiti da ipoteca tra il 2005 e il 2007: era risultato che alcuni prestiti fatti a debitori del tutto privi di garanzie venivano reimpacchettati e rivenduti agli investitori come titoli sicuri. Il crollo dei titoli garantiti da ipoteca è stato uno dei maggiori fattori scatenanti della crisi finanziaria globale del 2008 (quella stessa che dato fiato a orde di moralizzatori tedeschi). Ma Deutsche Bank è stata multata anche perché la sua società sussidiaria nel Regno Unito ha manipolato il tasso di interesse Libor e non ha impedito il riciclaggio di 10 miliardi di dollari di denaro sporco proveniente dalla Russia.Nel frattempo il gigante ingegneristico Siemens è stato accusato di avere fornito turbine a gas per alcuni generatori elettrici che permetteranno il funzionamento di due centrali elettriche nella Crimea occupata dalla Russia, e che metteranno fine alla dipendenza energetica della penisola dall’Ucraina, dopo che Mosca ha ripreso possesso della regione nel 2014. La fornitura di apparecchiature elettriche alla Crimea viola le sanzioni stabilite dall’Unione Europea, ma Siemens sostiene che il dirottamento è avvenuto a sua insaputa, a causa di un’azienda statale russa sua cliente, in violazione del contratto e nonostante i passati avvertimenti fatti dall’azienda. All’inizio del mese Siemens aveva negato un report di “Reuters” che affermava che due delle sue turbine erano state inviate in Crimea dalla vicina Russia sud-occidentale. Poi ha affermato che stava compiendo delle indagini. Poi ha ammesso che l’attrezzatura era stata spedita in Crimea ma “contro la sua volontà” e ha dichiarato che avrebbe fatto causa al suo cliente russo, Technopromexport, e alla sua stessa società sussidiaria in Russia, la Siemens Gas Turbine Technologies. Ora dichiara di avere bloccato l’esportazione di qualsiasi tecnologia per la generazione di corrente elettrica destinata alla Russia.Le spiegazioni fornite appaiono nel migliore dei casi ingenue. Come riportato dal sito investigativo ucraino “Euromaidanpress”, era evidente a chiunque che Mosca stava costruendo a gran velocità centrali elettriche calibrate esattamente per le turbine Siemens in Crimea. Mentre i progetti per la costruzione di una centrale elettrica, cui sulla carta le turbine dovevano essere destinate, sull’altra sponda del Mar d’Azov, erano a malapena abbozzati. Recitando il più ovvio dei copioni, Siemens si è autodipinta come vittima di un inganno dei russi e ha rumorosamente chiuso la stalla dopo che i buoi erano già scappati. Tutta la faccenda è una bella ragione di imbarazzo per Berlino, che si era schierata in prima fila nella richiesta delle sanzioni europee contro le aziende e i singoli russi coinvolti nell’occupazione della Crimea da parte di Mosca. La cancelliera Angela Merkel ha perfino affermato che questa vicenda ha infranto un sistema di regole rispettate in Europa dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.Un portavoce del governo tedesco ha dichiarato che alti funzionari russi avevano assicurato che le turbine non sarebbero state usate in Crimea, e che Berlino stava studiando le potenziali conseguenze di questa operazione “inaccettabile”. In uno scaricabarile da manuale, il portavoce del governo ha affermato che era compito delle aziende assicurarsi di non violare le sanzioni, e tuttavia non ha minimamente fatto cenno ad alcuna conseguenza per Siemens legata a tutto questo. Un filo comune, in tutta questa serie di scandali aziendali, è che il governo tedesco non è mai stato il primo a far saltare fuori pubblicamente i problemi o svolgere indagini. Al contrario, sono state le autorità degli Stati Uniti (e in misura minore di Bruxelles) a smascherare il comportamento di Deutsche Bank e Volkswagen. Volkswagen ha pagato 2,8 miliardi di dollari di sanzioni penali, più 1,5 miliardi di dollari di sanzioni civili negli Stati Uniti in aprile per avere manipolato in modo truffaldino il software dei suoi veicoli diesel, perché passassero i test sulle emissioni inquinanti imposti dalla legge. È stata