LIBRE

associazione di idee
  • idee
  • LIBRE friends
  • LIBRE news
  • Recensioni
  • segnalazioni

Archivio del Tag ‘risparmi’

  • Il Fmi vuole il nostro sangue, e Renzi glielo darà

    Scritto il 07/10/14 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    Salari più bassi, meno assistenza, tagli alle pensioni. Il programma dei governi nazionali? Lo scrive la Troika, ed è stupefacente che qualcuno ancora ne dubiti, specie “a sinistra”. Così, ad ogni periodico report, sono i pilastri della stessa Troika a ricordarcelo: di recente è toccato al Fmi, che ha rivisto anche al ribasso le previsioni di crescita per l’Italia, ovvero di recessione: -0,1%, secondo l’istituto internazionale guidato da Christine Lagarde. Le previsioni per gli anni successivi (+1,1 nel 2015, + 1,3 nel 2016) «appartengono al “wishful thinking” più che alle stime scientifiche», secondo Claudio Conti, «perché è ormai chiaro che le variabili macro-globali sono fuori dal controllo di qualsiasi ente». Semplicemente, «nessuno sa come andrà: si incrociano le dita e si sparano “ricette” a seconda degli interessi che si rappresentano». Dato che il Fmi è una sorta di braccio armato del capitalismo finanziario multinazionale, con preponderanza anglo-statunitense, «se l’obiettivo è trasferire quote di ricchezza dalle popolazioni alla finanza multinazionale, ecco che i “consigli” del Fondo assumono toni granguignoleschi».
    La chiave di volta resta il debito pubblico, scrive Conti su “Contropiano”: la finanza globale ama soltanto quello privato, ovvero fondamentalmente il proprio debito, e si scaglia contro quello “pubblico”, pretendendo trasferimenti diretti verso le proprie casse. Il debito italiano, come ormai ammette anche il ministro Padoan, è destinato a salire anche a dispetto (o meglio, a causa) dei tagli di spesa: toccherà il 136,4% del Pil entro fine 2014, per poi scendere progressivamente, ma restando comunque sopra il 130% fino al 2017. «Trattandosi di una proporzione e non di una cifra assoluta – osserva Conti – se a un governo vengono “consigliate” manovre recessive, il risultato sarà una contrazione del Pil». Dunque, la relazione debito-Pil «resterà negativa anche tagliando alla grande il debito». Di conseguenza, sentenzia il Fmi, il tasso di disoccupazione in Italia è destinato a salire ancora: 12,6%, il più alto dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
    E qui arrivano i primi “complimenti” al governo Renzi, la cui “riforma del mercato del lavoro”, con tanto di precarizzazione universale e contrazione dei salari, «è vista come condizione ottimale per aumentare la quantità di persone da mettere al lavoro a salari da fame». Dunque la riforma Renzi «va nella giusta direzione», ma il premier deve «muoversi rapidamente sulle riforme». Bene anche l’idea di un «singolo contratto di lavoro», con «il 70% dei nuovi contratti a tempo determinato», nonché «ulteriore flessibilità». Tradotto: la precarietà è utile per le produzioni o le imprese “marginali” (piccole o piccolissime), ma l’attacco va condotto direttamente contro il nucleo centrale dell’occupazione «stabile e a tempo indeterminato», in modo da comprimere violentemente e una volta per tutte il costo del lavoro anche nei comparti-chiave dell’economia italiana.
    Benedizioni quindi anche per uno «strumento importante» come la “spendig review”, non a caso affidata a Carlo Cottarelli, un economista dello stesso Fmi, che ad ottobre rientrerà nei ranghi dell’organismo sovranazionale. Ma al Fondo sanno fare i conti, aggiunge “Contropiano”: per quanto si possa tagliare la spesa pubblica toccando le varie «sacche di inefficienza» o spreco, non si arriverà mai a sforbiciare abbastanza da riportare il debito pubblico entro quel 60% indicato dagli accordi di Maastricht. Come si può fare, allora?  «Ulteriori risparmi saranno difficili senza affrontare l’elevata spesa per le pensioni» e anche la spesa sanitaria. «Bingo! Il Fmi dice fuori dai denti che è ora di far fuori un po’ di anziani, riducendo le loro “aspettative di vita” grazie a pensioni ancora più basse e minori prestazioni sanitarie», scrive Conti. «Non serve, insomma, “tagliare gli sprechi”, il Fondo consiglia (prescrive? ordina?) di tagliare la carne viva della gente fino all’osso e anche oltre». Viceversa, ammonisce il Fmi, l’Italia rimarrà «vulnerabile a una perdita di fiducia del mercato» e al «contagio finanziario», diventando «fonte di contagio per il resto del mondo».
    «Per tutte queste ragioni – continua “Contropiano”– il Fmi promuove “l’ambiziosa agenda di riforme” del governo Renzi, suscitando la poco divertente impressione del burattinaio che dice “bravo!” alla marionetta». Il Fondo Monetario non ha dubbi: «Attuare le riforme strutturali simultaneamente genererebbe significative sinergie di crescita». Quanto sia “invasiva” la logica del Fondo, osserva Conti, è dimostrato da una delle tante raccomandazioni non direttamente economche: il progetto di legge elettorale delineato dall’“Italicum” è considerato un’ottima idea, perché «aiuta il sostegno e l’attuazione delle riforme». Chiosa Claudio Conti: «Non servirebbe la traduzione, ma ve la diamo egualmente: un programma di “riforme” così sanguinose e infami non avrebbe alcuna possibilità di esser approvato anche elettoralmente; bene dunque l’idea di escludere che il parere dei cittadini possa rallentare – o, orrore!, “impedire” – l’attuazione del programma. La democrazia non serve più al capitale, ergo si può e si deve metterla da parte».

    Salari più bassi, meno assistenza sanitaria, tagli alle pensioni. Il programma dei governi nazionali? Lo scrive la Troika, ed è stupefacente che qualcuno ancora ne dubiti, specie “a sinistra”. Così, ad ogni periodico report, sono i pilastri della stessa Troika a ricordarcelo: di recente è toccato al Fmi, che ha rivisto anche al ribasso le previsioni di crescita per l’Italia, ovvero di recessione: -0,1%, secondo l’istituto internazionale guidato da Christine Lagarde. Le previsioni per gli anni successivi (+1,1 nel 2015, + 1,3 nel 2016) «appartengono al “wishful thinking” più che alle stime scientifiche», secondo Claudio Conti, «perché è ormai chiaro che le variabili macro-globali sono fuori dal controllo di qualsiasi ente». Semplicemente, «nessuno sa come andrà: si incrociano le dita e si sparano “ricette” a seconda degli interessi che si rappresentano». Dato che il Fmi è una sorta di braccio armato del capitalismo finanziario multinazionale, con preponderanza anglo-statunitense, «se l’obiettivo è trasferire quote di ricchezza dalle popolazioni alla finanza multinazionale, ecco che i “consigli” del Fondo assumono toni granguignoleschi».

  • Di finanza si muore: ed ecco la bolla finale della Bce

    Scritto il 04/10/14 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Le bolle finanziarie obbediscono a una legge ferrea: più crescono e più si avvicina la loro fine. Così, annunciando misure per sostenere la bolla, Mario Draghi ne ha appena avvicinato lo scoppio. Le misure annunciate sono la riduzione del tasso Bce allo 0,05%, un “Quantitative Easing” (Qe) nella forma di acquisti di cartolarizzazioni (“Asset-Backed Securities”) e di “covered bonds” da parte della Bce a cominciare dal quarto trimestre. Poi un’altra ondata di Ltro, prestiti di fatto gratis alle banche. L’ultima misura è chiamata “funding for lending” e dovrebbe servire ad aumentare il credito al settore produttivo. «In realtà fallirà l’obiettivo», secondo “Movisol”, «come lo ha fallito il modello originale, applicato in Gran Bretagna». L’intento della Bce è descritto con franchezza in uno studio di 104 pagine pubblicato dallo stratega di Deutsche Bank, Jim Reid, l’11 settembre: il sistema finanziario, scrive Reid, è un’unica, gigantesca bolla, che deve essere continuamente pompata per non collassare.
    «Negli ultimi due decenni, l’economia globale è passata da una bolla all’altra con eccessi che non sono mai stati pienamente rivelati. Invece, una politica aggressiva ha incoraggiato il rifinanziamento con nuove bolle. Ciò ha discutibilmente fatto del sistema finanziario moderno, così come lo conosciamo, una preoccupazione costante», si legge nel rapporto. La bolla è ora “migrata” nel mercato obbligazionario, ed è diventata «una condizione necessaria per mantenere in piedi il superindebitato sistema finanziario». Non c’è più un luogo dove migrare, visto che ora la bolla è nelle mani dei governi e delle banche centrali, i prestatori di ultima istanza, e perciò «pensiamo che questa bolla vada mantenuta per assicurare la solvibilità dell’attuale sistema finanziario». Prevedibilmente, azioni e obbligazioni sono salite dopo l’annuncio di Draghi. Secondo alcune fonti, non sono solo i privati a speculare, ma le stesse banche centrali starebbero acquistando “futures” e altri titoli derivati per sostenere direttamente il mercato.
    Mentre non è certo quale sarà la domanda di Ltro, il pezzo forte della Bce è il programma di acquisto di Abs. Il 12 settembre lo stesso Juncker ha dichiarato che una delle priorità della nuova Commissione Europea sarà rivitalizzare il mercato Abs. La Bce si è avvalsa della consulenza del colosso statunitense BlackRock, a sua volta grande possessore di titoli Abs, delineando quindi un «leggero conflitto di interessi». Ma la Bce, avverte “Movisol”, non vuole rischiare in proprio: «Sta già pensando di scaricare il peso degli Abs tossici sulle spalle del contribuente». Benoit Coeure, membro dell’esecutivo di Francoforte, ha chiarito: perché un programma di acquisti di Abs raggiunga tutto il suo potenziale, i governi devono garantire almeno parte del debito. «L’Europa si trova ad affrontare una scelta fondamentale se vuole muoversi verso un mercato Abs che abbia la stessa profondità e la liquidità del mercato americano», ha detto Coeure in un’intervista alla rivista “Risk”, distribuita dalla Bce.
    «Per raggiungere questo obiettivo», aggiunge Coeure, «il mercato delle cartolarizzazioni richiederà una quantità significativamente maggiore di sostegno pubblico di quella attuale». In altre parole, riassume “Movisol”, «la Bce pompa la bolla finale, in parte stampando soldi, in parte con soldi pubblici (i contribuenti), in una mossa futile e disperata che non impedirà alla bolla di scoppiare ma piuttosto ne accelererà la fine». Nel frattempo, «la recessione nell’Ue sta rivelandosi una depressione». Infatti, «la disoccupazione di massa ha raggiunto livelli da anni Trenta e in alcuni casi le istituzioni democratiche sono state compromesse irreversibilmente». E’ il “capolavoro” della moneta non-sovrana, che mette in crisi gli Stati e le economie nazionali, obbligandole a elemosinare credito presso il mercato finanziario internazionale attraverso il sistema bancario privato. E la Bce è il gestore dell’euro-regime, il braccio armato della grande crisi. «Liberiamoci del pilota pazzo ai comandi!», conclude “Movisol”.

