Archivio del Tag ‘rifiuti’
-
Contro l’arte del brutto, schiava del sistema delle merci
Cos’è che consente di accrescere la produzione annua di merci e, di conseguenza, incrementa i consumi di risorse naturali e di energia, le emissioni inquinanti, le emissioni climalteranti e i rifiuti? Le innovazioni tecnologiche finalizzate ad accrescere la produttività. I macchinari innovativi che in un dato intervallo di tempo consentono di produrre sempre di più, riducendo l’incidenza del lavoro umano sul valore aggiunto. Cos’è che riduce progressivamente gli intervalli di tempo in cui le risorse naturali transitano nello stato di merci prima di diventare rifiuti? Le innovazioni tecnologiche ed estetiche finalizzate a rendere obsoleti i prodotti in commercio, al fine di accelerare i processi di sostituzione.Cos’è che induce a progettare in continuazione prodotti tecnologicamente ed esteticamente innovativi, al fine di rendere obsoleti e trasformare in rifiuti in tempi sempre più brevi i prodotti in commercio? La necessità di tenere alta la domanda di merci, in modo da assorbire l’offerta crescente di merci attivata dalle innovazioni tecnologiche che accrescono la produttività. Le innovazioni di processo e di prodotto costituiscono la fisiologia dei sistemi economici finalizzati alla crescita della produzione di merci.Senza innovazioni di processo non potrebbe aumentare l’offerta di merci. Senza innovazioni di prodotto non potrebbe aumentare la domanda di merci. Le innovazioni di processo e di prodotto stanno esaurendo gli stock delle risorse non rinnovabili, hanno fatto crescere il consumo di risorse rinnovabili fino a superare le loro capacità di rigenerazione annua, sono la causa di fondo dell’effetto serra, stanno svuotando gli oceani di molte specie ittiche e li stanno riempiendo di ammassi di rifiuti di plastica grandi come continenti, hanno saturato la biosfera di sostanze tossiche, distrutto in pochi anni la bellezza di paesaggi lentamente antropizzati nel corso di secoli, ridotto la biodiversità e mineralizzato i terreni agricoli, esteso la fame nel mondo e causato le guerre sempre più atroci che da più di un secolo lo insanguinano. Le innovazioni finalizzate alla crescita della produzione e del consumo di merci stanno minacciando la sopravvivenza stessa dell’umanità. Poiché hanno bisogno delle innovazioni, i sistemi economici e produttivi finalizzati alla crescita della produzione di merci hanno anche bisogno di valorizzare culturalmente l’innovazione in quanto tale. La pietra angolare della cultura su cui modellano l’immaginario collettivo è l’identificazione tra i concetti di innovazione e di miglioramento.Nel loro paradigma culturale ogni innovazione è un miglioramento, senza innovazioni non ci sono miglioramenti; la storia è un costante progresso verso il meglio, le tappe di questo progresso sono scandite dalla successione delle innovazioni e la sua velocità dalla velocità con cui le innovazioni successive sostituiscono le precedenti. La valorizzazione culturale dell’innovazione in sé induce a immaginare il futuro come uno scrigno di inesauribili potenzialità di miglioramento su cui concentrare tutta l’attenzione, a pensare il passato come un deposito di materiali definitivamente inutilizzabili da dimenticare al più presto, a guardare sempre in avanti, come i marinai di vedetta in cima all’albero maestro dei galeoni, per riuscire a vedere prima degli altri le novità che si delineano all’orizzonte, a non girare mai indietro la testa perché se ci si attarda a osservare ciò che è stato non solo non si ricava niente di utile, ma si rischia di perdere posizioni nella corsa verso il nuovo e si finisce per fare la fine di Orfeo che, per essersi girato a vedere se Euridice continuava a seguirlo nella difficile anabasi dall’al di là, la perse definitivamente.Nella valorizzazione culturale dell’innovazione, all’arte è stato assegnato il compito di esplorare i confini più avanzati della modernità, cioè di rincorrere senza sosta il nuovo che, come l’orizzonte, si allontana passo dopo passo da chi cerca di avvicinarlo, perché c’è sempre un più nuovo in agguato del nuovo, un più nuovo che al suo apparire trasforma il nuovo in vecchio, in attesa di essere trasformato anch’esso in vecchio dal più nuovo che scalpita alle sue spalle. Nei sistemi economici finalizzati alla crescita della produzione di merci, l’arte, in tutte le forme in cui si manifesta (pittura, scultura, musica, poesia, architettura), è stata scacciata di forza dalla sua dimensione universale ed eterna e ha finito per trovarsi rinchiusa nella dimensione dell’effimero. Le è stato imposto di essere innovativa per essere sempre contemporanea, di sganciare il nuovo dall’abbraccio troppo stretto con le funzioni economiche e produttive a cui risponde nei sistemi economici finalizzati alla crescita, di cancellare dall’immaginario collettivo la percezione del suo ruolo distruttivo e di accompagnarlo in quella dimensione spirituale, non invischiata nelle miserie quotidiane della vita, in cui nel corso della storia gli esseri umani si sono abituati a collocare le manifestazioni artistiche.Per risvegliare l’umanità da questo incantesimo che la sta perdendo, occorre liberare la cultura dal vincolo della valorizzazione dell’innovazione, che le è stato imposto dal sistema economico e produttivo finalizzato alla crescita della produzione di merci. Accanto e in sintonia con chi si propone di liberare le attività economiche e produttive dal vincolo delle innovazioni finalizzate alla crescita, noi ci proponiamo di liberare tutte le forme dell’espressione artistica dal vincolo di valorizzare culturalmente l’innovazione, che ha dato un contributo essenziale alla formazione di un immaginario collettivo che considera un progresso la riduzione del lavoro a un “fare per fare sempre di più”. Per riportarlo alla sua essenza di “fare bene” finalizzato alla contemplazione di ciò che si è fatto, occorre ridefinire un sistema di valori in cui la bellezza torni ad essere più importante del profitto: perché, come si può contemplare ciò che si è fatto se non ha aggiunto bellezza alla bellezza originaria del mondo?Per trasformare dalle fondamenta il paradigma culturale oggi dominante, è necessario ricostruire un immaginario collettivo capace non solo di smascherare, irridendoli senza soggezione, i quattro trucchi da imbonitore con cui l’arte contemporanea persegue la valorizzazione culturale dell’innovazione, ma anche di riconoscere il segno dell’arte che penetra sino alle corde profonde dell’animo umano, vincendo i limiti dello spazio e del tempo; creando, come ha sempre fatto prima di essere irretita nella tela della modernità, un collegamento ininterrotto tra le generazioni. Perché l’arte, come ha scritto Egon Schiele sul muro della prigione in cui era rinchiuso, non è moderna. L’arte è eterna.(Manifesto “Per un rinascimento possibile”, sottoscritto da Gabriella Arduino, architetto e pittore; Vincent Cheynet, caporedattore de “La Décroissance”; Pier Paolo Dal Monte, medico e filosofo; Massimo De Maio, grafico ed ecologista; Filippo Laporta, saggista e critico letterario; Giordano Mancini, maestro d’arte, green manager; Maurizio Pallante, saggista; Alessandro Pertosa, ricercatore in filosofia; Mario Pisani, architetto; Paolo Portoghesi, architetto; Giannozzo Pucci, editore; Bruno Ricca, editore; Lucilio Santoni, scrittore; Filippo Schillaci, saggista).Sui temi enunciati dal “manifesto”, i firmatari – impegnati anche sul sito www.artedecrescita.it, promuovono un seminario a Firenze il 29, 30 e 31 maggio 2015 presso il monastero delle suore benedettine di Santa Marta, tel. 055.489089, pensione completa 45-65 euro al giorno, 60 posti disponibili. E’ possibile contribuire ai lavori anche inviando testi e materiali sul tema, entro il 31 marzo. Invio materiali e prenotazioni per il seminario: Maurizio Pallante, maur.pallante@gmail.com, Alessandro Pertosa, a.pertosa@libero.it, Vincent Cheynet, vincent.cheynet@casseursdepub.org).Cos’è che consente di accrescere la produzione annua di merci e, di conseguenza, incrementa i consumi di risorse naturali e di energia, le emissioni inquinanti, le emissioni climalteranti e i rifiuti? Le innovazioni tecnologiche finalizzate ad accrescere la produttività. I macchinari innovativi che in un dato intervallo di tempo consentono di produrre sempre di più, riducendo l’incidenza del lavoro umano sul valore aggiunto. Cos’è che riduce progressivamente gli intervalli di tempo in cui le risorse naturali transitano nello stato di merci prima di diventare rifiuti? Le innovazioni tecnologiche ed estetiche finalizzate a rendere obsoleti i prodotti in commercio, al fine di accelerare i processi di sostituzione. Cos’è che induce a progettare in continuazione prodotti tecnologicamente ed esteticamente innovativi, al fine di rendere obsoleti e trasformare in rifiuti in tempi sempre più brevi i prodotti in commercio? La necessità di tenere alta la domanda di merci, in modo da assorbire l’offerta crescente di merci attivata dalle innovazioni tecnologiche che accrescono la produttività. Le innovazioni di processo e di prodotto costituiscono la fisiologia dei sistemi economici finalizzati alla crescita della produzione di merci.