l’Agenzia statunitense per la protezione ambientale a scoprire le violazioni, nel 2015.Volkswagen ha dovuto allora richiamare 11 milioni di veicoli, di cui circa 8 milioni erano stati venduti in Europa. Lo scandalo ha messo in luce tutta la debolezza e la frammentarietà del sistema di regolamentazione europeo, nonché l’applicazione estremamente lassista delle regole da parte delle autorità. La casa automobilistica tedesca ha accettato di pagare circa 15 miliardi di euro di risarcimenti agli acquirenti statunitensi, ma ha rifiutato di fare lo stesso verso i propri clienti europei, a causa delle diverse regole per la tutela dei consumatori in Europa. I produttori tedeschi riescono a far pagare cari i propri prodotti, le loro “automobili definitive”, grazie a quello che un tempo era conosciuto in Europa come l’indiscutibile marchio di “Deutsche Qualität” (qualità tedesca). Ma che succede, se la massima avanguardia tecnologica sbandierata negli slogan come “il progresso attraverso la tecnologia” si rivela essere “il progresso attraverso l’imbroglio”, costruito con marchingegni truffaldini e cartelli sui prezzi? Si canterebbe ancora “Oh Signore, comprami una Mercedes-Benz?”.(Paul Taylor, “Quei disonesti dei tedeschi”, dall’edizione europea di “Politico” del 25 luglio 2017, post tradotto e ripreso da “Voci dall’Estero”).La prossima volta che un ministro tedesco farà la lezioncina a qualche altro paese dell’Unione Europea sulla necessità di obbedire alle regole, il malcapitato bersaglio potrà essere perdonato se gli renderà la pariglia. Il paese che tanto ama fustigare gli altri per i danni legati all’azzardo morale, che chiede una rigida disciplina nell’applicare le regole fiscali della Ue e che dipinge i paesi dell’Europa del Sud come endemicamente corrotti, è caduto proprio lui nel pantano. Gli scandali hanno colpito la sua tanto decantata industria automobilistica, il suo più grande settore ingegneristico (Siemens) e la sua maggiore banca (Deutsche Bank) – e c’è più di un sospetto che Berlino abbia chiuso un occhio su tutto questo, per molto tempo. Può essere che la Germania non sia né più sporca né più pulita di qualsiasi altro paese europeo. Ma è certamente più presuntuosa. Ed è per questo che oggi è difficile non essere percorsi da un brivido di gioia maligna quando si leggono i sempre più frequenti resoconti sui comportamenti scorretti – e forse anche illegali – di alcune delle sue maggiori aziende.
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Carpeoro: Br, cioè Gladio. Chiedetelo a Curcio e Pazienza
Andate a vedere quanta galera ha fatto Morucci, presunto capo delle Brigate Rosse. A Curcio, che ha colpito solo il carabiniere che aveva sparato nella schiena alla sua donna, sotto stati attribuiti – come concorso morale – tutti gli omicidi commessi da Morucci. Il problema è che Morucci ha fatto sì e no sei mesi di carcere, e Curcio ha fatto tutta la pena – ma non la metà, con la semi-libertà: tutta. Sapete che in Italia l’ergastolo non esiste: dopo trent’anni di buona condotta ti devono mettere fuori, anche se di ergastoli ne hai dodici. Curcio dopo trent’anni l’hanno messo fuori; Morucci dopo quanto? Un anno, un anno e mezzo? Poi è entrato nel programma protezione, ora non si sa più neanche dove sia. Perché? Perché le Brigate Rosse, dopo Curcio, erano finite sotto la gestione diretta dei servizi segreti, non più sotto la gestione indiretta. Ma peggio dei servizi segreti: di Gladio. Cioè, non erano i servizi segreti: erano i servizi segreti che gestivano le Brigate Rosse per conto di Stay Behind, cioè di Michael Ledeen e del generale Santovito. E Curcio, che si è fatto tutti i trent’anni, ne è la prova vivente. E quando esce, e dice “mah, forse ora lo scrivo, un libro”, gli tolgono il posto all’università: lui attualmente è disoccupato, anzi ha fatto un appello per dire: rimettetemi in carcere, che almeno mangio.Noi in Italia abbiamo una concezione strana della giustizia: per certi soggetti l’ergastolo c’è davvero. Certi soggetti non si chiamano