Archivio del Tag ‘Ronald Reagan’
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Magaldi: il supermassone Macron è un bambino nato morto
«Se avesse vinto Marine Le Pen, forse il ripensamento sull’Europa sarebbe stato più rapido. Così invece, per scuotersi, bisognerà soffrire la continuazione della stagnazione, per la Francia e per l’Europa. Vale quello che dissi tanti anni fa per Berlusconi: lasciatelo governare, e si capirà che è un cattivo statista». Gioele Magaldi non ha dubbi: Emmanuel Macron riuscirà nella “missione impossibile” di far rimpiangere addirittura Hollande, passato alla storia come il meno stimato di tutti i presidenti francesi: «Macron è il prodotto “surgelato”, preconfezionato e perfetto per non cambiare nulla, cioè per riproporre quella stessa subalternità politica, istituzionale e sostanziale nell’adesione a un certo paradigma economico che hanno avuto Sarkozy e Hollande». Lo strano entusiasmo manifestato anche dal mainstream italiano per il neo-inquilino dell’Eliseo, paragonato a Renzi all’insegna del “nuovo”? Ma no: «Renzi e Macron sono vecchi: sono personaggi vecchi, anche se appaiono giovani grazie ai loro modi pieni di ritmo». E attenzione, non hanno un gran futuro davanti: «Così come Renzi non inganna più nessuno – la sua vittoria nel Pd è un po’ il canto del cigno – così Macron è un bambino nato morto, politicamente».All’indomani del voto francese, in collegamento con David Gramiccioli di “Colors Radio”, si esprime senza mezzi termini il massone progressista Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt e autore del bestseller “Massoni, società a responsabilità illimitata”. Emmanuel Macron, insiste Magaldi, rappresenta «la perfetta continuità rispetto a quello che è stato il mediocre Hollande», ma forse il successore «ha capacità anche minori di Hollande, che era un oscuro burocrate di partito ma almeno aveva una sua “praticaccia”: Macron invece non ha altrettanta esprienza». Già banchiere Rothschild, ha fatto il consulente e poi il ministro proprio di Hollande. In più è il pupillo del supermassone reazionario Jacques Attali. Non a caso, aggiunge Magaldi, lo stesso Macron vanta precise ascendenze massoniche, «nella Ur-Lodge “Fraternitè Verte” dove lo ha portato lo stesso Hollande, e nell’ambigua superloggia “Atlantis Aletheia”, dove hanno convissuto moderati, sedicenti progressisti e reali conservatori; un circuito che fu importante, a suo tempo, nel traghettare la dittatura dei colonnelli in Grecia verso il ritorno alla democrazia».Il suo mentore Attali? «Un raffinato massone, un intellettuale di spessore», ma che purtroppo «operando sul versante del sedicente centro-sinistra ha compartecipato alla costruzione di quest’Europa matrigna, tecnocratica e oligarchica». Un’operazioni cosmetica, quella che ha portato Macron all’Eliseo. E, nonostante i lodevoli sforzi per rendere più laica la sua piattaforma, Marine Le Pen non poteva vincere: «Con un’avversaria così, impossibilitata a diventare maggioritaria, vincerà sempre l’altro, il candidato della continuità con questa gestione pessima dell’Europa». Magaldi poi sorride, di fronte a «tutta questa empatia sbandierata da Gentiloni e Renzi per Macron», e spiega: «Sarebbe come esultare se in Germania vincesse Schulz sulla Merkel – due che sono come i ladri di Pisa, litigano di giorno ma poi, la notte, vanno a rubare insieme». Stessi programmi, identico paradigma per l’Europa. «Macron riprodurrà quello stile renziano, fatto di velleitari distinguo rispetto all’austerity, apparenti “abbaiamenti” per chiedere lo 0,1% in più di spesa pubblica. E Macron non avrà nemmeno bisogno di abbaiare molto, perché alla Francia è stato sempre concesso tutto: in questa gestione dell’Europa, alla Francia la mancia è sempre stata assicurata, senza che nemmeno la chiedesse».Completamente da bocciare, quindi, ogni investimento di credito nei confronti di Macron. Se non altro, «il nuovo quinquennio servirà a smascherare definitivamente tutti questi impostori, che prendono sul serio l’idea renziana-macroniana dei piccoli aggiustamenti, riverniciata di gioventù e ottimismo, come se i piccoli aggiustamenti bastassero davvero a correggere il percorso europeo». Per Magaldi, in questa Europa, «il dramma è che al vertice di governi e istituzioni ci sono solo dei pesci lessi, che stanno lì e amministrano un copione scritto da altri, e lo fanno in modo grigio». Che fare? «Più che indignarsi, c’è da rimboccarsi le maniche e costruire coalizioni realmente progressiste, sia in Francia che in Italia che altrove, uscendo da questa ormai insopportabile narrazione “destra, centro, sinistra” che ha perso di senso, mentre ha sempre più senso la divaricazione tra chi vuole conservare l’attuale paradigma politico-economico e chi vuole progredire su un’altra via».Di una cosa, Magaldi è assolutamente certo: Renzi e Macron «vengono entrambi da una tarda interpretazione della cosiddetta “terza via” enunciata a suo tempo da Anthony Giddens», il sociologo che ispirò Bill Clinton e Tony Blair negli anni ‘90. Ovvero: «L’idea che la sinistra – laburista, democratica, post-socialista – nel nuovo millennio non dovesse proporre paradigmi alternativi a quello del neoliberismo ormai imperante, da Thathcher e Reagan in poi, con tutto il lavorio supermassonico di corredo». Quella sinistra doveva azzerare i diritti, e l’ha fatto: rigore nei bilanci pubblici, svalutazione della sfera pubblica, deregulation senza contrappesi. «Alla sinistra spettava il ruolo di dare una spruzzata di benevolenza sociale e di solidarietà più sbandierata che praticata. Quindi: smantellamento sistematico del welfare system, e una serie di iniziative economico-finanziarie non troppo dissimili da quelle predicate, con più asprezza, dai teorici fanatici del neoliberismo». Questa è stata la “terza via”. «E chi oggi in Italia contesta Renzi da posizioni di “sedicente sinistra”? Massimo D’Alema, che da presidente del Consiglio è stato uno degli interpreti “all’amatriciana” di quella strada. Così è stato Bersani, che oggi si presenta come contestatore. E così è Renzi, a distanza di vent’anni».«Se avesse vinto Marine Le Pen, forse il ripensamento sull’Europa sarebbe stato più rapido. Così invece, per scuotersi, bisognerà soffrire la continuazione della stagnazione, per la Francia e per l’Europa. Vale quello che dissi tanti anni fa per Berlusconi: lasciatelo governare, e si capirà che è un cattivo statista». Gioele Magaldi non ha dubbi: Emmanuel Macron riuscirà nella “missione impossibile” di far rimpiangere addirittura Hollande, passato alla storia come il meno stimato di tutti i presidenti francesi: «Macron è il prodotto “surgelato”, preconfezionato e perfetto per non cambiare nulla, cioè per riproporre quella stessa subalternità politica, istituzionale e sostanziale nell’adesione a un certo paradigma economico che hanno avuto Sarkozy e Hollande». Lo strano entusiasmo manifestato anche dal mainstream italiano per il neo-inquilino dell’Eliseo, paragonato a Renzi all’insegna del “nuovo”? Ma no: «Renzi e Macron sono vecchi: sono personaggi vecchi, anche se appaiono giovani grazie ai loro modi pieni di ritmo». E attenzione, non hanno un gran futuro davanti: «Così come Renzi non inganna più nessuno – la sua vittoria nel Pd è un po’ il canto del cigno – così Macron è un bambino nato morto, politicamente».
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Hanno mangiato la brioche: Macron, capolavoro del potere
Oggi sono tutti contenti che Macron sia riuscito a sconfiggere il fascismo. Non è stato da meno di Reagan, Thatcher, Sarkozy, Merkel, Hollande, i Chicago boys e Pinochet i quali di volta in volta hanno salvato il popolo dalle insidie dell’“estrema sinistra”, del “populismo” del “castro-chavismo”, del “sovranismo”, del comunismo. Ora i francesi hanno la loro brioche e dunque potranno continuare la guerra in Siria, aiutare i nazisti ucraini, continuare a fare stragi in Africa per sostenere dittature tribali, non mettere mai più in dubbio la Nato, ma soprattutto potranno finalmente lasciarsi alle spalle gli obsoleti diritti del lavoro. Ben presto ci si accorgerà che in Francia ha vinto comunque la destra e dopo le legislative di giugno, Macron mostrerà il suo vero volto facendo scoprire che la sostanza marroncina con la quale è farcita la brioche non è precisamente crema al cioccolato. Del resto cosa ci si può attendere da uno la cui candidatura al potere è stata di fatto avanzata dal seguace dell’eugenetica Jacques Attali, a una riunione di Bilderberg nel 2014?E cosa ci si può aspettare da corpi elettorali sistematicamente frastornati da un’informazione divenuta cane da guardia del gregge e sempre più composti dalle generazioni perdute, rassegnate alla precarietà, votate al dilettantismo e orgogliose di “spiccicare” in inglese per poter imitare modelli di subordinazione e di primitivismo antropologico? Cosa ci si può attendere da giovani di apparente sinistra che affermano di aver dovuto scegliere tra fascismo e capitalismo? Nemmeno si accorgono che i capitalisti hanno scelto per loro fin dall’inizio, che hanno creato le condizioni per una dicotomia così ridicola tra una signora di provincia piuttosto confusa e dunque anche erratica sui temi della campagna e un giovanotto ricco, arrogante e del tutto irrilevante sul piano della politica e dell’intelligenza. Li hanno messi nel recinto lasciando che fossero loro stessi a chiuderlo; il vecchio fascismo è usato da quello nuovo come un’arma per la lotta di classe.Per quanta generosità e per quanta abilità possano avere i dirigenti che vengono da un altro mondo come Mélenchon, cosa possono mai fare con questa creta antropologica creata dal neoliberismo? E’ come se Michelangelo dovesse creare la Pietà col pongo e dipingere la Sistina con le bombolette. Infatti chi non voleva scegliere il capitalismo poteva astenersi invece di andare a fornire il proprio contributo, negare quanto meno il consenso, relativizzando la vittoria di Macron. E di certo non si ci saranno difficoltà per la potente macchina mediatica a riproporre lo stesso rozzo schema dicotomico alle legislative tra poco più di un mese. Sarà ancora capitalismo contro fascismo, democrazia contro comunismo, crescita contro i fantasmi di recessione annunciata, sicurezza contro libertà (magari con qualche sollecitato apporto del Califfo), il giovane presidente contro il vecchio Parlamento anche se a Macron non dovrebbe poi dispiacere: insomma la caricatura della dialettica, quella che è stata così efficace specie dopo il crollo del comunismo e il contemporaneo crollo della cultura politica.Mélenchon, il leader della sinistra, aveva rifiutato di cadere in questo semplicistico tranello, evitando la logica del meno peggio nella speranza di poter mettere un argine ai poteri finanziari almeno alle legislative, condizionando l’Eliseo, ma dai risultati che vediamo, dalla demonizzazione e dal ricatto che è stato esercitato su di lui e dalla esiguità della pattuglia dei non macronisti per necessità, si può legittimamente dare per fallito anche questo progetto. C’è chi pensa che questa situazione di impotenza porterà a una serie di secessioni interne nella sinistra, tra Francia periferica e Francia metropolitana, tra Francia repubblicana e Francia mussulmana, tra Francia operaia e Francia borghese, insomma a una decostruzione del paese. Ma questo è per l’appunto l’obiettivo del capitale globale: fare in modo che vi sia meno società collettiva possibile per potere dominare meglio: più un paese è spaccato all’interno, meglio è, nonostante i problemi che questo può creare. Quindi è vero che Macron all’Eliseo finirà per radicalizzare la battaglia politica, ma nel contesto attuale questo non potrà che portare acqua al mulino dei suoi burattinai.(“Hanno mangiato la brioche”, dal blog “Il Simplicissimus” dell’8 maggio 2017).Oggi sono tutti contenti che Macron sia riuscito a sconfiggere il fascismo. Non è stato da meno di Reagan, Thatcher, Sarkozy, Merkel, Hollande, i Chicago boys e Pinochet i quali di volta in volta hanno salvato il popolo dalle insidie dell’“estrema sinistra”, del “populismo” del “castro-chavismo”, del “sovranismo”, del comunismo. Ora i francesi hanno la loro brioche e dunque potranno continuare la guerra in Siria, aiutare i nazisti ucraini, continuare a fare stragi in Africa per sostenere dittature tribali, non mettere mai più in dubbio la Nato, ma soprattutto potranno finalmente lasciarsi alle spalle gli obsoleti diritti del lavoro. Ben presto ci si accorgerà che in Francia ha vinto comunque la destra e dopo le legislative di giugno, Macron mostrerà il suo vero volto facendo scoprire che la sostanza marroncina con la quale è farcita la brioche non è precisamente crema al cioccolato. Del resto cosa ci si può attendere da uno la cui candidatura al potere è stata di fatto avanzata dal seguace dell’eugenetica Jacques Attali, a una riunione di Bilderberg nel 2014?