    Le bolle finanziarie obbediscono a una legge ferrea: più crescono e più si avvicina la loro fine. Così, annunciando misure per sostenere la bolla, Mario Draghi ne ha appena avvicinato lo scoppio. Le misure annunciate sono la riduzione del tasso Bce allo 0,05%, un “Quantitative Easing” (Qe) nella forma di acquisti di cartolarizzazioni (“Asset-Backed Securities”) e di “covered bonds” da parte della Bce a cominciare dal quarto trimestre. Poi un’altra ondata di Ltro, prestiti di fatto gratis alle banche. L’ultima misura è chiamata “funding for lending” e dovrebbe servire ad aumentare il credito al settore produttivo. «In realtà fallirà l’obiettivo», secondo “Movisol”, «come lo ha fallito il modello originale, applicato in Gran Bretagna». L’intento della Bce è descritto con franchezza in uno studio di 104 pagine pubblicato dallo stratega di Deutsche Bank, Jim Reid, l’11 settembre: il sistema finanziario, scrive Reid, è un’unica, gigantesca bolla, che deve essere continuamente pompata per non collassare.

  • Piegare la Russia: prima con la finanza, poi con i missili

    Scritto il 18/9/14 • nella Categoria: segnalazioni • (4)

    Solo un cretino può assistere allo spettacolo dell’America che aggredisce la Russia, senza capire che domani potrebbe toccare a noi, alleati-sudditi, pronti eventualmente anche a entrare in guerra. A spiegare l’aria che tira provvede un super-tecnocrate come Paul Roderick Gregory, consigliere internazionale della Scuola Economica di Kiev. Il piano è semplice: abbattere Putin per conquistare Mosca. Prima si prova col ricatto della finanza. Poi, se non basta, si procede con i missili. Questo “dottor Stranamore”, scrive Giulietto Chiesa, in una recente intervista su “Forbes” parla in modo diretto, e quindi «rappresenta bene la strategia, la tattica, le intenzioni dei gruppi “neocon” americani e di una parte importante di quelli europei». Dice cose illuminanti, lo Stranamore di Kiev, «pensate per distruggere il nemico prima ancora che cominci la guerra». Attenzione: «Siamo di fronte a un progetto che è molto più importante di una profezia». E quella di Gregory «è la voce di chi conta più di Obama». Purtroppo, il piano che enuncia – salvo modifiche di percorso imposte dalle circostanze – sarà il “film” che vedremo nei prossimi mesi.
    Invece di sanzioni più immediate, afferma Gregory, «che lavora a Kiev per conto dell’Occidente, che lo paga», l’Europa e gli Stati Uniti «devono orientarsi verso un’assistenza militare, letale, diretta contro l’invasione russa (perché chiamarla in altro modo?)». Usa e Ue devono «riesumare le installazioni della Iniziativa di Difesa Strategica in Polonia e in Repubblica Ceca, non come una punizione ma come una precauzione». Inoltre devono «rinvigorire la Nato, includendovi lo stazionamento di truppe nei paesi Nato che confinano con la Russia». Obama? «Deve approvare l’oleodotto Keystone e aprire più territori federali alle prospezioni petrolifere, approvare i terminali per l’esportazione di gas liquido, eliminare le restrizioni all’esportazione di petrolio, promuovere il “fracking” in Europa». Testualmente: «Obama deve condurre l’Europa, trascinandola per il naso, a una politica energetica collettiva e organica». Ed ecco il primo colpo finanziario da sferrare: «Noi abbiamo una opzione nucleare di cui pochi parlano: cacciare via le istituzioni finanziarie russe dal sistema “Swift” e guardarle mentre crollano».
    “Swift” è l’acronimo di “Society for Worlwide Interbank Financial Telecomunications”: è il centro – sotto controllo diretto Usa – attraverso cui passano e vengono registrate tutte le transazioni bancarie della globalizzazione americana. «Un collega – chiosa Gregory – ama ricordarmi che la sanzioni finanziarie sono oggi l’equivalente della diplomazia delle cannoniere del secolo XIX. Gli Stati Uniti hanno le cannoniere grazie al sistema del dollaro». Questo è senza dubbio il piano d’attacco, osserva Chiesa su “Megachip”: resta solo da vedere se funzionerà, ma si vede che non è campato in aria. Washington, infatti, ha armi di pressione molto potenti: «Essere entrati nella globalizzazione americana significa essersi messi un cappio al collo, che ora può essere stretto a piacimento dal suo padrone». Certo, nell’analisi di “Forbes” ci sono tutti i punti deboli di Mosca, mentre gli Usa e l’Europa sono presentati come in stato di euforica tranquillità: sappiamo che non è così. «Tuttavia, a Wall Street e alla City of London ci credono. Dunque dobbiamo assumere che si comporteranno di conseguenza, anche perché sappiamo che lo show-down ucraino è stato creato da loro».
    Tutto questo è ormai molto chiaro a Vladimir Putin e al suo più stretto entourage, continua Giulietto Chiesa, secondo cui però «a Mosca è pieno di gente, nei posti di comando, che ragiona nello stesso modo del Dottor Stranamore». Dunque, «questo è un momento cruciale per Putin e per la Russia». Ovvero, «è il momento in cui si deve capire cosa ha significato il passaggio al capitalismo americano realizzato da Boris Eltsin e Egor Gaidar: diventare ostaggi del mercato globale. E, quando è sorto il problema di difendere la propria nazione e i propri interessi, di scoprire che la propria libertà era stata comprata, per giunta per pochi copechi». Denaro, appunto. Proprio su questo si fonda la fase-1 del piano Usa, quella che precede la guerra. «La Russia ha un mercato di capitali esiguo. In questi anni circa la metà di quello che le serviva lo prendeva dall’estero. Se la si espelle dal mercato dei capitali – americano, giapponese, europeo – la si costringerà a fare appello a paesi che non sono stati assoggettati a sanzioni. In primo luogo alla Cina. Che ci riesca o meno è da vedere, ma per intanto le si renderà impossibile rifinanziare i debiti che scadono, stabilizzare il rublo, evitare il collasso degl’investimenti. Il primo passo obbligato sarà di intaccare le sue riserve in valuta; il secondo sarà di intaccare i fondi di riserva che Putin ha accumulato in questi ultimi anni, evidentemente in previsione di questi sviluppi».
    Secondo “Forbes”, nel 2013 il debito russo era a 47,2 miliardi di dollari. Dall’inizio della guerra in Ucraina, Mosca ha firmato contratti per prestiti di soli 1,5 miliardi di dollari. “Bloomberg” scrive che «non un solo dollaro, euro o yen è stato prestato a compagnie russe nel mese di luglio». Si aggiunga che, in queste condizioni, anche il costo del debito aumenta: «“Standard & Poor’s” ha fatto il suo dovere, portando il 25 aprile scorso il valore del debito russo solo un punto al di sopra dei titoli-spazzatura. Ciò ha costretto il ministero delle finanze russo a sospendere le aste delle emissioni di bond che aveva in programma», ricorda Chiesa. I dati aggregati ufficiali dicono che alla vigilia di “Euromaidan”, il golpe di Kiev, le imprese russe e le banche avevano un debito estero complessivo di 653 miliardi di dollari e un debito verso i risparmiatori russi di altri 650 miliardi. Ma il 24% del debito estero, quasi 16 miliardi, va a maturazione quest’anno. Idem per il 2015. Le sanzioni? «Servono per impedire alla Russia di pagare il debito o, come minimo, per infliggerle danni strategici rilevanti». È vero che le riserve valutarie russe sono di 468 miliardi e che il ministero delle finanze ha fondi di riserva per altri 173 miliardi, ma in queste condizioni si pensa che Mosca sarà costretta a ridurre le riserve valutarie del 22%.
    Certo, continua Chiesa, è sempre possibile (ma a Washington lo considerano remoto) che “qualcun altro” – leggi sempre la Cina e i paesi del Brics – tenti di aggirare i divieti degli Stati Uniti. Ma – considerando “Swift” e altri strumenti di controllo, come la Nsa – sarebbero facilmente individuabili e velocemente puniti. Inoltre, c’è il fenomeno della fuga di capitali, «su cui Putin sembra al momento impotente». La Bcr, banca centrale russa, giura che nel primo trimestre 2014 sono usciti “solo” 51 miliardi di dollari – cioè più di 100 miliardi in un anno? Secondo la Bce, invece, la “fuga da Mosca” è di ben altra entità: 221 miliardi nel solo primo trimestre di quest’anno. In arrivo una guerra di sbarramento contro l’esportazione illegale di capitali, «ma l’esperienza occidentale dice che con questi metodi non si ferma l’emorragia». I russi, aggiunge Giulietto Chiesa, si fidano di un’unica banca, la Sberbank, che vuol dire “cassa di risparmio”. «Ed è questo il motivo per cui Sberbank è stata subito messa all’indice delle sanzioni». Contromossa: «La Bcr ha alzato il tasso d’interesse sui depositi al 10,2%, ma è ancora da vedere se sia sufficiente a trattenere i capitali in Russia».
    Comunque, secondo questi calcoli, Washington è certa che Putin non potrà mantenere il livello di investimenti attuale anche se riuscisse a rifinanziare il debito. Gli investimenti esteri diretti si sono già dimezzati, 41 miliardi contro gli 80 del 2013. E i calcoli occidentali prevedono una riduzione secca degli investimenti, del 30-50%, tra il 2014 e il 2015. «Il tutto dovrebbe portare, nelle loro speranze, a un crollo del Pil russo attorno al 6-10%». E manca ancora un tassello, fondamentale: l’energia. «Metà delle entrate dello Stato russo derivano da petrolio e gas. Da esse dipende la tenuta economica (e sociale) del paese. E – si progetta a Washington – anche quella di Putin. Dunque si è deciso di colpire anche e soprattutto qui», scrive Giulietto Chiesa. «L’ideale sarebbe ripetere il giochetto con cui fu affondata l’Urss di Gorbaciov: cioè far scendere bruscamente il prezzo dell’energia». Questa, però, «è la scommessa meno sicura da vincere, rispetto alle precedenti». La tendenza, infatti, è a un aumento dei prezzi, sui quali Putin e la Russia possono contare per i prossimi anni. «Non resta allora che tagliare la testa al toro: impedire alla Russia di vendere il suo prodotto. La crisi Ucraina – costruita dagli Stati Uniti e appoggiata da una parte dell’Europa – è esattamente l’attuazione di questa parte del piano: prendere in mano il rubinetto del gas russo, a spese dell’Ucraina e dell’Europa, e chiuderlo».
    Il costo per la Russia è già stato calcolato: circa 100 miliardi di dollari all’anno. Non a caso, osserva Chiesa, lo stesso Obama è venuto per ben due volte in poco più d’un mese in Europa a vendere il suo “shale gas” in sostituzione di quello russo. «Il problema è che Obama questo gas non ce l’ha ancora, e forse non lo avrà mai, perché ha tutta l’aria di una meteora. Ma intanto il danno può essere inferto agli europei che ci hanno creduto e ci credono. E questo costringerà la Russia a rivolgere i suoi gasdotti a est». L’alternativa, per Mosca, è la Cina, che è assetata di energia: Pechino ha già risposto all’appello, e il nuovo sistema gasifero verso est è stato avviato con un investimento cinese di 50 miliardi di dollari, che verranno sborsati come pagamento anticipato del gas che verrà. «Dunque Putin avanza di un passo senza impiegare capitali», ragiona Chiesa, «ma i primi metri cubi passeranno in quei tubi solo tra quattro anni». Certo, Obama sa che di acquirenti del gas e del petrolio russo ce n’è molti: «Bisognerà dunque intimidirli, ricattarli, punirli se insistono, così come si sta cercando di fare con i prestatori di capitali troppo capricciosi. Purtroppo per Washington, non tutti sono ricattabili. La Cina non lo è, ed è l’acquirente maggiore di tutti gli altri messi insieme».
    Questo è dunque il piano di guerra, ideato e avviato dagli Stati Uniti. «Le armi previste stanno facendo male, molto male, alla Russia. Alcune sono imparabili e altre sono parzialmente parabili». In ogni caso la partita è aperta, visto che «l’America è pronta a andare anche oltre». C’è però un aspetto che a Washington non hanno calcolato bene: «La popolarità di Putin cresce invece che diminuire». Letteralmente, «i russi si sono “svegliati”, a partire dalla Crimea. E la sveglia, fortissima, si è trasferita nel Donbass e in tutta la Russia». Questo, secondo Chiesa, potrebbe essere l’errore più grosso della strategia americana, forse commesso «perché queste cose non si misurano con il metro di “Standard & Poor’s”». Ma c’è ancora una notazione da fare, e riguarda noi: «Questa “politica delle cannoniere” è applicabile verso chiunque. L’America è in crisi e non è disposta a pagare nulla. Domani, con gli stessi mezzi, potrebbe colpire chiunque». Oggi, Putin sta difendendo la sovranità russa. Quanto a noi europei, «quando saremo diventati più furbi capiremo che la nostra sovranità ci è già stata sottratta, mentre applaudivamo ai nazisti che prendevano il potere a Euromaidan».