pregiudicati, si chiamano “eternamente giudicati”. Il rapporto con la giustizia dovrebbe essere laico: ho violato la legge? La pena prevista è questa? Dopo che l’ho scontata è finita, però. Può non essere finita moralmente, per le vittime. Ma, laicamente – con lo Stato – la vertenza è chiusa; non mi puoi rifiutare il lavoro, togliermi la cattedra di insegnante, perché per te è ancora aperta, perché altrimenti mi fai fare l’ergastolo davvero. Perché poi, uno che esce dal carcere dopo trent’anni che fa, specie ora con l’età pensionabile a settanta? Se la tua logica è che ho ancora qualcosa da pagare anche dopo che esco di galera, questo non è nelle regole. Invece non vale per altri, che non pagano nemmeno quello che dovrebbero pagare. Ripeto: il confronto tra Curcio e Morucci è impietoso – per non parlare di Mario Moretti. E’ un confronto impietoso, perché quello ha ammazzato davvero, e l’altro si è preso le condanne. I brigatisti erano diventati i gestori, per conto dei servizi segreti in capo a Gladio. Attenzione: tu hai un’organizzazione, creata dagli americani per evitare che venga il comunismo, la quale però gestisce il terrorismo comunista.Andate a vedere l’atto con cui è stata costituita Gladio: se costituisci una cosa, dovrebbe andare avanti per come l’hai costituita, no? Se la costituisci in un modo e poi invece ne fai altre, di cose… Perché, cos’era diventata, Gladio? E’ esistita quando gli americani sapevano benissimo che i comunisti erano spacciati. Nel ‘53, un economista americano che lavorava, credo, per McGovern, aveva previsto che il modello economico russo sarebbe morto nell’arco di trent’anni, massimo quaranta – e infatti l’Urss è finita nell’89, sostanzialmente. Non era un giudizio politico, etico, di disvalore di quel sistema, ma una previsione economica: “Tra quarant’anni non avranno più i soldi”. Quindi lo sapevano perfettamente, gli americani. E lo sapevano anche i comunisti italiani, che si sono ben guardati dall’andare al governo: quando nel ‘75 Berlinguer ha vinto a mani basse le elezioni amministrative, subito ha offerto il compromesso storico (alla Dc), non ha mica detto “domani comando io”. Sapevano tutti che quella roba lì – economicamente – non aveva futuro. Lo sapevano, tutti. Era un business, su cui hanno marciato tutti quanti. Ci hanno marciato i partiti italiani, perché beccavano il grano per essere “anticomunisti”. Ci hanno marciato i servizi segreti e i personaggi come Ledeen, perché (sulla minaccia sovietica) hanno costruito fortune e potere. Tutti, ci hanno marciato. E quando è morta l’Unione Sovietica hanno pianto: hanno versato calde lacrime, perché era finito il bengodi.Quindi, queste gestioni (dell’intelligence) sono fatte innanzitutto di interessi economici particolari. Non sono fatte di complotti surreali, esoterici: sono fatte di soldi, di interessi, di gente che ci campa. Davvero pensate che ci sia dietro una gestione “mistica” del male? Ma il male non è mistico, è pratico. Il male, che è l’assenza di bene, non ha una dimensione mistica, esoterica, spirituale: ha una dimensione meramente pragmatica. Non dovete pensare che ci siano dietro delle cose complicate, le cose sono semplici. Avete degli esempi. C’è un mio “fratello” massone, a cui voglio bene – e lo dico pubblicamente – che si chiama Francesco Pazienza. Questo signore è in galera da vent’anni. E sta là perché vuole campare, perché se esce di galera lo ammazzano. Pazienza è colui che gestiva, per conto di interessi massonici italiani (cercando di limitare i danni), la moderazione del meccanismo Stay Behind. Era il signore che avrebbe dovuto evitare che Stay Behind finisse per farci fare, al 100%, i servi degli americani: era il nemico, lo “speculum” di Michael Ledeen.Nel momento in cui è scoppiato il bubbone, Pazienza venne protetto da Cossiga: e quello è stato uno dei pochi atti della vita di Cossiga per cui posso dire che si sia comportato bene. Fu Cossiga a pattuire che Pazienza stesse zitto, in carcere, e che gli venisse garantita la sopravvivenza – una