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Carpeoro: ucciso il socialismo, era l’antidoto all’orrore Ue
Hanno ucciso Olof Palme, il migliore dei leader, per assassinare il socialismo in Europa, intimidire e poi togliere di mezzo personaggi come Schmidt e Mitterrand (e volendo, lo stesso Craxi). Obiettivo: far stravincere l’oligarchia finanziaria e mettere in piedi l’attuale obbrobrio chiamato Unione Europea. Faceva paura, il premier svedese? Eccome: acerrimo avversario di ogni totalitarismo, in Svezia aveva varato un’economia mista, con quote di controllo allo Stato, nelle aziende, e quote di partecipazione assegnate ai lavoratori. Pragmatismo, coraggio. E soprattutto idee: «E’ di quelle che ha paura, il potere. Per questo ha trasformato la parola “ideologia” in una specie di insulto. Ma l’ideologia è il futuro, il progetto. E senza idee, non puoi fare nessun progetto». Parola di Gianfranco Carpeoro, simbologo e romanziere, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, intervenuto in un recente convegno a Roma. L’occasione per una riflessione anche storica sull’eredità del socialismo: se la nostra società occidentale è ridotta così, alla solitudine dell’homo homini lupus, è perché è stato scientificamente, chirurgicamente asportato il virus benefico del socialismo. Anche con il terrorismo, e non da oggi.Alla tragedia del leader socialdemocratico svedese, ucciso a Stoccolma nel 1986 da un killer mai identificato, Carpeoro ha dedicato lunghe pagine del suo lavoro sui legami occulti tra massoneria, servizi segreti e terroristi (il sistema della “sovragestione”). Ed è tornato sul tema a margine del simposio “Le forme della democrazia”, promosso dal Movimento Roosevelt, fondato da Gioele Magaldi. Cos’è stato, il socialismo? Cos’è oggi, e cosa potrebbe essere domani? «Non è stato un pensiero statico, ha avuto un’evoluzione storica, politica», e ora è stato letteralmente rimosso. «Da dov’era partito, il socialismo? Da molto lontano», esordisce Carpeoro: da un periodo di grande riflessione spirituale. «Senza scomodare i Rosacroce», già nel ‘600 si trovano svariate opere proto-socialiste: “Utopia” di Tommaso Moro, “La città del sole” di Tommaso Campanella, “La nuova Atlantide” di Francesco Bacone. Fino ad arrivare a opere meno conosciute, come quelle di Johann Valentin Andreae, presunto autore dei manifesti rosacrociani dell’epoca, che chiude la sua esistenza scrivendo “Christianopolis”, dove racconta il naufragio in un’isola (Caphar Salama) che viene governata in maniera socialista.«Perché la chiamo socialista? Perché una serie di capisaldi di queste opere caratterizzeranno la fase che Marx, con intento quasi spregiatorio, chiamerà “socialismo utopistico”». Ma la parola “utopia”, ricorda Carpeoro, non esisteva nemmeno, prima di Tommaso Moro. «L’ha inventata lui. E’ un neologismo di origine greca, significa “non luogo”. Lo stesso Marx, dunque, citando il “socialismo utopistico”, si richiama a Tommaso Moro». E come nasce, il socialismo utopistico? Ha varie declinazioni: è anarchica quella di Pierre-Joseph Proudhon, quasi mistica quella di Henri de Saint-Simon. Ci sono interpretazioni più pragmatiche, e c’è una declinazione, «forse la più illuminata», che è quella di Auguste Blanqui. «Ma in tutte queste declinazioni ci sono i capisaldi di quello che, secondo gli utopisti del ‘600, doveva essere lo Stato perfetto, la comunità perfetta, con l’abolizione della proprietà privata». In sostanza, «si cominciava a riconoscere il diritto delle persone a vivere secondo dignità e aspettative». Perché questi diritti vengano finalmente riconosciuti in modo istituzionale ci vorrà Eleanor Roosevelt, con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo alle Nazioni Unite nel 1948. «Ma queste idee erano state in qualche modo anticipate già quattro secoli prima». Giustizia e libertà. Tradotto: una società che riconosca il giusto a ognuno, dando a ciascuno la possibilità di scegliere. «Sembra una cosa semplice, no? Eppure, noi ancora non l’abbiamo creata, una società così».Nella sua storia, aggiunge Carpeoro, il movimento socialista si è continuamente frammentato. Lo dimostra la stessa storia del Psi italiano, fondato a Genova nel 1892 da Filippo Turati, «che sarà forse il socialista più coerente», fedele all’impostazione iniziale del progetto ottocentesco, rivoluzionario. Obiettivo: la “guerra” alla società classista del sistema capitalistico, che sottomette e sfrutta contadini e operai. Due mosse: prima la rivoluzione, per abbattere il sistema padronale, e poi l’abolizione delle classi sociali. Come? “Socializzando” i mezzi di produzione, l’economia, le industrie, e distribuendo le terre ai contadini. Poi irrompe Marx, che «istituzionalizza questa sorta di diagnosi», e pensa a come realizzare il disegno rivoluzionario e la fase successiva. «Marx chiama tutto questo “socialismo scientifico”, da contrapporre a quello che lui, disprezzandolo un po’, chiamava “socialismo utopistico”». Ma l’obiettivo, aggiunge Carpeoro, non era forse arrivare comunque all’utopia? «L’eliminazione delle classi cos’è, se non la realizzazione di “Utopia”, della “Nuova Atlantide”, della “Città del Sole”?». In ogni caso, poteva il “fiume” socialista restare interamente ancorato a questo schema? No, ovviamente. E così cominciano le divisioni.«La prima scissione, nel mondo socialista, è quella degli anarchici», ricorda Carpeoro. «Per loro non esiste la fase intermedia, si annulla tutto: nella loro visione, la dissoluzione dello Stato capitalistico è una fase contestuale all’impulso rivoluzionario». Poco dopo, vanno per la loro strada anche i comunisti: «Hanno una visione schematica, per la quale bisogna arrivare con quei passaggi, alla soluzione», che è sempre rivoluzionaria. Rimane il nucleo socialista, che – in Italia come in Europa – si divide a sua volta: nascono i “riformisti”, che restano anti-capitalisti e combattono per la giustizia sociale, ma rinunciano alla rivoluzione come mezzo per ottenerla. Poi ci sono quelli che, successivamente, si chiameranno “socialdemocratici”, come Leonida Bissolati, «i quali aboliscono anche il passaggio finale, l’abbattimento del capitalismo», e quando poi si radicheranno anche nel Pci prenderanno il nome di “miglioristi”. Secondo loro è irrealistica la rinuncia al sistema liberale. Semmai, il capitalismo va corretto con continue migliorie, per guarirne le distorsioni. Nell’800 c’era stato anche il filone dei “socialisti libertari”, che «declineranno il socialismo esclusivamente all’interno dei diritti civili e delle libertà, senza più occuparsi di strategie di governo».Il socialismo libertario, spiega Carperoro, era ciò che era rimasto di un’ulteriore scissione, quella di Mazzini: litigando con Garibaldi, l’ideologo del Risorgimento si era portato via «quel nucleo che poi diventerà l’area laica», repubblicani e Partito d’Azione). Ma, superata la tragedia della Prima Guerra Mondiale – intervisti, neutralisti – e poi il blackout planetario del nazifascismo, nel dopoguerra «dagli anni ‘70 in poi, l’unica direttiva che lentamente si afferma, nel socialismo, è quella socialdemocratica», alimentata anche dalla guerra fredda: nel fatidico 1956 il leader sovietico Khrushev alimenta grandi speranze con la denuncia dei crimini di Stalin, ma nello stesso anno non riesce a evitare la sanguinosa repressione della rivolta popolare scoppiata in Unghieria, replicata nel ‘68 con il soffocamento della “Primavera di Praga”. «In realtà – prosegue Carpeoro – si avvia quella che nel ‘70 si chiamerà “terza via”, cioè la possibilità di trovare una composizione della società, correggendone le deviazioni, verso una maggiore giustizia sociale: cosa che la socialdemocrazia europea considerava assolutamente irrinunciabile».E questa linea, particolarmente efficace perché moderata nelle forme quanto incisiva nei contenuti, «trova un eroe assolutamente straordinario», anche se è «un personaggio di cui non parla mai nessuno». Straordinario «da tutti i punti di vista (anche dal mio, perché era massone come me)», ammette Carpeoro, parlando di Olof Palme. «E’ stato uno dei personaggi più fulgidi del ‘900. Vi invito a leggere i suoi scritti, e soprattutto a rimetterlo sulle bandiere». Il leader svedese, intanto, «è la prima vittima di una congiura contro il socialismo». Attenzione: «Nell’arco di vent’anni, i grandi leader socialisti europei vengono tutti cancellati, in circostanze ambigue. Olof Palme viene ucciso mentre è presidente del Consiglio, in Svezia. E non è che ne sia parlato molto in Europa. Ancora oggi si parla di Che Guevara, non di Olof Palme. Ma è un eroe». E viene ucciso da killer rispetto ai quali «emergono connessioni con ambienti dell’estrema destra e anche, purtroppo, della massoneria: in un telegramma piuttosto equivoco, alla vigilia dell’attentato, Licio Gelli scrive a un parlamentare americano, Philip Guarino, che nel giro di pochi giorni “la palma svedese” sarebbe “caduta”, come la Svezia pullulasse di palme».Lo stesso Craxi, ricorda Carperoro, vinse lo storico congresso del Psi al Midas, da cui nacque la sua leadership, «con un programma che al 50% era quello di Olof Palme, che era il padre nobile di tutti questi socialisti europei». Poi ovviamente «ognuno è libero di considerare i seguaci degni o non degni, ma resta il fatto che Palme aveva dato un programma socialista all’Europa». Dopo il drammatico “avvertimento” rappresentato dall’omicidio di Stoccolma, nessuno dei seguaci di Palme gli sopravviverà – politicamente, quantomeno. «Craxi, in circostanze che non riesco a considerare nitide (e con tutti i suoi errori, certo) viene comunque rimosso dalla vita politica italiana. Poi viene rimosso Mitterrand, in Francia. E viene rimosso Schmidt in Germania, con uno scandaletto. E pensate che, dopo tutte queste concatenazioni nel giro di pochi anni, poi la si faccia casualmente, l’Europa unita, nel modo in cui è stata fatta?». Per Carpeoro, c’è poco da cianciare di complottismo: «Sono stati eliminati i vertici di un movimento politico che aveva un capofila importante».Palme, già attivissimo come leader del suo partito, ha poi svolto due mandati come presidente del Consiglio, in Svezia, «e il secondo l’ha fatto coram populo». Disse: «Io non sono contro il capitalismo, voglio solo tagliargli le unghie ogni tanto». E’ questo il ruolo del socialismo, sottolinea Carpeoro: «Per questo il socialismo è necessario, è indispensabile a questa società. Anche perché, senza socialismo (come, del resto, senza liberismo) questa società non può camminare. Deve avere due ruote, un polo conservatore e un polo progressista. E possibilmente, questi due poli devono essere talmente di qualità che il fatto che si possano alternare al potere deve dipendere solo dalle condizioni del momento». Il liberismo sfrenato? «Non ha fatto male, all’America, appena è stato introdotto da Reagan. Poi però ci si doveva fermare. Se qualcuno ti progetta un regime oligarchico ultraliberista e senza regole per vent’anni, ti vuoi meravigliare se poi il risultato sono le banche che saltano, i soldi che non viaggiano, l’economia che non gira? E’ una forma di staticità della società, e la società non può essere statica».Di fronte alla drastica possibilità di nazionalizzare le aziende, Olof Palme adottò una soluzione intermedia, ispirata alla teoria dell’economista Rudolf Meidner: una quota ai lavoratori, una quota di controllo allo Stato e una quota al privato. «Non per tutto: solo per le aziende in difficoltà. E ha funzionato, in Svezia. Il problema è che poi Palme l’hanno ammazzato». E in Italia? «Se avessero adottato lo schema Meidner, anche da noi, forse molte aziende in difficoltà sarebbero sopravvissute, e i sacrifici richiesti alle nostre maestranze sarebbero stati vissuti in maniera diversa». Non c’è bisogno di tornare all’antico, all’assistenzialismo dell’Iri, basterebbe la leva dei benefici fiscali, alla portata di uno Stato che possedesse quote di aziende. Perché nonè successo? «Perché noi non abbiamo avuto il coraggio di fare quello che Palme ha osato fare, in Svezia, dal ‘69 in poi». Rimettere mano, oggi, alla “contaminazione” socialista? Assolutamente sì, come stimolo ideologico: «Progetto e ideologia sono la stessa cosa: non puoi fare un progetto se non hai un’ideologia. E l’aver trasformato l’ideologia in un insulto è la riprova che a questo sistema, le cose che hanno idee, fanno paura. Il potere le teme, vuole cose senza idee. Vogliono un encefalogramma piatto come quello di Renzi, dove non ci sono onde».Hanno ucciso Olof Palme, il migliore dei leader, per assassinare il socialismo in Europa, intimidire e poi togliere di mezzo personaggi come Schmidt e Mitterrand (e volendo, lo stesso Craxi). Obiettivo: far stravincere l’oligarchia finanziaria e mettere in piedi l’attuale obbrobrio chiamato Unione Europea. Faceva paura, il premier svedese? Eccome: acerrimo avversario di ogni totalitarismo, in Svezia aveva varato un’economia mista, con quote di controllo allo Stato, nelle aziende, e quote di partecipazione assegnate ai lavoratori. Pragmatismo, coraggio. E soprattutto idee: «E’ di quelle che ha paura, il potere. Per questo ha trasformato la parola “ideologia” in una specie di insulto. Ma l’ideologia è il futuro, il progetto. E senza idee, non puoi fare nessun progetto». Parola di Gianfranco Carpeoro, simbologo e romanziere, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, intervenuto in un recente convegno a Roma. L’occasione per una riflessione anche storica sull’eredità del socialismo: se la nostra società occidentale è ridotta così, alla solitudine dell’homo homini lupus, è perché è stato scientificamente, chirurgicamente asportato il virus benefico del socialismo. Anche con il terrorismo, e non da oggi.