    Solo un cretino può assistere allo spettacolo dell’America che aggredisce la Russia, senza capire che domani potrebbe toccare a noi, alleati-sudditi, pronti eventualmente anche a entrare in guerra. A spiegare l’aria che tira provvede un super-tecnocrate come Paul Roderick Gregory, consigliere internazionale della Scuola Economica di Kiev. Il piano è semplice: abbattere Putin per conquistare Mosca. Prima si prova col ricatto della finanza. Poi, se non basta, si procede con i missili. Questo “dottor Stranamore”, scrive Giulietto Chiesa, in una recente intervista su “Forbes” parla in modo diretto, e quindi «rappresenta bene la strategia, la tattica, le intenzioni dei gruppi “neocon” americani e di una parte importante di quelli europei». Dice cose illuminanti, lo Stranamore di Kiev, «pensate per distruggere il nemico prima ancora che cominci la guerra». Attenzione: «Siamo di fronte a un progetto che è molto più importante di una profezia». E quella di Gregory «è la voce di chi conta più di Obama». Purtroppo, il piano che enuncia – salvo modifiche di percorso imposte dalle circostanze – sarà il “film” che vedremo nei prossimi mesi.

  • Della Luna: moneta sovrana per legge, in Costituzione

    Scritto il 29/8/14 • nella Categoria: idee • (3)

    La Camera approva ogni anno i bilanci e il rendiconto consuntivo presentati dal Governo. Per il fabbisogno della Repubblica, lo Stato emette direttamente moneta legale in forma cartacea o metallica, senza contrarre debito e senza emissione di titoli di debito. Lo Stato non riconosce altra moneta legale che questa. L’emissione avviene attraverso un apposito istituto nazionale, detto Istituto per la Moneta e il Credito, nei tempi e nelle quantità stabilite da una apposita commissione bicamerale paritetica permanente presieduta dal Ministro del Tesoro, il cui voto vale doppio in caso di parità. L’offerta monetaria primaria e i pubblici investimenti dovranno essere regolati e orientati all’incremento della produzione utile di beni e servizi secondo criteri di efficienza della spesa in funzione del risultato produttivo.
    Dovranno tendere alla piena occupazione e all’attivazione del potenziale produttivo nazionale, avendo riguardo alla tutela del potere d’acquisto reale dei redditi e del risparmio, alla moderazione delle spinte inflazionistiche, nonché alla sostenibilità ecologica al perseguimento del costante ammodernamento scientifico e tecnologico. Il predetto istituto, sotto la direzione della predetta commissione bicamerale, vigila e regola l’attività bancaria e creditizia, assicurando l’adeguata disponibilità di mezzi monetari nel Paese e l’accesso al credito a condizioni eque e sostenibili da parte dei soggetti economici, nonché contrastando la formazione di monopoli e cartelli. A tali fini, possono essere istituite banche di credito di capitale pubblico e di diritto pubblico.
    I soggetti abilitati all’esercizio del credito e alla raccolta del risparmio non possono esercitare in proprio, nemmeno attraverso altre imprese o attraverso persone fisiche o giuridiche, attività di speculazione finanziaria o di arbitraggio o trading. I depositi bancari, salva diversa pattuizione, avranno la natura giuridica di depositi regolari. L’esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso se non per legge e per periodi non superiori complessivamente a quattro mesi. Con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese. Ogni altra legge che importi nuove e maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte.
    (Marco Della Luna, estratto dalla “Proposta di Costituzione 2014” – Art. 81 Sovranità monetaria e assicurazione della liquidità necessaria al Paese – presentata sul blog di Della Luna il 3 agosto 2014).

    La Camera approva ogni anno i bilanci e il rendiconto consuntivo presentati dal Governo. Per il fabbisogno della Repubblica, lo Stato emette direttamente moneta legale in forma cartacea o metallica, senza contrarre debito e senza emissione di titoli di debito. Lo Stato non riconosce altra moneta legale che questa. L’emissione avviene attraverso un apposito istituto nazionale, detto Istituto per la Moneta e il Credito, nei tempi e nelle quantità stabilite da una apposita commissione bicamerale paritetica permanente presieduta dal Ministro del Tesoro, il cui voto vale doppio in caso di parità. L’offerta monetaria primaria e i pubblici investimenti dovranno essere regolati e orientati all’incremento della produzione utile di beni e servizi secondo criteri di efficienza della spesa in funzione del risultato produttivo.

  • La nostra economia difettosa è progettata solo per i ricchi

    Scritto il 26/8/14 • nella Categoria: idee • (2)

    Esistono diverse teorie economiche, ma ancor prima di ciò esistono classi sociali di cui gli economisti – ben lungi dall’essere scienziati apolitici – difendono gli interessi consolidati. E’ questa, purtroppo, l’evidenza che è emersa nel dibattito scatenato dal libro di Thomas Piketty “Capital in the Twenty-First Century”, nel quale si mettono in evidenza le ragioni e i pericoli delle disuguaglianze, le distorsioni conseguenti la crescita delle rendite e l’ingiustizia insita nell’ereditarietà del capitale. L’esempio migliore di questo bias classista lo fornisce Gregory Mankiw, noto economista conservatore ed autore di uno dei manuali di economia più diffusi. In un recente articolo per il “New York Times”, Mankiw ha cercato di demolire la tesi di Piketty: «Poiché il capitale è soggetto a rendimenti decrescenti, un aumento della sua offerta causa il fatto che ogni unità di capitale renda di meno. E poiché l’aumento del capitale aumenta la produttività del lavoro, i lavoratori godono di salari più alti».
    «In altre parole, risparmiando invece di spendere, chi lascia una proprietà agli eredi causa una redistribuzione non intenzionale dei redditi da altri proprietari di capitali verso i lavoratori. La morale della favola è che la ricchezza ereditata non è una minaccia economica. Coloro che hanno conseguito proventi straordinari naturalmente vogliono condividere la loro fortuna con i loro discendenti. Quelli di noi che non hanno la fortuna di nascere in una di queste famiglie ne beneficiano comunque, poiché la loro accumulazione di capitale aumenta la nostra produttività, i salari e il tenore di vita». E’ evidente però che non è questo che è accaduto negli ultimi decenni. Nonostante gli incrementi di produttività, i salari reali sono rimasti stagnanti. Il che significa semplicemente che la quota di ricchezza aggiuntiva prodotta è andata sempre più alle altre classi sociali e non ai lavoratori, in particolare a quell’1% contro il quale nacque il movimento “Occupy Wall Street”.
    Mankiw non fa altro che ripetere la ben nota ideologia della “trickle-down economics”. E’ però interessante scoprire perché, nonostante l’evidenza contraria, un economista può ancor oggi permettersi di sostenere la tesi secondo la quale l’arricchimento dei più abbienti ha un riflesso positivo sui lavoratori. Cosa c’è nella teoria economica che giustifica questo risultato così in contrasto con la realtà? Lo spiega bene Peter Domar, economista e autore del noto blog “Econospeak”. Affinché sia vero quanto sostenuto da Mankiw, devono infatti essere verificate numerose e improbabili condizioni. In particolare, l’aumento dell’offerta di capitale deve rendere tale fattore della produzione meno remunerativo. Un’ipotesi che nel secolo delle tecnologie di rete diventa ogni giorno sempre meno vera: ad esempio, entro un margine molto ampio, ogni antenna di telefonia mobile installata da un operatore rende tutto il capitale di antenne già installate più redditizio, poiché permette di raggiungere più clienti che potranno telefonare ai clienti dei territori già coperti. Lo stesso discorso vale per molti altri servizi a rete e per il software.
    E non basta. Affinché Mankiw abbia ragione occorre ipotizzare anche: che i fattori produttivi siano pienamente impiegati (ovvero che non vi sia disoccupazione dei lavoratori e sottoutilizzazione degli impianti); che il maggiore risparmio abbassi il tasso di interesse stimolando così l’investimento (il modello che Keynes smonta nella Teoria Generale); che tutti gli atti di risparmio e investimento si verifichino all’interno dello stesso sistema economico (per esempio, i ricchi non guadagnano proventi da investimenti all’estero); che non vi siano esternalità non compensate ad incrementare “ingiustamente” i margini di guadagno delle imprese (si pensi all’inquinamento); che non vi siano monopoli tecnologici e anzi che non vi sia alcun cambiamento tecnologico, in quanto altererebbe le produttività marginali del lavoro e del capitale. Insomma, Mankiw non sta parlando del mondo reale, ma di quello immaginario descritto dai manuali di economia. Come il suo.
    (“Le fallacie dell’economia per i ricchi”, da “Keynesblog” del 15 luglio 2014).

    Esistono diverse teorie economiche, ma ancor prima di ciò esistono classi sociali di cui gli economisti – ben lungi dall’essere scienziati apolitici – difendono gli interessi consolidati. E’ questa, purtroppo, l’evidenza che è emersa nel dibattito scatenato dal libro di Thomas Piketty “Capital in the Twenty-First Century”, nel quale si mettono in evidenza le ragioni e i pericoli delle disuguaglianze, le distorsioni conseguenti la crescita delle rendite e l’ingiustizia insita nell’ereditarietà del capitale. L’esempio migliore di questo bias classista lo fornisce Gregory Mankiw, noto economista conservatore ed autore di uno dei manuali di economia più diffusi. In un recente articolo per il “New York Times”, Mankiw ha cercato di demolire la tesi di Piketty: «Poiché il capitale è soggetto a rendimenti decrescenti, un aumento della sua offerta causa il fatto che ogni unità di capitale renda di meno. E poiché l’aumento del capitale aumenta la produttività del lavoro, i lavoratori godono di salari più alti».

