Archivio del Tag ‘ristrutturazione’
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Il Mes e i Miserabili: come siamo caduti in basso, e perché
Ma che razza di paese siamo? Si sprecano commenti sul look del conducente, mentre qualcuno ha manomesso i freni del pullman, e non da oggi. Ancora stiamo lì a disputare sulle briciole miserabili del Mes, anziché rovesciare finalmente il banco? E’ un tavolo truccato, dove i bari si giocano a dadi il futuro dei popoli, parlando abusivamente a loro nome. Un teatro dell’assurdo, questa Unione Europea spacciata per Europa. Il club ha reclutato tra le sue comparse anche Giuseppe Conte, l’ex avvocato del popolo gialloverde: ricondotto all’ovile sorvegliato da figuranti di lungo corso come Paolo Gentiloni e David Sassoli, uno commissario Ue e l’altro presidente del Parlamento Europeo. Esponenti dell’immortale Pd, premiati dopo aver perso le elezioni e messi lì per assicurare ai dormienti l’eterno riposo. Finito nella bufera, e subito smentito dall’Eurogruppo (il Mes è già stato approvato, dicono i tecnocrati), il povero Conte ha balbettato in aula la sua tiepida versione sull’ultimo trattato-capestro, vendendolo come ancora negoziabile, e comunque nient’affatto “segreto” nella sua gestazione. Falso, lo smentisce il leghista Claudio Borghi: la scorsa estate, rivela, il testo è stato visionato solo di sfuggita, a Palazzo Chigi, da tre parlamentari leghisti e un emissario del grillino Fraccaro.«Non firmiamo niente», conclusero, dopo aver solo potuto guardare da lontano quelle 40 pagine, scritte in inglese, senza la possibilità di fotocopiarle. Alla faccia della sovranità parlamentare. L’ha ripetuto, Borghi, nella diretta web-streaming su ByoBlu con Claudio Messora e Francesco Toscano, poche ore dopo l’infuocata assise delle Camere: la bozza di revisione del micidiale Mes, i cui funzionari si pongono al di sopra di qualsiasi legge, non punibili in nessun caso, ha seguito la stessa procedura clandestina del Ttip, il trattato-fantasma concepito per scavalcare i governi e lasciare alle multinazionali l’ultima parola sui contenziosi con gli Stati. Qui è ancora peggio, rincara Borghi: almeno, l’accesso formale al testo del Ttip (sempre in inglese, non fotografabile neppure con lo smartphone) era previsto dall’agenda. Invece, quei 40 fogli del Mes-2 sarebbero stati esibiti la scorsa estate solo per gentile concessione di Conte, in imbarazzo con i suoi azionisti di riferimento, Lega e 5 Stelle. Uno strappo alla regola: in base al rigido protocollo, le informazioni riservatissime sul rinnovato Meccanismo Europeo di Stabilità, in teoria, si sarebbero dovute limitare unicamente al premier, assistito d’ufficio dal solo ministro dell’economia (all’epoca, Giovanni Tria).Citato da Salvini nella sua requisitoria in aula contro Conte, l’esperto Guido Salerno Aletta, di “Milano Finanza”, conferma l’allarme già lanciato da Antonio Patuelli dell’Abi e, ancor più autorevolmente, dal governatore di Bankitalia, Ignazio Visco. E cioè: se l’Italia fosse costretta a ricorrere al Mes, il nuovo Fondo potrebbe chiedere in cambio pesantissime “condizionalità”, inclusa la “ristrutturazione” del debito. Tradotto: le banche, detentrici dei titoli di Stato, potrebbero attingere direttamente ai conti correnti degli italiani. In alternativa, il governo dovrebbe imporre una patrimoniale. Lo conferma, sempre a “ByoBlu”, un tecnocrate come Carlo Cottarelli: per l’Italia il rischio è serio, visto l’attuale sistema di finanziamento (titoli di Stato, con moneta non sovrana) e un debito che galleggia oltre il 130% del prodotto interno lordo. Il documento, infatti, prevede che tutto vada liscio solo per i paesi con un debito non superiore al 60% del Pil, in linea con la “teologia” di Maastricht. Problema: le regole del rigore, pensate trent’anni fa per un’Europa in crescita, si sono scontrate con la realtà della stagnazione, riuscendo solo ad aggravare la crisi e condannare intere economie. E oggi, nel 2019, ancora si insiste con una ricetta perversa e socialmente devastante, votata alla rovina generale?“Non venitemi a dire che non lo sapevate”, è la fragile autodifesa di Conte, che tenta di coinvolgere Salvini e Di Maio, entrambi vicepremier all’epoca dell’incubazione del Mes-2. Vero a metà, a quanto pare: da un lato, il capo della Lega e il portavoce dei 5 Stelle non hanno mai rigettato, a prescindere, la prospettiva dell’ex Fondo salva-Stati. Dall’altro, però, si erano riservati di analizzarlo in modo approfondito. Salvo scoprire, oggi, che il Mes avrebbe viaggiato in clandestinità: un piatto avvelenato, da servire ai Parlamenti solo a cose fatte. E qui, Conte traballa. Accusato frontalmente da Salvini e Giorgia Meloni, è isolato dalla freddezza di Di Maio: i 5 Stelle potrebbero ribellarsi e staccare la spina al governo, pur di bloccare il fondo “ammazza-Stati”? Se il Pd e i renziani fanno quadrato attorno all’attuale titolare dell’economia, cioè il tecnocrate Roberto Gualtieri (creatura di Buxelles), dalla sinistra si sfila “Liberi e Uguali”: per Stefano Fassina, già viceministro di Enrico Letta, l’Italia deve rispedire al mittente, rifiutandosi di approvarlo, questo pericoloso congegno a orologeria.Conte avrebbe già dato il suo ok, all’insaputa di tutti? Malissimo: proprio su questo sembra giocarsi la sopravvivenza del professor-avvocato a Palazzo Chigi, incalzato dalla Lega che si prepara alla mobilitazione popolare, a suon di firme, prima ancora di valutare una mozione di sfiducia, nel caso in cui una frangia dei 300 parlamentari grillini prendesse le distanze da quello che, sulla carta, si presenta come il più insidioso attentato alle tasche degli italiani. Mesi fa, un ex analista dell’intelligence come Fausto Carotenuto aveva confessato: «Temo il Conte-bis, la sua debolezza politica ne farà lo strumento perfetto per l’élite europea intenzionata a farci del male». Oggi, di fronte alla rissa parlamentare sull’ipotetico Fondo Monetario Europeo, un osservatore privilegiato come Gioele Magaldi, massone progressista e presidente del Movimento Roosevelt, allarga decisamente l’orizzonte: ma ci rendiamo conto, dice, di cosa stiamo parlando? Lo capiamo, per quale motivo siamo finiti così in basso? Vogliamo deciderci a vederlo, il problema? Alzi la mano chi sa spiegarsi, precisamente, per quale motivo la moneta (europea) è diventata qualcosa da mendicare, da prendere in prestito a caro prezzo, lasciando in pegno interi paesi (e ora, magari, anche il patrimonio di milioni di cittadini).Chiarisce l’economista Nino Galloni, che del Movimento Roosevelt è vicepresidente: ci rendiamo conto che l’Italia ha sì un enorme debito pubblico, ma in compenso vanta un debito privato irrisorio e un ingentissimo patrimonio fatto di risparmi, di capitali e immobili, a garanzia del sistema economico nazionale? E perché allora il rating delle agenzie, adottato da Bruxelles come unico parametro, considera solo il debito contabile dello Stato? Chiedetelo a Prodi, taglia corto un altro “rooseveltiano” come Gianfranco Carpeoro: fu il professore di Bologna, osannato come salvatore della patria dopo aver sfasciato l’Iri che sorreggeva l’industria italiana, a genuflettersi ai signori dell’euro, rinunciando a far pesare il valore reale dell’Italia. Quanto agli eurocrati, un grande imprenditore come Fabio Zoffi, che opera in Germania, ha avuto il coraggio di sbugiardare i guardiani dell’austerity altrui: al “Giornale” ha ricordato che Berlino, mediante svariati artifici contabili, omette enormi cifre nel computo del deficit. Il debito tedesco (quello reale) sarebbe il doppio di quello italiano. Attenzione, avverte Zoffi: proprio grazie al super-debito, sia pure occulto, la Germania funziona meglio dell’Italia. Ergo: anziché tagliare la spesa, perché non allargarla? Il famoso tetto del 3% non è certo una legge economica: è solo un diktat politico-ideologico, che ha finora depresso l’economia.Né si creda che sia intelligente prendersela col signor Franz, dice da parte sua il comunista Marco Rizzo, consultato sempre da Messora: il popolo tedesco non ha idea di quello che combina, alle sue spalle, l’élite che lo governa. Vale per tutti gli altri, inclusi i francesi. La soluzione? Sincronizzare i popoli, coalizzarli contro questa oligarchia che ha privatizzato la moneta. Da tutt’altro versante, quello social-liberale, Gioele Magaldi (in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”), punta il dito contro lo scandaloso dumping fiscale, su cui nessuno fiata: «Che Europa è mai questa, dove si consente che in paesi come l’Olanda e il Lussemburgo sia più conveniente pagare le tasse?». Risultato: l’emorragia di entrate fiscali (Fiat docet), grazie alla fuga delle grandi aziende. Su questo, niente da ridire? Meglio la piccola crociata, vagamente infame, contro l’idraulico che lavora in nero? E i media che fanno, continuano a dormire? Marco Travaglio, addirittura, s’è messo ad incensare Conte: «Saprebbe indicare, Travaglio, un solo illuminante atto di governo che abbia contraddistinto il premier, da quando è a Palazzo Chigi, con l’unica evidente intenzione di restarvi il più a lungo possibile, non importa come, obbedendo ai politici che contano in Europa, anche a scapito degli italiani?».Mai stato tenero, Magaldi, nemmeno con Lega e 5 Stelle. L’accusa: dovevano almeno avviare il cambiamento promesso. «Invece si sono limitati alle chiacchiere: esattamente come Renzi, proprio per questo scaricato a suo tempo dagli elettori». Renzi s’era rimesso in pista, ma ora è stato speronato dalle inchieste sul finanziamento della fondazione Open. «Giusto che la magistratura indaghi, ma senza far politica su questo: ipocrita pensare che i partiti vivano d’aria. Ma sopprattutto: Renzi va bocciato politicamente, perché per l’Italia non ha fatto nulla». Oggi, il mostro ha le sembianze del Mes. E prima ancora: Trattato di Maastricht e Trattato di Lisbona, Fiscal Compact, pareggio di bilancio in Costituzione. «Io sono ultra-europeista», dice Magaldi, «ma intendiamoci: un’Unione Europea non è mai esistita». Chi l’ha detto, ad esempio, che a decidere tutto sia la Bce, non controllata da politici, a loro volta tenuti a rispondere agli elettori? Ora siamo all’apice dell’aberrazione: anziché un ente prestatore di ultima istanza, deputato a finanziare gli Stati in modo virtualmente illimitato, si darebbe vita allo strozzinaggio istituzionale di un organismo ancora meno democratico, super-bancario, abilitato a ricattare popoli scavalcando definitivamente i governi.Al di là di come andrà a finire la miserabile vicenda Mes, incluso lo scaricabarile tra politici, Magaldi sintetizza: tutta quella robaccia va stracciata e riscritta da zero. E’ che ora di svegliarsi, tutti, ma per davvero. Le piccole Sardine? Si decidano: chiedano conto della situazione a chi comanda davvero, in Italia. I sovranisti? Vicolo cieco: a che serve trincerarsi entro i confini, quando è Bruxelles che detiene le leve strategiche, le regole che condizionano l’economia? Vale anche per i rossobruni di Vox Italia: l’oligarchia non ha nulla da temere, da chi rifiuta la battaglia continentale. La risposta? Democrazia, da imporre ai gerarchi dell’Ue. In pillole: «L’Italia sta crollando: viadotti che cadono, scuole a pezzi. Disoccupazione, tasse altissime, aziende che non vengono pagate. Servono 200 miliardi, per rimettere in corsa il paese». E si pensa di elemosinarli al Mes, mettendosi al collo il cappio degli usurai? Non è questione di virgole o di percentuali, insiste Magaldi: c’è da far saltare tutto. Cambiare le regole, da cima a fondo. Primo: «Un’Europa democratica, con la sua Costituzione, e un governo federale finalmente eletto dal Parlamento Europeo». Secondo: «Una banca centrale che emetta eurobond, e sostenga in modo illimitato i debiti pubblici, mettendo fine al ricatto dello spread». O così, o moriremo: malati di Mes, o si qualsiasi altro morbo letale fabbricato in provetta, nei laboratori segreti che hanno sabotato la democrazia per dare vita a questo morto vivente, questo zombie travestito da Sacro Romano Impero, senza più cittadini ma soltanto sudditi.Ma che razza di paese siamo? Si sprecano commenti sul look del conducente, mentre qualcuno ha manomesso i freni del pullman, e non da oggi. Ancora stiamo lì a disputare sulle briciole miserabili del Mes, anziché rovesciare finalmente il banco? E’ un tavolo truccato, dove i bari si giocano a dadi il futuro dei popoli, parlando abusivamente a loro nome. Un teatro dell’assurdo, questa Unione Europea spacciata per Europa. Il club ha reclutato tra le sue comparse anche Giuseppe Conte, l’ex avvocato del popolo gialloverde: ricondotto all’ovile sorvegliato da figuranti di lungo corso come Paolo Gentiloni e David Sassoli, uno commissario Ue e l’altro presidente del Parlamento Europeo. Esponenti dell’immortale Pd, premiati dopo aver perso le elezioni e messi lì per assicurare ai dormienti l’eterno riposo. Finito nella bufera, e subito smentito dall’Eurogruppo (il Mes è già stato approvato, dicono i tecnocrati), il povero Conte ha balbettato in aula la sua tiepida versione sull’ultimo trattato-capestro, vendendolo come ancora negoziabile, e comunque nient’affatto “segreto” nella sua gestazione. Falso, lo smentisce il leghista Claudio Borghi: la scorsa estate, rivela, il testo è stato visionato solo di sfuggita, a Palazzo Chigi, da tre parlamentari (di cui due leghisti) e un emissario del grillino Fraccaro.