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Craig Roberts: Putin si difenderà usando la bomba atomica
Fine del film: la Russia, insieme alla Cina, si sta preparando a subire un attacco nucleare da parte degli Usa. E non starà certo a guardare. E’ la conclusione cui giunge un allarmatissimo Paul Craig Roberts, di fronte all’escalation in atto: i missili sulla Siria, le minacce a Mosca e quelle rivolte alla Corea del Nord. «I dirigenti russi, che a differenza dei bugiardi occidentali dicono la verità, hanno dichiarato in modo chiaro che la Russia non combatterà più una guerra nel proprio territorio», scrive Craig Roberts. «I russi non potevano specificarlo più chiaramente: provocate una guerra, dicono, e vi distruggiamo nel vostro territorio». Aggiunge l’ex viceministro di Reagan: «Washington è così arrogante e perduta nella sua hybris, da non capire che anni di bugie cristalline sulle intenzioni e azioni della Russia e dei russi hanno convinto la Russia che Washington stia preparando le popolazioni degli Stati Uniti e dei popoli prigionieri di Washington, nell’Europa dell’Ovest e dell’Est, nonché in Canada, Australia e Giappone, a un primo colpo nucleare Usa contro la Russia». Bombe atomiche: «C’è l’Arnageddon nucleare all’orizzonte?».I già pubblicati piani di guerra degli Stati Uniti contro Pechino «hanno convinto la Cina della stessa cosa», scrive Craig Roberts sul suo blog, in un post tradotto da Pino Cabras per “Megachip”. «Se non è per la guerra, a che altro s’indirizza il cambiamento della dottrina di guerra negli Stati Uniti?». George W. Bush, ricorda l’analista americano, aveva abbandonato il ruolo “stabilizzatore” delle armi nucleari – l’equilibrio missilistico della deterrenza incrociata – per «spostarle da una funzione di rappresaglia a quella di un “primo attacco” nucleare». La nota teoria del “first strike”, un colpo missilistico a sorpresa. Poi, sempre Bush junior «si è tirato fuori dal trattato anti-missili balistici stipulato dal presidente Richard Nixon». Così, ora, «abbiamo siti missilistici Usa posizionati lungo i confini della Russia». In più, «raccontiamo ai russi la menzogna che i missili sono intesi a prevenire un attacco nucleare iraniano con missili balistici intercontinentali (Icbm) contro l’Europa». E questa menzogna, coninua Craig Roberts, «è raccontata e accettata dai burattini in Europa, nonostante il fatto, ben noto e incontestabile, che l’Iran non possieda né armi nucleari né Icbm». Ma i russi non lo accettano: «Sanno che è un’altra menzogna di Washington».Così, «quando la Russia ascolta queste flagranti, palesi, evidenti bugie, sa che Washington intende un attacco nucleare preventivo contro la Russia», scrive Craig Roberts. «La Cina ha raggiunto le stesse conclusioni». Quindi, ecco la situazione: «Due paesi con forze nucleari si aspettano che i pazzi furiosi che governano l’Occidente stiano per attaccarli con le armi nucleari». E cosa stanno facendo, Russia e Cina? «Si stanno preparando per distruggere il malefico Occidente, un assortimento di bugiardi e criminali di guerra, di cui il mondo non ne ha mai sperimentato di simili in precedenza». E sono gli Stati Uniti, cioè la “superpotenza” che «dopo 16 anni è ancora incapace di sconfiggere poche migliaia di Taliban armati di armi leggere in Afghanistan», a rischiare grosso. «Putin ha dimostrato straordinaria pazienza, riguardo alle menzogne e provocazioni di Washington». Ma, avverte Craig Roberts, il capo del Cremlino «non può rischiare la Russia fidandosi di Washington, di cui nessuno può fidarsi: né il popolo americano, né il popolo russo, né popolo alcuno». Allarme rosso, dunque, visto che i media mainstream – che Roberts chiama “presstitutes”, stampa prostituita al potere – sono tutti saltati «sul carro della propaganda dello Stato Profondo», insieme alla “sinistra” liberal-progressista, anch’essa «complice della marcia verso l’Armageddon».Perfettamente inutile aspettarsi qualche segnale positivo da parte di Donald Trump, che spedisce a Mosca il segretario di Stato, Rex Tillerson, con la faccia tosta di accusare la Russia dopo aver architettato l’attacco coi gas, in Siria, allo scopo di strappare Damasco alla tutela dei russi, vincitori sull’Isis armato dall’Occidente. «Un nuovo folle alla Casa Bianca ha sostituito il vecchio folle», conclude Craig Roberts. «Neanche 100 giorni in carica, e Trump è già un criminale di guerra insieme al resto del suo governo guerrafondaio». Stephen Cohen, «uno dei pochi americani rimasti informati sulla Russia», ha detto che Mosca si sta «preparando alla guerra calda», temendo che «i pazzi di Washington» intendano colpirla per primi con la bomba atomica. Insiste Craig Roberts: Russia e Cina spareranno i loro missili un minuto prima. E sarà la catastrofe. Pericolo massimo, anche e soprattutto perché nessuno ne parla. «Quando osservate il presidente e il governo a Washington, i governi europei (specie gli idioti a Londra), i governi canadese e australiano, potete solo meravigliarvi della totale stupidità della “leadership occidentale”. Stanno implorando la fine del mondo. E i puttanoni del giornalismo lavorano alacremente per trascinarci alla fine della vita». Craig Roberts è preoccupatissimo: «E’ in preparazione la scomparsa di enormi masse, tra i popoli occidentali. Ma non arrivano ad accorgersene, essendo protette dalla loro spensieratezza».Fine del film: la Russia, insieme alla Cina, si sta preparando a subire un attacco nucleare da parte degli Usa. E non starà certo a guardare. E’ la conclusione cui giunge un allarmatissimo Paul Craig Roberts, di fronte all’escalation in atto: i missili sulla Siria, le minacce a Mosca e quelle rivolte alla Corea del Nord. «I dirigenti russi, che a differenza dei bugiardi occidentali dicono la verità, hanno dichiarato in modo chiaro che la Russia non combatterà più una guerra nel proprio territorio», scrive Craig Roberts. «I russi non potevano specificarlo più chiaramente: provocate una guerra, dicono, e vi distruggiamo nel vostro territorio». Aggiunge l’ex viceministro di Reagan: «Washington è così arrogante e perduta nella sua hybris, da non capire che anni di bugie cristalline sulle intenzioni e azioni della Russia e dei russi hanno convinto la Russia che Washington stia preparando le popolazioni degli Stati Uniti e dei popoli prigionieri di Washington, nell’Europa dell’Ovest e dell’Est, nonché in Canada, Australia e Giappone, a un primo colpo nucleare Usa contro la Russia». Bombe atomiche: «C’è l’Arnageddon nucleare all’orizzonte?».
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Carpeoro: tutto resti com’è. Così l’Isis obbedisce al potere
Poteri forti? Grazie anche a cittadini deboli, sempre disposti a credere all’Uomo Nero, il nemico da odiare comodamente, cui attribuire ogni male. Nel suo saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, l’avvocato Gianfranco Carpeoro inserisce un passaggio di Francesco Saba Sardi, “L’istituzione dell’ostilità”, che chiarisce il concetto: il gioco al massacro continuerà all’infinito, fino a quando le vittime non capiranno che il nemico di turno è solo un trucco del potere. «Il politico, il massone, il mafioso, il gesuita: in Italia non ci siamo fatti mancare niente. Gelli e Sindona, Craxi, Andreotti. Caduti i quali, è cambiato qualcosa?». Ecco il punto: «Non cambiare mai niente, nella sostanza. A questo serve l’odio del nemico. E attenzione: «Il lasciare tutto com’è è esattamente l’obiettivo di questo potere, che oggi ricorre in modo sistematico al terrorismo targato Isis». Tema che Carpeoro ha affrontato in un recente convegno, in Veneto, sul dominio occulto dell’élite paramassonica. Una situazione che si annuncia molto critica ormai anche per l’Italia: «L’ultimo report dei nostri servizi segreti parla di qualcosa come 5.000 “foreign fighters” provenienti dalla Siria, via Albania: sono perfettamente addestrati e si teme invadano la penisola per attuare attentati».Per capire il neo-terrorismo, ragiona Carpeoro, basta analizzarne il movente: «Ha un progetto politico, l’Isis?». Non se ne vede traccia: il cosiddetto Califfato Islamico è una barzelletta. «Ha una base etnica, lo Stato Islamico? Neppure: all’Islam aderiscono arabi sunniti, persiani sciiti, bosniaci ariani». E inoltre: «Provengono da un retroterra di profonde sofferenze, i miliziani jihadisti “foreign fighters”». Macché: «Il più delle volte sono figli di famiglie borghesi». Sono anche loro – più che mai – terroristi, certamente. «Ma non hanno niente in comune con un certo Pietro Micca, che nel 1706 fa saltare in aria mezza Torino per opporsi all’assedio francese». Carpeoro traccia una linea rossa che, attraverso svariate geografie, collega i “terrorismi” del passato, lontano e prossimo: da Pietro Micca ai palestinesi dell’Olp, passando per l’Ira irlandese, la Raf tedesca, le Brigate Rosse. «Ovviamente non posso approvare la violenza come metodo di lotta, ma almeno in quei casi si può leggere una coerenza, una proiezione di futuro: la liberazione di territori, la lotta politica per trasformare il governo del paese. I tedeschi della Baader-Meinhof combattevano a modo loro contro il governo di Bonn, inquinato dalla presenza di ex nazisti. Gli irlandesi volevano cacciare gli inglesi dalla loro terra. Le stesse Br aspiravano a una svolta rivoluzionaria in Italia». E l’Isis? Dov’è il suo progetto?Le cose si sono completamente ribaltate, sottolinea Carpeoro, «da quando il potere è finito nelle mani di un’élite oligarchica», che oggi «ha capito che non ha più nessuna chance democratica: non potrebbe in nessun modo godere del consenso popolare, della stima dei cittadini». E allora, per ottenere la loro obbedienza, «impugna l’arma della paura, attraverso il terrorismo “false flag”, sotto falsa bandiera, cioè attribuito agli islamici in modo fraudolento, ma in realtà concepito e diretto da menti massoniche occidentali, gestito da settori dei servizi segreti e affidato a sciagurata manovalanza che si dichiara islamista, pilotata e manipolata in modo da danneggiare innanzitutto l’Islam, che con il terrorismo non c’entra niente». E’ un massone (o meglio, un super-massone) lo stesso presunto capo dell’Isis, il sedicente “califfo” Abu Bakr al-Baghdadi, fotografato in Siria in compagnia del senatore John McCain dopo esser stato improvvisamente scarcerato nel 2009 dal centro di detenzione iracheno di Camp Bucca. Dopo Osama Bin Laden, Al-Baghdadi è l’ultima reincarnazione dell’Uomo Nero, il nemico brutto e cattivo. «Che effetto fa, allora, scoprire che quel tizio è stato iniziato alla stessa superloggia in cui sedevano sia George W. Bush che il capo di Al-Qaeda, Bin Laden?».Il