  • Industrie e banche agli stranieri, per Renzi va bene così

    Scritto il 25/8/14 • nella Categoria: idee • (3)

    La vendita della Indesit a Whirpool è solo l’ultimo caso: si sta verificando nel silenzio generale la fine dell’Italia industriale, come predetto da Luciano Gallino. Il pericolo imminente è quello di cedere al capitale estero non solo le industrie ma anche le grandi banche, e di svendere completamente il risparmio italiano. A causa del declino verticale dell’industria e della sofferenza delle banche italiane, e a causa della colpevole inerzia governativa e dei pesanti vincoli europei, il capitalismo nazionale sta diventando un servile vassallo di quello internazionale. E l’Italia rischia così di precipitare definitivamente nel Terzo Mondo. Se l’“Economist” definisce “untangled” (sciolto, smembrato) il capitalismo italiano, sfugge il peso della svolta forzata di Mediobanca, che ha deciso di sciogliere gli accordi incrociati tra le maggiori aziende nazionali: da allora, secondo Enrico Grazzini, il capitalismo italiano si è votato a una sorta di suicidio irreversibile.
    Al cosiddetto capitalismo di relazione, «cioè all’intreccio tra capitalismo (semifallito) delle grandi famiglie, capitalismo finanziario e capitalismo (quasi dismesso) di Stato, si è sostituito l’arrembaggio dell’industria e della finanza internazionale, con la benedizione del governo Renzi», scrive Grazzini su “Micromega”. Intervistato dal “Corriere della Sera”, il premier ha definito «un’operazione fantastica» la vendita dell’Indesit di Merloni alla concorrente Whirpool: «Ho parlato personalmente io con gli americani a Palazzo Chigi. Non si attraggono gli investimenti esteri riscoprendo una visione autarchica e superata del mondo. Noi vogliamo portare aziende da tutto il mondo a Taranto come a Termini Imerese. Il punto non è il passaporto, ma il piano industriale. Gli imprenditori stranieri sono i benvenuti in Italia se hanno soldi e idee per creare posti di lavoro». Così, commenta Grazzini, il liberista Renzi esulta di fronte al fatto che il capitalismo industriale italiano non è più competitivo e si sta smembrando a favore dei capitali stranieri.
    Ovvio che gli investimenti esteri sono benvenuti, non si possono proteggere a tutti i costi le società nazionali, «ma bisognerebbe assolutamente evitare di cedere le industrie strategiche indispensabili per il futuro industriale del nostro paese». Quasi sempre, continua Grazzini, le cessioni all’estero arricchiscono solo le grandi famiglie, come i Merloni e i Tronchetti Provera (vedi i casi di Pirelli e Telecom Italia). L’ondata di cessioni industriali non comporta solo la riduzione drastica dell’occupazione, ma anche l’impossibilità di mantenere le condizioni per uno sviluppo economico autonomo e democratico. L’Italia, «cedendo le sue industrie e le sue banche», di fatto «mina le basi del suo sviluppo». E, da domani, «peserà come il due di picche nel turbolento scenario economico e politico europeo e mondiale». Parla da sola la “fuga” americana della Fiat, «propiziata dai miliardi concessi da Obama per proteggere l’industria americana dell’auto e dal silenzio criminale e assurdo dei governi italiani».
    De-italianizzata anche Telecom, che non ha più pesanti azionisti italiani e «dietro lo schermo ideologico della public company guidata dai manager è sostanzialmente in vendita», sono rimasti pochissimi i grandi gruppi italiani in grado di competere sul mercato internazionale. «E sono praticamente tutti statali, ovvero Eni, Enel, Finmeccanica, Fincantieri e pochi altri». Nonostante i peccati mortali attribuiti (spesso giustamente) ai boiardi di Stato, quel che resta della nostra industria pubblica sa competere meglio di quella privata, rileva Grazzini. «Anche per queste industrie strategiche il governo prevede però una disgraziata privatizzazione a favore dei capitali esteri, con l’obiettivo (falso) di diminuire il debito pubblico e rispettare i vincoli di deficit pubblico posti dall’Unione Europea». La verità è ben altra: «L’euro ci strozza e la Ue vuole farci vendere i gioielli di famiglia. Ma anche un grullo capisce che non si può alleggerire un debito di 2.100 miliardi con la vendita di quote di società da cui ricavare al massimo qualche decina di miliardi».
    All’opposto, lo Stato francese difende il controllo della sua industria nucleare e dell’energia, diventando il maggiore azionista di Areva per impedirne la completa acquisizione da parte dell’americana General Electric. «L’ideologia liberista di Renzi non è più praticata neppure presso i paesi più liberisti», scrive Grazzini. «Obama protegge gelosamente le sue industrie strategiche, l’auto, l’hi-tech e la finanza. La Fed, la banca centrale americana, stampa decine di miliardi di dollari al mese grazie ai quali le banche d’affari e le industrie statunitensi possono acquistare facilmente i concorrenti esteri. Anche grazie al “privilegio esorbitante” del dollaro facile, il 40% circa della Borsa italiana è in mano a banche d’affari, fondi pensione e fondi speculativi e di private equity americani, arabi, europei, fondi sovrani di Stati esteri». Esempio: il fondo BlackRock, gigante della finanza Usa, è uno dei principali azionisti non solo di Telecom Italia ma anche di Unicredit e Intesa, cioè delle due principali banche nazionali in cui confluisce gran parte del risparmio degli italiani.
    Ma non è solo il governo americano a intervenire a favore della sua industria: secondo uno studio di Mediobanca, il governo britannico e quello tedesco hanno speso rispettivamente 1.213 e 446 miliardi di euro per salvare le loro banche nazionali dalla crisi. Angela Merkel fa di tutto per proteggere e sviluppare l’industria tedesca dell’auto e della meccanica. La Germania, inoltre, «manovra l’euro come se fosse il marco per favorire le sue esportazioni e la proiezione internazionale della sua industria». E il governo bianco-rosa della cancelliera finanzia (giustamente) con denaro pubblico la sua industria delle energie alternative, contrastando duramente l’Unione Europea che vorrebbe impedire gli aiuti di Stato anti-competitivi. «I paesi emergenti – a partire da Cina, India e Brasile – sono riusciti a svilupparsi negli ultimi decenni attirando gli investimenti industriali esteri, ma anche proteggendo le industrie strategiche grazie allo stretto controllo dei capitali stranieri».
    Solo una politica pubblica attiva e intelligente, conclude Grazzini, può infatti difendere l’economia nazionale dall’assalto dei grandi enti finanziari che divorano le industrie, sviluppando ricerca, infrastrutture, aziende hi-tech e energie alternative. «Purtroppo il governo Renzi sembra avere una visione di politica economica completamente subordinata all’ideologia del “lasciar fare” ai mercati finanziari. Il governo interviene solo “a babbo morto” quando un’azienda è completamente fallita, come Alitalia, per cederla ai capitali esteri, cercando solo, per quanto possibile, di salvare le grandi banche creditrici (Intesa e Mps innanzitutto, nel caso Alitalia)». A fermare la slavina basterebbe un intervento deciso della Cassa Depositi e Prestiti, «l’unico ente nazionale simile a una banca pubblica». Meglio ancora: «Il governo dovrebbe nazionalizzare e gestire una grande banca, e finanziare (con profitto pubblico) le piccole aziende italiane in grave crisi di liquidità», nonché «le medie aziende del cosiddetto “quarto capitalismo” in grado di competere sui mercati internazionali».
    Un fondo pubblico specializzato, continua Grazzini, dovrebbe inoltre co-finanziare massicciamente le società private di “venture capital”, per sponsorizzare l’avvio e lo sviluppo globale di nuove start-up nei campi promettenti ma incerti dell’hi-tech. Peccato che politica sia praticamente inesistente, a cominciare da sinistra e sindacati, pur sapendo che «l’intervento statale non basta assolutamente per salvare e sviluppare l’industria nazionale: nell’economia dell’innovazione e delle conoscenze occorre mobilitare soprattutto l’intelligenza e la partecipazione dei lavoratori». Democrazia dal basso, per consentire alla forza lavoro – come avviene in Germania – di eleggere i suoi rappresentanti nei consigli di amministrazione delle grandi imprese, come l’Ilva e Telecom. Per Grazzini, «il pericolo maggiore – e imminente – è che non solo le industrie manifatturiere ma anche le banche nazionali vengano cedute all’estero (come è già successo con Mps, la terza banca nazionale) e che il risparmio degli italiani vada ad alimentare completamente lo sviluppo delle economie estere». Con soddisfazione sospetta, l’“Economist” annuncia che dal 2010 le fondazioni nazionali (lottizzate, ma pur sempre semi-pubbliche) abbiano perso la presa sulle banche italiane quotate in Borsa, che ormai dipendono dal “libero” mercato azionario per il 77%, con investitori stranieri padroni dell’11% del credito italiano, cioè il doppio rispetto a pochi anni fa.
    L’unificazione bancaria europea decisa dalla Ue genera la necessità di ricorrere al mercato per ricapitalizzare le banche nazionali colme di debiti in sofferenza a causa della crisi, e spesso dei crediti erogati agli “amici”. «L’apertura del mercato bancario nazionale sollecitata dall’Unione Europea è una fortuna per la speculazione internazionale», spiega Grazzini. «Le ricapitalizzazioni sono una manna per gli investitori esteri che con pochi soldi potranno acquistare il risparmio nazionale: ma senza il minimo controllo sul risparmio non ci saranno nuovi investimenti e prospettive di sviluppo più o meno sostenibile». L’Italia? «Diventerà irrimediabilmente un paese del terzo mondo». Ama conclusione: «L’economia italiana avrebbe bisogno di democrazia economica dal basso, di una avanzata politica industriale, di capitani d’industria come Enrico Mattei e Adriano Olivetti, di innovatori come Steve Jobs, di banchieri come Raffaele Mattioli, e di politici della statura di De Gaulle per difendere e sviluppare l’economia nazionale. Purtroppo invece in Italia hanno prevalso i Marchionne, i Berlusconi e i Renzi».

    La vendita della Indesit a Whirpool è solo l’ultimo caso: si sta verificando nel silenzio generale la fine dell’Italia industriale, come predetto da Luciano Gallino. Il pericolo imminente è quello di cedere al capitale estero non solo le industrie ma anche le grandi banche, e di svendere completamente il risparmio italiano. A causa del declino verticale dell’industria e della sofferenza delle banche italiane, e a causa della colpevole inerzia governativa e dei pesanti vincoli europei, il capitalismo nazionale sta diventando un servile vassallo di quello internazionale. E l’Italia rischia così di precipitare definitivamente nel Terzo Mondo. Se l’“Economist” definisce “untangled” (sciolto, smembrato) il capitalismo italiano, sfugge il peso della svolta forzata di Mediobanca, che ha deciso di sciogliere gli accordi incrociati tra le maggiori aziende nazionali: da allora, secondo Enrico Grazzini, il capitalismo italiano si è votato a una sorta di suicidio irreversibile.