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Mes: grazie a Conte, l’Europa farà fuori le nostre banche
Si chiama Mes, normalmente viene detto fondo salva-Stati, l’acronimo sta per Meccanismo Europeo di Stabilità. Ed è improvvisamente tornato sotto i riflettori dopo che in un seminario Bankitalia-Omfif il governatore Visco ha lanciato l’allarme. «I piccoli e incerti benefici di una ristrutturazione del debito devono essere ponderati rispetto all’enorme rischio che il mero annuncio di una sua introduzione possa innescare una spirale perversa di aspettative di default», ha detto il governatore. Proprio così: enorme rischio. Federico Ferraù, sul “Sussidiario”, ne ha parlato con Alessandro Mangia, ordinario di diritto costituzionale alla Cattolica di Milano. «Ci rendiamo conto di quello che vorrebbe dire per il sistema bancario nazionale una ristrutturazione forzata del debito italiano?». Giampaolo Galli, vicedirettore dell’Osservatorio sui conti pubblici presieduto da Cottarelli, lo ha spiegato in una audizione alla Camera: «Sarebbe un colpo di pistola a sangue freddo alla tempia dei risparmiatori, una sorta di bail-in applicato a milioni di risparmiatori». Il Mes è un fondo comune di credito che ricapitalizza Stati e banche in difficoltà. Un benefattore europeo? Tutt’altro: il Mes non elargisce a costo zero. Lo fa alle sue condizioni: totale controllo sulle politiche di bilancio dello Stato richiedente. Anche a costo di impoverire tutti.Sulla riforma del Mes, ricorda Ferraù, hanno richiamato l’attenzione Alberto Bagnai e Claudio Borghi fin da quando la Lega era al governo. Allarme inascoltato, fino alle attuali parole di Visco. «Era già tutto scritto», afferma il professor Mangia. Per stare nel Mes «abbiamo pagato molto, negli anni – cifre dell’ordine di qualche decina di miliardi – e solo adesso ci si accorge di che cosa sia». Ovvero? «Il Mes è il figlio di una stagione di crisi, è stato generato da una crisi, e adesso vuole consolidarsi fino a diventare parte integrante del diritto dell’Unione. Fino ad oggi è un Trattato internazionale che ha dato origine a quello che, asetticamente, si definisce un “veicolo finanziario”». In realtà, spiega Alessandro Mangia, il Mes è un soggetto di diritto internazionale «che esercita attività bancaria avvalendosi, però, dello statuto e delle garanzie di un soggetto sovrano». Quindi può rifinanziare singoli Stati o singoli sistemi bancari, però sotto “stretta condizionalità”. «Non so se ci si rende conto delle implicazioni politiche dell’adozione di meccanismi propri del diritto commerciale e bancario a regolare i rapporti fra Stati: si è un po’ in ritardo se ci si preoccupa adesso di cosa sia il Mes».Che Bankitalia (non certo antieuropeista) abbia manifestato profonde preoccupazioni al riguardo dovrebbe dirla lunga. «Il punto è che probabilmente i buoi sono già usciti dalla stalla anni fa, e solo adesso ci si accorge che la stalla è vuota». In altre parole: «Si vuole far diventare il Mes un Fondo Monetario Europeo, che integri il ruolo della Bce sul versante dell’essere “prestatore di ultima istanza”». La Bce non può esserlo, ricorda Mangia: quelle funzioni sono state surrogate dal programma Omt (Outright monetary transactions) di Draghi, su cui c’è stato contenzioso presso la Corte di Giustizia. «E adesso, in una fase di crisi bancaria incipiente – si pensi solo all’esposizione di Deutsche Bank sul mercato dei derivati, pari a 20 volte il Pil tedesco – si ha fretta di chiudere il cerchio, creando un prestatore di ultima istanza. Intanto si riforma il Mes, poi si penserà al suo inserimento nell’intelaiatura istituzionale dell’Unione». Secondo Mangia, «Bankitalia ha capito che rischi corre con l’approvazione delle modifiche che due anni fa chiedeva Schäuble, e che sono state oggetto di una dichiarazione congiunta franco-tedesca nel giugno 2018. A stretto giro quella dichiarazione è stata ripresa – sempre in giugno – dall’Eurogruppo, che è un altro organo misterioso e non previsto dai Trattati, e da un Eurosummit cui ha partecipato il governo italiano, nella sua versione Conte-1».Del Mes ha parlato anche Salvini su Facebook: «Pare che, nei mesi scorsi, Conte o qualcuno abbia firmato di notte e di nascosto un accordo in Europa per cambiare il Mes, ossia l’autorizzazione a piallare il risparmio degli italiani. Non lo lasceremo passare. Sarebbe alto tradimento, se qualcuno – senza interpellare il Parlamento – avesse trasformato il fondo salva-Stati in un fondo ammazza-Stati». Insomma, abbiamo dormito? Avverte Mangia: «Il caso del Mes è stato totalmente sottovalutato dalla stampa, nonostante Borghi e Bagnai si siano spesi fin da allora per portarlo all’attenzione dei media». La verità è che «la gente non sa cos’è il Mes e a cosa serve». Accusano ora Bagnai e Borghi: «Abbiamo sempre denunciato il sospetto segreto con cui il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, e l’ex ministro dell’economia Giovanni Tria, hanno condotto le trattative senza mai informare il Parlamento, pur essendone obbligati per legge. La loro reticenza ci aveva indotto persino ad interrogazioni parlamentari addirittura quando eravamo parte della stessa maggioranza».Se ci si stupisce di questo, ribatte Mangia, vuol dire che non si è letto o non si è capito l’attuale Trattato Mes e le clamorose anomalie che conteneva fin dall’inizio. «Il Mes e i suoi funzionari godono di piena e perfetta immunità da ogni giurisdizione. Non possono essere oggetto di perquisizioni, ispezioni o altro da chicchessia. I suoi documenti sono secretati. Gli organi di vertice non sono perseguibili per gli atti adottati nell’esercizio delle loro funzioni. I governatori – e cioè i ministri economici degli Stati aderenti al trattato: in poche parole Tria o chi per lui – sono tenuti (ripeto, tenuti) – al segreto professionale nel momento in cui operano all’interno del Mes, tanto durante quanto dopo l’esercizio delle loro funzioni (articolo 34). Questa è legge dello Stato, non è aria fritta». Una norma simile, dice Mangia, ha perfettamente senso dentro una banca. Cosa succede se invece la logica del segreto professionale la si colloca nel rapporto tra governo e Parlamento? «Ci sta o non ci sta che un ministro debba tacere di fronte al Parlamento? Ci si rende conto di cosa si è fatto approvando una norma del genere nel 2012? E di quanto si è alterato il meccanismo di responsabilità politica disegnato in Costituzione tra ministro e Parlamento?».Se a questo si aggiunge che l’esercizio di potere estero sfugge, per sua natura, al controllo delle Camere, tranne che in certi casi tassativamente indicati dall’articolo 80, si capisce quanto fantasiose siano certe rappresentazioni del lavoro parlamentare. Basti pensare ai trattati segreti o ai trattati adottati in forma semplificata. «Si dice che non tutti i cammelli possono passare per la cruna dell’ago. In realtà ci si dimentica di dire che certi cammelli non hanno neanche bisogno di passarci, per la cruna dell’ago». Il testo della riforma, aggiunge Mangia, è arrivato prima su Internet che in Commissione: «Diciamo che Conte e Tria sono stati tutt’altro che solerti nell’informare le Camere dell’esito di quegli incontri». Possono essere accusati di alto tradimento, come ha ipotizzato Salvini? Assolutamente no, visto in carattere più che anomalo del trattato: l’articolo 34 del Mes «è fatto per interrompere gli obblighi di comunicazione e responsabilità tra Parlamenti nazionali e ministri», spiega Mangia. «Certo, nel caso di Tria non si applica l’articolo 34 sul segreto professionale, ma quello è il principio. Che pone un enorme problema costituzionale di ministri legittimati a mentire o a tacere di fronte alle Camere».Secondo Mangia, è assolutamente «ridicolo», oggi, parlare di legittimazione democratica del Mes, come fa Giampaolo Galli: «È come parlare di legittimazione democratica di una banca, perché la legge la legittima a fare la banca. Sarebbe tutto molto divertente, non fosse che rischia di essere tragico per le sue conseguenze». E cioè? «Per le stesse ragioni messe in chiaro da Galli nel suo intervento, e che hanno fatto muovere Bankitalia». Mangia sottolinea la marginalizzazione del ruolo della Commissione Europea nel valutare l’opportunità di rilasciare finanziamenti ai singoli Stati in caso di bisogno: «La Commissione viene ritenuta ormai un organo troppo “politico” già nella burocrazia di Bruxelles, che rivendica un suo ruolo contro la Commissione», rispetto a molti obiettivi: la scelta di condizionare il rilascio di finanziamenti a una ristrutturazione preventiva del debito, ma anche l’inclusione di clausole di azione collettiva nelle emissioni di debito pubblico dal 2022 in poi, costruite per facilitare quelle operazioni di ristrutturazione del debito che sembrano essere il cuore di questa riforma.Sintetizza Mangia: «Se un bel giorno si arrivasse ad una situazione di crisi dello spread, tale da precludere l’accesso dell’Italia al finanziamento dei mercati, e si dovesse chiedere l’intervento del Mes – del quale saremmo comunque i terzi contributori – sarebbe il Mes, e non la Commissione, a valutare sulla base di meccanismi automatici l’opportunità di chiedere una ristrutturazione del debito pubblico». In altre parole «sarebbe il Mes a determinare le “condizionalità” – e cioè le politiche economiche “lacrime e sangue” da praticare – per ottenere questo finanziamento». E sarebbe sempre il Mes, alla fine, a determinare il contenuto di questa ristrutturazione. «Peccato che il debito pubblico italiano sia detenuto per il 70% da banche nazionali». E quindi? «Vuol dire che una ristrutturazione di quel debito inciderebbe in modo pesantissimo sui bilanci di banche che hanno comunque sostenuto – oggi assai più che in passato – il debito pubblico nazionale», conclude Mangia. «Ci rendiamo conto di quello che vorrebbe dire per il sistema bancario nazionale una ristrutturazione forzata del debito italiano? E perché si parli di questa riforma come di una pistola puntata alla tempia dei risparmiatori italiani?».Si chiama Mes, normalmente viene detto fondo salva-Stati, l’acronimo sta per Meccanismo Europeo di Stabilità. Ed è improvvisamente tornato sotto i riflettori dopo che in un seminario Bankitalia-Omfif il governatore Visco ha lanciato l’allarme. «I piccoli e incerti benefici di una ristrutturazione del debito devono essere ponderati rispetto all’enorme rischio che il mero annuncio di una sua introduzione possa innescare una spirale perversa di aspettative di default», ha detto il governatore. Proprio così: enorme rischio. Federico Ferraù, sul “Sussidiario“, ne ha parlato con Alessandro Mangia, ordinario di diritto costituzionale alla Cattolica di Milano. «Ci rendiamo conto di quello che vorrebbe dire per il sistema bancario nazionale una ristrutturazione forzata del debito italiano?». Giampaolo Galli, vicedirettore dell’Osservatorio sui conti pubblici presieduto da Cottarelli, lo ha spiegato in una audizione alla Camera: «Sarebbe un colpo di pistola a sangue freddo alla tempia dei risparmiatori, una sorta di bail-in applicato a milioni di risparmiatori». Il Mes è un fondo comune di credito che ricapitalizza Stati e banche in difficoltà. Un benefattore europeo? Tutt’altro: il Mes non elargisce a costo zero. Lo fa alle sue condizioni: totale controllo sulle politiche di bilancio dello Stato richiedente. Anche a costo di impoverire tutti.