primo a fare il nome di quell’organizzazione-ombra (Hathor Pentalpha, si chiama) è stato Gioele Magaldi nel libro “Massoni, società a responsabilità illimitata”, pubblicato a fine 2014). Sta per uscire il “sequel”, con nuovi dettagli destinati ad aggravare ulteriormente la posizione della “loggia del sangue e della vendetta” fondata da Bush senior all’inizio degli anni ‘80, dopo la bruciante sconfitta subita da Reagan alle primarie repubblicane. Al club aderiranno l’intero gruppo neocon statunitense ma anche politici europei, come l’inglese Tony Blair (quello delle inesistenti “armi di distruzione di massa” di Saddam), il francese Nicolas Sarkozy (il killer politico di Gheddafi) e il turco Recep Tayyip Erdogan, invischiato fino al collo nell’invasione della Siria da parte dell’Isis. Ma nell’album di famiglia della “Hathor” non ci sono soltanto le peggiori menti dell’Occidente: accanto ai Bush e a Blair, a Sarkozy e a Erdogan «bisogna aggiungere prima Bin Laden, poi Al-Baghdadi». E’ indispensabile, per capire con chi abbiamo davvero a che fare: l’Uomo Nero è in azione, ma non è una scheggia impazzita come i suoi kamikaze. Sta obbedendo a ordini, a istruzioni precise, che partono dai piani più alti del potere mondiale, occidentale.Un potere che, oggi, non si fa scrupolo di sparare nel mucchio: «E’ il caso dei camion lanciati sulla folla a fare strage: un metodo semplice, economico e con pochi rischi, tranne che per l’attentatore». I terrorismi di ieri sparavano su obiettivi strategici: industriali, banchieri, politici. Oggi, invece, le vittime siamo noi. «Erano terroristi la cui azione – non approvabile, per carità – nasceva comunque da infinite sofferenze, come nel caso dei palestinesi». All’epoca dell’arresto di Renato Curcio, le stesse Br non avevano ancora ucciso nessuno: «Fu Curcio a fare fuoco, sul carabiniere che aveva ucciso sua moglie, Mara Cagol, colpendola alla schiena mentre stava scappando: può un carabiniere sparare alla schiena di qualcuno?», si domanda Carpeoro. Poi, certo, la storia del “vecchio” terrorismo è a doppio fondo, piena di infiltrazioni, in tutti sensi: terroristi “in buona fede” e terroristi “gestiti” dall’intelligence, 007 complici della strategia della tensione e agenti invece onesti, fedeli alle istituzioni. Un caos sanguinoso, infernale, con code processuali infinite, misteri irrisolti e vittime eccellenti – una su tutte, da noi: Aldo Moro.«Alla base, però, c’erano posizioni nette: da una parte una visione eversiva e rivoluzionaria, o irredentista, dall’altra lo Stato». Adesso, invece, a pilotare l’eversione è direttamente il lato oscuro del potere: non ha neppure “cavalcato” il furore dell’Isis, l’ha proprio progettato a tavolino, sfruttando la disperazione di paesi arabi a cui l’Occidente infligge sterminate sofferenze, attraverso la complitcità di dittature filo-occidentali. Questo “funziona” per ottenere la necessaria manovalanza, ma non certo per provocare una sollevazione politica delle popolazioni musulmane, che dell’Isis hanno orrore. «Ieri, i terroristi volevano cambiare tutto. I terroristi di oggi, invece, rispondono agli ordini di chi è deciso a non cambiare niente, dell’attuale sistema: pochissimi hanno in mano tutto, e così deve restare». Rimarremo al buio per sempre? «Oso sperare – azzarda Carpeoro – che magari, nel giro di due o tre generazioni, questa situazione cambierà». Smascherare i mandanti, liberare le nostre società dal ricatto della paura – perfettamente consonante con il ricatto economico dell’austerity, il rigore imposto per via finanziaria dall’élite privatizzatrice che, in Europa, a partire dall’omicidio di Olof Palme, ha stroncato il seme del socialismo democratico. Smontare il teatro del terrore? «A una condizione: che si smetta di dare la caccia all’Uomo Nero. E’ lì apposta per distrarci, per farci odiare qualcuno. E’ lo schema della magia, dell’illusionismo: il potere non fa altro che darci in pasto il cattivo di turno, da detestare. Se invece smettessimo di odiare, una buona volta, avremmo fatto un passo avanti enorme».Poteri forti? Grazie anche a cittadini deboli, sempre disposti a credere all’Uomo Nero, il nemico da odiare comodamente, cui attribuire ogni male. Nel suo saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, l’avvocato Gianfranco Carpeoro inserisce un passaggio di Francesco Saba Sardi, “L’istituzione dell’ostilità”, che chiarisce il concetto: il gioco al massacro continuerà all’infinito, fino a quando le vittime non capiranno che il nemico di turno è solo un trucco del potere. «Il politico, il massone, il mafioso, il gesuita: in Italia non ci siamo fatti mancare niente. Gelli e Sindona, Craxi, Andreotti. Caduti i quali, è cambiato qualcosa?». Ecco il punto: «Non cambiare mai niente, nella sostanza. A questo serve l’odio del nemico. E attenzione: «Il lasciare tutto com’è è esattamente l’obiettivo di questo potere, che oggi ricorre in modo sistematico al terrorismo targato Isis». Tema che Carpeoro ha affrontato in un recente convegno, in Veneto (video su YouTube), sul dominio occulto dell’élite paramassonica. Una situazione che si annuncia molto critica ormai anche per l’Italia: «L’ultimo report dei nostri servizi segreti parla di qualcosa come 5.000 “foreign fighters” provenienti dalla Siria, via Albania: sono perfettamente addestrati e si teme invadano la penisola per attuare attentati».
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Fonti Usa: Siria, l’attacco coi gas è opera di Israele e sauditi
Il giornalista pluripremiato che indagò sul caso Iran-Contra, Robert Parry, sostiene che l’attacco con armi chimiche in Siria sia stato lanciato da una base congiunta saudita-israeliana per le operazioni speciali situata in Giordania, secondo quanto gli hanno riferito le sue fonti di intelligence. Gli analisti dei servizi segreti Usa hanno stabilito che un drone è stato responsabile dell’attacco e «alla fine sono giunti a ritenere che il volo sia stato lanciato in Giordania da una base per operazioni speciali saudita-israeliana a sostegno dei ribelli siriani», secondo la fonte. «La ragione sospettata per l’uso del gas velenoso era quella di creare un incidente che avrebbe rovesciato l’annuncio dell’amministrazione Trump di fine marzo sul fatto che non stesse più cercando la rimozione del presidente Bashar al-Assad», scrive Parry. Come evidenziammo già nel 2013, dopo un altro attacco con armi chimiche presso Al-Ghouta che venne attribuito ad Assad, i ribelli ammisero spontaneamente al corrispondente della “Associated Press” Dale Gavlak che erano stati riforniti delle armi dall’Arabia Saudita, ma avevano «maneggiato le armi in modo improprio e fatto partire le esplosioni».Il retroterra professionale di Parry conferisce credibilità alle informazioni. A suo tempo aveva dato copertura informativa allo scandalo Iran-Contra per l’“Associated Press” e per il settimanale “Newsweek” e successivamente fu insignito del premio George Polk per il suo lavoro sulle questioni di intelligence. La tesi secondo cui l’incidente ha costituito un’operazione “false flag” intesa a creare una giustificazione per degli attacchi aerei è stata ventilata anche dall’ex parlamentare Ron Paul così come da numerose altre voci di spicco, compreso lo stesso Vladimir Putin, che ha continuato a mettere in guardia sul fatto che i ribelli potrebbero ora mettere in scena un incidente simile a Damasco per pungolare gli Stati Uniti al rovesciamento di Assad. A chiunque si attribuisca la responsabilità dell’attacco, ciò non toglie nulla all’orrore di questo evento e al fatto che persone innocenti e bambini siano morti. Nel riscontrare quanto sia pesante nelle asserzioni ma priva di prove vere e proprie, Parry ha respinto la relazione di quattro pagine pubblicata dal Consiglio di Sicurezza Nazionale e diffusa dal presidente Trump, che accusa il governo siriano per l’attacco chimico.Il libro bianco afferma che «non possiamo rilasciare pubblicamente tutte le notizie di intelligence disponibili su questo attacco a causa della necessità di proteggere fonti e metodi», anche se, come sottolinea Parry, «in situazioni altrettanto tese in passato, i presidenti Usa hanno rilasciato dati sensibili di intelligence per dare man forte alle asserzioni del governo Usa, tra cui la divulgazione dei voli di spionaggio U-2 da parte di John F. Kennedy nel corso della crisi missilistica cubana del 1962 e la rivelazione di Ronald Reagan sulle intercettazioni elettroniche dopo l’abbattimento sovietico del volo 007 della Korean Airlines nel 1983». Parry ha sfidato l’amministrazione Trump a rendere le sue prove disponibili pubblicamente, ma ha anche chiesto lumi sul motivo per cui sia il direttore della Cia, Mike Pompeo, sia il direttore della National Intelligence, Dan Coats, non apparivano in una foto rilasciata dalla Casa Bianca, che mostra il presidente e una dozzina dei suoi consiglieri monitorare l’attacco missilistico del 6 aprile da una stanza nella sua tenuta di Mar-a-Lago in Florida. «Data la casistica sporadica in cui dal presidente Trump si ottengono i fatti correttamente, lui e la sua amministrazione dovrebbero fare uno sforzo in più per presentare prove inconfutabili a sostegno delle sue valutazioni, non solo insistendo sul fatto che il mondo deve “fidarsi di noi”», conclude Parry.(Paul Joseph Watson, “Fonti intelligence Usa: l’attacco chimico in Siria partito da base saudita”, da “Infowars” del 13 aprile 2017, tradotto e ripreso da “Megachip”).Il giornalista pluripremiato che indagò sul caso Iran-Contra, Robert Parry, sostiene che l’attacco con armi chimiche in Siria sia stato lanciato da una base congiunta saudita-israeliana per le operazioni speciali situata in Giordania, secondo quanto gli hanno riferito le sue fonti di intelligence. Gli analisti dei servizi segreti Usa hanno stabilito che un drone è stato responsabile dell’attacco e «alla fine sono giunti a ritenere che il volo sia stato lanciato in Giordania da una base per operazioni speciali saudita-israeliana a sostegno dei ribelli siriani», secondo la fonte. «La ragione sospettata per l’uso del gas velenoso era quella di creare un incidente che avrebbe rovesciato l’annuncio dell’amministrazione Trump di fine marzo sul fatto che non stesse più cercando la rimozione del presidente Bashar al-Assad», scrive Parry. Come evidenziammo già nel 2013, dopo un altro attacco con armi chimiche presso Al-Ghouta che venne attribuito ad Assad, i ribelli ammisero spontaneamente al corrispondente della “Associated Press” Dale Gavlak che erano stati riforniti delle armi dall’Arabia Saudita, ma avevano «maneggiato le armi in modo improprio e fatto partire le esplosioni».