sopravvivenza anche dignitosa, senza carcere duro. Fu stipulato questo accordo, nel quale venno coinvolti i magistrati, per cui Pazienza si prese una pena bestiale, è tuttora in galera e sta zitto. L’unica dichiarazione che ha fatto, da vero massone, è stata quella che poi ha confermato il quadro per cui esistesse una P1. Però i giornali l’hanno pubblicata in settantunesima pagina. Fu una dichiarazione che lui rese nell’anniversario dell’uccisione di Olof Palme. Pazienza è una persona sottile, non fa le cose grossolanamente. Nell’anniversario dell’uccisione di Palme fece la famosa dichiarazione della cosiddetta “cupola Santovito”. Cos’era la “cupola Santovito”? Era la cupola che stava sopra il generale Santovito e Gelli, ed era gestita da Michael Ledeen: cioè la P1, di cui non ha mai parlato nessuno. Questo per farvi capire come, in realtà, il potere fa un’operazione semplicissima: ci offre soluzioni estremamente complicate per nascondere quelle semplici.Se cerchiamo la soluzione semplice rischiamo di trovare la verità, ma siccome il potere ci offre sempre delle soluzioni “mistiche”, esoteriche e sataniche complicate (contorte, fantasiose, suggestive, depistanti), noi la verità semplice non l’andiamo a cercare. Non ci chiediamo mai perché la massoneria fa una loggia che si chiama “Propaganda” e poi decide che sia segreta: se è segreta, dov’è la propaganda? Avete mai visto una propaganda segreta?Invece: fanno la loggia “Propaganda”, dove vanno quelli famosi, perché così la massoneria ha una bellissima reputazione, ma la fanno segreta. E perché? A che serve? Se uno si fa le domande giuste e va appresso alle cose semplici, si dà delle risposte: nel senso che la “Propaganda”, la P2, era il modo più efficace – una volta scoperta – per coprire la P1. Ovvero: ti faccio trovare quello che tu puoi trovare, per non farti trovare quello che non si deve trovare. Così funziona.(Gianfranco Carpeoro, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti di “Border Nights” nella diretta web-radio da Civitanova Marche il 23 luglio 2017, ripresa su YouTube. Già a capo della comunione massonica italiana di Piazza del Gesù, da lui stesso poi disciolta, l’avvocato Carpeoro – al secolo, Gianfranco Pecoraro – è un acuto studioso di simbologia esoterica, ha appena dato alle stampe il prezioso volume “Summa Symbolica” e, nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, uscito nel 2016, offre una particolarissima chiave di lettura per inquadrare lo schema di potere denominato “sovragestione” che tiene insieme settori dell’élite, servizi segreti atlantici e manovalanza terroristica, dagli “anni di piombo” alla P2 di Gelli, fino alla segretissima Loggia P1 e all’Isis).Andate a vedere quanta galera ha fatto Morucci, presunto capo delle Brigate Rosse. A Curcio, che ha colpito solo il carabiniere che aveva sparato nella schiena alla sua donna, sotto stati attribuiti – come concorso morale – tutti gli omicidi commessi da Morucci. Il problema è che Morucci ha fatto sì e no sei mesi di carcere, e Curcio ha fatto tutta la pena – ma non la metà, con la semi-libertà: tutta. Sapete che in Italia l’ergastolo non esiste: dopo trent’anni di buona condotta ti devono mettere fuori, anche se di ergastoli ne hai dodici. Curcio dopo trent’anni l’hanno messo fuori; Morucci dopo quanto? Un anno, un anno e mezzo? Poi è entrato nel programma protezione, ora non si sa più neanche dove sia. Perché? Perché le Brigate Rosse, dopo Curcio, erano finite sotto la gestione diretta dei servizi segreti, non più sotto la gestione indiretta. Ma peggio dei servizi segreti: di Gladio. Cioè, non erano i servizi segreti: erano i servizi segreti che gestivano le Brigate Rosse per conto di Stay Behind, cioè di Michael Ledeen e del generale Santovito. E Curcio, che si è fatto tutti i trent’anni, ne è la prova vivente. E quando esce, e dice “mah, forse ora lo scrivo, un libro”, gli tolgono il posto all’università: lui attualmente è disoccupato, anzi ha fatto un appello per dire: rimettetemi in carcere, che almeno mangio.