-
Gli Usa nei guai, i sauditi boicottano il petrolio americano
Il prezzo del petrolio crolla e gli Usa sono davvero nei guai: da un lato il crollo dei prezzi colpisce anche la Russia, ma soprattutto mette fuori combattimento il petrolio americano, quello di scisto ottenuto col fracking. Geopolitica: al centro della scena c’è l’Arabia Saudita, che si sta “vendicando” degli Usa per la vicenda dell’Isis, la milizia sfuggita al controllo della Cia e decisa a rovesciare la monarchia saudita. Lo sostiene l’economista Dmitry Orlov, secondo cui si sta avvicinando la fine del petrodollaro. Nel corso del 2014 il prezzo del petrolio è caduto da oltre 125 a circa 45 dollari al barile, e potrebbe ulteriormente calare per poi risalire di nuovo. Questo selvaggio saliscendi del mercato del petrolio potrebbe portare l’economia al collasso, insieme alla lotteria dei mercati finanziari, la crisi valutaria, la bancarotta delle società energetiche e quella degli istituti che le hanno finanziate, nonché il default dei paesi che le hanno sostenute. «E senza un’economia industriale funzionante, il petrolio potrebbe essere riclassificato al livello di mero rifiuto tossico. Ma questo evento è da spostare in avanti di due o tre decenni». Nel frattempo, a crollare sarà il petrolio americano.Il gioco al ribasso dei sauditi, scrive Orlov in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, metterà fuori mercato molti produttori di petrolio non-convenzionale (quello convenzionale, facile da estrarre da pozzi verticali, ha raggiunto il picco di produzione nel 2005 e da allora è in calo). La produzione di petrolio non-convenzionale – compreso quello estratto in mare o derivato dalle sabbie bituminose, il petrolio di scisto (idro-fratturazione) o comunque quello la cui produzione richiede tecniche molto costose – è stato finanziato con notevole generosità per compensare il deficit energetico nazionale. Ma al momento, per essere prodotto costa ancora troppo: più di quanto si possa ricavare a venderlo. «Questo significa che intere produzioni – il petrolio pesante del Venezuela (che ha bisogno di essere migliorato per poter essere utilizzato), il petrolio estratto nel Golfo del Messico (Messico e Stati Uniti) e in altre località offshore (Norvegia e Nigeria), le sabbie bituminose del Canada, il petrolio di scisto (Stati Uniti) – rischiano di andare fuori mercato. I produttori, in questo momento, stanno bruciando i loro soldi. Se i prezzi del petrolio resteranno così bassi, saranno costretti a chiudere».Nel frattempo, continua Orlov, si sta impoverendo il petrolio di scisto americano: lo stanno pompando al massimo, stabilendo nuovi record di produzione, ma il numero di nuovi pozzi sta rapidamente crollando. «I pozzi si esauriscono molto velocemente: le portate si riducono della metà nel giro di pochi mesi e, dopo un paio d’anni, diventano del tutto trascurabili. La produzione può essere mantenuta solo facendo ricorso senza soste alla trivellazione di nuovi pozzi. Ma, al contrario, quest’attività si è pressoché fermata». Morale: «L’intera partita del petrolio di scisto, che alcuni pupazzi dalla testa ciondolante pensavano avrebbe fatto degli Stati Uniti una nuova Arabia Saudita, andrà a finire». Orlov ricorda che l’eccesso di produzione di petrolio, che ne ha fatto precipitare il prezzo, non è stato così grande: «Tutto è cominciato con la decisione, concertata fra Stati Uniti e Arabia Saudita, di scaricare sul mercato internazionale quantità maggiori di petrolio per farne scendere il prezzo». Oggi, «i leader degli Stati Uniti sanno benissimo che i giorni del loro paese come “più grande produttore mondiale di petrolio” si misurano in settimane o in mesi, e non in anni».Secondo Orlov, la leadership Usa si rende conto del fatto che «il crollo della produzione di petrolio di scisto causerà all’economia i tipici problemi che seguono un’ubriacatura». E se oggi tutti pompano petrolio di scisto più che possono, a prescindere dal prezzo, a un certo punto accadrà una di queste due cose: «O la produzione andrà a crollare, oppure i produttori si troveranno a corto di denaro – e la loro produzione crollerà di conseguenza». Secondo Orlov, «gli Stati Uniti stanno scommettendo sul fatto che prezzi del petrolio così bassi finiranno con il distruggere i governi dei tre grandi produttori di petrolio che non sono sotto il loro controllo politico-militare. Questi paesi sono il Venezuela, l’Iran e, naturalmente, la Russia. Le probabilità di successo sono minime ma, non avendo altre carte da giocare, gli Stati Uniti ci stanno disperatamente provando». Il Venezuela non è un “premio” sufficiente, mentre l’Iran si sta legando solidamente alla Cina, oltre che alla Russia. Quanto a Mosca, può fare profitti anche solo vendendo il suo petrolio a 25-30 dollari al barile.«Gli Stati Uniti – continua Orlov – stanno facendo un tentativo disperato per rovesciare uno o due o tre petro-stati», e di farlo «prima che il suo petrolio di scisto si esaurisca». Ci riusciranno? Ultimamente, gli Usa hanno collezionato solo sconfitte, specie nelle operazioni di intelligence. Persino la Turchia si è sfilata dalla “psy-op” parigina, targata “Charlie Hebdo”: strategia della tensione, per Erdogan, con “terroristi” telecomandati. «E’ la ragione per cui i presunti autori sono stati giustiziati sommariamente dalla polizia, prima che qualcuno potesse scoprire qualcosa su di loro», scrive Orlov. «E’ ormai diventato chiaro che questi eventi sono stati cucinati dallo stesso gruppo di hacker, tutto sommato non così terribilmente creativo. Sembrano stiano riciclando i “Powerpoint”: basta eliminare Boston e inserire Parigi». Idem per l’abbattimento del volo Malaysia Airlines Mh-17 avvenuto nell’Ucraina Orientale: «I funzionari pubblici occidentali addossarono istantaneamente la colpa ai “ribelli supportati da Putin”, che l’avevano proditoriamente abbattuto, ma quando i risultati della conseguente inchiesta portarono ad una diversa conclusione, essi furono secretati». E’ stato un disertore ucraino a rivelare che il jet fu abbattuto da un missile aria-aria sparato da un velivolo ucraino da combattimento. Notizia da prima pagina, censurata dai media occidentali.E poi c’è il nodo saudita: la monarchia dei Saud è «molto dispiaciuta con gli Stati Uniti», perché Washington «sta mancando il compito di “polizia di quartiere” che gli è stato affidato, e non è più in grado di mettere un coperchio sulle cose», cioè il dilagare dell’Isis,«inizialmente organizzato e addestrato dagli statunitensi», ma che ora «sta minacciando di distruggere la “Casa dei Saud”». Geopolitica fallimentare: «L’Afghanistan sta tornando ad essere il Talebanistan, l’Iraq ha ceduto una parte del suo territorio all’Isis e ora controlla solo quello corrispondente ai regni dell’età del bronzo (Akkad e Sumer), la Libia è preda della guerra civile, l’Egitto è stato “democratizzato” facendolo piombare in una dittatura militare, la Turchia (membro della Nato e candidata ad entrare nell’Ue) sta negoziando soprattutto con la Russia, la missione di rovesciare Assad in Siria è nel caos e i “partner” yemeniti degli Stati Uniti sono appena stati rovesciati dai miliziani sciiti». Infine, «la joint-venture statunitense-saudita, istituita per destabilizzare la Russia fomentando il terrorismo nel Caucaso del Nord, è completamente fallita», dopo aver inutilmente minacciato attentati terroristici alle Olimpiadi Invernali di Sochi (fu il principe saudita Bandar Bin Sultan a minacciare personalmente Putin).«E così i sauditi stanno pompando petrolio a tutta forza non tanto per aiutare gli Stati Uniti, ma per altre e più evidenti ragioni: per spingere fuori dal mercato i produttori di petrolio non-convenzionale e mantenere la loro quota di mercato», afferma Orlov, che ricorda come gli stessi sauditi siano «seduti su un’enorme riserva di dollari Usa, che vogliono mettere a frutto mentre valgono ancora qualcosa». Anche la Russia dispone di vaste riserve di dollari, e continua a sua volta a pompare petrolio. «Il bene più grande della Russia non è il petrolio, ma la pazienza della sua gente: i russi capiscono che dovranno attraversare un periodo difficile per sostituire le importazioni (da Ovest, in particolare) con la produzione nazionale (e con le importazioni da altri paesi). Tutto sommato possono permettersi una perdita, perché riavranno tutto indietro, una volta che il prezzo del petrolio tornerà a salire». Secondo Orlov, la risalita avverrà «non appena alcuni produttori di petrolio non-convenzionale cesseranno la loro attività, perché non più remunerativa». A quel punto «non ci sarà più alcuna produzione in eccesso, e il prezzo non potrà che risalire». L’instabilità continua moltiplicherà «i cadaveri delle compagnie petrolifere in fallimento», minacciando l’impero economico del petrolio e il suo attuale azionista principale, gli Usa.Il prezzo del petrolio crolla e gli Usa sono davvero nei guai: da un lato il crollo dei prezzi colpisce anche la Russia, ma soprattutto mette fuori combattimento il petrolio americano, quello di scisto ottenuto col fracking. Geopolitica: al centro della scena c’è l’Arabia Saudita, che si sta “vendicando” degli Usa per la vicenda dell’Isis, la milizia sfuggita al controllo della Cia e decisa a rovesciare la monarchia saudita. Lo sostiene l’economista Dmitry Orlov, secondo cui si sta avvicinando la fine del petrodollaro. Nel corso del 2014 il prezzo del petrolio è caduto da oltre 125 a circa 45 dollari al barile, e potrebbe ulteriormente calare per poi risalire di nuovo. Questo selvaggio saliscendi del mercato del petrolio potrebbe portare l’economia al collasso, insieme alla lotteria dei mercati finanziari, la crisi valutaria, la bancarotta delle società energetiche e quella degli istituti che le hanno finanziate, nonché il default dei paesi che le hanno sostenute. «E senza un’economia industriale funzionante, il petrolio potrebbe essere riclassificato al livello di mero rifiuto tossico. Ma questo evento è da spostare in avanti di due o tre decenni». Nel frattempo, a crollare sarà il petrolio americano.
-
L’antispreco è servito, tra gli chef anche Serge Latouche
Bastano tre mele per fare un dolce-capolavoro. L’importante? E’ che siano bacate. Parola di Anna Blasco, “food stylist” e “food maker” torinese. Perché il capolavoro è doppio: non solo il gusto, ma anche il piacere del recupero del cibo che sta per finire nella spazzatura. Pura filosofia: il cibo non è solo un mezzo per vivere, come insegna Emmanuel Lévinas. «All’esteriorità del cibo corrisponde la nostra sensibilità», spiega il professor Enrico Guglielminetti, direttore di “Spazio Filosofico”. «Il rapporto che abbiamo col cibo è analogo al rapporto che abbiamo con gli altri». Mancanza di rispetto: «Lo spreco alimentare, che riduce il cibo a rifiuto, è un caso esemplare». Una sorta di abuso di potere. «Produrre rifiuti allora diventa un vizio, l’opposto della virtù». E noi di cibo ne sprechiamo troppo: 1,3 miliardi di tonnellate l’anno, cioè un terzo di tutta la produzione mondiale di alimenti destinati all’uomo, lungo la filiera-colabrodo dei consumi di massa. Rimediare? Ovvio che sì. Partendo dalla cucina di casa. Basta seguire, alla lettera, le ricette di grandi chef: che si chiamano Maurizio Pallante, Hilary Wilson, Rossano Ercolini, Pamela Warhurst. E Serge Latouche, naturalmente.«Mangiare meglio, non meno», raccomanda il caposcuola francese del pensiero della decrescita. «Partiamo dalla pratica, dalle piccole cose quotidiane: abbandonare l’abitudine di sprecare, di acquistare cibo che arriva dall’altra parte del mondo, rivestito di imballaggi in plastica». Latouche è il maître della tavola (digitale) imbandita da Alessandra Mazzotta, “L’antispreco è servito”, agile manuale in formato ebook. L’autrice, giornalista specializzata in comunicazione ambientale e sostenibilità, si definisce «pessima cuoca, ma buona forchetta». In città si sposta in bici e «viaggia come ecoturista anche in sogno», secondo l’editore, “Bookrepublic”. Sogni? Quello di Latouche è «un’utopia socialista» chiamata decrescita, per «aiutarci a sperare», fuori dal totalitarismo consumistico. Intanto, “L’antispreco è servito” propone ricette domestiche per un risveglio anche immediato. Formule divertenti, come quella del “mago” Ercolini che trasforma in funghi i fondi di caffè. E prodigi sensazionali come il miracolo di Todmorten, vicino a Manchester, dove due donne si sono inventate la rivoluzione verde di “Incredible Edible”, il villaggio dove gli ortaggi a disposizione degli abitanti crescono persino nelle aiuole della stazione di polizia.