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Lo Stato non è una famiglia: se risparmia, siamo rovinati
L’esposizione ripetuta a un’immagine o a un contenuto fa sì che l’individuo modifichi la propria percezione della realtà e interiorizzi il messaggio veicolato. E’ quello che gli psicologi chiamano “effetto priming”, e che pubblicitari ed esperti della comunicazione conoscono molto bene. Quanto più un messaggio viene ripetuto ed enfatizzato, magari attraverso la forma dello spot, tanto più esso risulterà familiare. Così può accadere che un concetto privo di veridicità, ma ripetuto con insistenza e in modo convincente, acquisisca il rango di verità. E’ quanto accaduto con la fake news economica del momento, tanto assurda quanto apparentemente efficace: il bilancio dello Stato sarebbe come quello di una famiglia. La ripetono all’unisono giornalisti, conduttori televisivi, economisti e qualunquisti. Così la gente comune, digiuna di economia e soprattutto in buona fede, ha interiorizzato un pensiero del tutto fuorviante. Secondo questa logica, quando un paese presenta un debito pubblico – dunque la normalità in un’economia moderna – dovrebbe assumere il comportamento di una brava e accorta casalinga: stringere la cinghia e tagliare le spese familiari. Così, come una donna morigerata risparmierà sul cibo, sul vestiario e, in condizioni di estrema ratio, alle cure sanitarie per sé, per il coniuge e per i figli, così lo Stato dovrebbe seguire il suo virtuoso esempio.Dunque, poiché la “famiglia” dello Stato è lo Stato stesso, ossia l’insieme dei cittadini che lo abitano, il suo territorio e le sue istituzioni, i tagli si ripercuoteranno sull’intera collettività. Per risparmiare occorre innanzitutto che contravvenga a quello che in un sistema socio-economico civile dovrebbe essere la sua funzione principale: tutelare chi non ha tutela, chi per nascita o per eventi sopravvenuti o condizioni particolari si trova in una situazione di evidente svantaggio. E qui gli esempi potrebbero essere infiniti, dal disoccupato all’invalido, alle vittime di disastri naturali. Potrebbe poi, in un’ottica di far quadrare il bilancio, ristrutturare la sanità pubblica in un’ottica mercatistica orientata al profitto, trasformando il paziente in un cliente. Continuare poi in un’opera di privatizzazione dei servizi pubblici e delle infrastrutture, facendoli gestire al mercato – considerato per antonomasia efficiente. A parte qualche piccola eccezione come successo a Genova. Così si potrebbe abbracciare un modello di scuola privata, in cui i genitori offriranno ai loro figli un livello di istruzione strettamente legato al proprio reddito. Ci sarebbe solo il piccolo inconveniente di bloccare l’ascensore sociale e rinstaurare il censo.Siccome non amo la retorica, mi fermo qui, ma gli esempi pratici per smontare l’assurda comparazione tra bilancio pubblico e familiare potrebbero andare avanti ancora a lungo. Lo Stato non è una famiglia perché esso ha come obiettivo il benessere e la tutela di tutti cittadini, non solo dei suoi figli come la famiglia, e opera su un orizzonte temporale di lungo periodo. Deve inoltre garantire il funzionamento delle istituzioni a garanzia del diritto e della democrazia. Infine, come dicono gli inglesi last but not least, da un punto di vista economico e contabile adottare la condotta della brava casalinga, che per uno Stato significa adottare l’austerity, vuol dire licenziare, rendere i servizi pubblici essenziali sempre più costosi, aumentare il livello di povertà, di disuguaglianza e disoccupazione. Così potrebbe accadere che la stessa virtuosa casalinga a causa dell’austerity debba rinunciare a curarsi o, addirittura, che suo marito perda il lavoro. Esiste infatti una relazione diretta, alquanto intuitiva, tra tagli dello Stato e diminuzione della ricchezza privata perché, per dirla con le parole del premio Nobel Krugman, «la tua spesa è il mio reddito». Potremmo dunque a ragion veduta ribaltare lo spot e affermare: «Il bilancio dello Stato è il contrario di quello della famiglia». Ma i pregiudizi si sa, una volta sedimentati sono difficili da scardinare.(Ilaria Bifarini, “Lo Stato è il contrario di una famiglia”, dal blog della Bifarini del 28 settembre 2018).L’esposizione ripetuta a un’immagine o a un contenuto fa sì che l’individuo modifichi la propria percezione della realtà e interiorizzi il messaggio veicolato. E’ quello che gli psicologi chiamano “effetto priming”, e che pubblicitari ed esperti della comunicazione conoscono molto bene. Quanto più un messaggio viene ripetuto ed enfatizzato, magari attraverso la forma dello spot, tanto più esso risulterà familiare. Così può accadere che un concetto privo di veridicità, ma ripetuto con insistenza e in modo convincente, acquisisca il rango di verità. E’ quanto accaduto con la fake news economica del momento, tanto assurda quanto apparentemente efficace: il bilancio dello Stato sarebbe come quello di una famiglia. La ripetono all’unisono giornalisti, conduttori televisivi, economisti e qualunquisti. Così la gente comune, digiuna di economia e soprattutto in buona fede, ha interiorizzato un pensiero del tutto fuorviante. Secondo questa logica, quando un paese presenta un debito pubblico – dunque la normalità in un’economia moderna – dovrebbe assumere il comportamento di una brava e accorta casalinga: stringere la cinghia e tagliare le spese familiari. Così, come una donna morigerata risparmierà sul cibo, sul vestiario e, in condizioni di estrema ratio, alle cure sanitarie per sé, per il coniuge e per i figli, così lo Stato dovrebbe seguire il suo virtuoso esempio.