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La povertà è il più grosso business inventato dai ricchi
La pubblicazione dei dati Eurostat sull’aumento della povertà e del rischio-povertà in Europa ha suscitato sui media il solito dibattito, viziato in partenza dal rappresentare l’impoverimento come un “problema”, come un effetto indesiderato delle politiche di rigore. «In realtà il bombardamento sociale del rigore finanziario non è sostanzialmente diverso dai bombardamenti militari, nei quali l’obbiettivo dichiarato è un pretesto non soltanto per il consumismo delle bombe (tanto paga il contribuente), ma anche per fare il maggior numero possibile di “danni collaterali”, cioè di vittime civili». Lo scriveva “Comidad” nel 2012, ma sembra scritto oggi. «Anche il rigore è un business, e il “danno collaterale” della maggiore povertà apre a sua volta nuove frontiere al business». In questi anni, aggiunge il blog, è risultato sempre più evidente il nesso consequenziale tra l’aumento della povertà e la finanziarizzazione dei rapporti sociali: «La povertà diventa un business finanziario, costringendo i poveri all’indebitamento crescente». Lo confermano annunci come quello del governo tedesco, che si vantà di aver raggiunto il pareggio di bilancio con un anno di anticipo. Ma la Germania «ha potuto finanziare il suo debito pubblico a tasso zero, poiché, contestualmente, sono stati i paesi del Sud dell’Europa non solo a pagare tassi di interesse più alti, ma anche a indebitarsi maggiormente».Dopo il funesto 2011, in cui il mainstream ha ripetuto in modo martellante il “mantra del debito”, visto come problema e colpa sociale, «si è poi scoperto che il governo Monti non soltanto non ha ridotto il debito pubblico, ma lo ha aumentato», annota “Comidad”, in un post ripreso dal blog “La Crepa nel Muro”. «Il cosiddetto spread si è rivelato così una tassa sulla povertà, un’elemosina dei poveri nei confronti dei ricchi». E intanto ha fatto passi da gigante «l’addestramento dei poveri all’uso degli strumenti finanziari». Lo stesso governo Monti rilanciò la Social Card di tremontiana memoria: viste le cifre in ballo per quella carta prepagata, il vantaggio per le famiglie è apparso subito «pressoché inesistente». Semmai a incassare sarebbe stato il gestore finanziario, BancoPosta. Lo scopo della Social Card, in realtà, era quello di «allargare il target dei servizi finanziari», tanto per cambiare sul modello degli Usa, dove «anche lì in via sperimentale, la Social Security Card si è diffusa a macchia d’olio», arrivando nel 2013 a dieci milioni di utenti.«I paesi anglosassoni stanno dimostrando che i poveri costituiscono un target inesauribile per l’offerta di servizi finanziari», sottolinea “Comidad”. «Non soltanto la carta di credito viene oggi concessa anche ai disoccupati, ma questi sono anche fatti oggetto di un vero e proprio allettamento per dotarsi di questo “servizio” finanziario. Il fatto è comprensibile, se si considera che disoccupati e precari possono essere ridotti ad un livello assoluto di dipendenza da questi strumenti finanziari; cosa che non sarebbe possibile nei confronti di chi disponesse di fonti regolari di reddito». Se i prestiti ai poveri fossero ancora in contanti, allora i rischi di insolvenza «sarebbero mortali per un business del genere». Ma oggi c’è il denaro elettronico, e quindi «le banche non devono compromettere la propria liquidità per concedere carte di credito». I poveri tendono ancora a servirsi soprattutto di contanti, «ma le banche intendono sollevare le masse da questa condizione primitiva, attraverso quello che chiamano un programma di “inclusione finanziaria”».Aggiunge “Comidad”: «Il suono nobile e commovente della parola “inclusione” serve a nascondere il fatto che si tratta di un programma a basso rischio d’impresa per lo sfruttamento delle possibilità di indebitamento delle masse più povere». Il blog ricorda che già nel 2007 il governo britannico elaborò un piano di inclusione finanziaria «per salvare le masse di “unbanked” dal loro misero destino e per metterle a disposizione dell’amorevole offerta di servizi bancari». Lo stesso governo britannico «ha ritenuto di porre una deroga ai limiti della sua “spending review” pur di stanziare dei fondi per questo piano umanitario». Anche la Banca d’Italia «ha impostato un piano analogo, in attuazione delle indicazioni del G-20 a riguardo». A quanto pare, continua “Comidad”, «il denaro elettronico ha un club di supporter piuttosto nutrito». La Banca Mondiale, nella sua veste di agenzia specializzata dell’Onu, rappresenta l’avanguardia in questo progetto di “soccorso mondiale agli unbanked”. Robert Zoellick, presidente della Banca Mondiale sino al 2011, ha profuso più di tutti il suo personale impegno nella “financial inclusion”.