«In un mondo paradossale in cui un miliardo di persone soffre di fame e un altro miliardo di malattie connesse con l’obesità, le distorsioni pesano troppo nel piatto e assumono un sapore di immoralità», scrive Mazzotta. «Nei paesi industrializzati, solo per fare qualche esempio, si cestinano 222 milioni di tonnellate di cibo, che equivalgono – tonnellata più, tonnellata meno – alla produzione alimentare disponibile dell’intera Africa sub-sahariana». Gli sprechi alimentari sono ovunque: dalla produzione agricola fino alla distribuzione. «Per non parlare di quelli che avvengono a livello domestico, nelle nostre cucine», sui cui antidoti è concentrata la mappa operativa del libro, utilissima per orientarsi da subito, cercare maestri, trovare alleati preziosi. Associazioni, campagne antispreco, Last Minute Market. Un mondo, navigabile partendo dal computer. Dalla piccola distribuzione alla ristorazione, la spesa consegnata in bicicletta e il locale aperto a Leeds dallo chef Adam Smith, dove vengono serviti piatti di ogni genere, dalla bistecca alla zuppa, a base di ingredienti scartati dagli stabilimenti alimentari della città. «Buon cibo salvato dalla discarica, che aiuta anche a nutrire chi fatica ad arrivare alla fine del mese».Il libro propone una geografia confortante, dalla rete milanese dei ristoranti “ad avanzi zero”, ai sommelier dell’Ais che spiegano come portarsi a casa il vino avanzato. Cresce la rete del “food sharing”: negli Usa, puoi fotografare gli avanzi nel piatto per segnalarli e riciclarli. In Germania, via web, gli abitanti di sette città si scambiano il cibo in eccesso. Stessa cosa a Londra, grazie al “Casseroleclub”. In Italia, “Food Share” è una piattaforma web che permette a privati, produttori e rivenditori di offrire gratuitamente prodotti alimentari in eccedenza a scopi solidali. A Trento basta un’app sul telefonino per ritirare gli avanzi, a Torino provvede una piattaforma web, “NextDoorHelp”, mentre a Treviso lo smistamento dell’antispreco è affidato al frigorifero virtuale di “Ratatouille”, da cui esplorare l’offerta della dispensa eco-solidale. Sono tutti avamposti, per un futuro meno grigio: «Nonostante la crisi, noi italiani buttiamo via ancora troppo cibo: il 55% viene sprecato nella filiera agroalimentare e il restante 45% nel consumo domestico, mense e ristoranti compresi», scrive Alessandra Mazzotta. «Ogni anno, lo spreco domestico ci costa più di 8 miliardi di euro. In media, ogni famiglia getta nella spazzatura più di 500 euro in alimenti».Maurizio Pallante, leader dei decrescisti italiani, punta il dito contro «stili di vita ancora irresponsabili», e spiega: «Manca la consapevolezza del legame tra cibo e stagioni», e in più «non viene data sufficiente attenzione a quanto costa il cibo, produrlo, distribuirlo. Per cui si spreca tanto, con impatti ambientali altissimi». D’altra parte, «chi vende il cibo ha interesse a che se ne venda e se ne sprechi sempre di più». Colpa anche della vecchia agricoltura industriale, pensata come “industria estrattiva” per spremere la terra, allo scopo di vendere e guadagnare sempre di più, grazie anche all’autismo demenziale di una politica che pensa solo al Pil, gonfiato di veleni. L’antidoto si chiama «riscoperta della piccola produzione contadina, con la vendita delle eccedenze, in un’ottica di filiera corta come massima espressione della sovranità alimentare a livello territoriale». Questo, aggiunge Pallante, «favorisce la maturazione della consapevolezza e della responsabilità verso il cibo». Perché, ricordiamolo, l’accesso al cibo è un diritto. Dunque, «non sprecarlo è un dovere», chiarisce Lorenzo Bairati, docente di diritto degli alimenti all’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche a Pollenzo, creata da Carlo Petrini, fondatore di Slow Food.Se il sistema produce ancora passività sprecona, il “decalogo antispreco” di Alessandra Mazzotta propone una via d’uscita praticabile subito, da chiunque: pianificare i pasti, controllare il frigo, verificare etichette e scadenze, gestire gli avanzi e condividerli. C’è un mondo sconosciuto, nel frigorifero: dallo yogurt al tonno, si tratta di decifrare e vigilare sulle date, sulle modalità di conservazione. E di imparare: per esempio, a far “risorgere” ortaggi che ci stanno salutando. Patate e aglio che germogliano? Basta saperci fare, «la natura ha del miracoloso». Sedani, insalate, cipollotti: con poche mosse, un possibile rifiuto diventa una risorsa che ricresce sul davanzale. «Non ricordo di aver mai visto mia nonna buttare via del cibo avanzato», dice Alessandra. «Male che andava, c’era sempre il cane. Chi ha visto la guerra faceva così». Oggi, la “guerra” che abbiamo attorno è un’altra. Per fortuna, «complice forse la crisi e una maggiore coscienza, stanno fiorendo iniziative antispreco un po’ a ogni latitudine». E anche ottimi libri, che ti spiegano come fare. E intanto ti regalano la certezza di essere parte di una comunità. Un’umanità consapevole, che conosce le parole di Gandi: la Terra è abbastanza grande per soddisfare i bisogni di tutti, ma non l’avidità di pochi.(Il libro: Alessandra Mazzotta “L’antispreco è servito”, Bookrepublic, 625,8 Kb, euro 1,99. Mazzotta è redattrice del newmagazine “Econote” e gestisce il blog “Ecoavoi”).Bastano tre mele per fare un dolce-capolavoro. L’importante? E’ che siano bacate. Parola di Anna Blasco, “food stylist” e “food maker” torinese. Perché il capolavoro è doppio: non solo il gusto, ma anche il piacere del recupero del cibo che sta per finire nella spazzatura. Pura filosofia: il cibo non è solo un mezzo per vivere, come insegna Emmanuel Lévinas. «All’esteriorità del cibo corrisponde la nostra sensibilità», spiega il professor Enrico Guglielminetti, direttore di “Spazio Filosofico”. «Il rapporto che abbiamo col cibo è analogo al rapporto che abbiamo con gli altri». Mancanza di rispetto: «Lo spreco alimentare, che riduce il cibo a rifiuto, è un caso esemplare». Una sorta di abuso di potere. «Produrre rifiuti allora diventa un vizio, l’opposto della virtù». E noi di cibo ne sprechiamo troppo: 1,3 miliardi di tonnellate l’anno, cioè un terzo di tutta la produzione mondiale di alimenti destinati all’uomo, lungo la filiera-colabrodo dei consumi di massa. Rimediare? Ovvio che sì. Partendo dalla cucina di casa. Basta seguire, alla lettera, le ricette di grandi chef: che si chiamano Maurizio Pallante, Hilary Wilson, Rossano Ercolini, Pamela Warhurst. E Serge Latouche, naturalmente.
-
L’Ungheria sovrana disobbedisce all’Ue e fa crescere il Pil
«Noi non crediamo nell’Unione Europea, crediamo nell’Ungheria, e consideriamo l’Ue dal punto di vista secondo cui, se facciamo bene il nostro lavoro, allora quel qualcosa in cui crediamo, che si chiama Ungheria, avrà il suo tornaconto». Nelle parole del premier ungherese Viktor Orbán si può cogliere l’essenza di una diversa visione dell’Europa, immaginata come un insieme di Stati autonomi e indipendenti che traggono beneficio dalla loro reciproca collaborazione. Dopo aver sperimentato tra il 2002 e il 2010, durante il governo di socialisti e liberali, gli effetti delle fallimentari politiche europeiste di austerità e privatizzazione, come il dilagare della disoccupazione, emigrazione di massa, enorme perdita di potere d’acquisto, tagli a pensioni e tredicesima, tracollo del Pil e impennata del debito pubblico dal 55% all’82%, nel 2010 il popolo magiaro vota in maggioranza assoluta il partito conservatore “Fidesz” guidato da un Viktor Orbán completamente nuovo rispetto al precedente mandato 1998-2002, il quale, abbandonate le posizioni filo-occidentali e liberiste, strizza l’occhio a Putin e si riscopre un fervente sostenitore dell’intervento statale nell’economia.Il nuovo governo cerca in ogni modo di spezzare le catene, imposte dall’Europa della finanza internazionale e accettate dai precedenti governi, tentando di riportare sotto il controllo dello Stato tutti i settori strategici dell’economia. La nomina del keynesiano ministro dell’economia Gyorgy Matolcsy a governatore della banca nazionale ungherese provoca al governo innumerevoli critiche da parte della Banca Mondiale, del Fondo Monetario Internazionale e della Commissione Europea, la quale lo definisce «un rischio per i mercati», critica alla quale Orbán risponde: «Se è un rischio per i mercati allora per noi è il rischio minore». Oltretutto fa sì che la maggioranza del consiglio monetario della banca centrale sia nominata dal governo, in modo da poter effettuare politiche monetarie espansive, di sostegno alla spesa pubblica, mirate a convertire in fiorini ungheresi i prestiti contratti in valuta straniera e a finanziare a tasso zero istituti di credito impegnati a erogare finanziamenti a piccole e medie imprese ad un interesse inferiore al 2%.Nel campo della finanza pubblica rinazionalizza i fondi pensionistici privati per 10 miliardi di euro, butta fuori il Fmi saldando il debito di 2,2 miliardi di euro, tassa i profitti delle multinazionali energetiche, telefoniche, della distribuzione alimentare e i principali istituti bancari, multandone 35 stranieri per aver fatto ricadere sui correntisti l’onere della maggiore tassazione e dedicando il gettito di tali imposte alla riduzione delle bollette elettriche per privati ed enti pubblici. Nei settori industriali strategici, il governo ha istituito la commissione di controllo televisivo finalizzata a limitare le ingerenze straniere nella propaganda mediatica; ha annunciato che saranno rinazionalizzate le reti di distribuzione elettrica, idrica e verranno costituite la compagnia pubblica per l’energia pulita e l’ente nazionale per il trattamento rifiuti.Per aumentare l’indipendenza energetica della nazione, in totale contrasto con le filo-atlantiche direttive europee, Viktor Orbán stipula accordi commerciali con Putin. Ottiene un prestito di 11 miliardi di euro da Mosca, secondo il ministro Lazar ad un tasso molto più conveniente di quello offerto dai mercati, per dedicarlo alla costruzione e al rinnovamento delle pur discutibili centrali nucleari che, oltre a fornire commissioni per 3 miliardi ad imprese ungheresi ed entrate fiscali per 1 miliardo di euro, copriranno il 50% del fabbisogno energetico della nazione. Oltretutto, in data recente, il 23 settembre 2014 il leader di “Fidesz” ha concordato a Budapest, con il numero uno di Gazprom, Alexei Miller, il tracciato ungherese del gasdotto Southstream, progetto al quale anche la nostra Eni partecipa al 25%, destinato a portare in Europa 63 miliardi di metri cubi di gas l’anno, in risposta al “corridoio meridionale” voluto dalla Commissione Europea, per trasportare in europa il più caro gas statunitense dell’Azerbaijan attraverso Georgia, Turchia, Grecia, Albania.Anche le riforme in campo giudiziario sono state indirizzate a diminuire l’influenza dei potentati internazionali nel Csm ungherese. Ma il carattere nazionale della visione orbanista si esprime al meglio nella nuova Costituzione, totalmente basata sulla preservazione della cultura magiara, contro l’americanizzazione e la globalizzazione dei valori. Entrata in vigore il primo gennaio 2012, sancisce l’ufficialità della religione cattolica, il ruolo centrale della famiglia e la fondamentale importanza della tradizione e dell’etica nella vita quotidiana. Con l’adozione di queste politiche Orbán si è posto al centro del mirino della comunità internazionale occidentale; demonizzato mediaticamente, definito dittatore, autoritario, fascista e antisemita, risponde venendo rieletto democraticamente nel 2014 con il 44,57% dei consensi. Potendosi vantare di aver portato in Europa qualcosa di davvero molto raro, la ripresa dell’economia, con il calo della disoccupazione dall’11,8% al 7,6% e una crescita del Pil del 2,7% nell’ultimo trimestre del 2013 e del 3,7% nel primo trimestre 2014 Viktor Orbán ha mostrato al mondo intero che gli Stati nazionali contano ancora e sono molto più efficaci nel risolvere le crisi rispetto al divino liberismo di mercato.(Luca Pinasco, “Un modo diverso di strare in Europa”, da “L’Intellettuale Dissidente” del 2 ottobre 2014).«Noi non crediamo nell’Unione Europea, crediamo nell’Ungheria, e consideriamo l’Ue dal punto di vista secondo cui, se facciamo bene il nostro lavoro, allora quel qualcosa in cui crediamo, che si chiama Ungheria, avrà il suo tornaconto». Nelle parole del premier ungherese Viktor Orbán si può cogliere l’essenza di una diversa visione dell’Europa, immaginata come un insieme di Stati autonomi e indipendenti che traggono beneficio dalla loro reciproca collaborazione. Dopo aver sperimentato tra il 2002 e il 2010, durante il governo di socialisti e liberali, gli effetti delle fallimentari politiche europeiste di austerità e privatizzazione, come il dilagare della disoccupazione, emigrazione di massa, enorme perdita di potere d’acquisto, tagli a pensioni e tredicesima, tracollo del Pil e impennata del debito pubblico dal 55% all’82%, nel 2010 il popolo magiaro vota in maggioranza assoluta il partito conservatore “Fidesz” guidato da un Viktor Orbán completamente nuovo rispetto al precedente mandato 1998-2002, il quale, abbandonate le posizioni filo-occidentali e liberiste, strizza l’occhio a Putin e si riscopre un fervente sostenitore dell’intervento statale nell’economia.