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Conflitto mondiale in arrivo? Meyssan: no, è solo teatro
E’ ufficiale: non si capisce più niente, della pericolosa tensione che sta scuotendo il mondo, con epicentro – tanto per cambiare – il Medio Oriente. Sul “Giornale”, Marcello Foa si allarma seriamente: Donald Trump avrebbe appena mobilitato 150.000 riservisti: «Per fare cosa? Un attacco in grande stile alla Siria? Colpire prima Damasco e poi Teheran? In Corea del Nord? Purtroppo la sciagurata svolta di Donald Trump – che si è arreso ai neoconservatori facendo propria l’agenda strategica che in campagna elettorale aveva promesso di combattere – autorizza qualunque ipotesi. Anche quella più drammatica e sconvolgente di una guerra alla Russia di Putin». Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, offre (da mesi) una lettura diversa: quella di Trump, «membro della cordata anti-Bush», sarebbe sempre stata soltanto una tragica farsa, che rivela la guerra interna, ai piani alti, tra gli oligarchi del pianeta: «Sanno che le risorse energetiche stanno finendo, quindi sgomitano per conquistarsi un posto in prima fila da cui sperano di attuare un Piano-B, ciascuno il suo». E, a proposito di “teatro”, dalla Siria un reporter come Thierry Meyssan avverte: l’offensiva anti-siriana, e quindi anti-russa, è solo apparente, affidata a missili “di cartone”, appositamente fuori bersaglio.Se sul suolo siriano sono potuti cadere 59 Tomahawk, scrive Meyssan su “Megachip”, è solo perché Mosca ha “spento” le batterie degli S-400, i suoi missili anti-missile, consentendo cioè a Trump di compiere la sua “performance teatrale”, che rappresenta un disperato tentativo di recuperare consenso interno, dopo i recenti rovesci. Non la pensa così Paul Craig Roberts, già viceministro di Reagan, che – in campagna elettorale – difese la dignità delle istanze di Trump (la distensione con la Russia) denunciando il bellicismo “politically correct” della Clinton, strumento dei “falchi” neocon. Per Craig Roberts, quella di Trump non è cosmesi tattica: si tratta di una svolta vera e propria, che dimostrerebbe la resa del neopresidente all’establishment di Washington, quello che lavora per il “regime change” anche a Mosca, dove spera di rovesciare Putin, che è sotto assedio da anni: la guerra in Siria, quella in Ucraina, le sanzioni alla Russia. Meyssan, al contrario, sostiene che la partita non è ancora chiusa: le «troppe, strane incongruenze» dell’affaire siriano dimostrerebbero che il gruppo di Trump, sottobanco, sta giocando una sfida doppia: cercare di tener buoni i neocon, con concessioni di facciata per salvare la sua poltrona (e forse la sua stessa vita), e sparigliare le carte mettendo in crisi, alla fine, il “partito dell’Isis”, che ha il cervello a Washington e i tentacoli in Medio Oriente.Secondo Meyssan, Trump non ha «improvvisamente cambiato bandiera». Al contrario, asarebbe in corso una complessa pretattica. Lo dimostrerebbero svariati indizi. Tanto per cominciare, al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, l’argomento di un attacco chimico perpetrato da Damasco non era sostenuto dal rappresentante del segretario generale, che infatti ha sottolineto «l’impossibilità, in questa fase, di sapere come questo attacco avrebbe potuto aver luogo». L’unica fonte sono gli “Elmetti Bianchi”, «vale a dire un gruppo di Al Qaeda a cui l’M16 britannico sovrintende ai fini della sua propaganda». Inoltre, aggiunge Meyssan, «tutti gli esperti militari sottolineano che i gas da combattimento devono essere dispersi tramite tiri d’obice e mai, assolutamente mai, tramite bombardamenti aerei». L’attacco americano alla base siriana? «Si è caratterizzato per la sua brutalità apparente: i 59 missili Bgm-109 Tomahawk avevano una capacità combinata equivalente a quasi il doppio della bomba atomica di Hiroshima. Tuttavia, l’attacco è stato anche caratterizzato dalla sua inefficienza: sebbene vi siano stati dei martiri caduti nel tentativo di spegnere un incendio, i danni sono risultati essere così poco importanti che la base funzionava nuovamente già all’indomani».Per Meyssan, è inevitabile constatare sia il fatto questa operazione «è solo una messa in scena: in questo caso, possiamo capire meglio il fatto che la difesa aerea russa non abbia reagito». Ciò implica che «i missili anti-missile S-400, il cui funzionamento è automatico, sono stati disattivati volontariamente in anticipo». Motivazione? «Tutto è accaduto come se la Casa Bianca avesse immaginato uno stratagemma inteso a condurre i suoi alleati in una guerra contro gli utilizzatori di armi chimiche, vale a dire contro i jihadisti. Infatti, fino ad oggi, secondo le Nazioni Unite, i soli casi documentati di uso di tali armi in Siria e in Iraq sono stati attribuiti a loro». Nel corso degli ultimi tre mesi, continua Meyssan, gli Stati Uniti hanno rotto con la politica del repubblicano George Bush Jr. (che firmò la dichiarazione di guerra del “Syrian Accountablity Act”) e di Barack Obama (che sostenne le “primavere arabe”, ossia la riedizione della “Grande rivolta araba del 1916”, organizzata dai britannici). «Tuttavia – aggiunge Meyssan – Donald Trump non era riuscito a convincere i suoi alleati, in particolare tedeschi, britannici e francesi». E ora, «saltando su quel che sembra essere un cambiamento radicale nella politica Usa, Londra ha fatto molte dichiarazioni contro la Siria, la Russia e l’Iran. E il suo ministro degli esteri, Boris Johnson, ha cancellato la sua visita a Mosca».Ma attenzione, ragiona Meyssan: «Se Washington ha cambiato la sua politica, per quale motivo il segretario di Stato Rex Tillerson ha tuttavia confermato la sua visita a Mosca? E perché dunque il presidente Xi Jinping, che si trovava a essere ospite del suo omologo statunitense durante il bombardamento di Chayrat, ha reagito in modo così molle, laddove il suo paese ha fatto uso per ben 6 volte del suo diritto di veto al fine di proteggere la Siria al Consiglio di sicurezza?». Non solo. «In mezzo a questo unanimismo oratorio e a queste incongruenze di fatto – osserva Meyssan – il vice consigliere del presidente Trump, Sebastian Gorka, moltiplica i messaggi che vanno in direzione contraria. Assicura che la Casa Bianca considera sempre il presidente Assad come legittimo e i jihadisti come il nemico». Gorka, spiega Meyssan, «è uno stretto amico del generale Michael T. Flynn che aveva concepito il piano di Trump contro i jihadisti in generale e Daesh in particolare». Come dire: non fatevi incantare dal “teatro” in corso: la verità è molto lontana dalla versione che campeggia nelle prime pagine. All’Onu, la Bolivia ha persino formulato il sospetto che l’attacco coi gas, in Siria, non sia neppure avvenuto. Tempo fa, la Russia esibì la sua potenza missilistica con il lancio di missili Kalibr, supersonici e “invisibili”: partiti da navi nel remoto Mar Caspio, centrarono al millimero tutti gli obiettivi. Il 7 aprile, dal vicinissimo Mediterraneo, gli Usa hanno sparato 59 Tomahawk su una base aerea, senza nemmeno danneggiarne la pista. Strano, no?E’ ufficiale: non si capisce più niente, della pericolosa tensione che sta scuotendo il mondo, con epicentro – tanto per cambiare – il Medio Oriente. Sul “Giornale”, Marcello Foa si allarma seriamente: Donald Trump avrebbe appena mobilitato 150.000 riservisti: «Per fare cosa? Un attacco in grande stile alla Siria? Colpire prima Damasco e poi Teheran? In Corea del Nord? Purtroppo la sciagurata svolta di Donald Trump – che si è arreso ai neoconservatori facendo propria l’agenda strategica che in campagna elettorale aveva promesso di combattere – autorizza qualunque ipotesi. Anche quella più drammatica e sconvolgente di una guerra alla Russia di Putin». Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, offre (da mesi) una lettura diversa: quella di Trump, «membro della cordata anti-Bush», sarebbe sempre stata soltanto una tragica farsa, che rivela la guerra interna, ai piani alti, tra gli oligarchi del pianeta: «Sanno che le risorse energetiche stanno finendo, quindi sgomitano per conquistarsi un posto in prima fila da cui sperano di attuare un Piano-B, ciascuno il suo». E, a proposito di “teatro”, dalla Siria un reporter come Thierry Meyssan avverte: l’offensiva anti-siriana, e quindi anti-russa, è solo apparente, affidata a missili “di cartone”, appositamente fuori bersaglio.
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Craig Roberts: Trump si è arreso, il prossimo sarà Putin?
«Trump si è arreso. Il prossimo sarà Putin?». Se lo domanda Paul Craig Roberts, uno dei più autorevoli osservatori indipendenti della scena internazionale, all’indomani del raid missilistico sulla Siria ordinato dal capo della Casa Bianca senza prima acquisire prove sulle responsabilità di Assad nell’attacco a Idlib con il gas Sarin. «L’establishment di Washington ha ripreso il controllo», scrive sul suo blog l’ex viceministro di Ronald Reagan. «Prima Flynn e ora Bannon», via le “colombe” che avevano trainato la campagna elettorale di Trump, lasciando intravedere il disgelo col resto del mondo. «Tutto ciò che hanno lasciato nell’amministrazione Trump – afferma Roberts – sono i sionisti e i generali impazziti che vogliono la guerra con la Russia, la Cina, l’Iran, la Siria e la Corea del Nord. E non c’è nessuno, alla Casa Bianca, capace di fermarli». Questo è il «bacio d’addio alla normalizzazione delle relazioni con la Russia: il conflitto siriano è impostato per essere riaperto». Incidente gravissimo, strategico: data «l’assenza di qualsiasi prova» sulle responsabilità di Assad, «è del tutto evidente che l’attacco chimico è un evento orchestrato da Washington».Il segretario di Stato americano Rex Tillerson ha messo in guardia la Russia: è scattata l’operazione per rimuovere Assad, e purtroppo Trump è d’accordo, continua Craig Roberts. Conseguenza: «La rimozione di Assad permette a Washington di imporre un altro burattino americano su popoli musulmani». Obiettivo sostanziale:«Rimuovere un altro governo arabo con una politica indipendente da Washington, per eliminare un altro governo che si oppone al furto di Israele della Palestina». Per Tillerson, storico patron della Exxon, far cadere il governo siriano significa anche «tagliare il gas russo destinato all’Europa con un gasdotto controllato degli Stati Uniti, che dal Qatar raggiunga l’Europa attraverso la Siria». Brutte notizie per Mosca, che – combattendo seriamente contro l’Isis – sperava davvero, con Trump, di raggiungere una partnership con Washington attraverso uno sforzo comune contro il terrorismo. Speranze che Craig Roberts oggi definisce «del tutto irrealistiche». Un’idea addirittura «ridicola», visto che «il terrorismo è l’arma di Washington». Un’accusa frontale, dunque: sono gli Usa i mandanti diretti dell’Isis, accusa l’ex stratega di Reagan.Una volta messa fuori gioco la Russia, continua Craig Roberts, «il terrorismo verrà poi diretto contro l’Iran su larga scala». E quando l’Iran dovesse a sua volta cadere, sempre il terrorismo “amico” della Cia, quello che oggi è targato Isis, «inizierà a lavorare sulla Federazione Russa e con la provincia cinese che confina con il Kazakhstan». Possibile? Senz’altro: «Washington ha già dato alla Russia un assaggio del terrorismo sostenuto dagli Usa in Cecenia. E il più è deve ancora arrivare». Craig Roberts rimprovera ai russi una sorta di fatale ingenuità: speravano, davvero in Donald Trump. Per questo, sostiene, hanno evitato di stravincere, dopo aver conquistato il cruciale ovest della Siria, paese che oggi è invece, ancora, a rischio di spartizione, dopo la brutale defenestrazione di Assad. I russi, «ipnotizzati dal sogno di cooperare con Washington, hanno messo la Siria (e se stessi) in una posizione difficile». Avevano «sorpreso il mondo», accettando di difendere la Siria dall’Isis, e allora «Washington era impotente». In pochi mesi, l’intervento russo ha sbaragliato l’Isis. «Poi, all’improvviso, Putin si è fermato: ha annunciato il ritiro, affermando, come Bush sulla portaerei: missione compiuta».Ma la missione non era compiuta, sottolinea Craig Roberts: la Russia è stata costretta a tornare in campo, «nella vana convinzione che Washington si sarebbe messa finalmente a collaborare con la Russia per eliminare l’ultima roccaforte Isis». Al contrario, invece, «gli Stati Uniti hanno inviato forze militari per bloccare i progressi russi sulla scena siriana». Il ministro degli esteri Lavrov ha protestato, ma – ancora una volta – la Russia «non ha usato il suo potere superiore sulla scena per battere le forze americane e portare a termine il conflitto». Ora Washington dà “avvertimenti” a Mosca, a suon di missili: riuscirà il Cremlino a capire che può scordarsi ogni cooperazione e, semmai, prenotarsi per un ruolo di vassallo? Si avvicina una trappola pericolosa, continua Craig Roberts: «La Russia non permetterà a Washington di rimuovere Assad», ma a Mosca esiste una “quinta colonna” «che è alleata con l’Occidente». Per Putin e l’indipendenza della Russia come potenza sovrana, si tratta del pericolo più insidioso, tale da metter fine al ruolo di Mosca come attore euroasiatico capace di imporre stabilità geopolitica, a cavallo dei due continenti.Collaboratori infedeli: spesso si è accennato, in quei termini, al gruppo che fa capo all’ex presidente Dmitrij Medvedev. Questa “quinta colonna”, sostiene Craig Roberts, «insisterà dicendo che la Russia potrà finalmente ottenere la collaborazione di Washington solo se “sacrificherà” Assad». Sarebbe un suicidio: l’acquiescenza di Putin «distruggerebbe l’immagine del potere russo», e sarebbe utilizzata «per privare la Russia di valuta estera dalle vendite di gas naturale verso l’Europa». Putin ha detto che la Russia non può fidarsi di Washington? «Si tratta di una deduzione corretta dai fatti», conclude Craig Roberts. E quindi, perché mai la Russia dovrebbe cedere, in cambio del miraggio della mitica cooperazione con Washington, cioè con il potere che sostiene sottobanco i terroristi dell’Isis? «La cooperazione ha un solo significato: significa arrendersi a Washington». Per il grande analista americano, Putin ha “ripulito” la Russia solo in parte: «Il paese rimane pieno di agenti americani, ed è straordinario vedere quanto poco, i media russi, capiscono il pericolo nel quale la Russia si trova». E dunque: «Sarà Putin il prossimo a cadere vittima dell’establishment di Washington, come è appena accaduto a Trump?».«Trump si è arreso. Il prossimo sarà Putin?». Se lo domanda Paul Craig Roberts, uno dei più autorevoli osservatori indipendenti della scena internazionale, all’indomani del raid missilistico sulla Siria ordinato dal capo della Casa Bianca senza prima acquisire prove sulle responsabilità di Assad nell’attacco a Idlib con il gas Sarin. «L’establishment di Washington ha ripreso il controllo», scrive sul suo blog l’ex viceministro di Ronald Reagan. «Prima Flynn e ora Bannon», via le “colombe” che avevano trainato la campagna elettorale di Trump, lasciando intravedere il disgelo col resto del mondo. «Tutto ciò che hanno lasciato nell’amministrazione Trump – afferma Roberts – sono i sionisti e i generali impazziti che vogliono la guerra con la Russia, la Cina, l’Iran, la Siria e la Corea del Nord. E non c’è nessuno, alla Casa Bianca, capace di fermarli». Questo è il «bacio d’addio alla normalizzazione delle relazioni con la Russia: il conflitto siriano è impostato per essere riaperto». Incidente gravissimo, strategico: data «l’assenza di qualsiasi prova» sulle responsabilità di Assad, «è del tutto evidente che l’attacco chimico è un evento orchestrato da Washington».