  • Via dall’euro e addio Troika, se solo avessimo un leader

    Scritto il 20/8/14 • nella Categoria: idee • (2)

    «Come si sa, questo è un paese in cui le cose serie si decidono a ferragosto. Poi, al rientro, gli italiani trovano il piatto cotto in tavola». Fatti da parte, suggerisce Scalfari a Renzi, confermando l’allarme di De Bortoli sull’imminente arrivo della Troika, caldeggiato da Draghi. «E’ stato come se il travolgente successo alle europee, non solo non consacrasse la leadership di Renzi, ma quasi la indebolisse: arginato il M5S, Renzi non serve più», secondo Aldo Giannuli. «E il preannuncio del licenziamento è arrivato con la bacchettata di Draghi, che ha detto papale papale: “Caro Renzi, non mi incanti con la riforma del Senato, sono altre le riforme che devi fare” e, il sottinteso, neanche tanto dissimulato, era “altrimenti togliti di mezzo”». Renzi prima si è messo sull’attenti, poi ha tentato di dire che sulle riforme deciderà lui. «Povero illuso, non si rende conto di avere pochissime frecce al suo arco e di avere troppi avversari: gli americani lo detestano per le sue aperture a Putin, la Merkel non lo digerisce, la Buba gli darebbe fuoco, la finanza che sogna di avventarsi sul peculio berlusconiano non gli perdona il tentativo di salvare il Cavaliere, adesso ci si mette anche Draghi».
    Renzi «pensava di affascinare l’Europa con la sua riforma del Senato», ma «non se l’è bevuta nessuno», scrive Giannuli nel suo blog. All’Ue, invece, «interessa la precarizzazione totale del lavoro in Italia, arraffare quel po’ che ancora ha un valore (Eni, Cdp, Telecom, forse qualche pezzetto di Finmeccanica) e che gli italiani si spremano sino all’ultima goccia di sangue, diano fondo ai risparmi e si vendano casa per pagare gli interessi sul debito pubblico e, se possibile, ne restituiscano una parte attraverso il Fiscal Compact». Tutto il resto sono solo chiacchiere. Problema: con l’economia in recessione, il debito esplode. E presto metterà fine alla bonaccia dello spread. Sul “Sole 24 Ore”, l’economista neoliberale Luigi Zingales scrive che «non saremo mai in grado di soddisfare il Fiscal Compact», e inoltre «la situazione del nostro debito pubblico è insostenibile, a meno di una significativa ripresa dell’inflazione», che è sempre stata il maggior alleato dei paesi debitori. «Ma questo – puntualizza Giannuli – presuppone la sovranità monetaria del debitore, cosa che l’euro ci ha tolto».
    Il problema, continua l’analista, è che, mentre gli italiani hanno capitalizzato i loro risparmi in beni reali (essenzialmente immobili), i tedeschi li hanno impiegati per l’acquisto di titoli finanziari, prevalentemente in euro. Per cui, un’inflazione al 3% sarebbe una grande boccata di ossigeno per i paesi indebitati come Italia, Grecia, Spagna, Portogallo, ma «alle orecchie dei tedeschi suonerebbe come una tassa patrimoniale di pari importo sui titoli». E siccome la moneta comune «non è mai la “moneta di tutti”, ma sempre e solo del più forte», questo non si può fare: «Per i tedeschi la soluzione sta nella spoliazione dei paesi debitori, del loro patrimonio pubblico (aziende, immobili, riserva aurea, Cdp) e di quello privato (risparmi, proprietà immobiliari e, fosse per loro, anche vendita dei figli al mercato degli schiavi)». Per liquidare l’Italia, occorre «azionare con la massima decisione la leva fiscale (ovviamente al rialzo) e svendere subito il patrimonio pubblico», due cose che Monti aveva iniziato a fare «con grande sollievo della platea “europea”». Ovviamente, «dopo una “cura” del genere un paese entra in una fase di estrema decadenza economica per interi decenni», ma questo non interessa all’“Europa”. «Per i tedeschi, i partner europei sono solo sgabelli su cui arrampicarsi per reggere la sfida della globalizzazione».
    Certo, Renzi «non sta dando le risposte attese», limitandosi «a giocare al “piccolo leader”, cosa sommamente irritante». Per la verità, l’“Europa” non ha soluzioni politiche di ricambio, spiega Giannuli: «La destra berlusconiana l’ha già cacciata una volta ed è decotta, il centro non esiste e nel Pd non c’è nessuno che possa dare il cambio al fiorentino». E allora che si fa? Semplice: «Si commissaria l’Italia. Si fa governare il paese dalla Troika». A costringere l’Italia a invocarne “l’aiuto”, basterà «un nuovo “assedio dello spread”»: quando il differenziale sul rendimento dei titoli di Stato risalirà oltre i 500-600 punti, «gli italiani, soprattutto grazie al loro ineffabile Capo dello Stato, faranno quello che devono fare e si troverà il Monti di turno che faccia il lacchè della Troika». Niente di difficile, peraltro: «A preparare il terreno ci sta già pensando Scalfari». Un segnale chiaro, riguardo al pensiero dei poteri forti europei e dei loro esponenti italiani. E Renzi? «Il “bersagliere del nulla” ha solo due scelte davanti: o fa quello che la Bce gli dice, alla lettera e senza capricci, oppure fa saltare il tavolo». Il ricatto del debitore: se io vado in default, mi trascino dietro tutti,  comprese le banche tedesche, così salta anche l’euro. Oppure: ristrutturiamo il debito senza ricatti e rivediamo tutti gli accordi, inziando a negoziare l’uscita dall’infame moneta unica.
    «La forza negoziale dell’Italia sta proprio nel fatto che è un grande debitore, con i suoi oltre 2.000 miliardi di debito», continua Giannuli. «La Ue e l’euro potrebbero resistere agevolmente a un default greco, pari a 300 miliardi, e forse potrebbero incassare anche un tracollo portoghese, ma un colpo da 2.000 miliardi è decisamente troppo». Si sa: un piccolo debito è un problema del debitore, ma un grande debito è un problema del creditore. Forse, a quel punto, «potrebbero accodarsi spagnoli, greci e portoghesi», insieme ai variegati movimenti “euroscettici”. «Dunque, la via sarebbe quella di sedersi tutti al tavolo e assumere il problema del debito come problema comune a debitori e creditori. Questo non è un tempo normale: la grande crisi chiede scelte radicali. Nel nostro caso, o servi della Troika o ribelli decisi a far saltare il tavolo, tertium non datur». Questo, però, «richiederebbe una intelligenza, una preparazione, un coraggio politico di cui non sospettiamo lontanamente  Renzi». La sua «patetica impennata in difesa della sovranità nazionale» resta del tutto irrilevante. Il Fiorentino «sarà travolto prima di aver finito di parlare, ma quello che verrà dopo sarà anche peggiore: prepariamoci».

    «Come si sa, questo è un paese in cui le cose serie si decidono a ferragosto. Poi, al rientro, gli italiani trovano il piatto cotto in tavola». Fatti da parte, suggerisce Scalfari a Renzi, confermando l’allarme di De Bortoli sull’imminente arrivo della Troika, caldeggiato da Draghi. «E’ stato come se il travolgente successo alle europee, non solo non consacrasse la leadership di Renzi, ma quasi la indebolisse: arginato il M5S, Renzi non serve più», secondo Aldo Giannuli. «E il preannuncio del licenziamento è arrivato con la bacchettata di Draghi, che ha detto papale papale: “Caro Renzi, non mi incanti con la riforma del Senato, sono altre le riforme che devi fare” e, il sottinteso, neanche tanto dissimulato, era “altrimenti togliti di mezzo”». Renzi prima si è messo sull’attenti, poi ha tentato di dire che sulle riforme deciderà lui. «Povero illuso, non si rende conto di avere pochissime frecce al suo arco e di avere troppi avversari: gli americani lo detestano per le sue aperture a Putin, la Merkel non lo digerisce, la Buba gli darebbe fuoco, la finanza che sogna di avventarsi sul peculio berlusconiano non gli perdona il tentativo di salvare il Cavaliere, adesso ci si mette anche Draghi».

  • Barare e rubare senza vergogna, così si diventa Germania

    Scritto il 20/8/14 • nella Categoria: idee • (3)

    Volete essere l’economia leader di questa (putrefatta) Eurozona? Facile: barate, ma barate proprio in modo disgustoso, senza vergogna. Ecco le ricette. A) Inventatevi una Cassa Depositi e Prestiti, dategli il nome di Kfw, fatele investire soldi pubblici nelle aziende private nazionali senza che neppure un centesimo di questi soldi compaia nei famigerati conti di Stato, così nessuno a Bruxelles se ne accorge e vi mette le manette. B) Fate riforme del lavoro che fanno ristagnare i salari nazionali per 12 anni, così le vostre mega-industrie nazionali possono esportare a prezzi concorrenziali succhiando il sangue ai loro dipendenti. Ma quando questi s’infuriano (perché non sono tutti idioti), date la colpa delle loro pene non al governo né ai giganti dell’export, no! La colpa è di altri paesi europei, quelli spendaccioni, stupidi e incapaci.
    C) Create un sistema di moneta unica europea che ha in sé un complesso meccanismo finanziario per cui il vostro concorrente industriale numero uno, l’Italia, verrà spazzato via, messo in crisi e deprezzato all’estremo. Così le vostre patetiche Pmi (che in questo caso si chiamano Mittelstand) potranno venire in Italia a rubarci i nostri super-brevetti e le nostre prodigiose tecnologie per due soldi bucati, e portarsele a casa loro. Oh!, e i lavoratori/imprenditori italiani… bè c’è sempre un gabinetto dove metterli, no? D) Dettate la legge suprema della competitività in Europa, dove la regola numero uno è, ad esempio, prendere un Monti o una Fornero, promettergli la paghetta finale (consulenze private milionarie in ambito finanziario) a patto che diminuiscano drammaticamente sia i salari italiani che le pensioni. Ma a casa vostra fate esattamente il contrario: diminuite l’età pensionabile e fate addirittura intervenire la Banca Centrale (!) a dire che i salari vanno aumentati.
    F) Strombazzate in tutte le sedi di potere tecnocratico che la vostra disoccupazione è la minore in Europa, quando la verità è che barate da prendervi a schiaffi, perché avete il più alto tasso di lavoratori sottopagati rispetto alla media di reddito nazionale di tutta Europa, ma guarda caso risultano come occupati! G) Fate la voce grossa sulle RIFORME, che tutti ’sti paesi mollicci del sud Europa devono assolutamente fare perché sono spendaccioni, corrotti, incapaci zavorre all’economia del continente. Ma poi nascondete con oculatezza che l’Ocse vi mette al ventottesimo posto su 34 paesi come efficienza nelle… RIFORME! Cioè siete dei brocchi da vergognarsi. Ma con gli altri fate la voce grossa. H) Cambiate rapidamente discorso quando qualcuno vi ricorda che prima dell’introduzione dell’euro, cioè della macchina monetaria che vi permette di barare, c’era un piccolo industrioso paese chiamato Italia che vi faceva un c… così sia in termini di esportazioni, che come innovazione tecnologica, ed era esattamente al vostro pari nei maggiori parametri macroeconomici come Posizione Patrimoniale sull’Estero, Conto delle Partite Correnti e Debito Privato (qui poi noi italiani siamo ancora di gran lunga messi meglio).
    I) Vantate di avere una grande autorevole seria mega-banca, leader mondiale… mica ’ste botteghe di pochi spiccioli come hanno gli altri. Ma nascondete di nuovo che ’sta vostra illustrissima banca non è solo stra-fallita, con un equity capital ratio (l’opposto del leverage ratio) del 2,5%, cioè come avere 15 euro in cassa e avere debiti di miliardi con il Pentagono. E nascondete che ’sta vostra big bank si è anche accumulata scommesse in derivati (dinamite senza pompieri) per un totale di 20 volte il Pil del vostro stesso paese. E quando salta quella, la vostra illustrissima banca, salta il mondo. Ma voi zitti! Mentite con la faccia come il c… sul modello mondiale che ’sta vostra banca putrefatta rappresenta. Insomma, volete primeggiare in questa Eurozona? Mentite, barate, spogliatevi della minima decenza, siate bugiardi oltre il tollerabile… in altre parole chiamatevi Germania e Deutsche Bank.
    Ps: poi hanno il più alto giro di mazzette in termini assoluti di tutta Europa (Craxi era un pivello). E siccome hanno dato il pretesto (la tragedia dell’Olocausto) ai sionisti ebrei per massacrare i palestinesi, dovrebbero pagare di tasca loro un piano Marshall per tutta la Palestina. Ma non solo: i tedeschi dovrebbero essere processati per crimini contro l’umanità in Grecia, oggi. Dai, i tedeschi sono nazisti nel Dna, inutile, o l’Onu commissaria la Germania in blocco, oppure continueranno a fare Olocausti. Ce l’hanno nel Dna di essere nazisti.
    (Paolo Barnard, “Per essere Germania bisogna rubare, barare… fare proprio schifo”, dal blog di Barnard del 2 agosto 2014).