-
Landini e l’inutile difesa di questo lavoro novecentesco
Maurizio Landini si batte come un leone, bisogna ammetterlo. Con capacità e convinzione. E con efficacia mediatica fuori dal comune. Non come la moscissima Camusso, praticamente incapace di suscitare la benché minima scintilla in chicchessia tanto in piazza quanto, soprattutto, in televisione. Landini invece il suo mestiere lo sa fare benissimo. Il punto è che si tratta di un mestiere in rottamazione, tanto quello del lavoratore. Che quasi non c’è più. Beninteso, la Fiom riguarda i metalmeccanici, e il suo primo esponente fa il suo mestiere, sempre attento a non sgarrare di un millimetro rispetto al suo mandato (anche se sono in molti, ad augurarselo, nella classe lavoratrice, sperando in quel “Partito Landini” di cui si parla sempre più insistentemente). La difesa dei metalmeccanici da parte della Fiom è certamente più evidente rispetto a quella dei sindacati di qualsiasi altro settore lavorativo. E Landini si guarda bene, come è giusto che sia, dal far percepire con nettezza il successivo passo politico che pure molti si aspettano.Senonché ad ascoltarlo, cercando di ragionare più a fondo del particolare nel pure quale si cimenta, si è facilmente preda dello sconforto. Perché se da una parte ci sono le sacrosante rivendicazioni degli operai, e dall’altra quelle rapaci delle industrie che delocalizzano e riducono la forza lavoro per aumentare i profitti e i dividendi degli azionisti, sopra ogni altra cosa è con il mondo che ci troviamo di fronte che tanto gli uni quanto gli altri si devono confrontare. E quel mondo ci dice – da tempo – che è proprio il lavoro a essere agli sgoccioli. Soprattutto quel lavoro manuale che appare oggi la contesa della scontro. È almeno un decennio ormai che le “fabbriche” non producono utili in modo persistente, che i lavoratori vengono emarginati e resi più poveri e che la spirale discendente di quel sistema, in altri tempi si sarebbe detto del fordismo, si avvita sempre più indistricabilmente su se stessa.Oggi dove ci sono i macchinari, gli investimenti materiali e la necessità della forza lavoro ci sono i debiti. Dove nel business regna il virtuale e la finanza, dunque nulla di materiale, ci sono gli utili. Tanto che gli imprenditori che possono, quanto meno, diversificano i propri settori di intervento smantellando il più possibile il regno materiale per lanciarsi nella speculazione di quello virtuale. Così da una parte abbiamo governi (e quello di Renzi ne è un fulgido esempio) che operano per facilitare tale smantellamento, e dall’altra i lavoratori di una classe in via di estinzione che combattono per perdere meno terreno possibile, ma sopra a tutto c’è l’inesorabile cambiamento del mondo del lavoro e della produzione nel suo complesso che non lascia scampo a battaglie di sorta. Perché il risultato finale è già scritto nella pietra. Per intenderci: non è licenziando i lavoratori che si può indurre le fabbriche a produrre di più e non è lottando per tenere un posto di lavoro in più che si può arginare l’emorragia di senso e il funzionamento di una società dei consumi in decadenza irreversibile.Naturalmente è superfluo sottolineare che una società che licenzia e precarizza pone le basi per la sua assoluta impossibilità di riprendere a funzionare, altro che ripresa. Il labirinto di inutilità all’interno del quale si muove l’attuale diatriba sul lavoro ha come unico effetto, pertanto, quello di non lasciare tempo né spazio mentale per cercare di immaginare come potrebbe essere quella “nuova società”, quel “nuovo paradigma” che è invece indispensabile inventare, tentare, sperimentare e promuovere. Così il tutto si risolve in una classe lavoratrice asserragliata in trincea, la quale perde terreno passo passo inesorabilmente, e la classe imprenditoriale di vecchio stampo che avanza: sul deserto. Perché se è vero che i lavoratori diventano sempre più schiavi, è vero altresì che qualunque industriale i suoi prodotti, realizzati a costi inferiori quanto si vuole, con lavoratori-schiavi quanto si riesce, a qualcuno dovrà pur venderli, poi. E vendere nel deserto non è certo possibile.Landini, per tornare a chi più di altri appare in grado di proporre qualcosa che valga la pena di essere ascoltata, ci prova. Ma in una direzione che non porta da nessuna parte. Perché posto che il sistema della merce è agli sgoccioli, di lavoro, di occupazioni, la nostra società ha e avrà comunque bisogno. Ed è di nuovi lavori, di nuove occupazioni (cioè di una nuova società) che è indispensabile discutere, non di come trattenere i lavoratori all’interno di un sistema che ha già ampiamente dimostrato di non riuscire più a funzionare. Un solo esempio: che senso ha continuare a lottare per 200 o 500 posti di lavoro in più o in meno in una fabbrica di automobili che nessuno vuole più e neanche riesce a comperare ove ancora le volesse? Non sarebbe forse il caso di lottare affinché gli stabilimenti che una volta producevano automobili oggi si convertano nel produrre qualcosa di cui oggi c’è (e ci sarà) effettivo bisogno?Di materia e di oggetti, di meccanismi e di tecnologia, a meno di ritornare all’età della pietra, nel mondo ci sarà sempre bisogno. Anche Leonardo era ingegnere e meccanico. Il punto è capire su quale settore valga la pena puntare. Quale sia necessario portare avanti. Quale sia indispensabile inventare del tutto. E quale vada abbandonato. Non è di un nuovo modello di automobile che abbiamo bisogno. O di un nuovo telefonino o di un televisore a 4 o 5D, ma di servizi e opere che magari puntino al recupero, alla messa in sicurezza dell’esistente, alla riduzione dei consumi, degli sprechi e degli scarti. Non abbiamo bisogno di aggrapparci all’ultima catena di montaggio che produce marmitte per automobili che poi restano invendute. Bisognerebbe riconvertire i lavoratori in occupazioni delle quali c’è realmente bisogno. Solo al caso italiano abbiamo un paese che crolla pezzo a pezzo dal punto di vista idrogeologico, abbiamo un paese che cade in frantumi dal punto di vista urbanistico e che dipende energeticamente dagli altri. E che accumula scorie che nessuno ha ancora trovato il modo di eliminare e soprattutto di non produrre.È un paese, il nostro, che potrebbe sopravvivere quasi solo di vento e di sole, e di turismo quasi in ogni borgo. E allora è nell’energia che non produce scorie che le “industrie” dovrebbero investire, e nelle tecnologie che potrebbero usufruirne. È nel ripristino di strade e collegamenti per far raggiungere ai turisti i posti più incantevoli (disseminati ovunque) che si dovrebbe puntare. Non esiste quasi altro paese al mondo dove vi sia una così alta concentrazione di paesaggi, di cultura, di storia, dove vi sia clima tanto favorevole e cultura alimentare che tutto il mondo ci invidiano, dove in luogo di puntare ancora a testa bassa al mondo delle merci sia invece possibile virare decisamente verso un futuro con meno oggetti ma con più servizi funzionanti, con più bellezza, con più benessere. Non parliamo naturalmente di cementificazione, quanto di riqualificazione dell’esistente. Che è enorme e ha altissimo valore. Attraverso il quale fare dell’ospitalità e del buon vivere la occupazione non alienante, non inquinante e non distruttiva per dare un lavoro a tutti. Ma questo necessita di visione, di prospettiva e di volontà. Tutti aspetti dei quali la nostra classe di intellettuali, di imprenditori e di politici appare del tutto priva.(Valerio Lo Monaco, “Quell’inutile difesa di questo lavoro novecentesco”, da “Il Ribelle” del 28 ottobre 2014).Maurizio Landini si batte come un leone, bisogna ammetterlo. Con capacità e convinzione. E con efficacia mediatica fuori dal comune. Non come la moscissima Camusso, praticamente incapace di suscitare la benché minima scintilla in chicchessia tanto in piazza quanto, soprattutto, in televisione. Landini invece il suo mestiere lo sa fare benissimo. Il punto è che si tratta di un mestiere in rottamazione, tanto quello del lavoratore. Che quasi non c’è più. Beninteso, la Fiom riguarda i metalmeccanici, e il suo primo esponente fa il suo mestiere, sempre attento a non sgarrare di un millimetro rispetto al suo mandato (anche se sono in molti, ad augurarselo, nella classe lavoratrice, sperando in quel “Partito Landini” di cui si parla sempre più insistentemente). La difesa dei metalmeccanici da parte della Fiom è certamente più evidente rispetto a quella dei sindacati di qualsiasi altro settore lavorativo. E Landini si guarda bene, come è giusto che sia, dal far percepire con nettezza il successivo passo politico che pure molti si aspettano.