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Eurocrati a Roma, Isis a Londra: tutto in famiglia
Un attentato proprio a Londra, in pieno calendario Brexit, alla vigilia del summit romano per celebrare l’Ue, da cui la Gran Bretagna sta scappando. «La gente in Occidente deve capire che se l’informazione che riceve tocca gli interessi del complesso militar-securitario, quell’informazione è dettata dalla Cia. La Cia serve quegli interessi, non gli interessi del popolo o della pace», dice Paul Craig Roberts, già sottosegretario al Tesoro Usa. «E’ snervante scrivere per anni le stesse cose», fa eco Fulvio Grimaldi sul suo blog, mettendo in parallelo l’ennesimo euro-attentato targato Isis (a Londra, stavolta) e l’euro-meeting di Roma. Come dire: il terrorismo “a orologeria” è spesso l’alibi perfetto per qualcosa di ancora peggiore, una guerra di sterminio o – come in questo caso – la celebrazione della burocrazia Ue, mostruosa macchina (istituzionale) di spoliazione e trasferimento di ricchezza, dal basso verso l’alto, come vogliono le multinazionali finanziarie cui risponde Bruxelles. Una storia infinita, per Grimaldi, che risale addirittura a Pearl Harbour, «dove Roosevelt sollecitò i giapponesi a bombardare la sua flotta», per poi arrivare alla “Pearl Harbour 2.0”, cioè il Golfo del Tonchino, dove «inesistenti barchini nordvietnamiti hanno permesso agli Usa di bruciare viva mezza Indocina», fino alla recente «tragicommedia dell’11/9, quando missili Cia e Mossad travestiti da aerei di linea hanno bucato torri a suo tempo dinamitate dall’interno».Il giornalista cita anche «la farsa di Londra 2005, in cui a uno zainetto lasciato nella carrozza del Tube è stato attribuita la voragine causata da un ordigno posto sotto la carrozza», quindi il triplice attentato di Amman, sempre nel 2005, «preceduto dall’evacuazione dei cittadini israeliani e coronato dall’uccisione di dirigenti palestinesi riuniti con militari cinesi». E poi «Bali, Mumbai, Madrid, Charlie Hebdo, dove certi terroristi camuffati ma identificati grazie all’esibizione ex-post dei documenti in macchina, hanno operato liberamente sotto lo sguardo di pattuglie di polizia». E poi Bruxelles, dove l’attentato all’aeroporto «è stato mostrato utilizzando un vecchio video di Mosca». E Monaco, dove «il più sofisticato armamentario antiterrorista germanico ha lasciato un tizio passeggiare e sparacchiare in un centro commerciale per quattro ore, prima di rinvenirlo e seccarlo mentre se la filava lontano dal luogo». E Nizza, dove «il giro della morte del Tir non lascia un’ammaccatura sulla carrozzeria e un’immagine nelle venti telecamere lungo il percorso (o meglio le ha lasciate tutte, ma il governo ha deciso che non servivano e andavano distrutte). E’ successo anche con quelle del Bataclan».Incongruenze che, per Grimaldi, diventano «lacerazioni smisurate nel tessuto dello storytelling delle stragi», subito «rammendate da tutti i cerimonieri mediatici turibolanti ai piedi degli Alti Sacerdoti, mentre sull’altare dei sacrifici umani celebrano il trionfo dell’arma finale contro classi e popoli subalterni e potenzialmente sovversivi». Ogni giorno, sui media, «viene fatta sparire la verità», tra chiacchiere assortite sulla ipotetica “guerra all’Occidente”, «ora transitata dalla trincee ai ponti di Londra e domani a piazza San Pietro». Facili profezie? «L’avevano già detto, ripetuto, ribadito: “Ci saranno attentati del terrorismo islamico. La questione è solo il quando e il dove”. Veggenti». I talk-show sono assordati da «latrati antislamici di energumeni di una Weltanschauung decerebrata dove, dopo i comunisti che mangiano i bambini, siamo ai musulmani che mangiano le donne». Ricompaiono anche «fossili» come Daniela Santanchè, Maria Giovanna Maglie, Antonio Caprarica, Alessandro Meluzzi.Guerra all’Occidente? Suvvia: «La Nsa, ci è stato rivelato da Snowden e Assange e confermato da Trump, e le altre sorelle depravate dedite al voyeurismo, ascoltano tutto, vedono tutto, ti spiano dallo smartphone, dallo schermo di tv e computer, dal citofono, dall’asciugacapelli. Incamerano un miliardo di dati al minuto». Possono davvero non sapere ciò che si andrebbe preparando? Ora Renzi, «per interposto Gentiloni, gli vende pure (all’Ibm) tutti i nostri dati sanitari. Non ne hanno scampo né la cancelliera tedesca, né la presidente brasiliana, né gli ultimi ruotini del carro, che siamo tutti noi». Eppure, «vigliacco se gli capitasse una volta di intercettare il malvivente che si fa mandare da Al Baghdadi a massacrare gente, proprio là dove non c’è comunicazione, o apparizione, che non siano controllate dal più sofisticato apparato tecnologico mai visto, neppure da quelli di StarTrek». Evidentemente abbiamo a che fare con autrentici supereroi oscuri, «in grado, a distanza, di prendere i comandi di un aereo, come quelli dell’11 Settembre decollati e scomparsi per sempre, l’altro tedesco sui Pirenei, o di un camion, come quello di Nizza, o di un Suv, come quello di Westminster, e fargli fare quello che gli pare».Supereroi neri e «disturbati, manipolati, fuori di testa, che pensano di assaltare il Parlamento britannico con forchetta e coltello, tanto poi tutti quanti muoiono: capitasse mai che ne esca vivo uno che ci racconti, magari senza waterboarding, chi lo manda». Ma a noi, a quanto, pare, non interessa: ormai «ci accontentiamo della firma». E così, «anche la scorribanda del presunto Imam radicale di nome Brooks, dopo un po’ di suspence per un migliore ascolto, ha avuto la sua rivendicazione tradizionale». Scotland Yard, la migliore polizia antiterrorismo del mondo, «s’era scordata che quell’Imam era ancora in galera (che ridere: Caprarica, a “La Gabbia”, aveva giurato di riconoscerlo!) e quindi ha dovuto degradare l’attentatore a milite ignoto del terrorismo, pur sempre islamico». Tale Massud, «come sempre noto delinquente, dunque ricattabile, dunque soggetto debole», come quello, «cocainomane etilizzato, dell’aeroporto parigino». L’uomo perfetto per “indossare” la firma dell’Isis. «Uno col coltello a Parigi, un altro che a Londra assalta con due coltelli il più poderoso schieramento di sicurezza del paese, quello attorno alle massime istituzioni. Due abbattuti senza pensarci su mezza volta. Senza pensare quanto sarebbe stato facile e utile bloccarlo, magari con uno spruzzo al peperoncino, e arrivare tramite lui alla centrale operativa alla tana del mostro», aggiunge Grimaldi.Noi però continuiamo a non vedere che «l’Isis, come la carta di ricambio Al Qaida e tutti i terroristini aggregati, sono addestrati, armati, finanziati, riforniti, vestiti e nutriti, medicati (in Israele), da Usa, Nato, Israele e relativi azionisti, affittuari e sicari tra Turchia e Golfo». Ma visto che Barack Obama «soleva mandare un McCain a lisciargli il pelo, a rinnovargli l’affetto», allora «quando l’Isis dice “siamo stati noi”, è logica stringente, e ragion pura anche per Kant, che sono stati loro: gli sponsor, i padrini, i committenti». Troppo facile? «I nostri “esperti” da cento euro al grammo di islamofobia, queste ovvietà banali non le prendono neanche in considerazione», continua Grimaldi. «Interessante l’evoluzione del terrorismo a uso domestico», comunque. «Finite, nella fase, le grandi operazioni da laboriose pianificazioni e con risultati epocali, coinvolgenti apparati di Stato e complesse e numerose componenti professionali, con relativi rischi di gole profonde, errori, sovrapposizioni e trascuratezze, come quelle grandiose dell’11 Settembre, si è passati a progetti realizzabili con mezzi e numeri più modesti».I colpi grandi, «tipo aerei tirati giù o palazzi fatti saltare», ormai «si sono lasciati ai paesi “arretrati”, dove non si fa tanto caso alle toppate». Da noi «si è passati alle coppie di terroristi e ai minigruppi, rigorosamente islamici, visti a Parigi e Bruxelles e, con Wuerzburg, Nizza, Monaco, fino a Londra oggi, ai terribilissimi “lupi solitari”». Ovvero: «Poca spesa, impegno minimo, soggetti adulterati e manovrabili ed effetti anche migliori, più diffusi, capillari, terrificanti. Il panico del vicino, del passante, della vettura qualsiasi, dello sconosciuto, o conosciuto, della porta accanto. Meravigliosa invenzione: insicurezza totale, irrimediabile e, di contro, Stato di polizia, società securitaria, lotta di classe o di liberazione annientate». E pazienza se la privacy non c’è più: tanto, ad archiviarla, «ci hanno già pensato i sicari principi della Cupola, i terrroristi soft: i Tim Cook, Steve Jobs, Bill Gates, Mark Zuckerberg». Tra «Grande Fratello, ciarle private strepitate al telefonino, selfie in Facebook, ti hanno ridotto a un demolitore pubblico della tua identità, alla mercè di tutti», e soprattutto «dello Stato spione e gendarme e del suo golpe strisciante». Sicché, data «l’enormità della mazzata Brexit» inflitta «alla cosca atlantica fin dagli anni ‘50 installata dalla Cia in Europa, per conto Rockefeller e Rothschild, utilizzando fiduciari come Davignon e Monnet, per fare a pezzi nazioni sovrane e costituzionalmente antifasciste», oggi «a Londra, che aveva appena fissata la data per lo scioglimento degli ormeggi, andava mandato un segnalino». Beninteso: «Poca roba, rispetto al potenziale e all’arsenale di Isis». Un Suv e due coltelli: «Un primo avviso».Osserva Grimaldi: «A Westminster è successo, mica a Canterbury. Al Parlamento dove stanno quelli che brexitano. E sul ponte di Westminster, immancabile per ogni turista eurifero e dollaroso. Come quelli di Sharm el Sheik e di Luxor, che non ci vanno più da quando, nel fedifrago Egitto di Al Sisi che ha fregato i cari Fratelli Musulmani, l’Isis (si fa per dire) fa saltare in aria la gente». Grimaldi teme «quei necrofori che, sabato e domenica a Roma, contro Brexit e altri Exit che girovagano per l’aere europeo, cercheranno di insufflare nel corpaccio in putrefazione dell’Ue quanto basta per fargli fare un po’ di scatti mesmerici». Il pericolo è che, «nel nome dell’Europa ricucita da sarte di palazzo come Laura Boldrini», noi popolo «ci si lasci fregare ancora una volta: prima, prendendo le mazzate perché osiamo ancora andare in piazza, e poi accettando che, anche solo a sollevare le sopracciglia sull’onnicomprensivo e onnipotente tasso di criminalità della classe dirigente, si finisca fuori. O piuttosto dentro. Come amici dei terroristi». E conclude: «Visto cosa si può combinare con una macchina e due coltellini svizzeri?».Un attentato proprio a Londra, in pieno calendario Brexit, alla vigilia del summit romano per celebrare l’Ue, da cui la Gran Bretagna sta scappando. «La gente in Occidente deve capire che se l’informazione che riceve tocca gli interessi del complesso militar-securitario, quell’informazione è dettata dalla Cia. La Cia serve quegli interessi, non gli interessi del popolo o della pace», dice Paul Craig Roberts, già sottosegretario al Tesoro Usa. «E’ snervante scrivere per anni le stesse cose», fa eco Fulvio Grimaldi sul suo blog, mettendo in parallelo l’ennesimo euro-attentato targato Isis (a Londra, stavolta) e l’euro-meeting di Roma. Come dire: il terrorismo “a orologeria” è spesso l’alibi perfetto per qualcosa di ancora peggiore, una guerra di sterminio o – come in questo caso – la celebrazione della burocrazia Ue, mostruosa macchina (istituzionale) di spoliazione e trasferimento di ricchezza, dal basso verso l’alto, come vogliono le multinazionali finanziarie cui risponde Bruxelles. Una storia infinita, per Grimaldi, che risale addirittura a Pearl Harbour, «dove Roosevelt sollecitò i giapponesi a bombardare la sua flotta», per poi arrivare alla “Pearl Harbour 2.0”, cioè il Golfo del Tonchino, dove «inesistenti barchini nordvietnamiti hanno permesso agli Usa di bruciare viva mezza Indocina», fino alla recente «tragicommedia dell’11/9, quando missili Cia e Mossad travestiti da aerei di linea hanno bucato torri a suo tempo dinamitate dall’interno».