«Zoellick costituisce il prototipo del perfetto “bombanchiere”: proviene da Goldman Sachs e, nel periodo in cui ha fatto parte dell’amministrazione Bush, è stato uno dei promotori più zelanti dell’aggressione all’Iraq. Zoellick è anche un ospite d’onore, pressoché fisso, del Consiglio Atlantico della Nato». Le banche hanno ormai una pessima reputazione e, spesso, persino una pessima stampa. «Ma le denunce possono rimanere sul vago, mentre, come si dice, il diavolo si annida nei dettagli. C’è qualche prestigioso commentatore che auspica addirittura un passaggio completo al denaro elettronico, con l’abbandono definitivo del contante; ciò in nome della lotta all’evasione fiscale, come se l’elettronica fosse intrinsecamente onesta, e fosse in grado solo di “tracciare” e non potesse anche sviare». Per “Comidad”, l’unico risultato certo dell’adozione integrale del denaro elettronico «sarebbe invece quello di rendere definitiva la “financial inclusion”, cioè di non porre più limiti alle possibilità per le banche di impoverire e sfruttare i popoli».La pubblicazione dei dati Eurostat sull’aumento della povertà e del rischio-povertà in Europa ha suscitato sui media il solito dibattito, viziato in partenza dal rappresentare l’impoverimento come un “problema”, come un effetto indesiderato delle politiche di rigore. «In realtà il bombardamento sociale del rigore finanziario non è sostanzialmente diverso dai bombardamenti militari, nei quali l’obbiettivo dichiarato è un pretesto non soltanto per il consumismo delle bombe (tanto paga il contribuente), ma anche per fare il maggior numero possibile di “danni collaterali”, cioè di vittime civili». Lo scriveva “Comidad” nel 2012, ma sembra scritto oggi. «Anche il rigore è un business, e il “danno collaterale” della maggiore povertà apre a sua volta nuove frontiere al business». In questi anni, aggiunge il blog, è risultato sempre più evidente il nesso consequenziale tra l’aumento della povertà e la finanziarizzazione dei rapporti sociali: «La povertà diventa un business finanziario, costringendo i poveri all’indebitamento crescente». Lo confermano annunci come quello del governo tedesco, che si vantà di aver raggiunto il pareggio di bilancio con un anno di anticipo. Ma la Germania «ha potuto finanziare il suo debito pubblico a tasso zero, poiché, contestualmente, sono stati i paesi del Sud dell’Europa non solo a pagare tassi di interesse più alti, ma anche a indebitarsi maggiormente».
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Medusa è il potere: se lo guardi ti pietrifica, succede a tutti
Per poter gestire la cosa pubblica bisogna essere formati, e formati molto bene. Questo gli antichi lo sapevano, ci hanno avvertito, ma è un sapere che ci è stato completamente tolto. Il potere è una delle cose più pericolose da maneggiare. Non si presenta mai come tale, ma indossa sempre dei panni – di prestigio, ambizione, ascendente, reputazione, carisma, decisione. Ha sempre una maschera, e i greci lo sapevano bene: il mito della Medusa lo descrive molto bene. La Medusa era il potere, il nome si riferisce a colei che domina, sovrana, ed è una combinazione tra umano e bestiale tra le più terrifiche. Insieme a Steno e Euriale è una delle tre Gorgoni. Secondo il mito, avevano il potere di pietrificare chiunque avesse incrociato il loro sguardo. E, delle tre, Medusa era l’unica a non essere immortale. Solitamente venivano rappresentate con le ali d’oro, le mani con artigli di bronzo, il volto leonino, zanne da cinghiale, orecchie allargate – gli attributi simbolici di tutte le metafore zoomorfe del potere. E il loro potere mortale era nello sguardo. La