    Volete essere l’economia leader di questa (putrefatta) Eurozona? Facile: barate, ma barate proprio in modo disgustoso, senza vergogna. Ecco le ricette. A) Inventatevi una Cassa Depositi e Prestiti, dategli il nome di Kfw, fatele investire soldi pubblici nelle aziende private nazionali senza che neppure un centesimo di questi soldi compaia nei famigerati conti di Stato, così nessuno a Bruxelles se ne accorge e vi mette le manette. B) Fate riforme del lavoro che fanno ristagnare i salari nazionali per 12 anni, così le vostre mega-industrie nazionali possono esportare a prezzi concorrenziali succhiando il sangue ai loro dipendenti. Ma quando questi s’infuriano (perché non sono tutti idioti), date la colpa delle loro pene non al governo né ai giganti dell’export, no! La colpa è di altri paesi europei, quelli spendaccioni, stupidi e incapaci.

  • Padoan? Disco rotto: promette ripresa ma fa solo tagli

    Scritto il 19/8/14 • nella Categoria: idee • (2)

    «Ricordiamoci che lo Stato continua a prelavare dall’economia reale più di quanto eroghi, al netto degli interessi. La politica rimane di austerity. E finché rimane di austerity saranno guai». Parola di Emiliano Brancaccio, economista dell’università del Sannio, intervistato da “Radio Popolare” all’indomani dell’ultimo bollettino di guerra sulla situazione italiana: altro giro di vite della recessione (-0,2%), nonostante i sorrisi di Renzi e le rassicurazioni del ministro Padoan, secondo cui l’industria è comunque in ripresa. Gli italiani? Devono «mantenere la fiducia e spendere al meglio quegli 80 euro». C’è da ridere per non piangere: «Lasciamo stare l’invito del ministro a spendere», replica Brancaccio. «La verità è che quel bonus di 80 euro da un lato non funziona perché i lavoratori hanno dovuto comunque far fronte al deterioramento dei risparmi che si è verificato nel corso di lunghi anni di crisi. Dall’altro, quel bonus si inscrive comunque in una politica economica complessiva che rimane di austerità».
    Nel mainstream, la “verità” della tragedia italiana viene regolarmente oscurata, minimizzata. Gli interventi come quello di Brancaccio, limitati a brevissimi spot. L’infernale ordinamento della macchina tecnocratica europea – la Troika, l’Eurozona, il rigore come “normalità istituzionale” – non è minimamente analizzato. Non si dice mai che l’unica economia “ammessa” è quella neoliberista, che prescrive il suicidio dello Stato come soggetto strategico: l’interesse pubblico deve sparire, per non ostacolare la privatizzazione epocale di tutti i servizi e la frantumazione del lavoro, sempre più precario. La cosiddetta crisi europea non è “un incidente”, ma un piano preciso. E persino quando la stessa Ue ammette che la crisi peggiora, nessuna analisi ha vera cittadinanza sui grandi media. Così, a commentare gli ultimi dati sulla catastrofe sono Renzi e Padoan, che si appellano alla “fiducia” come provvidenziale soluzione, un minito dopo esser stati smentiti – per l’ennesima volta – sulle loro previsioni, cioè la mirabolante e imminente “ripresa”.
    «Mi spiace doverlo dire, ma quello di Padoan è un disco rotto», dichiara Brancaccio. «E’ un film che ormai vediamo dal 2011: è da allora che il governo e la Commissione Europea continuano a prevedere crescita e a vedere finalmente l’uscita dal tunnel, e vengono poi seccamente smentiti dai dati reali e dai fatti». Secondo Brancaccio, anche Padoan «non fa altro che reiterare questi errori di previsione, e francamente questo significa una cosa molto semplice». Ovvero: «Governo e Commissione Europea continuano a negare una realtà di fatto: l’austerity deprime l’economia e non migliora – ma peggiora – i conti pubblici». Il che non è affatto una sorpresa, ovviamente: tagliando la spesa pubblica, crolla anche il sistema privato e cala il gettito fiscale, aggravando il debito. Sono le condizioni perfette per indebolire il paese e renderlo indifeso di fronte alla “soluzione finale” programmata, ovvero la privatizzazione di tutti i servizi. A questo “serve” l’austerity di cui parla Brancaccio. Renzi e Padoan, in realtà, recitano: sanno benissimo quale sarà il finale, e lavorano esattamente per quell’obiettivo, la fine dell’Italia così come l’abbiamo conosciuta.

    «Ricordiamoci che lo Stato continua a prelevare dall’economia reale più di quanto eroghi, al netto degli interessi. La politica rimane di austerity. E finché rimane di austerity saranno guai». Parola di Emiliano Brancaccio, economista dell’università del Sannio, intervistato da “Radio Radicale” all’indomani dell’ultimo bollettino di guerra sulla situazione italiana: altro giro di vite della recessione (-0,2%), nonostante i sorrisi di Renzi e le rassicurazioni del ministro Padoan, secondo cui l’industria è comunque in ripresa. Gli italiani? Devono «mantenere la fiducia e spendere al meglio quegli 80 euro». C’è da ridere per non piangere: «Lasciamo stare l’invito del ministro a spendere», replica Brancaccio. «La verità è che quel bonus di 80 euro da un lato non funziona perché i lavoratori hanno dovuto comunque far fronte al deterioramento dei risparmi che si è verificato nel corso di lunghi anni di crisi. Dall’altro, quel bonus si inscrive comunque in una politica economica complessiva che rimane di austerità».