-
Rubare l’Africa agli africani: è il piano del dottor Ebola
Ogni “psyop” ha bisogno di eroi, così come di cattivi. Le cosiddette epidemie vengono fuori da veri e propri piani strategici politico-commerciali. La strategia sembra essere partorita dalla Cia. Di seguito, alcune mie note che vi racconteranno la storia. Uno: Come è costruita la Medical Matrix: “Gli eroi vengono a salvarci.” I dottori allestiscono cliniche nel mezzo delle epidemie e salvano vite umane. Fanno miracoli. Due: Gli eroi richiedono più cliniche, più centri medici, più ospedali. “La soluzione completa.” Tre: C’è una grande disparità nelle cure mediche tra ricchi e poveri. Questa disparità deve essere superata. Questa è la missione. Quattro: Queste sono tutte bugie. Cinque: Molti dottori, operatori medici, manager farmaceutici, ricercatori e Ong sanno che sono bugie. Sei: Nessuna epidemia da batterio/virus può essere risolta con interventi medici, perché queste epidemie non sono causate da germi. Le cause sono dovute a sistemi immunitari deboli e indifesi che non riescono a contrastare i germi.Sette: Non molto tempo dopo che un’epidemia abbia concluso il suo corso, una nuova si diffonde nello stesso territorio. Otto: Tutto dipende dal territorio nel quale i sistemi immunitari debilitati sono condizione costante. Nove: Qualsiasi vecchio germe che sfugge da questi territori, finisce per mietere molte vittime. Dieci: Il diffondersi di sistemi immunitari debilitati non è causata da fattori medici e sono questi fattori che vanno eliminati. Undici: I veri fattori che riducono le difese del sistema immunitario includono: forte malnutrizione, fame, guerra, acqua inquinata, mancanza del rispetto di norme igieniche basilari, terre fertili rubate alla popolazione, rifiuti industriali e pesticidi, farmaci tossici e vaccini che finiscono per influire ulteriormente in modo negativo sui sistemi immunitari.Dodici: L’immagine del dottore-eroe è una sorta di diversificazione, una storia di copertura, un modo di cancellare le vere cause delle malattie e un modo di evitare che si risolvano le vere cause. Tredici: Una popolazione distrutta e debilitata non ha le capacità per resistere alla conquista delle loro terre e delle loro risorse. Quattordici: Se il tasso di distruzione/mortalità non è abbastanza alto da soddisfare le aspettative dei depopolazionisti, si possono introdurre più vaccini tossici. Si possono aggiungere ulteriori elementi tossici ai vaccini. Si possono somministrare altre medicine tossiche e diffondere più pesticidi. Si può dare il via a una nuova guerra.Se volete un perfetto esempio di storia di copertura (“cover story”), leggete l’intervista dell’episodio “Democracy Now!, Dr. Paul Farmer on African Ebola Outbreak: Growing Inequality in Global Healthcare at Root of Crisis”. Il dottor Farmer è il co-fondatore di una Ong di Harvard, “Partners in Health”. Inoltre, è professore ad Harvard e special advisor all’Onu. Ha la fama del dottore-eroe. Dice: «Penso che la cosa da capire è che tutto questo (diffusione dell’Ebola) è il risultato di durature e crescenti disuguaglianze nell’accesso ai sistemi sanitari e ciò include sia gli operatori, sia le strumentazioni, sia i sistemi stessi». Non una volta, nella lunga intervista, vengono menzionate le vere cause alla base della diffusione dell’epidemia. Invece, il tema è: disuguaglianza nel sistema sanitario. Questo è un diversivo.Quando parliamo di epidemie, questa è una grande bugia. Costruiamo più cliniche mediche per i più poveri e la vita cambierà. Certo che cambierà. Prendiamo una persona che soffre di una malattia gastrointestinale mortale perché beve abitualmente acqua di fogna pompata nelle reti idriche, e diamogli antibiotici. Fantastico. Grazie, dottore. Prendiamo una persona che a stento riesce a stare in piedi perché piena di vaccini tossici – oltre a un sistema immunitario già gravemente compromesso – e diamogli… cosa? Un anti-depressivo? L’Azt (Azidotimidina)? Risolviamo milioni di casi di fame nel mondo con medicinali? La verità è chiara. «La tua casa sta bruciando. Tre delle otto stanze sono a fuoco. Sai perché? Perché c’è bisogno di una nuova tinteggiata alle pareti. Guarda l’imbianchino-eroe. E’ sulla scala a tinteggiare le pareti esterne. Diamogli il Premio Nobel». Sapete, ci sono molte persone che vogliono essere associate a “cause umanitarie.” Vogliono sentirsi meglio. Così scelgono un simbolo – un dottore-eroe, un politico, un’organizzazione medica – e dicono: «Questa è bontà d’animo. I miei esempi sono ottimi. Io sono buono. Tutto quello che sta accadendo non è tragico? Dobbiamo aiutare. Dobbiamo rimediare alla “diseguaglianza del sistema sanitario”». Quanti zimbelli possono “ballare sulla capocchia di uno spillo”? Apparentemente non c’è limite.(Jon Rappoport, “Il mito dell’eorico dottor Ebola”, dal blog di Rappoport del 17 settembre 2014, tradotto da “Come Don Chisciotte”. Autore di “The Matrix Rvealed”, “Exit from the Matrix” e “Power outside the Matrix”, Rappoport è stato candidato in California al Congresso Usa e nominato per il Premio Pulitzer per il suo lavoro di reporter investigativo, con alle spalle trent’anni di esperienza e inchieste su politica, medicina e salute per “Cbs Healthwatch”, “LA Weekly”, “Spin Magazine”, “Stern” e altri giornali e periodici americani ed europei).Ogni “psyop” ha bisogno di eroi, così come di cattivi. Le cosiddette epidemie vengono fuori da veri e propri piani strategici politico-commerciali. La strategia sembra essere partorita dalla Cia. Di seguito, alcune mie note che vi racconteranno la storia. Uno: Come è costruita la Medical Matrix: “Gli eroi vengono a salvarci.” I dottori allestiscono cliniche nel mezzo delle epidemie e salvano vite umane. Fanno miracoli. Due: Gli eroi richiedono più cliniche, più centri medici, più ospedali. “La soluzione completa.” Tre: C’è una grande disparità nelle cure mediche tra ricchi e poveri. Questa disparità deve essere superata. Questa è la missione. Quattro: Queste sono tutte bugie. Cinque: Molti dottori, operatori medici, manager farmaceutici, ricercatori e Ong sanno che sono bugie. Sei: Nessuna epidemia da batterio/virus può essere risolta con interventi medici, perché queste epidemie non sono causate da germi. Le cause sono dovute a sistemi immunitari deboli e indifesi che non riescono a contrastare i germi.
-
L’Ue: guerra alle porte? L’esercito contro chi sciopera
Gli esperti dei think-tank stanno chiedendo all’Unione Europea che si prepari a combattere scioperi e proteste sociali con la forza militare. A causa dell’ aggravarsi delle disuguaglianze provocate dall’economia globalizzata e dai crescenti conflitti militari all’interno delle frontiere della Ue, questo tipo di manifestazioni inevitabilmente dovranno aumentare. Lo conferma uno studio dell’Istituto per la Sicurezza dell’Unione Europea: gli autori, senza mezzi termini, affermano che di fronte a questi sviluppi l’esercito dovrà essere utilizzato sempre più per compiti di polizia, in modo da poter proteggere i ricchi dalla collera dei poveri, riferisce Denis Krassnin. La ricerca, “Prospettive per la difesa europea 2020”, pubblicata già nel 2008, cioè un anno dopo il quasi-collasso del sistema finanziario globale, rende chiaro (fin dal titolo) che gli accademici e i politici sono perfettamente consapevoli delle possibili implicazioni “rivoluzionarie” della crisi. Ecco perché «stanno lavorando sui diversi scenari sociali che potranno essere utilizzati per opporsi alle prossime prevedibili reazioni della vasta maggioranza della popolazione».«Nel quadro coordinato delle politiche di sicurezza – si legge – si stanno fondendo le responsabilità delle forze di polizia con quelle delle forze armate, e si stanno creando delle capacità comuni per affrontare le proteste sociali». La radio tedesca “Deutschlandfunk” ha appena parlato di questo studio, precisando che ufficialmente questo “progetto” dovrebbe riguardare solo interventi in paesi al di fuori della Ue. «Ma ai sensi dell’articolo 222 del Trattato di Lisbona, esiste una base giuridica, creata appositamente per il dispiegamento di unità militari e paramilitari all’interno di Stati membri della Ue, in crisi». Il trattato, spiega Krassnin in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, è stato scritto da un gruppo di docenti universitari ed esperti nel settore della sicurezza europea, per la difesa e la politica estera. Nella prefazione, redatta dal “ministro degli esteri” dell’Ue, Catherine Ashton – sono definiti quali saranno i parametri a lungo termine che seguirà la politica di sicurezza dell’Unione Europea.Il contributo più ampio, dal titolo “L’Unione Europea e l’ambiente di sicurezza globalizzato”, riassume l’indirizzo del progetto: Tomas Ries, direttore dell’Istituto Svedese per gli Affari Internazionali, indica che la Ue dovrebbe sempre «combattere i problemi sociali con mezzi militari». Durante la guerra fredda, racconta Krassnin, il professor Ries svolgeva mansioni di esperto di organizzazione per le forze armate del nord Europa. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, ha rivolto le sue attenzioni allo studio della politica di sicurezza globale. Secondo Ries, la principale minaccia per la “sicurezza” europea si annida nella violenza di un prevedibile «conflitto provocato dalle disuguaglianze tra le classi socio-economiche che esistono nella società globale». Conflitti frutto di «asimmetriche tensioni verticali nel villaggio globale». In parole povere, conclude Krassnin, il principale “problema per la sicurezza” nell’economia mondiale globalizzata è la lotta di classe.Per illustrare queste “tensioni verticali asimmetriche”, Ries ha rappresentato le disuguaglianze sociali in un grafico. Nella parte superiore ci sono le multinazionali, il “Fortune Global 1000”, o le mille aziende che incassano la maggior parte del fatturato del mondo. Ha calcolato che, tutte insieme, queste multinazionali rappresentino in percentuale lo 0,001% della popolazione, cioè appena 7 milioni di persone. E ha evidenziato che tra loro e la grande massa della popolazione mondiale, quasi 7 miliardi di individui, esiste una distanza enorme, incolmabile. «Visivamente – aggiunge Krassnin, sempre citando Ries – appare evidente che saranno inevitabili conflitti sociali, economici e politici che scaturiranno da questa disuguaglianza». La ricetta di Ries? Semplice: il tecnocrate svedese «raccomanda di mettere la Ue “in simbiosi” con le multinazionali». Il potere di queste aziende «è in costante crescita nei settori della tecnologia e dell’economia», ma ormai «stanno acquisendo una forte influenza anche in altre aree». Dettaglio fondamentale: «Queste multinazionali hanno bisogno dello Stato e lo Stato ha bisogno di loro».Con la crisi finanziaria, osserva Krassnin, gli Stati hanno già fatto la loro parte per entrare “in simbiosi” coi super-poteri, facendo «pagare alla popolazione i debiti delle banche» e quindi peggiorando ulteriormente le condizioni di quella che un tempo si sarebbe chiamata “classe operaia”. «Come conseguenza di questi attacchi contro i fondamentali diritti sociali», aggiunge Krassnin, secondo Ries si svilupperanno inevitabilmente dei conflitti sociali che colpiranno importanti aree delle infrastrutture. Esempi: «Uno sciopero dei netturbini a Napoli, in Italia, uno sciopero dei vigili del fuoco a Liverpool, in Inghilterra, e dei controllori del traffico aereo negli Stati Uniti». In tutte queste situazioni, «l’esercito è già stato utilizzato per mantenere in funzione le infrastrutture». Anche se questo non era in realtà un lavoro di competenza dei militari, Ries avverte che nei prossimi anni l’esercito dovrebbe essere utilizzato a livello nazionale con sempre maggiore frequenza: il «lavoro di polizia» che dovranno svolgere le truppe sarà necessario sempre più frequentemente a causa di queste tensioni, si legge nel testo.«Dal momento in cui queste righe sono state scritte, i soldati sono già stati schierati contro i lavoratori in sciopero in Spagna e in Grecia ed è stata dichiarata la legge marziale per costringerli a tornare di nuovo al lavoro». Questo è “inevitabile”, perché «i ricchi dovevano essere protetti dai poveri», sostiene il professore. Dal momento che «la percentuale della popolazione povera e frustrata dovrà continuare ad essere molto elevata, le tensioni tra questo mondo e il mondo dei ricchi è destinata ad aumentare, con tutte le prevedibili relative conseguenze». E visto che «difficilmente entro il 2020 saremo in grado di superare il gap che causa questo problema», cioè i «difetti funzionali della società», ecco che «dovremo proteggere maggiormente la nostra incolumità». Chiaro? «Quando scrive “difetti funzionali”, Ries intende le conseguenze sociali del sistema di profitto globale, come anche le guerre che servono per garantire la funzionalità del sistema». Per Krassnin, «queste sono solo due delle componenti fondamentali del sistema capitalistico, che obbligano un numero sempre maggiore di persone alla povertà o a dover scappare dal proprio paese e diventare dei rifugiati».Proteggere i ricchi dai poveri? Ries la descrive come «una strategia contro i perdenti del sistema». Benché ammetta che sul piano morale tutto questo sia «estremamente discutibile», secondo Ries non ci sarà nessun’altra via d’uscita «se non saremo capaci di superare le origini di questo problema». La visione del professore è quella dell’élite, «disposta a tutto pur di difendere i propri privilegi e le ricchezze contro l’opposizione del resto della popolazione», annota Krassnin. E attenzione: «Ries non propone solo un regime militare europeo per reprimere gli scioperi, ma anche un rafforzamento massiccio dei singoli Stati membri dell’Ue», in vista di una guerra. «Entro il 2020, al più tardi, la Ue dovrà espandere significativamente le proprie capacità militari», per affrontare «combattimenti ad alta intensità». La pace tra le grandi potenze, infatti, «dipende interamente dal funzionamento dell’economia mondiale: se il sistema dovesse rompersi, anche il tranquillo ordine politico andrebbe distrutto». Questo è dunque lo scenario a cui si prepara l’Unione Europea. Un ottimo modello operativo? Il golpe in Ucraina contro Mosca, che ha consegnato «poteri forti ai politici». Ulteriori sviluppi? Uno su tutti: «La guerra, all’estero e in patria».Gli esperti dei think-tank stanno chiedendo all’Unione Europea che si prepari a combattere scioperi e proteste sociali con la forza militare. A causa dell’ aggravarsi delle disuguaglianze provocate dall’economia globalizzata e dai crescenti conflitti militari all’interno delle frontiere della Ue, questo tipo di manifestazioni inevitabilmente dovranno aumentare. Lo conferma uno studio dell’Istituto per la Sicurezza dell’Unione Europea: gli autori, senza mezzi termini, affermano che di fronte a questi sviluppi l’esercito dovrà essere utilizzato sempre più per compiti di polizia, in modo da poter proteggere i ricchi dalla collera dei poveri, riferisce Denis Krassnin. La ricerca, “Prospettive per la difesa europea 2020”, pubblicata già nel 2008, cioè un anno dopo il quasi-collasso del sistema finanziario globale, rende chiaro (fin dal titolo) che gli accademici e i politici sono perfettamente consapevoli delle possibili implicazioni “rivoluzionarie” della crisi. Ecco perché «stanno lavorando sui diversi scenari sociali che potranno essere utilizzati per opporsi alle prossime prevedibili reazioni della vasta maggioranza della popolazione».