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Stiglitz: ma all’Italia conviene lasciare l’euro, ecco come
Qual è il modo migliore per lasciare l’euro? Questa domanda è riaffiorata dopo che in Italia è salito al potere un governo euroscettico. Sì, i ministri chiave si sono formalmente impegnati a mantenere la valuta comune, ma quegli impegni non sono immutabili. Devono essere considerati nel contesto del più ampio potere di contrattazione italiano: il nuovo governo vuole chiarire che non si tratta solo di un parvenu. Preferirebbe rimanere all’interno dell’Eurozona, ma pretende dei cambiamenti. I nuovi leader italiani hanno ragione a dire che l’Eurozona ha un forte bisogno di riforme. L’euro è viziato sin dal suo concepimento. Per paesi come l’Italia, ha eliminato due meccanismi chiave di regolazione: il controllo dei tassi di interesse e di cambio. E invece di mettere qualcosa al loro posto, ha introdotto strette restrizioni su debiti e deficit – ulteriori ostacoli alla ripresa economica. Il risultato per la zona euro è stato una crescita più lenta, soprattutto per i paesi più deboli al proprio interno. L’euro avrebbe dovuto inaugurare una maggiore prosperità, che a propria volta avrebbe portato ad un rinnovato impegno per una maggior integrazione europea. Ha fatto esattamente il contrario – aumentare le divisioni all’interno dell’Ue, in particolare tra paesi creditori e debitori.Le divisioni risultanti hanno inoltre reso più difficile la risoluzione di altri problemi, in particolare la crisi migratoria, per la quale le norme europee impongono un onere ingiusto ai paesi in prima linea, come Grecia e Italia. Questi sono anche i paesi debitori, già afflitti da difficoltà economiche. Non c’è da stupirsi si ribellino. Cosa bisogna fare è ben noto. Il problema è che la Germania non vuole farlo. L’Eurozona ha da tempo riconosciuto la necessità di un’unione bancaria. Berlino insiste però nel rinviare la riforma chiave – una comune assicurazione sui depositi – che ridurrebbe la fuga di capitali dai paesi deboli: quest’ultima è uno dei fattori chiave che spiega la profondità del declino dei paesi in crisi. Le politiche economiche interne della Germania aggravano i problemi della zona euro. La principale sfida economica affrontata dai paesi in un’unione monetaria è l’incapacità di adeguare i tassi di cambio disallineati. Nell’Eurozona, l’onere dell’adeguamento è attualmente imposto ai paesi debitori, che già soffrono di bassi crescita e redditi. Se la Germania avesse una politica fiscale e salariale più espansiva, parte della pressione verrebbe tolta da questi paesi.Se la Germania non è disposta ad intraprendere i passi necessari per migliorare l’unione monetaria, dovrebbe fare la cosa migliore: lasciare l’Eurozona. Come detto da Soros, dovrebbe o guidare l’area o andarsene. Con la Germania (e forse altri paesi dell’Europa settentrionale) fuori dall’unione monetaria, il valore dell’euro si ridurrebbe e le esportazioni dell’Italia e di altri paesi dell’Europa meridionale aumenterebbero. La principale fonte di disallineamento sparirebbe. Allo stesso tempo, l’aumento del tasso di cambio tedesco farebbe molto per curare uno degli aspetti più destabilizzanti dell’economia globale: lo squilibrio commerciale a favore di Berlino. Il guaio, naturalmente, è che la Germania non vuole intraprendere nessuna delle due strade. Ciò lascia i cittadini di paesi come Grecia ed Italia con una scelta che non dovrebbero esser costretti a fare: tra l’appartenenza all’Eurozona e la prosperità economica. Un timido e inesperto governo greco ha scelto di rimanere nell’unione monetaria. Il risultato è stato stagnazione. Nel 2015 il Pil del paese era crollato del 25% rispetto al livello pre-crisi. Da allora, si è appena mosso.L’Italia ha l’opportunità di fare una scelta diversa. In assenza di riforme significative, i benefici di lasciare l’euro sono chiari e considerevoli. Un cambio più basso le consentirebbe maggiori esportazioni. I turisti troverebbero il paese una destinazione ancor più attraente. Tutto ciò stimolerebbe la domanda e aumenterebbe le entrate del governo. La crescita aumenterebbe e l’alto tasso di disoccupazione (11,2%, con il 33,1% di disoccupazione giovanile) diminuirebbe. Ci sono, naturalmente, molte altre ragioni per il malessere italico, e queste saranno tutt’al più parzialmente risolte lasciando l’euro. Governi come quelli di Trump o di Berlusconi – dominato da corrotti cercatori di rendite, senza comprensione delle vere basi della crescita sostenibile a lungo termine – non forniscono la leadership politica necessaria per una crescita forte e sostenibile. Allo stesso tempo, tuttavia, la crescita lenta ed iniqua che l’Italia ha vissuto come risultato dell’euro fornisce terreno fertile a partiti populisti. Ci sarebbero anche ulteriori vantaggi politici. Un’Italia più prospera avrebbe maggiori probabilità di cooperare in altri settori chiave in cui l’Europa ha bisogno di lavorare insieme: migrazione, una forza di difesa europea, sanzioni contro la Russia, politica commerciale.Le politiche commerciali o migratorie producono benefici per l’intero paese, ma ci sarebbero anche dei perdenti – e i vincoli fiscali imposti dalla zona euro hanno reso quasi impossibile fornire una tutela adeguata a chi perde. Un’Italia al di fuori dell’Eurozona sarebbe in una posizione migliore per condividere i benefici delle proprie politiche internazionali, mitigando al contempo il dolore ad esse associato. La sfida, ovviamente, sarà trovare un modo per lasciare la zona euro in modo da minimizzare i costi economici e politici. Una massiccia ristrutturazione del debito, fatta con particolare attenzione alle conseguenze per le istituzioni finanziarie nazionali, è essenziale. Senza di essa, l’onere del debito denominato in euro salirebbe, controbilanciando forse gran parte dei potenziali guadagni. Tali ristrutturazioni sono una parte fisiologica di grandi svalutazioni. A volte viene fatto di nascosto – come quando gli Usa abbandonarono il gold standard. A volte apertamente, come in Islanda ed Argentina. Tali ristrutturazioni del debito dovrebbero però essere viste come un rischio intrinseco dell’investimento transnazionale, una delle ragioni per le quali le obbligazioni “straniere” spesso danno un premio per il rischio.Da un punto di vista economico, la cosa più semplice da fare sarebbe che le entità italiane (governi, aziende e privati) semplicemente ridenominino i debiti dall’euro alla nuova lira. A causa però di complessità giuridiche all’interno dell’Ue, e degli obblighi internazionali del paese, potrebbe essere preferibile adottare una super-legge sul fallimento, sul modello del Chapter 11 americano. Questa permette un rapido ricorso alla ristrutturazione del debito a qualsiasi entità per la quale la nuova valuta presenta gravi problemi economici. Le leggi sulla bancarotta restano un’area di competenza di ciascuno degli Stati nazionali dell’Ue. L’Italia potrebbe persino scegliere di non annunciare che sta per lasciare l’euro. Potrebbe semplicemente emettere, ad esempio, titoli di Stato, che dovrebbero essere accettati come pagamento per qualsiasi obbligo di debito in euro. Una diminuzione del valore di queste obbligazioni equivarrebbe a una svalutazione. Ciò allo stesso tempo ripristinerebbe l’efficacia della politica monetaria italiana: cambiamenti nella politica della banca centrale inciderebbero sul valore delle obbligazioni.Si leverebbe naturalmente un polverone da parte degli altri membri. Introdurre una moneta parallela, ancorché in modo informale, violerebbe quasi certamente le regole della zona euro e sarebbe certamente contro il suo spirito. In questo modo però l’Italia lascerebbe decidere gli altri membri se espellerla. Roma potrebbe scommettere sul fatto che i membri più irritabili dell’Unione non compieranno mai un’azione così forte, che confermerebbe la sfilacciamento della zona euro. L’Italia avrebbe allora ottenuto due risultati con una sola mossa: rimarrebbe parte dell’Eurozona ma avrebbe compiuto una svalutazione. E se dovesse perdere la scommessa, l’onere politico dell’aver lasciato la zona euro cadrebbe ancor più chiaramente sui suoi “partner”. Sarebbero loro ad aver fatto la scelta finale. La Grecia si è arresa ad esser strangolata dalla Bce. Ma non doveva. Atene era infatti già ben avviata nella creazione di un sistema (un meccanismo di pagamento elettronico sotto la nuova dracma) che avrebbe facilitato una transizione dall’Eurozona. I progressi tecnologici degli ultimi tre anni rendono la creazione di sistemi di moneta elettronica sempre più semplice ed efficace. Se l’Italia decidesse di usarne uno, non dovrebbe nemmeno affrontare le difficoltà di stampare nuova valuta. Potrebbe anche alleviare il dolore della propria dipartita coordinando l’uscita con altri paesi in posizione simile.Il variegato gruppo di paesi che ora forma l’Eurozona è ben lungi da quella che gli economisti chiamano un’area valutaria ottimale. Ci sono troppe diversità, per farlo funzionare occorrono migliori assetti istituzionali, di quelli del tipo su cui la Germania ha posto il veto. Una zona meridionale sarebbe molto più vicina ad un’area valutaria ottimale. Ed anche se è difficile organizzare un’uscita coordinata in un breve periodo di tempo, se l’Italia dovesse avere successo, altri paesi quasi sicuramente seguiranno. Non bisogna ovviamente sottovalutare i costi di una grande svalutazione. Qualsiasi grande cambiamento in un prezzo-chiave in un’economia è una perturbazione significativa. Il prezzo del cambio estero è, ovviamente, fondamentale in qualsiasi economia aperta. Ha un effetto-domino sui prezzi di tutti i beni e servizi. Alcune – forse molte – aziende falliranno. Alcuni – forse molti – privati vedranno i propri redditi reali abbassarsi. È però altrettanto importante non sottovalutare i costi dell’attuale malessere italiano. Se la sua economia, nei 20 anni dalla creazione dell’euro, fosse cresciuta al tasso della zona euro nel suo insieme, il suo Pil sarebbe stato più alto del 18%.Il costo della disoccupazione persistente, specialmente tra i giovani, è enorme. I giovani tra i 20 e i 30 anni dovrebbero affinare le proprie abilità nella formazione sul posto di lavoro. Invece sono a casa oziosi, molti di loro a sviluppare un risentimento verso le élite e le istituzioni che incolpano per la propria situazione. La conseguente mancanza di formazione del capitale umano ridurrà la produttività anche per gli anni a venire. In un mondo ideale, l’Italia non dovrebbe essere costretta a lasciare l’Eurozona. L’Europa potrebbe riformare l’unione valutaria e fornire una migliore protezione a chi è danneggiato dal commercio e dalla migrazione. In assenza però di un cambio di direzione da parte dell’Ue nel suo insieme, l’Italia deve ricordare che ha un’alternativa alla stagnazione economica e che ci sono modi per lasciare la zona euro in cui i benefici probabilmente supererebbero i costi. Se il nuovo governo dovesse pilotare con successo tale uscita, l’Italia starebbe meglio. E così il resto d’Europa.(Joseph Stiglitz, “L’Italia ha ragione a voler lasciare l’euro”, da “Politico.Eu” del 25 giugno 2018, post tradotto fa Hmg per “Come Don Chisciotte”).Qual è il modo migliore per lasciare l’euro? Questa domanda è riaffiorata dopo che in Italia è salito al potere un governo euroscettico. Sì, i ministri chiave si sono formalmente impegnati a mantenere la valuta comune, ma quegli impegni non sono immutabili. Devono essere considerati nel contesto del più ampio potere di contrattazione italiano: il nuovo governo vuole chiarire che non si tratta solo di un parvenu. Preferirebbe rimanere all’interno dell’Eurozona, ma pretende dei cambiamenti. I nuovi leader italiani hanno ragione a dire che l’Eurozona ha un forte bisogno di riforme. L’euro è viziato sin dal suo concepimento. Per paesi come l’Italia, ha eliminato due meccanismi chiave di regolazione: il controllo dei tassi di interesse e di cambio. E invece di mettere qualcosa al loro posto, ha introdotto strette restrizioni su debiti e deficit – ulteriori ostacoli alla ripresa economica. Il risultato per la zona euro è stato una crescita più lenta, soprattutto per i paesi più deboli al proprio interno. L’euro avrebbe dovuto inaugurare una maggiore prosperità, che a propria volta avrebbe portato ad un rinnovato impegno per una maggior integrazione europea. Ha fatto esattamente il contrario – aumentare le divisioni all’interno dell’Ue, in particolare tra paesi creditori e debitori.
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Sfratto a Renzi, per via giudiziaria. Il potere vuole i 5 Stelle?