  • Anche Wall Street scommette sulla Terza Guerra Mondiale

    Scritto il 17/8/14 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    Della crisi ucraina ho già scritto a più riprese. La prima cosa che mi colpì, nel momento in cui Viktor Yanukovic fu rovesciato da un colpo di stato plateale, appoggiato patentemente dagli Stati Uniti (meglio dire da loro promosso) con l’attiva partecipazione della Polonia, della Lituania e dell’Estonia, e dei fantocci al potere a Bruxelles, fu la sua apparente inutilità. Perché mettere in atto un golpe se Yanukovic poteva essere tranquillamente tolto di mezzo tra un anno con regolari elezioni? E altre domande portavano tutte a conclusioni analoghe. Perché rovesciare il tavolo quando l’Ucraina era già nelle mani degli americani, completamente – Yanukovic o non Yanukovic – da diversi anni? Sicuramente dai tempi della cosiddetta “rivoluzione arancione” di Yushenko-Timoshenko, che consegnarono nelle mani della Cia gli ultimi rimasugli di sovranità nazionale, dopo quelli svenduti dai precedenti presidenti dell’Ucraina “indipendente”, Kravchuk e Kuchma?
    Perché infine rovesciare Yanukovic quando lo stesso quarto e ultimo presidente dell’Ucraina aveva già venduto il Donbass alla Chevron e alla Shell? La bellezza di quasi 8.000 chilometri quadrati di territorio per la durata di 50 anni, un accordo segreto in gran parte valutato 10 miliardi di dollari, alla ricerca del gas da scisti bituminosi che avrebbe liberato “per sempre” l’Ucraina dalla dipendenza energetica dall’odiata Russia. Insomma: Yanukovic – presentato come «l’uomo di Mosca» da tutti i media occidentali – non era poi quel grande amico di Putin. Perché farlo fuori così brutalmente? Che bisogno c’era? Solo perché non aveva firmato a Vilnius il documento giugulatorio di “associazione” all’Unione Europea? Ma fino al novembre dell’anno precedente Viktor Yanukovic aveva negoziato, lasciando sperare in un successo europeo totale. Il documento era già pronto, anche se in parte assai segreto. Bastava aspettare qualche mese e sarebbe stato imposto, con le buone o con le cattive.
    No, tutti questi interrogativi non avevano risposte adeguate. Doveva esserci qualcos’altro. La fretta con cui Washington aveva premuto, e Varsavia aveva agito ai suoi ordini, indicava qualche altra impellente necessità. A me fu subito chiaro che il golpe – non a caso un golpe con le stigmate naziste così visibili – era diretto non contro Yanukovic, pedina di nessun peso, ma contro la Russia. I neocon, tramite la esecutrice Victoria Nuland, volevano una crisi di valenza internazionale, se non addirittura mondiale. Ma perché la fretta? Perché accelerare lo scontro e portare la Nato praticamente sul portone del Cremlino? Era, in fondo, uno scenario che io stesso avevo previsto sarebbe accaduto. Ma assistevo a un’improvvisa e drammatica accelerazione. Doveva esserci qualcos’altro a spiegare la fretta. E le dimensioni della rottura che si stava creando. Non si trattava di una crisi regionale, non un episodio passeggero. Le potenziali ripercussioni erano evidenti: uno scontro di portata non minore di quello della crisi dei missili a Cuba del 1962.
    Bisognava spiegare il senso e le ragioni dell’accelerazione. Io non sono un economista (lo ripeto sempre, per non eccitare le rimostranze degli scopritori dell’aria calda). Non sono neanche un esperto dei sotterfugi della finanza mondiale. Credo poco o nulla ai numeri che arrivano da quella parte, convinto ormai da tempo che sono in gran parte falsi o comunque molto manipolati. Ma tutto il nervosismo che da tempo leggo nei commenti di coloro che dicono d’intendersene (anche perché su quei trucchi ci hanno vissuto e ci vivono), mi ha fatto pensare che qualcosa non funzionava nei ragionamenti sopra esposti. Così mi sono trovato, con qualche sorpresa, in buona compagnia a parlare di “inizio della Terza Guerra Mondiale”. Devo prima di tutto esprimere i miei ringraziamenti a Roberto Savio, ideatore di quel fondamentale bollettino che si chiama “Other News”, con sottotitolo esplicativo: “L’informazione che i mercati eliminano”. Il primo di agosto, “Other News” ha pubblicato una rassegna che riprende numerosi spunti dal “Washington’s Blog”, così intitolata: “Un gruppo di esperti finanziari ai massimi livelli afferma che la Terza Guerra Mondiale è in arrivo, a meno che non la fermiamo”. Saccheggerò questa rassegna, che mi pare estremamente istruttiva.
    In primo luogo i nomi sono effettivamente grossi calibri, a giudicare dalla frequenza con cui i mercati li citano. Prendiamo per esempio Nouriel Rubini, che a gennaio di quest’anno twittava da Davos: «Molti oratori qui paragonano il 2014 con il 1914, quando la Prima Guerra Mondiale esplose e nessuno se l’aspettava. Siamo di fronte a un cigno nero nella forma di una guerra tra Cina e Giappone?» Fuochino. Ma gli fa eco Kile Bass, multimiliardario manager di hedge funds, che prima cita un «influente analista cinese» e poi lo stesso premier giapponese Abe, che «non escludono un confronto militare tra Cina e Giappone». Aggiungendo previsioni molto ben descritte, che in bocca a un gestore finanziario di quel calibro non possono essere trascurate. «Miliardi di dollari di depositi bancari saranno ristrutturati – ci informa Kile Bass – e milioni di prudenti risparmiatori finanziari perderanno grandi percentuali del loro reale potere d’acquisto esattamente nel momento sbagliato delle loro vite [sempre che ci sia un momento giusto per perdere i propri averi, ndr]. Neanche questa volta il mondo finirà, ma la struttura sociale delle nazioni influenti sarà posta in acuta tensione e in qualche caso fatta a pezzi. (…) Noi crediamo che la guerra sia un’inevitabile conseguenza dell’attuale situazione economica globale».
    Gli fa eco l’ex capo dell’Office for Management and Budget ai tempi di Reagan, David Stockman. Anche per lui lo scontro in atto tra America e Russia condurrà alla terza guerra mondiale. Un po’ più generico sulle modalità, ma convinto anche lui che si sta andando verso «una grossa guerra» (“a major war”) è l’ex analista tecnico di Goldman Sachs, Charles Nenner, che, ora in proprio, vanta tra i suoi clienti numerosi importanti hedge funds, banche, e un certo numero di ricchissimi investitori internazionali. Altrettanto, con qualche variazione, pensano investitori americani di primo piano come James Dines e Marc Faber. Quest’ultimo afferma apertamente che il governo americano comincerà nuove guerre in risposta alla crisi economica in atto. «La prossima cosa che il governo farà per distrarre l’attenzione della gente dalle cattive condizioni economiche – scrive Marc Faber – sarà di cominciare una qualche guerra da qualche parte».
    Tutto chiaro, ma allora come mai i giornali e le tv ci dicono che l’America va fortissimo? Pochi giorni fa Martin Armstrong – un gestore di fondi d’investimenti sovrani multimiliardari – dice la stessa cosa: «Occorre distrarre la gente dall’imminente declino economico». Gli ultimi due pezzi che ha scritto li ha intitolati così: “Andremo in guerra contro la Russia” e “Prepariamoci alla terza guerra mondiale”. Non è ben chiaro se tutti questi profeti stiano enunciando prognosi sincere o siano semplicemente festeggiando in anticipo i futuri successi economico-finanziari che si aspettano dalla guerra, essendo evidente, da sempre, che le guerre ingrassano prima di tutto i banchieri e poi i produttori di armi. Ma l’insistenza con cui il tema viene sollevato indica comunque che il puzzo di bruciato tutti costoro lo sentono in anticipo.
    Altri, per esempio la presidentessa del Brasile, Dilma Rousseff, osservano che il mondo è attraversato da una «guerra delle valute» che sta diventando globale, cioè di tutti contro tutti. Da non dimenticare che la seconda guerra mondiale arrivò dopo una serie violenta di svalutazioni competitive. Sta accadendo ora la stessa cosa, quando le nazioni svalutano per rendere più competitive le loro merci e per incentivare le esportazioni. E molti si stanno accorgendo che la nuova banca, creata dal Brics, con capitale iniziale di 100 miliardi di dollari, basata in Cina, costituisce una novità impressionante nel panorama globale, dove un numero crescente di transazioni avviene in yuan, in rubli, invece che in dollari Usa. Come scrive Jim Rickards – che nel 2009 partecipò ai primi “giochi di guerra finanziari” organizzati dal Pentagono – c’è il rischio che gli Stati Uniti si trovino «trascinati» in «guerre asimmetriche» di valute, in grado di accrescere le incertezze globali. È evidente che Rickards sta dalla parte americana. Ma, se il Pentagono – e non la Federal Reserve – organizza questo tipo di “giochi”, vuol dire che ci siamo già dentro fino al collo e che il loro carattere militare è fuori discussione.
    Del resto (questa volta parla il multimiliardario Hugo Salinas Price) «sono molti a chiedersi quali siano state le ragioni vere che hanno portato all’eliminazione di Gheddafi. Egli stava pianificando una valuta pan-africana. La stessa cosa accadde a Saddam Hussein. Gli Stati Uniti non tollerano alcun’altra solida valuta in grado di competere con il dollaro». Altri mettono il dito sulla crescente scarsità di risorse, soprattutto energetiche. Altri ancora guardano alla Cina come a un avversario bisbetico e sempre più incontrollabile – forse il protagonista di quella guerra asimmetrica citata da Jim Rickards. Gerald Celente, autore di accurate previsioni finanziarie e geopolitiche da molti anni, va anche lui seccamente alla conclusione: «Una terza guerra mondiale comincerà presto». Jim Rogers, un altro investitore internazionale miliardario, punta gli occhi sull’Europa: «Se si continua a salvare uno Stato dietro l’altro si finirà in un’altra guerra mondiale». Dunque continuiamo a strozzare i popoli europei, con l’obiettivo di evitare la guerra. Un pacifismo molto sospetto, ma comunque allarmato. Ovviamente sarà utile guardarsi da certi “pacifisti”. Ma questa rassegna è utile per capire che l’allarme è in aumento.
    La Cina, senza fare troppo rumore, fa provvista di risorse, energetiche e territoriali, solo che invece di mandare le proprie cannoniere (non è il tempo), quelle risorse se le compra, con i denari del debito americano. Putin deve fronteggiare la prima offensiva e non ha tempo da perdere. Tra l’altro un tribunale olandese, senza alcuna autorità o potere, ha decretato che la Russia dovrà pagare 50 miliardi di dollari, più gl’interessi, alla Yukos, cioè a quel bandito di Mikhail Khodorkovskij che la Russia ha scarcerato qualche mese fa con un gesto di distensione verso l’Europa (si noti che il tribunale sedeva nello stesso paese che aveva avuto il più alto numero di vittime nell’abbattimento del Boeing delle linee aeree malaysiane). Sarà stato un caso? Comunque, uno dei più vicini consiglieri di Putin, di fronte alla domanda “cosa farà la Russia di fronte a quella sentenza?”, ha risposto stringendosi nelle spalle: «C’è una guerra alle porte in Europa. Lei pensa realmente che una tale decisione abbia qualche importanza?».
    Giuridicamente non ce l’ha, ma sarà usata dai centri di comando dell’Occidente per colpire i beni russi all’estero, per sequestrare e congelare conti bancari, proprietà azionarie. Ecco una guerra asimmetrica appena iniziata senza essere stata nemmeno dichiarata. Un influente settimanale americano ha dedicato la sua copertina a Vladimir Putin, con questo commento: “Il Paria”. Un titolo che è, invece, una dichiarazione di guerra. Solo che non è stata pronunciata dal Dipartimento di Stato, bensì dal “ministero della propaganda”, cioè dai media occidentali. È stato Paul Craig Roberts a usare questa definizione in un articolo di qualche giorno fa. Chi è Paul Craig Roberts? È stato Assistente Segretario al Tesoro durante la presidenza Reagan, ex editore del “Wall Street Journal”, considerato dal “who’s who” americano come uno dei mille pensatori politici più influenti del mondo. L’articolo era intitolato: “La guerra sta arrivando” (“War is coming”).
    (Giulietto Chiesa, “Chi parla di Terza Guerra Mondiale?”, da “Megachip” del 6 agosto 2014).

    Della crisi ucraina ho già scritto a più riprese. La prima cosa che mi colpì, nel momento in cui Viktor Yanukovic fu rovesciato da un colpo di stato plateale, appoggiato patentemente dagli Stati Uniti (meglio dire da loro promosso) con l’attiva partecipazione della Polonia, della Lituania e dell’Estonia, e dei fantocci al potere a Bruxelles, fu la sua apparente inutilità. Perché mettere in atto un golpe se Yanukovic poteva essere tranquillamente tolto di mezzo tra un anno con regolari elezioni? E altre domande portavano tutte a conclusioni analoghe. Perché rovesciare il tavolo quando l’Ucraina era già nelle mani degli americani, completamente – Yanukovic o non Yanukovic – da diversi anni? Sicuramente dai tempi della cosiddetta “rivoluzione arancione” di Yushenko-Tymoshenko, che consegnarono nelle mani della Cia gli ultimi rimasugli di sovranità nazionale, dopo quelli svenduti dai precedenti presidenti dell’Ucraina “indipendente”, Kravchuk e Kuchma?

  • Vaticanomics, l’Opus Dei a lezione dalla Goldman Sachs

    Scritto il 16/8/14 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Il diavolo e l’acqua santa. Il denaro sterco del demonio. Gli pseudo-opposti che si incontrano e si suggeriscono regole di comportamento. Con tanti saluti alla nuova linea della Chiesa attenta alla povertà, con la quale Francesco I ha voluto caratterizzare il suo pontificato. La Pontificia Università Santa Croce, che dipende dall’Opus Dei, ha deciso che i suoi studenti, futuri sacerdoti, debbano conoscere l’economia e la finanza, per comprendere meglio il senso del proprio apostolato e dove esso debba indirizzarsi nel sociale. Fino a qui, niente di trascendentale. Non si vive di solo spirito e poi, come si dice in certi ambienti, il cibo materiale deve poter trasformarsi in cibo spirituale. Non sarà più sufficiente quindi agli studenti dell’Opera fondata da Escrivà de Balaguer essere in grado di maneggiare la teologia, la filosofia, il diritto canonico e la comunicazione. Da qui l’idea di creare un corso denominato “Economics for Ecclesiastic” grazie al quale, questo è l’intendimento, i futuri sacerdoti non si troveranno troppo isolati dal mondo reale.
    Il problema sta nella personalità del professore che erudirà le future tonache sul significato etico dell’economia e della finanza nel mondo contemporaneo. Sarà infatti Brian Griffiths of Fforestafch, un cognome impronunciabile che è tutto un programma, ad intrattenere gli studenti su “Le sfide etiche e culturali per la finanza contemporanea”. Il punto è che il signore in questione è stato vicepresidente esecutivo di Goldman Sachs International, ossia della banca di affari che nell’immaginario del cittadino medio Usa rappresenta il simbolo stesso della più schifosa speculazione che strozza i piccoli risparmiatori e crea le condizioni per portargli via la casa. In Italia, come in Europa, la Goldman Sachs è la banca che ha speculato a man bassa contro i titoli di Stato, i Bonos spagnoli e i Btp italiani, con l’intento di affossare l’euro. Insomma, Brian Griffiths of Fforestafch è un banchiere che vanta non poche responsabilità nell’aver contribuito ad aggravare una situazione interna, come quella italiana, già di per sé grave per l’altissimo debito pubblico.
    È quasi superfluo aggiungere che Griffiths è membro della Camera dei Lords (appartiene quindi alla nomenklatura inglese) ed è stato consigliere di Margareth Thatcher per le privatizzazioni e per deregolamentare il mercato interno. Si tratta di uno di quei tecnocrati che sostengono la creazione di un grande mercato globale senza vincoli di frontiere e di dazi doganali. Un mercato globale che implica la cancellazione degli Stati nazionali e la loro sottomissione ad un complesso di strutture sovranazionali, di fatto in mano all’Alta Finanza. Una strategia che il mondo cattolico dovrebbe teoricamente vedere con ostilità. Questo in teoria perché ci sono, e non sono pochi, banchieri cattolici che sognano lo stesso traguardo, sia pure con una attenzione paternalista verso i poveri e gli emarginati. E in Italia i banchieri legati all’Opus Dei sono molti e potenti, anche se spesso quasi sconosciuti al grande pubblico. Tra i più noti svetta Antonio Fazio, ex governatore della Banca d’Italia. In Spagna, fa parte dell’Opus Dei il presidente del Banco di Santander, Emilio Botin.
    Questo per dire che non esiste una finanza “laica” e una finanza “cattolica”, ma esiste soltanto una finanza che realizza affari e profitti e intende continuare a farli. Come dimostra l’enorme patrimonio mobiliare e immobiliare della chiesa cattolica e delle sue tante diramazioni. Ma nemmeno i protestanti scherzano, visto che Griffiths ha presieduto in passato il Lambeth Fund, controllato dall’arcivescovo di Canterbury. E allora questo connubio tra Opus Dei e Goldman Sachs trova la sua ragione di essere nel medesimo approccio universalista. Del resto il capitalismo liberista si è sempre fatto forte, basti vedere Max Weber, di una profonda impronta evangelica e biblica. Ma l’Opus Dei non è l’unica struttura in ambito cattolico a tenere buoni rapporti con certi ambienti e ad allevare futuri banchieri. Mario Draghi, anche lui un ex Goldman Sachs, ha studiato dai gesuiti. E questo non gli ha impedito di caratterizzare la sua attività nella direzione di rafforzare il potere delle banche e della finanza e al tempo stesso di impoverire i cittadini italiani ed europei, come sappiamo ormai a menadito.
    (Irene Sabeni, “L’etica di Opus Goldman Sachs Dei”, da “Il Nodo Gordiano” del 4 agosto 2014).