-
Attac: una rivolta dei sindaci contro l’esproprio dei servizi
Renzi peggio di Berlusconi. Se quest’ultimo, a non più tardi di due mesi dalla straordinaria vittoria referendaria sull’acqua del giugno 2011, aveva provato a rimettere in campo l’obbligatorietà della privatizzazione dei servizi pubblici locali (bocciata l’anno successivo dalla Corte Costituzionale), Renzi con il “pacchetto 12” contenuto nello “Sblocca Italia” fa molto di più: questa volta non si parla “solo” di privatizzazione, bensì di obbligo alla quotazione in Borsa. Entro un anno dall’entrata in vigore della legge, gli enti locali che gestiscono il trasporto pubblico locale o il servizio rifiuti dovranno collocare in Borsa o direttamente il 60%, oppure una quota ridotta, a patto che privatizzino la parte eccedente fino alla cessione del 49,9%. Se non accetteranno il diktat, scrive Marco Bersani, entro un anno dovranno mettere a gara la gestione dei servizi; se soccomberanno otterranno un prolungamento della concessione di ben 22 anni e 6 mesi. Che aspettano, i Comuni italiani, a ribellarsi? Primo passo: sfilarsi dall’Anci presieduta da Piero Fassino, che “tifa” per la fine del servizio pubblico.Come già Berlusconi, continua il portavoce di “Attac Italia”, anche Renzi si mette la foglia di fico di non nominare l’acqua fra i servizi da consegnare ai capitali finanziari. Ma a parte il fatto che il referendum non riguardava solo l’acqua, bensì tutti i servizi pubblici locali, è evidente l’effetto domino del provvedimento, sia sulle società multi-utility che già oggi gestiscono più servizi (acqua compresa), sia su tutti gli enti locali che verrebbero inevitabilmente spinti a privatizzare tutto, anche per poter usufruire delle somme derivanti dalla cessione di quote, che il governo pensa bene di sottrarre alle tenaglie del Patto di Stabilità. In fondo, è la direzione nella quale procedono il Ttip, il Trattato Transatlantico sul commercio Usa-Ue, e l’analogo Tisa, trattato sui servizi pubblici, al quale spalancherebbe una breccia definitiva la manomissione del Titolo V della Costituzione, spacciata come “riforma”, per impedire a Comuni e Regioni di continuare a gestire i servizi nell’interesse pubblico.«Nel pieno della crisi sistemica – scrive Bersani – ecco dunque il cambio di verso dello scattante premier: non più l’obsoleta privatizzazione dei servizi pubblici locali, bensì la loro diretta consegna agli interessi dei grandi capitali finanziari, che da tempo attendono di poter avviare un nuovo ciclo di accumulazione, attraverso “mercati” redditizi e sicuri (si può vivere senza beni essenziali?) e gestiti in condizione di monopolio assoluto (per un solo territorio vi è un solo acquedotto, un solo servizio rifiuti)». Da queste norme, «traspare in tutta evidenza l’idea non tanto dell’eliminazione del “pubblico” – quello è bene che rimanga, altrimenti chi potrebbe organizzare il controllo sociale autoritario delle comunità? – bensì della sua trasformazione da erogatore di servizi e garante di diritti, con un’eminente funzione pubblica e sociale, in veicolo per l’espansione della sfera d’influenza degli interessi finanziari sulla società».Ancora una volta, aggiunge Bersani, sarà la Cassa Depositi e Prestiti ad essere utilizzata per questo enorme «disegno di espropriazione dei beni comuni». Infatti, «come già per la dismissione del patrimonio pubblico degli enti locali, è già allo studio un apposito fondo per finanziare anche la privatizzazione dei servizi pubblici locali». Secondo l’esponente di “Attac”, emerge – oggi più che mai – la necessità di una «nuova, ampia e inclusiva mobilitazione sociale», che deve «assumere la riappropriazione della funzione pubblica e sociale dell’ente locale come obiettivo di tutti i movimenti in lotta per l’acqua e i beni comuni». Serve «una nuova finanza pubblica e sociale», ovviamente impensabile sotto il regime dell’euro, «a partire dalla socializzazione della Cassa Depositi e Prestiti». E se il disegno di espropriazione dei servizi pubblici locali «viene portato avanti con il pieno consenso dell’Anci, espresso a più riprese dal suo presidente Fassino», una domanda sorge spontanea: «Non è il momento per i molti sindaci che ancora non hanno abdicato al proprio ruolo di primi garanti della democrazia di prossimità per le comunità locali, di iniziare a ragionare su un’aggregazione alternativa degli enti locali, fuori e contro un’Anci al servizio dei poteri forti?».Renzi peggio di Berlusconi. Se quest’ultimo, a non più tardi di due mesi dalla straordinaria vittoria referendaria sull’acqua del giugno 2011, aveva provato a rimettere in campo l’obbligatorietà della privatizzazione dei servizi pubblici locali (bocciata l’anno successivo dalla Corte Costituzionale), Renzi con il “pacchetto 12” contenuto nello “Sblocca Italia” fa molto di più: questa volta non si parla “solo” di privatizzazione, bensì di obbligo alla quotazione in Borsa. Entro un anno dall’entrata in vigore della legge, gli enti locali che gestiscono il trasporto pubblico locale o il servizio rifiuti dovranno collocare in Borsa o direttamente il 60%, oppure una quota ridotta, a patto che privatizzino la parte eccedente fino alla cessione del 49,9%. Se non accetteranno il diktat, scrive Marco Bersani, entro un anno dovranno mettere a gara la gestione dei servizi; se soccomberanno otterranno un prolungamento della concessione di ben 22 anni e 6 mesi. Che aspettano, i Comuni italiani, a ribellarsi? Primo passo: sfilarsi dall’Anci presieduta da Piero Fassino, che “tifa” per la fine del servizio pubblico.
-
Sbanca-Italia, dal Vangelo secondo Matteo Cirino Pomicino
«Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci. Dai loro frutti li riconoscerete». Firmato: Matteo (non Renzi, ovviamente, ma l’altro, l’evangelista. «Non mi disturba la sindrome “annuncite” che affligge il primo ministro e i suoi sodali, la considero un attributo dei tempi in cui viviamo», scrive Luca Giunti. «Mi disturba molto, invece, l’“ipocrisite”, i cui sintomi leggeri sono gli annunci disonorati, mentre quelli gravi si manifestano con atti formali opposti a quanto dichiarato». Il fumo? «E’ sopportabile se poi c’è l’arrosto; in sua assenza, irrita la gola». I No-Tav valsusini, come il tecnico Giunti, ne sono vaccinati. E dietro al decantato decreto Sblocca-Italia scoprono «verità brutali», o meglio «banali», esattamente come quelle – marce, marcissime – della rottamata Prima Repubblica, finita nel tritacarne di Tangentopoli. Il decreto annunciato da Renzi il 29 agosto, infatti, «in realtà viene continuamente modificato dai parlamentari e ogni giorno tramonta su una bozza diversa: perché si tratta sostanzialmente di una finanziaria “vecchia maniera” che ogni lobby strapazza per sostenere i propri interessi».Come i vecchi tempi, col bilancino: «Un tanto all’Abruzzo e altrettanto al Veneto, una strada alla Calabria e una ferrovia al Lazio, un appalto per le coop rosse e uno per Cl, nella migliore tradizione da “assalto alla diligenza” di prassi dorotea e di craxiana memoria». Dopo la diagnosi e l’analisi della forma, Luca Giunti passa al contenuto: «Limitiamoci all’articolo 1, per evitare noia e disperazione. Riguarda la ferrovia ad alta velocità Napoli-Bari. Se ne parla da almeno 10 anni. Compare con 3,8 miliardi nel 7° Dpef del 2009 perché “opera di nuovo inserimento a causa dell’avanzato stato progettuale” (testuale, non ridete). In precedenza era stata annunciata come “in corso di progettazione” (Dpef 2004) e poi “inseribile nelle opere strategiche della Legge Obiettivo” (Dpef 2007). Da notare che quei documenti parlano anche del collegamento, normale, Salerno-Potenza-Bari, tante volte scritto e mai realizzato. Ora, perché uno Stato decide di costruire una nuova ferrovia? Perché serve. Come lo dimostra? Con uno studio chiamato Analisi Costi-Benefici (Acb)».A quanto a pare è talmente fondamentale, questo approccio, che lo propone persino il commissario dell’Osservatorio sulla Torino-Lione, Mario Virano propone, nel semisconosciuto “Quaderno 9”: tutte le fasi progettuali di un’infrastruttura, scrive Virano, dovrebbero basarsi su un’Acb. «Appare insostituibile per la sua diffusione, sinteticità nei risultati e necessità da parte dei promotori di definire molti aspetti di importanza decisiva per gli stakeholder, compresa evidentemente la collettività che finanzia parte o la totalità dell’opera». E in ogni fase, le Acb «dovrebbero essere redatte da soggetti qualificati, utilizzare metodologia consolidate e/o raccomandate da organi autorevoli e fatte oggetto di verifica da parte di organismi terzi». E’ mai stata fatta per la Napoli-Bari? No. Anzi, molti autori ne hanno denunciano l’assenza, e soprattutto l’inutilità dell’opera, osserva Giunti «Infatti, come la Torino-Lione, la Milano-Genova e la Roma-Napoli, si affiancherebbe a ferrovie esistenti, sottoutilizzate e migliorabili con costi minori e denari più immediatamente circolanti».Non è difficile verificarlo: oggi si può benissimo andare in treno da Napoli a Bari. Secondo le opzioni proposte dal sito di Trenitalia, ci vogliono dalle 4 alle 5 ore, cambiando quasi sempre a Caserta. Sono circa 270 chilometri. «E’ necessario migliorare il collegamento? Si può fare subito. Intendiamoci: non occorre rinunciare al progetto nuovo. Ma intanto uno Stato serio offre ai propri cittadini una possibilità immediata. Convince le Ferrovie, ad esempio, a incrementare gli Intercity e a eliminare i cambi, magari richiamando in servizio l’onorato e mai dimenticato Pendolino (perfetto per l’Italia: andava forte – non fortissimo – sulle tortuose linee esistenti, in attesa di costruire quelle nuove più veloci ma molto più esigenti)». Ma poi, perché stupirsi? «Lo stesso decreto impone una nuova linea ad alta velocità tra Palermo, Catania e Messina (nella prima versione del decreto si fermava a Catania, ma poi le lobbies…)». L’aspetto più grave, però, non è nemmeno questo: è l’alta velocità del premier sulle grandi opere. «Renzi ha fretta, vuole aprire i cantieri entro un anno, anche se mancano ancora tutte le approvazioni previste dalle leggi. Allora cosa fa? Innanzitutto, dichiara gli interventi indifferibili, urgenti