Le vicende giudiziarie che stanno sfiorando Matteo Renzi «sembrano essere lo specchio di una ristrutturazione in corso dei poteri del paese», sostiene “Infoaut”. «Dopo la batosta del 4 dicembre, su cui aveva puntato tutte le sue fiches, Renzi parrebbe essere giudicato sempre più inservibile da ampie parti dell’establishment». Settori di vertice che, «per destabilizzarne la tenuta», ormai «iniziano ad utilizzare lo strumento della magistratura e delle inchieste», strumento «da sempre orientato all’azione politica nell’ottica del riequilibrio del sistema, il più utile a questo genere di operazioni». Renzi rischia di essere toccato dall’inchiesta Consip? «Se ciò accadesse sarebbe davvero difficile reggere ad un colpo del genere», osserva “Infoaut”. «Ma anche se non dovessero emergere relazioni dirette tra padre e figlio, le parole di Marroni (ad di Consip nominato dallo stesso premier) che tirano in ballo l’imprenditore Alfredo Romeo, Tiziano Renzi padre di Matteo e l’imprenditore Carlo Russo riguardo a pressioni indebite sui dirigenti Consip per indirizzare o ottenere appalti lucrosi, sembrano essere un colpo molto duro da incassare».Quantomeno a livello mediatico, continua il newsmagazine dell’area “antagonista” torinese, che dichiara di fornire “informazione di parte”, i piani dell’ex premier impegnato nella corsa del consenso verso le elezioni del 2018 sembrano essere scompaginati. «Mentre nuovi interrogatori dovranno definire la portata reale dei fatti contestati, sembra esserci il caos nelle fila del cosiddetto Giglio Magico, il gruppo di potere che ruota intorno a Renzi. Le sedi di Rignano e Scandicci del Pd sono chiuse, Renzi addirittura effettua un viaggio in Puglia senza avvertire il Pd locale per evitare contestazioni, mentre il fedelissimo Lotti, tirato in ballo nelle carte, frettolosamente si affanna a ribadire la sua onestà e la sua estraneità ai fatti». Intanto, Renzi «viene abbandonato via via da sempre più big del Pd, che dichiarano il proprio appoggio ad Emiliano o Orlando nelle primarie fissate per il prossimo 30 aprile». E se la minoranza del Pd è riuscita finalmente a scindersi, forse «più che indirizzati da motivazioni etico-politiche» Bersani e compagni «sembrano voler scendere dalla nave che affonda, prima che sia troppo tardi».Strano tempismo: «Forse c’è chi aveva fiutato, o sapeva tramite vecchi amici, che dopo il No referendario l’aria che tirava non era delle migliori e ha preso la balla al balzo». A pesare è anche «lo stesso scandalo delle decine di migliaia di nuove tessere in Campania», che aggiunge ombre al «rapporto morboso tra il Pd renziano e ambiti di potere quantomeno oscuri di quei territori». Osserva “Infoaut”: «È interessante notare che l’attacco al sistema Renzi avviene nello stesso momento in cui la giunta Raggi su Roma ha ceduto – perchè di questo si tratta, al di là di come i 5 Stelle stanno abbellendo la vicenda – sulla questione stadio, dopo la messa da parte di Berdini che suonava già come una avances ai palazzinari e agli speculatori locali». Dopo il “no” alle Olimpiadi, e mesi di clamore su ogni minuzia della giunta Raggi, «ora la sindaca romana è praticamente sparita dalla scena, mentre lo scandalo Consip emerge con un timing preciso. Che nel gotha dei poteri economici si stia iniziando ad apprezzare la prospettiva pentastellata, non fosse altro per manifesta inesistenza di alternative credibili?». Ormai le sorprese sono all’ordine del giorno, «e l’attacco giudiziario non sembra essere casuale».Di fronte alla peggiore delle ipotesi dell’accusa (corruzione e nepotismo, con il padre di Renzi che farebbe il “lavoro sporco” per il figlio, pressando il vertice della Consip, l’ente che dispensa i lucrosi appalti pubblici) «la retorica renziana della meritocrazia e della rottamazione si scioglie come neve al sole», conclude “Infoaut”, che traccia un parallelo tra quello che chiama “il sistema Renzi”, le polemiche sul ministro Giuliano Poletti e i torbidi retroscena di Mafia Capitale alle spalle della giunta Marino. Lo stesso Renzi, «pur di assicurarsi la stabilità», non ha esitato a scendere a patti con Denis Verdini, condannato in primo grado a 9 anni di reclusione per il crac del Credito Cooperativo Fiorentino. «Anche questa sentenza arriva a suo modo con un timing preciso, e sembra squalificare dal gioco uno dei potenziali neo-alleati, quantomeno a livello di spostamento di voti e prebende varie, del Pd a guida assoluta renziana». Traduzione: «Un sistema di potere sembra andare in pezzi, quali altri emergeranno?».Le vicende giudiziarie che stanno sfiorando Matteo Renzi «sembrano essere lo specchio di una ristrutturazione in corso dei poteri del paese», sostiene “Infoaut”. «Dopo la batosta del 4 dicembre, su cui aveva puntato tutte le sue fiches, Renzi parrebbe essere giudicato sempre più inservibile da ampie parti dell’establishment». Settori di vertice che, «per destabilizzarne la tenuta», ormai «iniziano ad utilizzare lo strumento della magistratura e delle inchieste», strumento «da sempre orientato all’azione politica nell’ottica del riequilibrio del sistema, il più utile a questo genere di operazioni». Renzi rischia di essere toccato dall’inchiesta Consip? «Se ciò accadesse sarebbe davvero difficile reggere ad un colpo del genere», osserva “Infoaut”. «Ma anche se non dovessero emergere relazioni dirette tra padre e figlio, le parole di Marroni (ad di Consip nominato dallo stesso premier) che tirano in ballo l’imprenditore Alfredo Romeo, Tiziano Renzi padre di Matteo e l’imprenditore Carlo Russo riguardo a pressioni indebite sui dirigenti Consip per indirizzare o ottenere appalti lucrosi, sembrano essere un colpo molto duro da incassare».
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Finto reddito di cittadinanza, verso il prossimo golpe dell’Ue
Il governo Gentirenzi e il Partito Democratico progettano, per la imminente campagna elettorale, di attribuirsi il merito dell’introduzione del reddito di cittadinanza, soffiandolo al M5S. Il programma è che il presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker venga a Roma, probabilmente il 25 marzo, per i festeggiamenti del cinquantenario dell’Unione Europea, e quivi annunci che l’Europa prescrive che i governi elargiscano un reddito universale di base, di importo sufficiente per una vita dignitosa, a tutti i cittadini. La notizia di questo annuncio è stata lanciata da “Reuters” all’estero alcuni giorni fa, ma in Italia pare nessuno voglia diffonderla – tanto per dire quanto sono liberi i nostri giornalisti. Renzi si vanterà di aver ottenuto tale successo in linea con il suo bonus di 80 euro mensili. Ne farà il suo cavallo di battaglia per le elezioni. Due quesiti essenziali. Primo: come finanziare questo reddito, dato che concedere 1000 euro al mese a tutti i cittadini italiani costerebbe circa 600 miliardi l’anno, un terzo del Pil?Anche se si limitasse l’importo del reddito e il numero dei beneficiati, il costo minimo sarebbe sui 150 miliardi. L’unico modo di trovare i fondi sarebbe tassare la creazione monetaria da parte delle banche, la quale va a casa ma non viene registrata come ricavo. Il tassarla non graverebbe sui bilanci delle banche, i quali anzi migliorerebbero, proprio perché si registrerebbero i ricavi, oggi non registrati, da creazione monetaria. Secondo: che scopo ha questo reddito di cittadinanza? intendo: che scopo vero? Ovviamente non è quello di rilanciare l’economia, dato che, se “l’Europa” volesse questo, avrebbe già da tempo cambiato il suo modello finanziario, il “Patto di stabilità e sviluppo” che, da quando è in vigore, ha portato dal 35 al 75% i paesi fuori dai parametri e ha generalizzato la stagnazione – cioè ha prodotto instabilità e blocco dello sviluppo. Quindi è chiaro che “l’Europa” vuole questo: destabilizzazione e impoverimento. Altrimenti avrebbe cambiato modello da tempo.Credo perciò che lo scopo vero del reddito universale sia quello di far perdere forza agli euro-scettici nelle prossime elezioni – soprattutto in Francia e in Italia – accontentando e tranquillizzando la gente nel breve termine, in modo che si lasci guidare e continui a credere del modello generale dell’Unione Europea. E, e nel medio termine, realizzare, proprio mediante gli squilibri finanziari che produrrà il costo di questo reddito universale, una destabilizzazione profonda, che crei le condizioni emergenziali per una profonda ristrutturazione autoritaria e tecnocratica degli assetti costituzionali.(Marco Della Luna, “Juncker, Renzi e il reddito di cittadinanza”, dal blog di Della Luna del 31 gennaio 2017).Il governo Gentirenzi e il Partito Democratico progettano, per la imminente campagna elettorale, di attribuirsi il merito dell’introduzione del reddito di cittadinanza, soffiandolo al M5S. Il programma è che il presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker venga a Roma, probabilmente il 25 marzo, per i festeggiamenti del cinquantenario dell’Unione Europea, e quivi annunci che l’Europa prescrive che i governi elargiscano un reddito universale di base, di importo sufficiente per una vita dignitosa, a tutti i cittadini. La notizia di questo annuncio è stata lanciata da “Reuters” all’estero alcuni giorni fa, ma in Italia pare nessuno voglia diffonderla – tanto per dire quanto sono liberi i nostri giornalisti. Renzi si vanterà di aver ottenuto tale successo in linea con il suo bonus di 80 euro mensili. Ne farà il suo cavallo di battaglia per le elezioni. Due quesiti essenziali. Primo: come finanziare questo reddito, dato che concedere 1000 euro al mese a tutti i cittadini italiani costerebbe circa 600 miliardi l’anno, un terzo del Pil?
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Crollo dei bond, la Soluzione Finale di Schäuble per piegarci
Un piano tedesco per riformare l’Eurozona con un meccanismo automatico di ristrutturazione dei debiti sovrani. Obiettivo, impedire qualsiasi forma di condivisione dei rischi tra i paesi dell’Eurozona, confinando i costi dell’instabilità finanziaria e fiscale il più possibile all’interno dei paesi più deboli. Autore del piano, il “venerabile” Wolfgang Schaeuble, super-massone e cervello del governo Merkel. Berlino «sembra aver perso fiducia verso qualsiasi forma di governance centralizzata», scrive Carlo Bastasin sul “Sole 24 Ore”, e ora penserebbe solo a tutelare i tedeschi. Il piano è descritto in una lettera inviata a fine novembre dal ministro delle finanze al capo della Commissione Finanza e Bilancio del Parlamento tedesco. La lettera, non pubblicata, prescrive un meccanismo automatico di ristrutturazione del debito pubblico per qualsiasi paese europeo che richieda assistenza finanziaria. Una volta chiesto “l’aiuto” del Mes, o Esm, «i tempi di scadenza dei titoli pubblici saranno automaticamente prolungati, riducendo il valore di mercato di questi titoli e provocando gravi perdite a chi li detiene».Il meccanismo, continua Bastasin nell’articolo, ripreso dal blog “Vox Populi”, trasformerebbe i titoli pubblici dell’Eurozona in asset finanziari rischiosi. «E questo è anche l’obiettivo di un’altra proposta del governo tedesco, che mira a eliminare l’eccezione normativa che permette alle banche di detenerli senza dover possedere riserve di capitale per coprire le eventuali perdite». Rendere più “rischiosi” i titoli sovrani incoraggerebbe banche e famiglie a evitare di sottoscriverli alla leggera. I governi avrebbero meno incentivi ad accumulare debito, e le banche eviterebbero a loro volta di investire in titoli pubblici. Dov’è il trucco? «Stabilire un meccanismo