    Il diavolo e l’acqua santa. Il denaro sterco del demonio. Gli pseudo-opposti che si incontrano e si suggeriscono regole di comportamento. Con tanti saluti alla nuova linea della Chiesa attenta alla povertà, con la quale Francesco I ha voluto caratterizzare il suo pontificato. La Pontificia Università Santa Croce, che dipende dall’Opus Dei, ha deciso che i suoi studenti, futuri sacerdoti, debbano conoscere l’economia e la finanza, per comprendere meglio il senso del proprio apostolato e dove esso debba indirizzarsi nel sociale. Fino a qui, niente di trascendentale. Non si vive di solo spirito e poi, come si dice in certi ambienti, il cibo materiale deve poter trasformarsi in cibo spirituale. Non sarà più sufficiente quindi agli studenti dell’Opera fondata da Escrivà de Balaguer essere in grado di maneggiare la teologia, la filosofia, il diritto canonico e la comunicazione. Da qui l’idea di creare un corso denominato “Economics for Ecclesiastic” grazie al quale, questo è l’intendimento, i futuri sacerdoti non si troveranno troppo isolati dal mondo reale.

  • Se Renzi avesse la lira, governerebbe fino a 80 anni

    Scritto il 08/8/14 • nella Categoria: idee • (4)

    Se Matteo Renzi avesse la lira invece che l’euro, sarebbe un uomo felice. Perché il suo 41% sarebbe saldo e diventerebbe imbattibile. Se Matteo Renzi e l’Italia oggi avessero la lira, la manovra degli “80 euro” avverrebbe senza bisogno di imporre tagli e tasse equivalenti per l’intera somma (tra i 6 e i 10 miliardi annui), annullandone di fatto l’illusorio effetto, che difatti non si sta manifestando. Se Matteo Renzi avesse la lira, la manovra ridicola e di sola comunicazione sugli “80 euro” sarebbe anzi raddoppiata, con detrazioni di 150 euro al mese per ogni lavoratore; e anzi sarebbero coinvolti anche coloro che non beneficiano di un contratto da lavoratore dipendente, oramai la maggioranza dei lavoratori specialmente giovani. Potrebbe dunque detassare imposte sul lavoro fino a 20 miliardi senza coperture di nuove tasse e riduzione spesa. Se Matteo Renzi avesse la lira, lui e il suo sottosegretario Delrio non dovrebbero inventare e sperare in inutili contabilità su astratti fogli di carta ma prive di sostanza pratica, del tipo non contabilizzare nel debito gli investimenti pubblici.
    Perché con l’euro ogni centesimo speso dallo Stato, contabilizzato o meno che si voglia, è un centesimo di debito contratto con 19 grandi istituti di credito che oggi prendono a prestito dalla Bce allo 0,15% e poi prestano agli Stati al 3, 4, 5%, contraendo utili sulle rendite finanziarie colossali e sicuri (Banca Imi, Barclays, Bnp Paribas, Citigroup, Commerzbank, Crédit Agricole, Credit Suisse, Deutsche Bank, Goldman Sachs, Hsbc, Ing, Jp Morgan, Merrill Lynch, Monte dei Paschi, Morgan Stanley, Unicredit, Société Générale, Nomura, Ubs). Se Matteo Renzi avesse la lira, potrebbe dunque finanziare gli investimenti con moneta monopolio di Stato e non delle banche private, e dunque finanziare tutti gli investimenti che vuole. Non dovrebbe imporre le tasse per coprire questi investimenti, e dunque non sarebbe costretto a restituire il denaro speso come avviene adesso, per la somma capitale più gli interessi; tanto che se non applicasse politiche di austerità l’insieme di monopolisti privati della moneta sopra elencati potrebbero impedire in pochi giorni il flusso di denaro nelle casse dello Stato.
    Matteo Renzi ora è ricattabile e anzi ricattato e consenziente; invece sarebbe autonomo. Quindi un vero democratico come stabilito dalla Costituzione e non un colono. Se Matteo Renzi avesse la lira non dovrebbe elemosinare a commissari o ministri stranieri la possibilità di cambiare le politiche di bilancio, e non dovrebbe rispettare assurdi parametri come quello del 3% deficit/pil (diventato 2,6% grazie alle promesse sue e di Padoan, è bene specificarlo: Renzi è più realista del Re, più austero della Merkel) o del 60% debito/pil. Potrebbe agire liberamente sulla base delle esigenze del suo paese e ridurre la tassazione rispetto alla spesa pubblica fino alla piena occupazione e al pieno rilancio dell’economia e della cultura. Se Matteo Renzi avesse la lira non dovrebbe versare all’Unione Europea quasi 10 miliardi all’anno; il Patto di Stabilità finirebbe subito e gli enti locali italiani potrebbero immediatamente pagare i loro fornitori; non dovrebbe elemosinare modifiche ai principi di co-finanziamento dei fondi europei che obbligano gli enti locali a sborsare ingenti somme per realizzare i progetti presentati, e spesso rinunciare per impossibilità di impiegare i fondi pur disponibili (il cane che morde la coda: Patto di Stabilità).
    Se Matteo Renzi avesse la lira non dovrebbe circondarsi di bei volti giovani e pop e dalla parlantina spigliata quanto vuota, perché tanto, oltre a raccattare voti, non si deve decidere nulla se non tenere buoni i cittadini; anzi meno capiscono e più tweet insensati scrivono tanto è meglio. No, se Matteo Renzi avesse la lira dovrebbe selezionare una classe politica capace di capire la forza di una moneta sovrana siffatta, e quindi le sue potenzialità per realizzare piena occupazione, piena democrazia, pieno benessere senza inflazione. Perché se invece occorre ascoltare i Gozi, le Bonafè, le Moretti e compagnia cantante, un partito avverso consapevole (quindi non M5S, quindi non lo sbrindellato centrodestra italiano di oggi, quindi non i timorosi di Tsipras) sbaraglierebbe il campo una volta vinte le elezioni (infatti la Dc governò 40 anni senza problemi nonostante la forte opposizione del Pci, perché sapeva come attivare la ricchezza, e un popolo con la pancia piena e la testa sgombra di pensieri non fa mai salti nei buio; ma negli ultimi 10 anni affondò, tra gli altri motivi, perché lo strumento di azione, la lira sovrana, era stato disattivato con la complicità di Ciampi e Andreatta).
    Se Matteo Renzi avesse la lira non dovrebbe mandare lettere a tutti i sindaci d’Italia per selezionare gli interventi di edilizia scolastica, ma imporrebbe a tutti i sindaci d’Italia i massimi standard di servizi, di sicurezza e di istruzione da raggiungere nel comparto scolastico (e non solo), stanzierebbe i fondi necessari, stabilirebbe in quanto tempo realizzare i lavori e poi, una volta scaduti i termini, bloccherebbe i finanziamenti e istituirebbe commissioni di inchiesta per valutare i motivi dell’inefficienza nel caso le opere non fossero realizzato a dovere. Se Matteo Renzi avesse la lira non dovrebbe contribuire con 125 miliardi per garantire i debiti pubblici dell’Eurozona, né, come farfuglia Del(i)rio, garantire il debito di Stato con beni immobili.
    Se Matteo Renzi avesse la lira, il debito pubblico non sarebbe un “debito” pubblico da ripagare come se lo Stato fosse un’azienda e una famiglia privata (e dunque aumentare il debito annuo del 5% ad esempio anziché il 3% significherebbe davvero far gravare sui figli la spesa di oggi, ed è quindi politica per pigliare due voti ma senza strategia), ma sarebbe una “ricchezza finanziaria” dei cittadini, ed ogni aumento di debito pubblico equivarrebbe ad un aumento dei risparmi di famiglie e imprese. Se Matteo Renzi avesse la lira governerebbe fino ad 80 anni, l’Italia tornerebbe un paese invidiato in tutto il mondo, la disoccupazione sarebbe un problema occasionle e molto temporaneo, le imprese italiane tornerebbero a produrre in Italia grazie ad una imposizione fiscale via via più bassa.
    Se Matteo Renzi avesse la lira i tassi di interesse sui titoli di Stato scenderebbero, dal 2/4% reale di oggi, ad un tasso prossimo allo zero o addirittura negativo. Gli 85 miliardi di spesa per interessi non sarebbero una zavorra per i conti pubblici ma una delle vie con le quali si manifesta la spesa pubblica, che potrebbe essere ridotta o aumentata sulla base delle scelte discrezionali di uno Stato. Invece: «Tornare alla lira? Per i giovani è uno strumento musicale». E allora, sentirai che musica, Matté: «Manovra correttiva di 10 miliardi inevitabile». Gira la ruota, va’.
    (“Se Renzi avesse la lira, ma non la vuole e non la capisce”, dal sito MeMmt del 14 luglio 2014).

    Se Matteo Renzi avesse la lira invece che l’euro, sarebbe un uomo felice. Perché il suo 41% sarebbe saldo e diventerebbe imbattibile. Se Matteo Renzi e l’Italia oggi avessero la lira, la manovra degli “80 euro” avverrebbe senza bisogno di imporre tagli e tasse equivalenti per l’intera somma (tra i 6 e i 10 miliardi annui), annullandone di fatto l’illusorio effetto, che difatti non si sta manifestando. Se Matteo Renzi avesse la lira, la manovra ridicola e di sola comunicazione sugli “80 euro” sarebbe anzi raddoppiata, con detrazioni di 150 euro al mese per ogni lavoratore; e anzi sarebbero coinvolti anche coloro che non beneficiano di un contratto da lavoratore dipendente, oramai la maggioranza dei lavoratori specialmente giovani. Potrebbe dunque detassare imposte sul lavoro fino a 20 miliardi senza coperture di nuove tasse e riduzione spesa. Se Matteo Renzi avesse la lira, lui e il suo sottosegretario Delrio non dovrebbero inventare e sperare in inutili contabilità su astratti fogli di carta ma prive di sostanza pratica, del tipo non contabilizzare nel debito gli investimenti pubblici.

  • Page 25 of 28
  • <
  • 1
  • ...
  • 19
  • 20
  • 21
  • 22
  • 23
  • 24
  • 25
  • 26
  • 27
  • 28
  • >

Libri

UNA VALLE IN FONDO AL VENTO

Pagine

  • Libreidee, redazione
  • Pubblicità su Libreidee.org

Archivi

Link

  • Border Nights
  • ByoBlu
  • Casa del Sole Tv
  • ControTv
  • Edizioni Aurora Boreale
  • Forme d'Onda
  • Luogocomune
  • Mazzoni News
  • Visione Tv

Tag Cloud

politica Europa finanza crisi potere storia democrazia Unione Europea media disinformazione Ue Germania Francia élite diritti elezioni mainstream banche rigore sovranità libertà lavoro tagli euro welfare Italia sistema Pd Gran Bretagna oligarchia debito pubblico Bce terrorismo tasse giustizia paura Russia neoliberismo industria Occidente pericolo Cina umanità globalizzazione disoccupazione sinistra movimento 5 stelle futuro verità diktat sicurezza cultura Stato popolo Costituzione televisione Bruxelles sanità austerity mondo