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Craig Roberts: pazzi criminali, spingeranno Trump in guerra
Non gliene importa nulla se il 10% dell’arsenale nucleare di Usa e Russa basta e avanza per cancellare la vita sul pianeta: al clan dell’intelligence Usa sono bastati 24 giorni – il tempo in cui è rimasto in carica il generale Flynn, consigliere per la sicurezza nazionale – per archiviare le promesse di distensione, dopo le forti tensioni con Mosca create a freddo dal regime di Obama. Lo afferma Paul Craig Roberts, già viceministro di Reagan: ai media “presstitute” (“New York Times”, “Washington Post”, “Cnn” e “Nbc”) sono bastate le “fake news” sul conto di Flynn costruite a tavolino da John Brennan, il direttore della Cia voluto da Obama, che «ha costruito dossier falsi» riguardo all’amicizia “pericolosa” tra Flynn e Putin, come documenta Gareth Porter su “Information Clearing House”. «Rapporti falsi, nessuno dei quali conteneva alcuna prova». Il movente? Semplice: la minaccia, da parte di Flynn, di ridimensionare il budget militare, 1.000 miliardi di dollari l’anno per gli armamenti e il business della sicurezza. Risultato: «I media occidentali sono più impegnati a servire il padrone della Cia di quanto non siano a servire la pace tra potenze nucleari».Sconsolato, un osservatore come Patrick Lawrence dichiara: «Le luci su di noi stanno oscurando. Siamo stati abbandonati da una stampa che si dimostra incapace di informarci in modo disinteressato. Sia i media “liberal”, clintoniani, che i giornali e le emittenti, sono servi del potere». Restano i media “alternativi”, aggiunge Craig Roberts sul suo blog, ma sono tutti sotto attacco: Rt, Usa Watchdog, Alex Jones, Information Clearing House, Global Research, Unz Review. «A quanto pare, Alex Jones sta già avendo problemi con Google», e centinaia di altri siti web sono in difficoltà: pagine rimosse, articoli non più indicizzati, perdita dei banner pubblicitari. «Come dicevano i nazisti, tutto quello che serve è la paura: portare il popolo al collasso», scrive Craig Roberts, secondo cui «la presidenza di Trump è effettivamente finita: anche se gli sarà permesso di rimanere in carica, a comandare sarà lo Stato Profondo». Trump si è già arresto alla linea del Pentagono: ha detto che la Russia deve restituire la Crimea all’Ucraina, mentre in realtà è la Crimea che è tornata, da sola, alla Russia. In più ha respinto una nuova limitazione delle armi strategiche, il trattato Start con la Russia, affermando che vuole la supremazia Usa negli armamenti nucleari, non la parità.Dopo appena un mese alla Casa Bianca, scrive Craig Roberts, l’obiettivo di Trump è già cambiato. Nuove tensioni in vista con la Russia, e non solo: «Ci sono piani per occupare parte della Siria con truppe statunitensi, al fine di evitare che la Siria riesca a riunificarsi con l’aiuto della Russia, come segnala “Global Research”». Il piano di smembramento che Trump approverebbe? Parte della Siria andrebbe alla Turchia, un’altra parte ai curdi, mentre una porzione di territorio siriano finirebbe sotto in controllo militare Usa, in modo che Washington possa «mantenere le turbolenze in corso per sempre». Una catastrofe, per Putin, che contava su Trump per eliminare l’Isis. «E’ difficile capire se il nuovo regime Trump è più iranofobico o russofobico: l’inclinazione è quella di buttare a mare l’accordo con l’Iran, riaprendo il conflitto con Mosca, oltre che con la Cina». Certo, osserva Craig Roberts, «è strano vedere i “liberal-progressisti” di sinistra alleati con i guerrafondai contro Trump. E’ come tirare fuori l’Armageddon nucleare dalla tomba in cui l’avevano sepolto Regan e Gorbaciov». Così, oggi, «la sinistra americana chiede l’impeachment del presidente il cui obiettivo era migliorare le relazioni con la Russia».In politica interna, l’obiettivo di Trump erano i posti di lavoro per la classe operaia? Il problema «lascia fredda la sinistra», che vuole solo «distruggere il “deplorevole” Trump», demonizzato come «razzista, misogino, omofobo». Chi poi si oppone «all’ideologia neo-conservatrice che sta guidando la politica estera Usa verso l’egemonia mondiale», viene bollato come «agente di Putin». Aggiunge Craig Roberts: «Il motivo per cui c’è ancora vita sulla Terra dopo più di mezzo secolo di armi nucleari è che i presidenti americani e leader sovietici hanno lavorato insieme per ridurre le tensioni. Nel corso di questi decenni, ci sono stati numerosi falsi allarmi di missili Icbm in arrivo. Tuttavia, perché le leadership di entrambi i paesi stavano lavorando insieme per evitare il conflitto nucleare, gli avvertimenti sono stati creduti sia dai sovietici che dagli americani». Oggi invece la situazione è molto diversa. Gli ultimi tre presidenti degli Stati Uniti, scrive Craig Roberts, «hanno fatto gli straordinari per aumentare le tensioni tra le due potenze nucleari». Oggi, poi, «si è lavorato per convincere il governo russo che quello di Washington sia completamente inaffidabile». Le storie sui collegamenti “russi” di Trump «sono così ovviamente false da essere ridicole, ma i russi stanno vedendo che, nonostante la falsità delle accuse, il consigliere per la sicurezza nazionale di Trump è caduto, e Trump stesso potrebbe essere il prossimo».In altre parole, conclude Craig Roberts, i russi «stanno osservando che in America i fatti non sono rilevanti per i risultati». L’avevano già capito dopo «le bugie su Putin, l’Ucraina, la Georgia, e le intenzioni russe verso l’Europa». Putin è abitualmente chiamato “delinquente”, “assassino”, “il nuovo Hitler” dai politici americani, dalle “presstitutes” della stampa e da Hillary Clinton. Generali del Pentagono descrivono la Russia come «la principale minaccia per gli Stati Uniti», mentre «comandanti della Nato affermano che l’esercito russo potrebbe occupare i Paesi Baltici e la Polonia in qualsiasi momento». Sono accuse deliranti, «prive di senso», che però «suggeriscono ai russi l’idea che l’Occidente stia preparando le sue popolazioni per un attacco alla Russia». In una situazione simile, come si farà a riconoscere eventuali falsi allarmi? Come potranno mantenere i nervi saldi, gli americani «convinti che Putin e la Russia siano l’incarnazione del male»? E i russi, a loro volta, come potranno pensare che gli americani non facciano sul serio? «Questo è il rischio estremo», conclude Craig Roberts: l’Armageddon, pericolo al quale «hanno esposto la vita sulla Terra». Loro, naturalmente: «I neoconservatori folli, gli idioti, l’avido complesso militare e di sicurezza, i liberal-progressisti di sinistra e generali aggressivi. E le poche voci di avvertimento vengono liquidate come “agenti russi”».Non gliene importa nulla se il 10% dell’arsenale nucleare di Usa e Russa basta e avanza per cancellare la vita sul pianeta: al clan dell’intelligence Usa sono bastati 24 giorni – il tempo in cui è rimasto in carica il generale Flynn, consigliere per la sicurezza nazionale – per archiviare le promesse di distensione, dopo le forti tensioni con Mosca create a freddo dal regime di Obama. Lo afferma Paul Craig Roberts, già viceministro di Reagan: ai media “presstitute” (“New York Times”, “Washington Post”, “Cnn” e “Nbc”) sono bastate le “fake news” sul conto di Flynn costruite a tavolino da John Brennan, il direttore della Cia voluto da Obama, che «ha costruito dossier falsi» riguardo all’amicizia “pericolosa” tra Flynn e Putin, come documenta Gareth Porter su “Information Clearing House”. «Rapporti falsi, nessuno dei quali conteneva alcuna prova». Il movente? Semplice: la minaccia, da parte di Flynn, di ridimensionare il budget militare, 1.000 miliardi di dollari l’anno per gli armamenti e il business della sicurezza. Risultato: «I media occidentali sono più impegnati a servire il padrone della Cia di quanto non siano a servire la pace tra potenze nucleari».
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Craig Roberts: golpe in vista, Trump è già un uomo morto
«Non c’è nulla che l’establishment politico non farà e nessuna bugia che non dirà, per mantenere il proprio prestigio e potere a carico vostro». Parola di Donald Trump, prima delle elezioni. Il guaio è che oggi, pochi mesi dopo il voto, Trump è “un uomo morto”. «Lo sforzo del popolo americano di portare il governo nuovamente sotto il proprio controllo tramite Trump è stato sconfitto dallo Stato Profondo», sentenzia Paul Craig Roberts, viceministro di Reagan negli anni ‘80, già sostenitore critico di “The Donald” e fiero avversario della “falsa sinistra” incarnata da Obama e Hillary, servitori del disegno “imperiale” del complesso militare-industriale, la “fabbrica della guerra”. Per John Schindler, ex spia della Nsa, Trump «morirà in carcere», vittima della «guerra nucleare» che lo “Stato Profondo” gli ha dichiarato. Cia, Pentagono, Wall Street, Fbi, industria degli armamenti. Il “grande nemico”, denunciato dal presidente Eisenhower nel suo ultimo discorso, avrebbe vinto ancora, secondo Craig Roberts: «Donald Trump ha sovrastimato il suo potere presidenziale? La risposta è sì. Steve Bannon, il principale consigliere di Trump, è politicamente inesperto? La risposta è sì». Trump ha sovrastimato le sue forze, ha sfidato il “mostro” e adesso pagherà un prezzo altissimo.Il “New York Times” riporta che «le agenzie di intelligence americane hanno cercato di capire se la campagna elettorale Trump era collusa con i russi sulla pirateria informatica o con altri sforzi per influenzare le elezioni». E’ l’offensiva del “Deep State”, che si sta riprendendo il potere. Trump in carcere? «E’ possibile che accadrà proprio questo», scrive Craig Roberts, in un post su “Sputnik News” tradotto da Costantino Ceoldo per “Come Don Chisciotte”. Il prestigioso analista americano, già “editor” del “Wall Street Journal”, ricorda che, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, il complesso militare e di sicurezza decise che «il flusso di profitti e potere derivante dalla guerra e dai pericoli di una guerra era troppo grande per essere ceduto», consegnato alla tranquillità di in un’era di pace. «Questo complesso ha manipolato un debole e inesperto presidente Truman in una gratuita guerra fredda con l’Unione Sovietica», basata sul nulla: «Fu creata la menzogna, accettata dal popolo americano credulone, che il comunismo internazionale voleva conquistare il mondo». Assurdo: Stalin aveva liquidato Trotskij e tutti gli alfieri della “rivoluzione permanente”, estesa a tutto il mondo, puntando invece sul “socialismo in un solo paese”.Ma l’establishment americano «ha abbozzato e contribuito all’inganno», gonfiando il super-potere dell’apparato militare-industriale fino a preoccupare Dwitght Eisenhower, che nel 1961 – nel suo ultimo discorso – mise in guardia il popolo contro la vocazione eversiva del business della guerra: «Tre milioni e mezzo di uomini e donne sono direttamente impegnati nell’apparato della difesa», disse. «Ogni anno spendiamo per la sicurezza militare più del reddito netto di tutte le società degli Stati Uniti. Questa congiunzione di un apparato militare immenso e di una grande industria degli armamenti è nuova, nell’esperienza americana. L’influenza totale – economica, politica, anche spirituale – si fa sentire in ogni città, ogni Parlamento, ogni ufficio del governo federale». Una necessità geopolitica con «gravi implicazioni», per Eisenhower: «Dobbiamo guardarci dall’acquisizione di una influenza ingiustificata, visibile o invisibile, da parte del complesso militar-industriale. Il potenziale per l’ascesa disastrosa di un potere fuori luogo esiste e persisterà. Non dobbiamo mai lasciare che il peso di questa combinazione metta in pericolo le nostre libertà o i nostri processi democratici».E ancora: «Non dovremmo mai dare nulla per scontato. Solo una cittadinanza vigile e competente può costringere il corretto ingranamento del grande apparato industriale e militare di difesa con i nostri metodi e gli obiettivi pacifici, in modo che la sicurezza e la libertà possano prosperare insieme». Gli avvisi di Eisenhower, osserva Craig Roberts, erano centrati. «Tuttavia, erano basati su “una cittadinanza vigile e competente”, che gli Stati Uniti non hanno. La popolazione americana è in gran parte stupida e si sta dirigendo, in tutto lo spettro ideologico da sinistra a destra, all’autodistruzione». I media, stampa e televisione, che «servono da propagandisti per il potere del complesso militar-industriale e le élite di Wall Street», ormai «si accertano che gli americani non abbiano nulla se non informazioni false ed orchestrate: ogni famiglia e persona che accende la Tv o si legge un giornale è programmata per vivere in una realtà falsa ed orchestrata che serve quei pochi che comprendono l’apparato di governo». L’altro problema? «Trump ha sfidato questo apparato, senza rendersi conto che è più potente di un semplice presidente degli Stati Uniti».Durante il secondo mandato di Obama, la Russia e il suo presidente «sono stati demonizzati dal complesso militar-industriale e dai neoconservatori utilizzando i media “presstitute”», scrice Craig Roberts. «La demonizzazione ha facilitato la capacità dei media “presstitute” controllati, come il “New York Times”, il “Washington Post”, Cnn, Msnbc ed il resto, di associare il contatto con la Russia e gli articoli che mettevano in discussione le tensioni orchestrate tra Stati Uniti e Russia, con attività sospette, forse anche tradimento». Trump e i suoi consiglieri? «Erano troppo inesperti per rendersi conto che la conseguenza del licenziamento di Flynn è stata quella di validare questa associazione orchestrata della presidenza Trump con l’intelligence russa». E ora abbiamo «le puttane dei media e le puttane della politica» impegnate a porre la stessa domanda utilizzata per infangare il presidente Nixon e forzarne le dimissioni: “Che cosa sapeva il presidente e quando lo sapeva?”