e di pubblica utilità. Poi nomina un commissario (un altro!) e gli dà poteri terribili».Il commissario renziano approva i progetti, rielabora quelli già approvati ma non ancora appaltati, bandisce gare anche sulla base dei soli progetti preliminari e provvede alla consegna dei lavori entro 120 giorni dall’approvazione dei progetti, anche adottando provvedimenti d’urgenza. «Appaltare i lavori in base al progetto preliminare – senza valutare il definitivo e l’esecutivo – è il sogno di ogni costruttore, onesto o criminale», osserva Giunti. «Gli inconvenienti, le varianti, gli imprevisti saranno innumerevoli. E il conseguente lucro, ingentissimo. Tanto, paga lo Stato. Povero Renzi: come un Pomicino qualsiasi…». Soprattutto, il Rottamatore «ordina imperiosamente che la conferenza di servizi è convocata entro quindici giorni dall’approvazione dei progetti definitivi. Qualora il rappresentante di un’amministrazione sia assente o non dotato di adeguato potere di rappresentanza, la conferenza delibera a prescindere». Il dissenso manifestato in sede di conferenza dei servizi? «Deve essere motivato. E recare, a pena di non ammissibilità, le specifiche indicazioni progettuali necessarie ai fini dell’assenso».In caso di motivato dissenso espresso da una amministrazione preposta alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico artistico o alla tutela della salute dei cittadini, la determinazione finale «è subordinata ad apposito provvedimento del commissario entro sette giorni dalla richiesta». Sicché «i pareri, i visti e i nullaosta relativi agli interventi necessari sono resi dalle amministrazioni competenti entro trenta giorni dalla richiesta». Decorso inutilmente quel termine, «si intendono acquisiti con esito positivo». Domanda: «Cosa vuol dire questo burocratese?». Facile: «Che dell’ambiente, del paesaggio, del territorio, dell’arte e della salute, a Renzi e ai suoi sodali non gliene frega un cazzo, con buona pace della Costituzione, dei cittadini, degli annunci fatti in ogni occasione di rilanciare la cultura e tutelare il patrimonio italiano (eccola, l’“annuncite”), l’unico che nessun’altra nazione possiede. E con un insulto alla logica, alla geografia e alla storia: qualcuno può dubitare che scavando tra Bari e Napoli si troveranno molti resti archeologici?».D’altronde, fu lo stesso Renzi, in conferenza stampa, a parlare di «Soprintendenze che creano problemi». Aggiunge Giunti: «Tralascio per carità di patria le scempiaggini che ha detto riguardo le terre e le rocce da scavo». Basti ricordare che «l’Europa ha imposto norme vincolanti, l’Italia le ha eluse fino all’inevitabile procedura d’infrazione, si è corretta senza pentirsi e da tempo cerca di ritornare all’anarchia filo-mafiosa del passato: lo dimostra proprio questo decreto». Lo Sblocca-Italia prevede infatti «una Disciplina semplificata del deposito preliminare» e la «cessazione della qualifica di rifiuto» per i materiali di scavo, facilitando evidentemente il loro smaltimento senza bonificare i siti. Chiara la “prognosi” di un naturalista come Giunti: «Questo Renzi si è cucito addosso il ruolo di rottamatore e innovatore, ma le azioni che lui stesso prima annuncia e poi firma dimostrano che è vecchio, invece, vecchissimo». Matteo 7, 15.20: “Dai loro frutti li riconoscerete”. «Uguale preciso ai suoi predecessori: sono la causa della malattia e si spacciano per la cura. Dov’è la differenza con Monti, con Amato, con D’Alema? O con un Dini o un Colombo? Stringi stringi, sotto gli slogan trovi sempre calcestruzzo, bitume, impalcature e favori ai grandi costruttori, sia legali sia criminali». Se guariremo, non sarà «con queste medicine, decrepite e tossiche come pozioni di negromanti». Etica, partecipazione. E medici veri: «I decreti vecchi e i loro annunciatori vanno gettati via».«Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci. Dai loro frutti li riconoscerete». Firmato: Matteo (non Renzi, ovviamente, ma l’altro, l’evangelista). «Non mi disturba la sindrome “annuncite” che affligge il primo ministro e i suoi sodali, la considero un attributo dei tempi in cui viviamo», scrive Luca Giunti. «Mi disturba molto, invece, l’“ipocrisite”, i cui sintomi leggeri sono gli annunci disonorati, mentre quelli gravi si manifestano con atti formali opposti a quanto dichiarato». Il fumo? «E’ sopportabile se poi c’è l’arrosto; in sua assenza, irrita la gola». I No-Tav valsusini, come il tecnico Giunti, ne sono vaccinati. E dietro al decantato decreto Sblocca-Italia scoprono «verità brutali», o meglio «banali», esattamente come quelle – marce, marcissime – della rottamata Prima Repubblica, finita nel tritacarne di Tangentopoli. Il decreto annunciato da Renzi il 29 agosto, infatti, «in realtà viene continuamente modificato dai parlamentari e ogni giorno tramonta su una bozza diversa: perché si tratta sostanzialmente di una finanziaria “vecchia maniera” che ogni lobby strapazza per sostenere i propri interessi».
-
Il segreto di Mayak, peggio di Chernobyl e Fukushima
Chernobyl e Fukushima non sono state le uniche catastrofi nucleari planetarie. Dietro gli Urali, nella regione di Chelyabinsk, una delle più inquinate di tutta la Russia, si sono infatti verificati tre gravissimi incidenti. La centrale di Mayak (che in russo significa “faro”) nacque nel 1949 per produrre plutonio per armi nucleari, e dal 1949 al 1952 riversò circa 76 milioni di metri cubi di rifiuti liquidi altamente radioattivi – principalmente cesio e stronzio – nel Techa, fiume lungo il quale vivevano circa 124.000 persone, divise in villaggi dediti all’agricoltura e all’allevamento. Nel 1957, nell’impianto di Mayak esplose un serbatoio di rifiuti radioattivi e, oltre al cesio e allo stronzio, si aggiunse il ben più pericoloso plutonio; l’esplosione formò una nube radioattiva che coprì un’area di circa 23.000 chilometri quadrati, creando l’area della “East Ural Radioactive Trace” e sprigionando almeno il doppio dei radionuclidi dell’incidente di Chernobyl.Il terzo incidente ebbe luogo nel 1967, quando il Lago Karachay, usato per lo smaltimento dei rifiuti nucleari più pericolosi, si asciugò a causa di un’estate torrida, e i venti spazzarono le sue polveri radioattive per un’area di circa 2.000 chilometri quadrati. Questi incidenti, la cui gravità si evince anche solo dai numeri, furono tenuti completamente segreti fino all’esplosione di Chernobyl. Dopo questo incidente, che più di quello di Three Mile Island (Usa) focalizzò l’attenzione dell’intero pianeta sulla pericolosità della produzione di energia da fonte nucleare, il governo sovietico non fu più in grado di nascondere i disastri precedenti. Oggi, a cercare di fare luce su queste remote stragi ambientali e sociali sono tre italiani: il documentarista Alessandro Tesei, già autore del pluripremiato film Fukushame, in cui si mostrano le falle del sistema giapponese nell’affrontare la strage di Fukushima, il fotoreporter Pierpaolo Mittica e il ricercatore e antropologo Michele Marcolin. Obiettivo dei tre? Raccontare in un documentario cosa è successo in quei luoghi dimenticati dalla storia.«La ricerca si è sviluppata tra visite nei luoghi contaminati e interviste a persone coinvolte all’epoca dai vari incidenti, per capire come hanno vissuto in quegli anni, e come ora affrontano l’aumento esponenziale di morti per tumore e di malformazioni e problemi mentali alla nascita», racconta Tesei: «Abbiamo trovato una grande confusione, e diversi modi di trattare sia il problema che le persone: alcune vivono ancora a ridosso del fiume Techa, e il governo russo gli concede una misera pensione di circa 6 euro al mese. Altre sono state evacuate in zone ugualmente contaminate. Altre ancora sono riuscite, dopo intense battaglie legali, a ottenere dei risarcimenti che gli hanno permesso di spostarsi in zone più salubri». Il farsi riconoscere lo status di vittima della contaminazione è però complesso, aggiunge il filmaker, «e ovviamente il governo russo, così come sta facendo a Fukushima quello giapponese, crea dei muri di burocrazia che confondono e spesso dissuadono le persone dal far valere i propri diritti».I documentaristi italiani sono stati guidati in questo viaggio da Nadezhda Kutepova, storica attivista e avvocatessa che aiuta le persone di quelle zone a farsi valere tramite azioni legali. «Grazie a lei abbiamo avuto addirittura la possibilità di assistere a un processo per il riconoscimento dello status di vittima delle radiazioni, che è stato vinto dalla sua assistita. Una spinta per tutti quelli che pensano di rinunciare in partenza, spaventati dalle prime difficoltà», rivela Tesei. «Molte altre cose ci sarebbero da aggiungere – conclude il regista marchigiano – ma ciò che davvero spaventa e lascia increduli è il fatto che ogni governo, sia esso russo, giapponese o italiano, nel corso del tempo e perfettamente consapevole delle conseguenze di scelte scellerate, continui imperterrito a comportarsi in maniera criminale ai danni della comunità». Da Kyshym a Fukushima sono passati 54 anni. Ma la storia, in effetti, sembra sempre la stessa.(Andrea Bertaglio, “Nel 1957 a Mayak la catastrofe nucleare più grave della storia”, da “La Stampa” del 2 agosto 2014).Chernobyl e Fukushima non sono state le uniche catastrofi nucleari planetarie. Dietro gli Urali, nella regione di Chelyabinsk, una delle più inquinate di tutta la Russia, si sono infatti verificati tre gravissimi incidenti. La centrale di Mayak (che in russo significa “faro”) nacque nel 1949 per produrre plutonio per armi nucleari, e dal 1949 al 1952 riversò circa 76 milioni di metri cubi di rifiuti liquidi altamente radioattivi – principalmente cesio e stronzio – nel Techa, fiume lungo il quale vivevano circa 124.000 persone, divise in villaggi dediti all’agricoltura e all’allevamento. Nel 1957, nell’impianto di Mayak esplose un serbatoio di rifiuti radioattivi e, oltre al cesio e allo stronzio, si aggiunse il ben più pericoloso plutonio; l’esplosione formò una nube radioattiva che coprì un’area di circa 23.000 chilometri quadrati, creando l’area della “East Ural Radioactive Trace” e sprigionando almeno il doppio dei radionuclidi dell’incidente di Chernobyl.