Medusa era tutta mostruosa, ma concentrava negli occhi la sua arma fondamentale: fissare la Medusa significava perdersi, trasformarsi in pietra dura, opaca.Cosa voleva dire, il mito? Attenzione: il potere possiede quasi un incantesimo. E quindi, nel momento in cui tu guardi e non sei formato, non sei protetto, perdi te stesso. Perdi la tua capacità di guardare, di avere uno sguardo proprio, di appartenerti. La Medusa è disumana, ed è in grado di disumanizzare chi vi entra in relazione. E infatti chi uccide la Medusa? Perseo, perché è formato e protetto: ha lo scudo di Atena, i calzari alati offerti da Ermes. Perseo è colui che doma le potenze infere, la natura selvaggia del potere. La conoscenza non è altro che scudo e consapevolezza: solo chi è formato può resistere al potere, può andare in un posto di potere e non perdersi, una volta raggiunto il potere. Se non sei formato, puoi essere anche la persona con le migliori intenzioni del mondo, ma verrai pietrificato.Tanto è forte, questo insegnamento, che addirittura a Dante, nel nono canto dell’Inferno, quando incontra le Gorgoni, Virgilio dice di chiudere gli occhi; non sicuro che Dante tenga davvero gli occhi chiusi, gli chiude gli occhi lui stesso, con le mani, perché sa che le Gorgoni sono pericolosissime. Virgilio mette proprio le mani sugli occhi di Dante e gli dice: volgiti indietro e tieni il viso chiuso, perché se la Gorgona si mostrasse e tu la vedessi, nulla potrebbe più tornare come prima, saresti perso per sempre. E subito dopo c’è quel famoso verso, che poi ognuno interpreta un po’ come vuole, dove Dante, appena dopo l’avvertimento di Virgilio, dice: “O voi ch’avete li ‘ntelletti sani, mirate la dottrina che s’asconde sotto ‘l velame de li versi strani”. Come dire: se un giorno avrai intenzione di ricoprire una carica importante, e quindi andare in un posto di potere a fare determinate cose, potrai essere la persona migliore del mondo e avere le intenzioni migliori del mondo, ma se non sei formato sarà un disastro, per te ma soprattutto per gli altri.Noi oggi questo non lo sappiamo, e quindi puntiamo sui giovani. Brave persone? Bene, ci fa piacere, ma sono anche adeguati? Bisogna essere formati, e bisogna avere esperienza. Siamo abituati a visitare New York sul computer; ma passeggiarci davvero, a piedi, è un’altra cosa. Queste sono tutte saggezze che a noi sono state tolte. Anzi, ci fanno credere il contrario: ci fanno credere che oggi il mondo dev’essere dei giovanissimi, e che a 25 anni sei già vecchio. “Largo ai giovani”, che non sono formati. E pur essendo persone meravigliose, quando arrivano in determinati posti vengono stritolati: si perdono. Questa è una saggezza tramandata ovunque, da Omero in poi, dal IX secolo avanti Cristo. Ma poi a noi hanno iniziato a cambiare il modello di insegnamento, perché noi non dovevamo più formare uomini, ma creare lavoratori.(Solange Manfredi, dichiarazioni rilasciate nel corso della diretta web-radio di “Forme d’Onda” del 4 maggio 2017).Per poter gestire la cosa pubblica bisogna essere formati, e formati molto bene. Questo gli antichi lo sapevano, ci hanno avvertito, ma è un sapere che ci è stato completamente tolto. Il potere è una delle cose più pericolose da maneggiare. Non si presenta mai come tale, ma indossa sempre dei panni – di prestigio, ambizione, ascendente, reputazione, carisma, decisione. Ha sempre una maschera, e i greci lo sapevano bene: il mito della Medusa lo descrive molto bene. La Medusa era il potere, il nome si riferisce a colei che domina, sovrana, ed è una combinazione tra umano e bestiale tra le più terrifiche. Insieme a Steno e Euriale è una delle tre Gorgoni. Secondo il mito, avevano il potere di pietrificare chiunque avesse incrociato il loro sguardo. E, delle tre, Medusa era l’unica a non essere immortale. Solitamente venivano rappresentate con le ali d’oro, le mani con artigli di bronzo, il volto leonino, zanne da cinghiale, orecchie allargate – gli attributi simbolici di tutte le metafore zoomorfe del potere. E il loro potere mortale era nello sguardo. La Medusa era tutta mostruosa, ma concentrava negli occhi la sua arma fondamentale: fissare la Medusa significava perdersi, trasformarsi in pietra dura, opaca.