. Trump sapeva che il generale Flynn aveva parlato con l’ambasciatore russo settimane prima che Trump abbia detto che lo aveva fatto? Flynn ha fatto l’indicibile, parlare con un russo: perché Trump gli ha detto di farlo?I fornitori di false notizie, cioè i grandi media «bugiardi spregevoli», secondo Craig Roberts «stanno usando insinuazioni irresponsabili per intrappolare il presidente Trump in una rete di tradimento». Ecco il titolo del “New York Times”: «Gli assistenti della campagna di Trump hanno avuto contatti ripetuti con l’intelligence russa». Quello a cui stiamo assistendo, insiste l’analista, è una campagna da parte dello Stato Profondo, «che usa le sue puttane dei media per organizzare l’impeachment di Trump». In altre parole, «quelli al lavoro per ribaltare le elezioni presidenziali del 2016 sono così sicuri del loro successo che dichiarano pubblicamente la loro preferenza per un colpo di Stato sulla democrazia». Ad esempio, «il guerrafondaio neoconservatore sionista Bill Kristol ha espresso la sua preferenza per un colpo di Stato». Craig Roberts lo definisce «liberale progressista di sinistra, allineato con l’Uno Percento contro la “razzista, misogina, omofobica” classe operaia, i “deplorevoli” che hanno eletto Trump». In campo anche gli artisti, come «il musicista disinformato Moby», il quale «si è sentito in dovere di scrivere sciocchezze ignoranti su Facebook», per dire che «il dossier russo su Trump è reale», il presidente «è ricattato dal governo russo, non solo per essersi fatto pisciare addosso da prostitute russe, ma per cose molto più nefaste». In più, «l’amministrazione Trump è in collusione con il governo russo, e lo è stata fin dal primo giorno».Aggiunge Craig Roberts: «Ora che Trump è stato contaminato dalle “associazioni con lo spionaggio russo” i repubblicani idioti, secondo “Bloomberg”, si sono “uniti alle chiamate dei democratici per uno sguardo più approfondito sui contatti tra la squadra del presidente Trump e gli agenti dello spionaggio russo», cosa che «indica un crescente senso di pericolo politico all’interno del partito qualora emergessero nuovi rapporti su ampi contatti tra i due». Naturalmente – puntualizza Craig Roberts – non vi è alcuna prova di tali contatti: sono solo insinuazioni, su cui si basa la campagna per deporre Trump. Il licenziamento di Flynn, il generale “sacrificato” nel tentativo di placare le polemiche, ha solo peggiorato la situazione: viene presentato come un’ammissione di colpevolezza, mentre la Cia «continua a passare notizie false alle “presstitute”». Conclude Craig Roberts, amaramente: «Fin dall’inizio ho avvertito che Trump mancava dell’esperienza e delle conoscenze per scegliere un governo che gli stesse accanto e servisse la sua agenda. Trump ha ora licenziato l’unica persona su cui avrebbe potuto contare. La conclusione più ovvia è che Trump è carne morta».Negli Usa, «continua a guadagnare credibilità la tesi di Chris Hedges secondo la quale la rivoluzione è l’unico modo con cui gli americani possono rivendicare il proprio paese». Trump è stato crocifisso alle parole pronunciate alla vigilia delle elezioni, quando disse: «L’establishment di Washington, e le grandi aziende finanziarie e dei media che lo finanziano, esiste per una sola ragione: per proteggersi ed arricchirsi». Questo, aggiunse, «è un crocevia della storia della nostra civiltà che determinerà se noi, il popolo, recupereremo il controllo sul nostro governo». L’establishment politico, il Deep State: «Sta tentando di tutto per fermarci», disse Trump. Ed è «lo stesso gruppo responsabile per i nostri trattati commerciali disastrosi, la massiccia immigrazione illegale e le politiche estere che hanno fatto sanguinare questo paese fino a prosciugarlo». La classe politica «ha portato alla distruzione delle nostre fabbriche e dei nostri posti di lavoro, che fuggono in Messico, Cina e altri paesi in tutto il mondo». Un nemico potentissimo: «Si tratta di una struttura di potere globale che è responsabile per le decisioni economiche che hanno derubato la nostra classe operaia, spogliato il nostro paese della sua ricchezza e messo quei soldi nelle tasche di un pugno di grandi aziende ed entità politiche». Parole a cui oggi lo Stato Profondo sta inchiodando Trump, a colpi di finti scandali mediatici, verso l’impeachment.«Non c’è nulla che l’establishment politico non farà e nessuna bugia che non dirà, per mantenere il proprio prestigio e potere a carico vostro». Parola di Donald Trump, prima delle elezioni. Il guaio è che oggi, pochi mesi dopo il voto, Trump è “un uomo morto”. «Lo sforzo del popolo americano di portare il governo nuovamente sotto il proprio controllo tramite Trump è stato sconfitto dallo Stato Profondo», sentenzia Paul Craig Roberts, viceministro di Reagan negli anni ‘80, già sostenitore critico di “The Donald” e fiero avversario della “falsa sinistra” incarnata da Obama e Hillary, servitori del disegno “imperiale” del complesso militare-industriale, la “fabbrica della guerra”. Per John Schindler, ex spia della Nsa, Trump «morirà in carcere», vittima della «guerra nucleare» che lo “Stato Profondo” gli ha dichiarato. Cia, Pentagono, Wall Street, Fbi, industria degli armamenti. Il “grande nemico”, denunciato dal presidente Eisenhower nel suo ultimo discorso, avrebbe vinto ancora, secondo Craig Roberts: «Donald Trump ha sovrastimato il suo potere presidenziale? La risposta è sì. Steve Bannon, il principale consigliere di Trump, è politicamente inesperto? La risposta è sì». Trump ha sovrastimato le sue forze, ha sfidato il “mostro” e adesso pagherà un prezzo altissimo.
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Ricchi mai così ricchi, e ora gli Obama passano alla cassa
Barack Obama ha certamente fatto la sua parte. Durante i suoi otto anni di mandato i profitti delle imprese sono aumentati. La ricchezza dei 400 americani più ricchi è cresciuta tra i 1.570 e i 2.400 miliardi di dollari. La disuguaglianza sociale è aumentata ad un ritmo sempre più veloce. Con Obama alla Casa Bianca, il mercato azionario ha vissuto una delle sue corse di maggior successo in tutta la storia (il Dow Jones Industrial Average è aumentato del 148 %, ancora più di quanto aumentò con Ronald Reagan). In soldoni, secondo “Cnn-Money”, «le partecipazioni al Dow di Jp Morgan Chase e Goldman Sachs sono schizzate alle stelle dopo il bailout [2008-2009] e non sono lontano dai loro massimi storici. Le azioni di Apple sono aumentate più del 415% da quando [Obama] è diventato presidente. Amazon di un sorprendente 900%. E Facebook, che si è messa sul mercato negli ultimi mesi del primo mandato di Obama nel 2012, è arrivata al 230% dal suo prezzo base». Il “New York Times” gongolava, l’anno scorso: «I fatti sono indiscutibili: gli anni di Obama sono stati tra i migliori di sempre per gli investitori azionari, fin dagli albori del 20° secolo».«Pensate solo che se io fossi stato abbastanza lungimirante da acquistare quote di un fondo azionario a basso costo il primo giorno di insediamento di Obama, il 20 gennaio 2009, avrei triplicato i miei soldi. Performance del mercato azionario a questo livello, sono state superate raramente». Anche “Time Magazine” aggiunge che, durante il periodo di Obama, «le azioni Usa hanno più che triplicato i soldi degli investitori, generando rendimenti totali (includoso il valore dei dividendi reinvestiti) del 235% … mentre azioni di società con sede in Europa, Giappone, e in altri paesi con economie sviluppate hanno guadagnato solo il 96% in totale». Così sembra giusto che, dopo aver fatto diventare ancora più ricchi i già immensamente ricchi, a spese della classe operaia, Obama dovrà ricevere una adeguata ricompensa. Sia lui che sua moglie sembrano essere, certamente, di questo parere. Di recente abbiamo letto un titolo sorprendente: “Obama potrebbe incassare fino a 242 milioni di dollari dopo aver lasciato Washington”. Il titolo si basa su uno studio condotto da un ricercatore della Business School della American University di Washington.Lo studio titolava – un po ‘meno clamorosamente: “Come i presidenti fanno i milioni”, e ritiene che «gli Obama potrebbero guadagnare fino a 242.500 milioni con discorsi, presentazioni di libri e pensioni (presumendo un’età di pensionamento di 70 anni). Non male, per una coppia che era entrata alla Casa Bianca con un patrimonio netto di 1,3 milioni di dollari». La grande domanda che si pone questo studio è se gli Obama supereranno i Clinton nell’accumulare ricchezza dopo aver lasciato la Casa Bianca. «Gli Obama potrebbero uguagliare o addirittura superare i 75 milioni che i Clinton hanno fatto nei primi 15 anni fuori dalla Casa Bianca? Sembra possibile. Il presidente Obama lascia il suo incarico con due bestseller da aggiungere ai circa 40 milioni di dollari in diritti d’autore che incasserà insieme a Michelle. Aggiungiamo 3 milioni in redditi da pensione e almeno 50 discorsi l’anno, per un minimo di 200.000 dollari l’uno, e si è già vicino ai 200 milioni al lordo delle imposte. Dovrebbe bastare per piazzare gli Obamas nella parte alta della lista delle più ricche ex prime famiglie».Il “Washington Post” suggerisce altre possibilità: «Qualsiasi multinazionale sarebbe felice di avere un ex presidente al tavolo della sua direzione. Questi incarichi sociali pagano bene, con stipendi a sei cifre più benefit e viaggi con jet privato da e per gli incontri. Obama ha detto che in futuro non vuole viaggiare su aerei commerciali». Gli Obama sono già ricchi. L’editorialista Andrew Lisa osserva: «Barack Obama ha guadagnato 400.000 dollari all’anno per otto anni. Il presidente riceve anche un rimborso spese di 50.000 dollari l’anno, un rimborso per spese di viaggio non tassabili per 100.000 dollari e un budget di spese di rappresentanza di 19.000 dollari». Il 15 aprile 2016, il presidente Obama ha presentato le dichiarazioni dei redditi 2015, che mostrano che lui e la first lady Michelle Obama hanno congiuntamente un reddito lordo di 436.065 dollari. Hanno pagato 81.472 dollari di tasse in base al loro tasso di imposta del 18,7 per cento.Secondo “CelebrityNetWorth.com”, Obama ha un patrimonio netto di 12.2 milioni di dollari e Michelle Obama non è da meno, con un patrimonio netto di 11,8 milioni. Le trattenute per la pensione di Obama per il 2017 saranno di 207.800 dollari.Dopo aver lasciato la Casa Bianca il 20 gennaio e dopo una vacanza a Palm Springs, in California, Obama e la sua famiglia hanno programmato di trasferirsi in un quasi-palazzo nella zona di Kalorama a nord-ovest di Washington, Dc. La casa, con nove camere da letto e otto bagni, è su tre piani, più un livello inferiore, per “Forbes”; è una «residenza lussuosa in un quartiere desiderabile, costruita nel 1928, su 760 metri quadrati», per “Business Insider”, che aggiunge: «Possono essere considerati nuovi vicini di casa degli Obama, a Kalorama, sia il fondatore di Amazon Jeff Bezos, che la famiglia di Ivanka Trump e Jared Kushner, in quanto tutti hanno recentemente comprato casa in quel quartiere. Gli Obamas affitteranno la casa da Joe Lockhart, che è stato addetto stampa alla Casa Bianca del presidente Bill Clinton e resteranno fino a quando la figlia minore, Sasha, finirà la high-school. La casa era stata messa in vendita a 5,3 milioni di dollari prima di essere ritirata dal mercato a maggio scorso». “Forbes” stima che la proprietà abbia un valore di 7 milioni, una cifra che dovrebbe aumentare di altri 300.000 dollari nel corso del prossimo anno.Gli Obama pagheranno un fitto mensile di 22.000 dollari per la loro residenza. Inoltre, possiedono una casa da 1,5 milioni a Chicago e, se dobbiamo credere al “Washington Post”, «Obama, che è un appassionato di golf, è stato visto alla ricerca di una casa a Rancho Mirage [nella zona di Palm Springs], dove il golf è considerato una religione». Il “Palm Desert Patch” dice che, secondo voci di corridoio, la famiglia Obama sta cercando di acquistare una casa a Rancho Mirage, possibilmente nell’esclusivo quartiere di Thunderbird Heights, «zona conosciuta come “il parco giochi dei presidenti”». Karl Marx e Friedrich Engels, più di un secolo e mezzo fa, dicevano che «il capo di uno Stato moderno» non era altro che «un funzionario che deve gestire gli affari di tutta la classe dirigente». Cosa che è più che mai oscenamente trasparente e vera: i funzionari di questo “esecutivo” sono quelli che vengono meglio pagati da sempre.(David Walsh, “Gli Obama passano alla cassa”, da “Wsws.org” del 3 febbraio 2017, post tradotto da Bosque Primario per “Come Don Chisciotte”).Barack Obama ha certamente fatto la sua parte. Durante i suoi otto anni di mandato i profitti delle imprese sono aumentati. La ricchezza dei 400 americani più ricchi è cresciuta tra i 1.570 e i 2.400 miliardi di dollari. La disuguaglianza sociale è aumentata ad un ritmo sempre più veloce. Con Obama alla Casa Bianca, il mercato azionario ha vissuto una delle sue corse di maggior successo in tutta la storia (il Dow Jones Industrial Average è aumentato del 148 %, ancora più di quanto aumentò con Ronald Reagan). In soldoni, secondo “Cnn-Money”, «le partecipazioni al Dow di Jp Morgan Chase e Goldman Sachs sono schizzate alle stelle dopo il bailout [2008-2009] e non sono lontano dai loro massimi storici. Le azioni di Apple sono aumentate più del 415% da quando [Obama] è diventato presidente. Amazon di un sorprendente 900%. E Facebook, che si è messa sul mercato negli ultimi mesi del primo mandato di Obama nel 2012, è arrivata al 230% dal suo prezzo base». Il “New York Times” gongolava, l’anno scorso: «I fatti sono indiscutibili: gli anni di Obama sono stati tra i migliori di sempre per gli investitori azionari, fin dagli albori del 20° secolo».