automatico per sanzionare le situazioni economiche problematiche che si vorrebbero evitare può, nei fatti, renderle ancora più probabili», spiega Bastasin. I titoli pubblici – abolita la moneta sovrana – tengono in piedi gli Stati dell’Eurozona. «Pertanto, una volta che i titoli sovrani nei paesi dell’Eurozona sono diventati più rischiosi, l’intero sistema finanziario potrebbe diventare più fragile, e questo potrebbe influenzare negativamente la crescita e la stabilità finanziaria».Da ultimo, anziché imporre una sana disciplina ad alcuni paesi membri, il nuovo regime «potrebbe ampliare i differenziali di rendimento dei titoli di Stato e rendere impossibile la convergenza dei debiti, aumentando la probabilità di rottura dell’Eurozona». Il piano di Berlino, continua Bastasin, va in parallelo all’idea che il contenimento della crisi sia solo una questione che riguarda i paesi più colpiti. Si basa inoltre sull’assunzione che qualsiasi forma di condivisione del rischio fornisca ai governi gli incentivi sbagliati, producendo “moral hazard”. In realtà, «come la crisi ha dimostrato», la vulnerabilità finanziaria può essere «il risultato di problemi comuni», per cui «sanzionare i singoli paesi può generare un’instabilità che potrebbe degenerare in una nuova crisi».Il documento del governo tedesco dimostra una sfiducia fondamentale verso gli atteggiamenti fiscali degli altri governi. L’applicazione ripetuta delle “clausole di flessibilità” per sottrarre alcune spese con finalità specifiche dal conteggio del deficit sta facendo storcere il naso a Berlino. Secondo Bastasin, il governo tedesco «guarda con disprezzo la Commissione Europea, considerandola troppo esposta ai ricatti dei governi nazionali, con particolare preoccupazione per l’ascesa dei movimenti populisti e anti-europei». L’applicazione asimmetrica delle regole, le decisioni fuori luogo e al momento sbagliato, nonché «la tendenza ad applicare la “legge del creditore” anziché gli interessi comuni, nonché certe propensioni ideologiche», avrebbero fatto venir meno la fiducia verso le decisioni comuni. «I governi nazionali, ciascuno a suo modo, stanno passando da una timida propensione a condividere il rischio a una decisa volontà di decentralizzare qualsiasi rischio, come unica ed esclusiva modalità di gestione dell’unione monetaria».Nel considerare la minaccia di una ristrutturazione del debito come politica efficace per imporre la disciplina, continua l’analista, Berlino chiede che i titoli di debito pubblico perdano la loro condizione di asset considerati privi di rischio. Quest’ultima “eccezione normativa” faceva in modo che le banche accumulassero titoli di debito sovrano nel loro bilancio senza la necessità di incrementare il proprio capitale. Nel documento inviato al Bundestag, il ministro delle finanze propone che l’Eurozona anticipi la regolamentazione internazionale nel riconoscere la specifica rischiosità dei titoli di debito sovrano. In pratica, lo Stato sarebbe definitivamente privato di sovranità e costretto a comportarsi come un’azienda, con i conti in attivo o almeno in pareggio, come vuole il dogma neoliberista che negli ultimi 40 anni ha lavorato incessantemente per demolire la finanza pubblica, lasciando i governi alla mercé dei “mercati”, senza più un soldo da impegnare in investimenti per famiglie, aziende e lavoro, sotto forma di spesa pubblica (deficit positivo, fondamentale per sostenere l’economia reale).«Una volta che sia stato stabilito che i titoli pubblici sono a rischio come tutti gli altri», conclude Bastasin, «le banche saranno incoraggiate a ridurre l’ammontare di titoli di Stato che detengono, rompendo il circolo vizioso che ha caratterizzato la crisi, col finanziamento del debito pubblico che minacciava la stabilità bancaria e viceversa». Secondo il documento di Berlino, i paesi dell’Eurozona dovrebbero anche ridurre in modo permanente i loro livelli di debito pubblico sul Pil. «Per poterlo fare, Berlino vuole impedire che ciascun paese invochi clausole di flessibilità. In particolare, la richiesta italiana di flessibilità ha ottenuto un certo cedimento da parte della Commissione Europea durante i negoziati. La Francia non si pone nemmeno il problema di ottenere l’autorizzazione per le sue generose politiche fiscali. Nelle trattative coi primi ministri dell’Eurozona, il presidente della Commissione Europea Juncker è stato costretto a scegliere tra autorizzare i governi in carica ad ampliare i loro deficit per ogni sorta di ragioni oppure fomentare i movimenti populisti anti-europei che vogliono mandare all’aria l’intera unione monetaria».Questa specifica “debolezza” nel coordinamento delle politiche fiscali a livello centralizzato «ha convinto le autorità tedesche a chiedere la decentralizzazione dei rischi e un controllo depoliticizzato». Il ruolo di sorveglianza della Commissione, dice il documento sottoscritto da Schaeuble, «non deve limitarsi a degli obiettivi politici». Per rendere il giudizio di Bruxelles “indipendente dalle convenienze politiche”, Berlino mira a separare la funzione di supervisione svolta dalla Commissione dal suo ruolo nell’orientare le scelte politiche. In alternativa, il controllo delle politiche fiscali potrebbe essere consegnato a una nuova istituzione tecnica e indipendente. «Se questi meccanismi dovessero ancora fallire nel tenere a freno il debito pubblico, allora la minaccia di un semplice meccanismo automatico di ristrutturazione del debito farà il trucco: i mercati diventeranno subito estremamente sensibili alla mancanza di disciplina fiscale, e puniranno ciò che i politici perdonano». E avremo dunque ancora più rigore e ancora più austerity: più tasse, meno lavoro (ma i conti in ordine, come vuole il “venerabile” Schaeuble).Un piano tedesco per riformare l’Eurozona con un meccanismo automatico di ristrutturazione dei debiti sovrani. Obiettivo, impedire qualsiasi forma di condivisione dei rischi tra i paesi dell’Eurozona, confinando i costi dell’instabilità finanziaria e fiscale il più possibile all’interno dei paesi più deboli. Autore del piano, il “venerabile” Wolfgang Schäuble, super-massone e cervello del governo Merkel. Berlino «sembra aver perso fiducia verso qualsiasi forma di governance centralizzata», scrive Carlo Bastasin sul “Sole 24 Ore”, e ora penserebbe solo a tutelare i tedeschi. Il piano è descritto in una lettera inviata a fine novembre dal ministro delle finanze al capo della Commissione Finanza e Bilancio del Parlamento tedesco. La lettera, non pubblicata, prescrive un meccanismo automatico di ristrutturazione del debito pubblico per qualsiasi paese europeo che richieda assistenza finanziaria. Una volta chiesto “l’aiuto” del Mes, o Esm, «i tempi di scadenza dei titoli pubblici saranno automaticamente prolungati, riducendo il valore di mercato di questi titoli e provocando gravi perdite a chi li detiene».
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Giulietto Chiesa: via dall’Unione Europea, è un branco di lupi
Di fronte allo spettacolo di barbarie offerto dalla Germania nell’accanirsi contro Atene, nell’ambito della più grave crisi nella storia dell’Ue, anche Giulietto Chiesa – diffidente verso i No-Euro e a lungo incline a concepire una prospettiva politica di revisione democratica dell’Unione Europea – si arrende all’evidenza: Bruxelles non è solo una gang di tecnocrati prezzolati e “maggiordomi” dei poteri forti, messi lì per spremere paesi e popoli in nome del dominio del business finanziario. E’ anche una cosca spietata e sanguinaria, apertamente anti-europea, pronta a calpestare la stessa possibilità di sopravvivenza dei greci. «L’Unione Europea è un’associazione a delinquere», disse senza mezzi termini Marshall Auerback, economista del Levi Institute di New York, di fronte al “golpe dello spread” che a fine 2011 portò all’insediamento di Mario Monti in Italia, l’uomo scelto dalla finanza per imporre il celebre diktat della Bce (Draghi e Trichet) con brutali “riforme” come quella della Fornero sulle pensioni. Nemmeno quattro anni dopo, l’aggravarsi della crisi europea – complicata dalle inaudite tensioni belliche con la Russia in Ucraina – sta determinando contraccolpi politici, psicologici, culturali: questa «non è più Europa», si sente ripetere da più parti.In realtà, questa “non è mai stata Europa”, replicano i critici dell’europeismo franco-tedesco. Secondo Paolo Barnard, autore de “Il più grande crimine” (saggio che illumina, con anni di anticipo rispetto alla catastrofe odierna, la genesi dell’euro come strumento di dominio dell’élite finanziaria a spese degli Stati e dei popoli) l’Unione Europea non è mai stata altro che questo: pura confisca di democrazia, senza contropartite di alcun genere. Confisca istituzionalizzata mediante organismi non elettivi, espressione diretta del “vero potere” neoliberista nemico del welfare e persino dello Stato di diritto. Un regime ideologico che in Europa si è alimentato anche con teorie risalenti all’800, l’economia neoclassica (pagare i lavoratori il meno possibile) e il tragico mercantilismo tedesco (la vocazione all’export, che comprime i salari e deprime la domanda interna). La fobia teutonica dell’inflazione, di hitleriana memoria, si è saldata con la demonizzazione del debito pubblico, motore naturale dell’economia espansiva (se il debito è denominato in moneta nazionale). E’ semplicemente sconcertante, sostiene il politologo Aldo Giannuli, che la sinistra europea non si sia mai accorta del “mostro” cresciuto a Bruxelles; ovvio, quindi, che oggi non abbia proposte, perché qualsiasi vera alternativa democratica comporterebbe innanzitutto la denuncia dell’Ue e del suo braccio secolare, l’euro, come strumenti di pura dominazione antipopolare.Peggio ancora: proprio la sinistra ufficiale – da Mitterrand in poi – ha conferito il massimo supporto al progetto europeista, ben sapendo che la “disciplina di bilancio” indotta fisiologicamente da una non-moneta come l’euro avrebbe causato tagli devastanti alla spesa sociale e abrogazione di diritti e storiche conquiste. Quello che accade oggi in Grecia, dunque, non è che una logica conseguenza, il modus operandi “naturale” di un impianto oligarchico di potere, che non guarda in faccia a nessuno. Proprio la ferocia dimostrata contro Atene, per giunta “colpevole” di aver osato sfidare il regime di Bruxelles con un referendum, finisce per scuotere anche chi aveva sperato in una residua quota di ragionevolezza, se non altro per evitare di consegnare il continente a una pericolosa deriva incarnata da populismi ultra-nazionalisti, spesso xenofobi e neofascisti. «Sono in molti a dire apertamente che ciò che si è consumato a Bruxelles il 13 luglio 2015 è stato un “colpo di Stato”», scrive Chiesa su “Sputnik News”. Un golpe, «realizzato con strumenti finanziari, con un ricatto dei forti contro i deboli, che implica e si regge su un atto di forza, su un’imposizione illegittima».Per il giornalista, autore del profetico libro-denuncia “La guerra infinita” che illustrò con anni di anticipo il piano egemonico dei neocon statunitensi e le “guerre americane” puntualmente condotte negli ultimi anni, la crisi fra Berlino e Atene «è l’inizio della fine dell’Europa come entità che si proponeva di essere unitaria e si rivela ora un’accozzaglia di egoismi, che non è nemmeno possibile definire “nazionali”, poiché sono stati dettati dalla frenesia del guadagno delle élites bancarie internazionali». Questa è ormai «un’Europa senza solidarietà e divisa, spaccata. Con la Germania (ma che dico?, con una parte della Germania; ma