-
Benetazzo: Morte Nera, se il virus Ebola arriva in Europa
Andiamo per gradi. Tra il 1346 ed il 1352 il Vecchio Continente venne colpito dalla Morte Nera, l’epidemia di peste bubbonica che falcidiò 1/3 della popolazione europea. Nei tre secoli precedenti la popolazione europea fece un salto quantico, sostanzialmente raddoppiò in numero, passando da 40 a 80 milioni (secondo le stime più autorevoli): questo venne reso possibile dall’assenza di grandi conflitti tra gli Stati e produzioni agricole negli anni più che abbondanti. Tuttavia durante i primi decenni del 1300 vi furono prolungati periodi di carestia a causa di un peggioramento delle condizioni climatiche in generale: gli storici fanno menzione di una piccola era glaciale. La peste bubbonica sembra abbia avuto origine negli altipiani dell’Asia Centrale, in prossimità della Mongolia, in cui a seguito della scarsità di derrate alimentari e irrigidimento climatico, vi fu una moria accentuata di topi e ratti.
-
Paghiamo lavori inutili e sfruttiamo chi è davvero utile
Nel lontano 1930, John Maynard Keynes prevedeva che entro la fine del secolo la tecnologia in Occidente sarebbe progredita al punto di regalarci una settimana lavorativa di appena 15 ore. Invece, è accaduto il contrario: «La tecnologia è stata arruolata per inventare nuovi modi di farci lavorare tutti di più», scrive l’antropologo David Graeber. E a tale scopo «sono stati creati lavori che sono di fatto inutili». Enormi schiere di persone, in Europa e Nord America, lavorano in ufficio, dove «trascorrono tutta la loro vita professionale eseguendo compiti che segretamente ritengono inutili». Graeber parla di «danni morali e spirituali», praticamente «una cicatrice sulla nostra coscienza collettiva», anche se non ne parla nessuno. Perché l’utopia promessa da Keynes non si è mai materializzata? «La spiegazione standard è che Keynes non aveva preventivato la mole dell’incremento del consumismo», ma per l’antropologo la verità è un’altra: l’élite capitalista sa benissimo che, una volta liberate dall’incombenza del lavoro full time, le masse cominciano a “pensare”, e a reclamare diritti per una vita diversa, specie se le macchine faticano al posto dell’uomo.«Dagli anni Venti in poi abbiamo assistito alla creazione di un’infinità di nuovi lavori e industrie, ma sono pochissimi quelli che hanno a che vedere con la produzione e la distribuzione di sushi, iPhone o scarpe da ginnastica costose», scrive Graeber in un post ripreso da “Megachip”. «Allora cosa sono esattamente questi nuovi lavori?». Durante il secolo scorso, il numero di lavoratori impiegati come domestici, nel settore industriale e in quello agricolo è crollato. Parallelamente, «le libere professioni, i lavori dirigenziali, d’ufficio, di vendita e di servizio» sono triplicati, passando da un quarto degli impieghi complessivi a tre quarti. «In altre parole, i lavori produttivi, esattamente come previsto, sono stati in gran parte sostituiti dall’automazione», anche calcolando gli operai cinesi e indiani. «Ma anziché consentire una significativa riduzione delle ore di lavoro per rendere la popolazione mondiale libera di dedicarsi ai propri progetti, piaceri e idee, abbiamo assistito all’esplosione non tanto del settore dei “servizi”, quanto di quello amministrativo».Sono nate nuove industrie come quella dei servizi finanziari o del telemarketing, mentre c’è stata un’espansione senza precedenti di settori come quello giuridico-aziendale, accademico, della amministrazione sanitaria, delle risorse umane e delle pubbliche relazioni. Senza contare le aziende che a queste industrie forniscono assistenza amministrativa, tecnica o relativa alla sicurezza, così come «l’esercito di attività secondarie (come i toelettatori di cani o i fattorini che consegnano pizze tutta la notte) che esistono soltanto perché le altre persone passano tanto tempo a lavorare in tutte le altre». Sono mestieri che Graeber propone di definire “lavori stupidi”: «È come se esistesse qualcuno che inventa lavori inutili solo per farci continuare a lavorare. E proprio qui sta il mistero: nel capitalismo, questo è esattamente quel che non dovrebbe succedere». Infatti, «l’ultima cosa che deve fare un’azienda desiderosa di profitti è sborsare soldi a lavoratori di cui non ha davvero bisogno. Eppure, non si sa perché, succede lo stesso».È vero, «le grandi aziende operano spesso tagli spietati», ma attenzione: «Licenziamenti e prepensionamenti colpiscono immancabilmente la classe delle persone che fabbricano, spostano, riparano e mantengono in funzione le cose». Per una strana alchimia che nessuno sa davvero spiegare, continua Graeber, «ultimamente il numero di passacarte salariati sembra aumentare, e sempre più lavoratori dipendenti si ritrovano – un po’ come i sovietici di una volta – a lavorare in teoria 40 se non 50 ore alla settimana, ma lavorandone di fatto 15 proprio come previsto da Keynes, perché il resto del loro tempo serve per organizzare o partecipare a seminari motivazionali, aggiornare i profili Facebook o scaricare roba». Per Graeber, la spiegazione non è economica: è morale e politica. «La classe dirigente si è resa conto che una popolazione felice, produttiva e con del tempo libero a disposizione è un pericolo mortale: pensate a quel che è cominciato a succedere quando negli anni Sessanta ci si è avvicinati a una vaga approssimazione di questa cosa». E l’idea che il lavoro sia un valore morale in sé, al punto da pensare che «chiunque non desideri sottomettersi a un’intensa disciplina lavorativa per la maggior parte delle sue ore di veglia non meriti niente», torna straordinariamente comoda a molti.Un amico poeta e musicista, racconta Graeber, dopo un paio di dischi che avevano «migliorato la vita di tante persone in tutto il mondo», è stato costretto – parole sue – a «imboccare la strada che sceglie in automatico tanta gente che non sa dove andare: la facoltà di giurisprudenza». Oggi lavora come avvocato aziendale per un importante studio di New York. «Lui per primo ammette di fare un lavoro del tutto privo di senso, che non fornisce nessun contributo al mondo e che, secondo lui, in realtà non dovrebbe esistere». Domanda: che razza di società è la nostra, che genera «una domanda estremamente limitata di poeti-musicisti talentuosi», a fronte di una domanda apparentemente infinita di specialisti in diritto aziendale? Risposta: se «la maggior parte della ricchezza disponibile la controlla l’1% della popolazione», allora quello che definiamo “mercato” rigetterà «ciò che loro, e nessun altro», non considerano utile o importante. Peggio ancora: chi fa lavori “stupidi” se ne rende perfettamente conto. «Credo di non aver mai conosciuto un avvocato aziendale che non pensasse di fare un lavoro stupido».Lo stesso vale per quasi tutte le nuove industrie: «Esiste un’intera classe di lavoratori salariati che, se li incontri a una festa e ammetti di fare un mestiere considerato interessante (l’antropologo, per esempio), si rifiuta anche soltanto di dirti che lavoro fa. Fategli bere due o tre drink, e si lanceranno in vere e proprie tirate su quanto inutile e stupido sia in realtà il loro lavoro», continua Graeber. «Stiamo parlando di una violenza psicologica profonda. Come si può anche solo cominciare a parlare di dignità del lavoro, quando in cuor suo una persona ritiene che il proprio lavoro non debba esistere?». Tuttavia, «il talento tutto particolare della nostra società» sta nel fatto che i suoi governanti hanno escogitato un modo per garantire che la frustrazione e la rabbia vengano indirizzate contro chi invece fa un lavoro sensato. Strana regola: «Più il lavoro di un individuo giova palesemente ad altre persone, minori sono le probabilità che questo lavoro venga pagato».Si domanda Graeber: che succederebbe se quest’intera classe di persone scomparisse? «Dite quel che volete di infermieri, spazzini e meccanici: è palese che, se dovessero sparire in una nuvola di fumo, gli effetti sarebbero immediati e catastrofici. Un mondo senza insegnanti e scaricatori di porto finirebbe presto nei guai, e anche un mondo senza scrittori di fantascienza o musicisti ska sarebbe evidentemente peggiore». Al contrario, «non è del tutto chiaro in che modo l’umanità soffrirebbe se dovessero svanire allo stesso modo tutti gli amministratori delegati di società d’investimenti, i lobbisti, gli addetti alle pubbliche relazioni, gli analisti assicurativi, i lavoratori del telemarketing, gli ufficiali giudiziari o i consulenti legali (molti sospettano che potrebbe significativamente migliorare)». Eppure, fatta salva una manciata di stimatissime eccezioni, come ad esempio i medici, «la regola resiste sorprendentemente bene». E, «cosa ancor più perversa, sembra circolare la diffusa convinzione che sia giusto così».Questo, aggiunge Graeber, è «uno dei punti di forza segreti dei populisti di destra», quelli che «fomentano il rancore contro i dipendenti della metropolitana che paralizzano Londra per il rinnovo del contratto», perché «il fatto stesso che i dipendenti della metropolitana siano in grado di paralizzare Londra è la riprova che il loro lavoro è necessario, ma a infastidire la gente sembra sia proprio questo». Cosa ancora più evidente negli Stati Uniti, dove i repubblicani «stanno riuscendo con molto successo a mobilitare il risentimento contro gli insegnanti o contro gli operai dell’industria dell’automobile», a causa di stipendi e benefit che sembrano eccessivi. È come se gli stessero dicendo: voi, che a quanto pare fate lavori veri, necessari, avete anche la faccia tosta di aspettarvi delle pensioni e un’assistenza sanitaria da classe media?«Se qualcuno avesse progettato un sistema del lavoro fatto su misura per salvaguardare il potere del capitale, non avrebbe potuto riuscirci meglio», conclude Graeber. «I lavoratori veri, quelli produttivi, vengono spremuti e sfruttati implacabilmente», mentre gli altri «si dividono tra un atterrito strato di disoccupati, disprezzato da tutti, e un più ampio strato di persone che in pratica vengono pagate per non fare nulla». Queste persone «ricoprono incarichi progettati per farle identificare con i punti di vista e le sensibilità della classe dirigente (manager, amministratori)», ma al tempo stesso «covano un segreto rancore nei confronti di chiunque faccia un lavoro provvisto di un chiaro e innegabile valore sociale». Non è un sistema progettato in modo conscio, è emerso da quasi un secolo di tentativi empirici. «Ma è anche l’unica spiegazione del perché, nonostante le nostre capacità tecnologiche, non lavoriamo tutti quanti solo tre o quattro ore al giorno».Nel lontano 1930, John Maynard Keynes prevedeva che entro la fine del secolo la tecnologia in Occidente sarebbe progredita al punto di regalarci una settimana lavorativa di appena 15 ore. Invece, è accaduto il contrario: «La tecnologia è stata arruolata per inventare nuovi modi di farci lavorare tutti di più», scrive l’antropologo David Graeber. E a tale scopo «sono stati creati lavori che sono di fatto inutili». Enormi schiere di persone, in Europa e Nord America, lavorano in ufficio, dove «trascorrono tutta la loro vita professionale eseguendo compiti che segretamente ritengono inutili». Graeber parla di «danni morali e spirituali», praticamente «una cicatrice sulla nostra coscienza collettiva», anche se non ne parla nessuno. Perché l’utopia promessa da Keynes non si è mai materializzata? «La spiegazione standard è che Keynes non aveva preventivato la mole dell’incremento del consumismo», ma per l’antropologo la verità è un’altra: l’élite capitalista sa benissimo che, una volta liberate dall’incombenza del lavoro full time, le masse cominciano a “pensare”, e a reclamare diritti per una vita diversa, specie se le macchine faticano al posto dell’uomo.