che dico?, con un partito tedesco – la Cdu-Csu – guidato da un ministro delle finanze, Wolfgang Schäuble, che combatte contro la premier del suo partito Angela Merkel) che si trascina dietro sei Stati dell’est, tutti antieuropei in sostanza, e che pretende di fare la lezione a tutta la restante Europa, per costringerla ad accettare il modello tedesco». Giulietto Chiesa cita l’ex ministro greco Yanis Varoufakis: la vera posta in gioco non è Atene ma Parigi, perché il piano degli oligarchi tedeschi consiste nel «mettere il timore di Dio nei francesi, costringendo la Grecia a uscire dall’euro».Dunque, conclude Chiesa, «la Grecia è stata usata, anche (non solo come la vittima sacrificale da esibire sulle piazze d’Europa, come l’avvertimento, come la gogna che attende tutti coloro che osassero ribellarsi in futuro), come una mazza ferrata per imporre la volontà dei banchieri tedeschi a tutti gli altri paesi». Quella di Bruxelles, allora, è «un’Europa che si comporta come un branco di lupi». Sicché, «questa Europa finisce, insieme alla Grecia indipendente e sovrana». Una constatazione che «dovrebbe aprire una riflessione a tutte le forze europee, democratiche e che vogliono conservare le loro sovranità nazionali, sulla “questione tedesca”». Attenzione: «Per la terza volta, nella sua storia moderna, la Germania mette e repentaglio la pace nel continente. Un’Europa senza Germania è sempre stata impensabile. Ma una Germania che non è in grado di moderare la sua pulsione al dominio diventa il nemico di ogni idea europea comune».Per quanto concerne la Grecia, la soluzione imposta a Tsipras, «mostruosa sotto ogni profilo», non è che «una tappa verso un disastro, non solo economico: è l’esistenza stessa della democrazia che è stata annientata», costringendo i greci ad accettare un piano economico peggiore di quello che, col referendum, avevano rifiutato. «Perfino la proprietà privata, dei singoli e dello Stato, è stata cancellata. Con totale impudenza, quella del vae victis – continua Giulietto Chiesa – la Germania ha preteso il controllo diretto di 50 miliardi di euro di proprietà greche attraverso il Kfw (Kreditanstalt Fur Wiederanfbau, Istituto di Credito per la Ricostruzione), che altro non è che una banca tedesca (80% dello Stato e 20% dei laender) e il cui presidente è Wolfgang Schäuble».Peraltro, proprio la Kfw (la “Cdp” tedesca) è lo strumento col quale la Germania ha regolarmente aggirato le restrizioni sull’euro, acquisendo moneta praticamente a costo zero per finanziare il governo – la Kwf è giudiricamente privata, ma di fatto chi comanda è lo Stato. Nessuno, però, si è mai permesso di far osservare ai tedeschi che stavano barando: hanno imposto il costo dell’euro a tutta l’Eurozona (moneta che ogni paese può ottenere solo con l’emissione di titoli di Stato, attraverso il sistema bancario privato), mentre Berlino, sottobanco, ha trovato il modo di finanziarsi impunemente in modo assai più economico. Inutile, quindi, aspettarsi che simili oligarchi potessero fare la benché minima concessione sulla indispensabile ristrutturazione del debito greco, «che è un debito illegale e estorto con l’inganno e con la complicità dell’Europa e della Germania», ricorda Giulietto Chiesa. «Non c’è più nemmeno l’ombra dell’economia di mercato: questa è rapina e violenza allo stato brado».Paul Krugman, Premio Nobel per l’economia, ha spesso tuonato contro i “maghi” dell’austeriy europea, che impongono solo e sempre ricette disastrose. Sbagliano? No, lo fanno apposta: retrocedere i popoli, ex consumatori ormai inutili, fa parte del piano. Diverranno lavoratori-schiavi, senza più diritti sindacali e con salari da Bangladesh, alla periferia meridionale del Quarto Reich. Giulietto Chiesa cita ancora il greco Varoufakis, che bene esprime il panico di Syriza di fronte all’ipotesi Grexit: l’ex ministro, che oggi accusa Tsipras di non aver osato tener duro di fronte al “waterboarding” cui è stato sottoposto a Bruxelles, sostenendo che si poteva reggere molto meglio il braccio di ferro e spuntare condizioni migliori per restare nell’Eurozona, cita l’Iraq (paese bombardato, invaso, raso al suolo) come esempio per spiegare le enormi difficoltà nel rimettere in piedi una moneta partendo da zero (missione impossibile, in quel caso, senza l’aiuto Usa). In più, lo stesso Varoufakis evita di citare – come invece fa Krugman – il caso eclatante dell’Argentina, la cui prodigiosa rinascita è iniziata proprio con l’abbandono del legame col dollaro (cambi bloccati, come nel caso dell’euro) tornando pienamente sovrana, “da zero”, dei propri pesos.Se è quindi chiaro che nessun Varoufakis avrebbe mai potuto – con quelle argomentazioni – impensierire neppure lontamente la Bce e la Commissione Europea (oltre a non aver messo a punto un vero piano-B, il governo di Syriza non ha nemmeno pensato a reclutare un adeguato team di economisti, per esempio quelli, americani e democratici, di cui si servì Nestor Kirchner per la rianimazione-record della sua Argentina), resta di fronte agli occhi di tutti lo spettacolo dell’orrore che Berlino e Bruxelles hanno esibito, a prescindere dall’impresentabilità di Syriza – spettacolo che non mancherà di suscitare ripercussioni drastiche, a partire dalla Francia di Marine Le Pen, l’unico leader europeo a chiedere a gran voce, e non da oggi, l’uscita di Parigi dall’Unione Europea, prospettiva che ormai sfiora l’Austria e nel 2017 chiamerà al voto anche la Gran Bretagna. L’incubo Grexit – espulsione disordinata, non preparata come invece nel caso argentino – comporterebbe «conseguenze sociali e politiche sconvolgenti: sicuramente provocazioni, disperazione, disordini, sangue», scrive Giulietto Chiesa. «Questa è l’Europa, oggi. Bisogna prepararsi a uscirne, per tempo».Di fronte allo spettacolo di barbarie offerto dalla Germania nell’accanirsi contro Atene, nell’ambito della più grave crisi nella storia dell’Ue, anche Giulietto Chiesa – diffidente verso i No-Euro e a lungo incline a concepire una prospettiva politica di revisione democratica dell’Unione Europea – si arrende all’evidenza: Bruxelles non è solo una gang di tecnocrati prezzolati e “maggiordomi” dei poteri forti, messi lì per spremere paesi e popoli in nome del dominio del business finanziario. E’ anche una cosca spietata e sanguinaria, apertamente anti-europea, pronta a calpestare la stessa possibilità di sopravvivenza dei greci. «L’Unione Europea è un’associazione a delinquere», disse senza mezzi termini Marshall Auerback, economista del Levi Institute di New York, di fronte al “golpe dello spread” che a fine 2011 portò all’insediamento di Mario Monti in Italia, l’uomo scelto dalla finanza, con la collaborazione di Napolitano, per imporre il celebre diktat della Bce (Draghi e Trichet) con brutali “riforme” come quella della Fornero sulle pensioni. Nemmeno quattro anni dopo, l’aggravarsi della crisi europea – complicata dalle inaudite tensioni belliche con la Russia in Ucraina – sta determinando contraccolpi politici, psicologici, culturali: questa «non è più Europa», si sente ripetere da più parti.
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Afd: liberiamo la Grecia e l’Europa dall’orrore dell’euro
Alternative für Deutschland (“Alternativa per la Germania”) è un partito pro-europeo che sostiene fondamentalmente i principi della competitività, della sussidiarietà e dei buoni rapporti reciproci tra le nazioni europee, convinto che ciascuna nazione dovrebbe avere il controllo del proprio destino economico. A tale scopo, Afd constata con inquietudine che la politica fatta per salvare l’euro a qualsiasi costo (politica sostenuta dal governo tedesco) ha portato ad una forte reazione anti-tedesca in Grecia. Sottolinea che una moneta sopravvalutata ha deteriorato senza speranze di miglioramento la competitività dell’economia greca, ha contribuito a generare disoccupazione di massa e ha chiuso un’intera “generazione perduta” in una situazione senza via d’uscita. Ritiene che il mantenimento dell’unione monetaria nella sua forma attuale è in contrasto con gli interessi della società e dell’economia greca, economia che ha bisogno di una forte svalutazione per ritrovare la strada della ripresa.Afd condanna l’attuale situazione che costringe i contribuenti europei a pagare e a portare sulle proprie spalle il peso di un’unione monetaria fallita, che sta prolungando le sofferenze della popolazione greca. Questa politica non ha alcun genere di giustificazione economica o morale. Sottolinea che non si può aspettare che la Germania riduca il suo livello di competitività per risolvere la crisi dell’Eurozona, mentre la “svalutazione interna” non può riuscire a migliorare la competitività della Grecia. Sostiene con forza che l’Europa nel suo insieme dovrebbe concentrarsi sul miglioramento della competitività per assicurarsi una posizione di leadership a livello mondiale. Insiste sul fatto che è nell’interesse comune dei contribuenti europei e della popolazione greca che si metta fine all’unione monetaria nella sua forma attuale. Più essa prolunga la sua esistenza, più pesanti saranno le perdite subite sia dai contribuenti europei che dalla popolazione greca, che ha già sofferto gli effetti distruttivi della politica di austerità.Sostiene che qualsiasi piano di ristrutturazione del debito greco deve essere accompagnato da un sistema di uscita concordata della Grecia dall’Eurozona. Ribadisce che tale uscita non deve significare l’uscita dall’Unione Europea, come dimostrano gli esempi di diversi paesi dell’Unione Europea che hanno un’economia fiorente ma non fanno parte dell’Eurozona. Sostiene che, visto il danno permanente che la partecipazione all’unione monetaria ha inflitto alla Grecia, è necessario favorire un ritorno dell’economia greca alla crescita. Invita i leader europei a preparare tutte le misure giuridiche ed economiche per ridurre il costo dell’uscita dall’euro, sia per la Grecia che per tutti i paesi dell’Eurozona. Invita i partiti europei centristi a cooperare per l’attuazione di una procedura di uscita concordata per i paesi che si trovano attualmente in condizioni di grave crisi economica; in mancanza di ciò i partiti estremisti, sia di sinistra che di destra, si affermeranno sempre più sullo scenario europeo.(Alternative für Deutschland, “Manifesto per la ripresa economica della Grecia” pubblicato dalla formazione politica no-euro tedesca e ripresa dal blog “Vox Populi” il 2 aprile 2015).Alternative für Deutschland (“Alternativa per la Germania”) è un partito pro-europeo che sostiene fondamentalmente i principi della competitività, della sussidiarietà e dei buoni rapporti reciproci tra le nazioni europee, convinto che ciascuna nazione dovrebbe avere il controllo del proprio destino economico. A tale scopo, Afd constata con inquietudine che la politica fatta per salvare l’euro a qualsiasi costo (politica sostenuta dal governo tedesco) ha portato ad una forte reazione anti-tedesca in Grecia. Sottolinea che una moneta sopravvalutata ha deteriorato senza speranze di miglioramento la competitività dell’economia greca, ha contribuito a generare disoccupazione di massa e ha chiuso un’intera “generazione perduta” in una situazione senza via d’uscita. Ritiene che il mantenimento dell’unione monetaria nella sua forma attuale è in contrasto con gli interessi della società e dell’economia greca, economia che ha bisogno di una forte svalutazione per ritrovare la strada della ripresa.
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Pritchard: via dall’euro, Italia salva. Renzi, che aspetti?
Eugenio Scalfari, fondatore di “Repubblica” e leader dell’establishment pro-euro, propone a Renzi di sacrificare l’Italia (cioè gli italiani) per salvare la moneta unica? Renzi non gli dia retta e faccia esattamente il contrario: salvi l’Italia e lasci affondare l’euro. Come? Tornando alla lira, e di corsa, scrive il prestigioso giornalista economico inglese Ambrose Evans-Pritchard. In fondo, osserva, Renzi era ancora minorenne all’epoca del “peccato originale”, lo sciagurato Trattato di Maastricht. Finora ha sbagliato tutto: in campagna elettorale ha promesso di contrastare l’austerity Ue, poi si è sottomesso a Bruxelles confidando nei suoi cattivi consiglieri, che parlavano di ripresa imminente. Ora ci siamo: l’Italia sta crollando e il debito pubblico rischia di arrivare al 150% del Pil, con l’incubo di tagli miliardari in autunno o, peggio, il commissariamento della Troika. Renzi, dice Pritchard, è ancora in tempo: può salvare l’Italia, uscendo dall’euro. Possibile: perché i conti dell’Italia – quelli veri – sono meno peggio di quelli di tanti altri paesi, inclusi Francia, Gran Bretagna, Giappone, Olanda e Stati Uniti.«E’ un fatto incontrovertibile – scrive Pritchard sul “Telegraph”, in un articolo ripreso da “Come Don Chisciotte” – che il disastro che dura da 14 anni in Italia coincide con l’adesione all’Uem», l’unione monetaria europea. «L’Italia è in depressione da quasi sei anni». Un crollo «costellato da false riprese, sopraffatte ogni volta dai dilettanti monetari responsabili della politica Uem». L’ultima “ripresa” è svanita dopo un solo trimestre, e l’economia è di nuovo in recessione tecnica: la produzione crollata del 9,1% dal suo picco, «indietro a livelli di 14 anni fa», l’industria italiana «scesa a livelli del 1980». Incredibile: «Ci vogliono errori di politica economica madornali per realizzare un tale risultato, in una economia moderna». Basti pensare che l’Italia non aveva subito niente di simile neppure durante la Grande Depressione, «facendo segnare una crescita del 16% tra il 1929 e il 1939». Nemmeno Mussolini, aggiunge Pritchard, era così maniacale da perseguire i suoi deliri sul “gold standard”. Le autorità italiane che oggi intravvedono segnali di ripresa? Sono «come le guardie della fortezza nel “Deserto dei Tartari” di Dino Buzzati», ingannate «dalle illusioni ottiche dell’orizzonte senza vita».Bollettino della catastrofe: i prestiti bancari alle imprese sono ancora in calo, “Moody’s” dice che quest’anno l’economia si contrarrà dello 0,1%, “Société Génerale” dello 0,2 Il crollo del settore immobiliare non ha ancora toccato il fondo: se l’anno scorso per vendere una casa occorreva attendere in media 8,8 mesi, ora l’attesa è salita a 9,4 mesi. Precipita l’indice del peggioramento delle condizioni di mercato: in soli tre mesi è passato da 19,6 a 34,7%. «Non possiamo andare avanti più a lungo», protesta la filiale di Taranto di Confindustria, in una lettera aperta al presidente della Repubblica in cui segnala che la Puglia sta diventando un «deserto industriale», con le piccole imprese sull’orlo della chiusura e dei licenziamenti di massa. «Il mix letale di contrazione economica e inflazione zero sta portando la traiettoria del debito in Italia a crescere in maniera esponenziale, nonostante l’austerità e un avanzo primario del 2% del Pil», aggiunge Pritchard. Nel primo trimestre 2014 il debito è salito al 135,6%, dal 130,2% dell’anno prima. E si può arrivare al 140% entro fine anno, «in acque inesplorate per un paese che in realtà si indebita in D-Marks».«Nessuno sa quando i mercati reagiranno», dicono i banchieri italiani. La recessione, intanto, sta erodendo le entrate fiscali così gravemente che Renzi «dovrà venirsene fuori con nuovi tagli, dai 20 ai 25 miliardi di euro, per soddisfare gli obiettivi di disavanzo dell’Ue, perpetuando il circolo vizioso». Il compito, dice Pritchard, è senza speranza, come confermano tutti gli studi. Secondo il think-tank “Bruegel”, l’Italia dovrebbe realizzare un avanzo primario del 5% del Pil per stabilizzare il debito con un’inflazione al 2%. Avanzo che salirebbe al 7,8% a inflazione zero. «Qualsiasi tentativo di raggiungere questo obiettivo porterebbe ad una implosione autodistruttiva dell’economia italiana», avverte Pritchard. Ashoka Mody, già alto funzionario del Fmi in Europa, dice che è impossibile realizzare avanzi primari così abnormi, cioè tagli spaventosi alla spesa pubblica. E consiglia alle autorità italiane di «cominciare a consultare dei bravi avvocati, per garantire una ristrutturazione ordinata del debito sovrano». Avverte: «Non deve essere un cataclisma, ci sono modi di dilazionare gli obblighi di pagamento nel corso del tempo. Ma non c’è nessuna ragione di attendere fino a che il rapporto giunga al 150% del Pil. Dovrebbero andare avanti in questo senso da subito».Tutt’altra musica quella che suona Eugenio Scalfari, secondo cui l’Italia dovrebbe «mettersi sotto il controllo della Troika», cioè del boia. «Scalfari sembra pensare che la democrazia in Italia dovrebbe essere sospesa per salvare l’euro – replica Pritchard – e che il paese dovrebbe raddoppiare le politiche di terra bruciata, imbarcandosi in uno sforzo ancora più draconiano per recuperare competitività attraverso un svalutazione interna», cioè tagliando i salari e il welfare. Renzi di rifletta, insiste Pritchard: pensi a salvare gli italiani, non l’euro. Sono 14 anni che il paese è in sofferenza, ovvero da quando è nell’Eurozona, che «ha messo in moto una dinamica molto distruttiva per le particolari condizioni dell’Italia». Ed è altrettanto chiaro che ora l’Uem «impedisce al paese di uscire dalla trappola». Ci dimentichiamo, aggiunge Pritchard, che l’Italia registrava abitualmente un surplus commerciale nei confronti della Germania, prima dell’euro: «Le industrie italiane del nord erano viste come concorrenti formidabili, quando la lira era debole». Antonio Guglielmi, di Mediobanca, dice che l’Italia “teneva” benissimo, prima di agganciare la lira al marco nel 1996. Solo allora è entrata in una «spirale negativa della produttività».In un rapporto che è una condanna, Guglielmi mostra come negli ultimi 40 anni la crescita della produttività e della competitività in Italia abbia vacillato ogni volta che la valuta nazionale è stata agganciata a quella tedesca, mentre si è ripresa dopo ogni svalutazione. Ennesima conferma dell’avvertimento lanciato da storici e antropologi: economie profondamente differenti non avrebbero mai potuto convergere felicemente nell’Eurozona. E ora siamo arrivati al capolinea: «L’Italia è sopravvalutata del 30% rispetto alla Germania e non può recuperare attraverso la deflazione, in quanto la stessa Germania è vicina alla deflazione». Le élite dellìunità monetaria, aggiunge Pritchard, esortano l’Italia a “fare le riforme”, «un termine che viene buttato là liberamente». Tutte storie: «Le metriche del mercato del lavoro per la Germania e l’Italia non sembrano così diverse», precisa Modi, già direttore del Fmi a Berlino. «Non è più facile assumere e licenziare in Germania». Il problema, semmai, è la mancanza in investimento in capitale umano, denuncia il professor Giuseppe Ragusa, della Luiss “Guido Carli” di Roma: «Ciò che veramente colpisce è quanto siamo indietro nell’istruzione».I dati dell’Ocse mostrano che l’Italia spende solo il 4,7% del Pil per l’istruzione, rispetto al 6.3% di tutta l’Ocse. La quota di giovani che hanno completato gli studi superiori è del 21%, rispetto ad una media del 39%. Gli insegnanti sono pagati una miseria. «Questo è davvero un grosso problema strutturale, ma non può essere risolto dalle “riforme”, figuriamoci dall’austerità». Ciò di cui l’Italia ha davvero bisogno, dice Pritchard, è di «un New Deal, un massiccio investimento in infrastrutture e competenze, sostenuto da uno stimolo monetario per sollevare il paese dalla sua soffocante tristezza cosmica». Renzi? «Deve ormai aver capito che questo non può essere fatto sotto l’attuale regime dell’Uem». Improvvisamente, il premier italiano «si ritrova nella stessa situazione terribile di François Hollande in Francia: etrambi si ritrovano con il cappio al collo». La differenza «è che Hollande è oltre ogni possibilità di salvarsi», perché «il regime depressivo dell’Uem ha distrutto la sua presidenza». “Le Figaro” sta pubblicando una fiction estiva in cui si esplora la possibilità di dimissioni anticipate. Renzi invece «non ha ancora bruciato il suo capitale politico, ed è un giocatore d’azzardo per natura», scrive Pritchard.Attenzione: «Non c’è più alcuna possibilità che Italia e Francia conducano una rivolta dei paesi latini, mettendo insieme una maggioranza in seno al Consiglio Europeo e alla Banca Centrale per imporre una strategia di rilancio a livello dell’Uem che cambi completamente il panorama economico». Con l’adesione alla Germania a tutti i costi, «la forza politica di Hollande è bruciata». E gli spagnoli pensano – sbagliando – di essere fuori dal guado, e di non avere bisogno di un “patto del Sud” con Italia e Francia. Così, «Renzi è solo». E si trova davanti una Bce «che ha sostanzialmente violato il suo contratto con l’Italia, lasciando cadere l’inflazione a 0,4% sapendo che questo avrebbe fatto andare in metastasi la crisi italiana». Poi c’è Juncker, a capo di una Commissione «che promette di attuare le stesse disastrose politiche economiche che si sono già dimostrate rovinose». In altre parole, «non vi è alcuno spazio di negoziazione», perché le istituzioni di Bruxelles non ammettono le loro responsabili nella catastrofe: «Sostenendo solo la volontà dei creditori, hanno messo a terra l’unione monetaria: non hanno più alcuna legittimità».«L’Italia deve badare a se stessa», conclude Pritchard. «Si può riprendere solo se si libera dalla trappola Uem, riprende il controllo dei suoi strumenti di politica economica e ridenomina i suoi debiti in lire, con controlli dei capitali fino a quando le acque si calmano». Missione tutt’altro che impossibile, precisa l’economista inglese: «L’Italia non si troverebbe ad affrontare una crisi immediata di finanziamento, dal momento che ha un avanzo primario di bilancio». La sua posizione patrimoniale netta sull’estero, inoltre, è al -32% del Pil, a fronte di un -92% della Spagna e -100% del Portogallo. «Il paese non soffre di eccesso di debito da un punto di vista fondamentale», dal momento che il debito ipotecario è molto basso, e che il debito aggregato (pubblico e privato) è circa il 270% del Pil, cioè «molto inferiore a quello di Francia, Gran Bretagna, Spagna, Giappone, Stati Uniti, Svezia e Paesi Bassi».Non c’è un modo “facile” di uscire dall’euro, perché «le strutture a incastro dell’unione monetaria sono andate ben oltre un aggancio di cambio fisso», e inoltre «gli interessi costituiti», quelli che hanno trasformato l’Eurozona in una sorta di lager economico cronicamente depresso, «sono potenti e spietati». Eppure non è impossibile, insiste Pritchard, secondo cui «la faccenda sicuramente precipiterà quando la traiettoria del debito italiano entrerà nella zona di pericolo». A quel punto, tutto sarà chiaro: restare nell’euro sarà il suicidio, uscirne sarà obbligatorio. Di fronte a una crisi molto forte, in autunno, «potrebbe non essere così evidente che il paese vuole essere salvato alle condizioni europee». Quindi, «Renzi può giustamente concludere che l’unico modo possibile per adempiere al suo compito», il famoso “Rinascimento” per l’Italia, «è quello di scommettere tutto sulla lira».Eugenio Scalfari, fondatore di “Repubblica” e leader dell’establishment pro-euro, propone a Renzi di sacrificare l’Italia (cioè gli italiani) per salvare la moneta unica? Il premier non gli dia retta e faccia esattamente il contrario: salvi l’Italia e lasci affondare l’euro. Come? Tornando alla lira, e di corsa, scrive il prestigioso giornalista economico inglese Ambrose Evans-Pritchard. In fondo, osserva, Renzi era ancora minorenne all’epoca del “peccato originale”, lo sciagurato Trattato di Maastricht. Finora ha sbagliato tutto: prima ha promesso di contrastare l’austerity Ue, poi si è sottomesso a Bruxelles confidando nei suoi cattivi consiglieri, che parlavano di ripresa imminente. Ora ci siamo: l’Italia sta crollando e il debito pubblico rischia di arrivare al 150% del Pil, con l’incubo di tagli miliardari in autunno o, peggio, l’arrivo della Troika. Renzi, dice Pritchard, è ancora in tempo: può salvare l’Italia, uscendo dall’euro. Possibile: perché i conti dell’Italia – quelli veri – sono meno peggio di quelli di tanti altri paesi, inclusi Francia, Gran Bretagna, Giappone, Olanda e Stati Uniti.