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Piegare la Russia: prima con la finanza, poi con i missili
Solo un cretino può assistere allo spettacolo dell’America che aggredisce la Russia, senza capire che domani potrebbe toccare a noi, alleati-sudditi, pronti eventualmente anche a entrare in guerra. A spiegare l’aria che tira provvede un super-tecnocrate come Paul Roderick Gregory, consigliere internazionale della Scuola Economica di Kiev. Il piano è semplice: abbattere Putin per conquistare Mosca. Prima si prova col ricatto della finanza. Poi, se non basta, si procede con i missili. Questo “dottor Stranamore”, scrive Giulietto Chiesa, in una recente intervista su “Forbes” parla in modo diretto, e quindi «rappresenta bene la strategia, la tattica, le intenzioni dei gruppi “neocon” americani e di una parte importante di quelli europei». Dice cose illuminanti, lo Stranamore di Kiev, «pensate per distruggere il nemico prima ancora che cominci la guerra». Attenzione: «Siamo di fronte a un progetto che è molto più importante di una profezia». E quella di Gregory «è la voce di chi conta più di Obama». Purtroppo, il piano che enuncia – salvo modifiche di percorso imposte dalle circostanze – sarà il “film” che vedremo nei prossimi mesi.Invece di sanzioni più immediate, afferma Gregory, «che lavora a Kiev per conto dell’Occidente, che lo paga», l’Europa e gli Stati Uniti «devono orientarsi verso un’assistenza militare, letale, diretta contro l’invasione russa (perché chiamarla in altro modo?)». Usa e Ue devono «riesumare le installazioni della Iniziativa di Difesa Strategica in Polonia e in Repubblica Ceca, non come una punizione ma come una precauzione». Inoltre devono «rinvigorire la Nato, includendovi lo stazionamento di truppe nei paesi Nato che confinano con la Russia». Obama? «Deve approvare l’oleodotto Keystone e aprire più territori federali alle prospezioni petrolifere, approvare i terminali per l’esportazione di gas liquido, eliminare le restrizioni all’esportazione di petrolio, promuovere il “fracking” in Europa». Testualmente: «Obama deve condurre l’Europa, trascinandola per il naso, a una politica energetica collettiva e organica». Ed ecco il primo colpo finanziario da sferrare: «Noi abbiamo una opzione nucleare di cui pochi parlano: cacciare via le istituzioni finanziarie russe dal sistema “Swift” e guardarle mentre crollano».“Swift” è l’acronimo di “Society for Worlwide Interbank Financial Telecomunications”: è il centro – sotto controllo diretto Usa – attraverso cui passano e vengono registrate tutte le transazioni bancarie della globalizzazione americana. «Un collega – chiosa Gregory – ama ricordarmi che la sanzioni finanziarie sono oggi l’equivalente della diplomazia delle cannoniere del secolo XIX. Gli Stati Uniti hanno le cannoniere grazie al sistema del dollaro». Questo è senza dubbio il piano d’attacco, osserva Chiesa su “Megachip”: resta solo da vedere se funzionerà, ma si vede che non è campato in aria. Washington, infatti, ha armi di pressione molto potenti: «Essere entrati nella globalizzazione americana significa essersi messi un cappio al collo, che ora può essere stretto a piacimento dal suo padrone». Certo, nell’analisi di “Forbes” ci sono tutti i punti deboli di Mosca, mentre gli Usa e l’Europa sono presentati come in stato di euforica tranquillità: sappiamo che non è così. «Tuttavia, a Wall Street e alla City of London ci credono. Dunque dobbiamo assumere che si comporteranno di conseguenza, anche perché sappiamo che lo show-down ucraino è stato creato da loro».Tutto questo è ormai molto chiaro a Vladimir Putin e al suo più stretto entourage, continua Giulietto Chiesa, secondo cui però «a Mosca è pieno di gente, nei posti di comando, che ragiona nello stesso modo del Dottor Stranamore». Dunque, «questo è un momento cruciale per Putin e per la Russia». Ovvero, «è il momento in cui si deve capire cosa ha significato il passaggio al capitalismo americano realizzato da Boris Eltsin e Egor Gaidar: diventare ostaggi del mercato globale. E, quando è sorto il problema di difendere la propria nazione e i propri interessi, di scoprire che la propria libertà era stata comprata, per giunta per pochi copechi». Denaro, appunto. Proprio su questo si fonda la fase-1 del piano Usa, quella che precede la guerra. «La Russia ha un mercato di capitali esiguo. In questi anni circa la metà di quello che le serviva lo prendeva dall’estero. Se la si espelle dal mercato dei capitali – americano, giapponese, europeo – la si costringerà a fare appello a paesi che non sono stati assoggettati a sanzioni. In primo luogo alla Cina. Che ci riesca o meno è da vedere, ma per intanto le si renderà impossibile rifinanziare i debiti che scadono, stabilizzare il rublo, evitare il collasso degl’investimenti. Il primo passo obbligato sarà di intaccare le sue riserve in valuta; il secondo sarà di intaccare i fondi di riserva che Putin ha accumulato in questi ultimi anni, evidentemente in previsione di questi sviluppi».Secondo “Forbes”, nel 2013 il debito russo era a 47,2 miliardi di dollari. Dall’inizio della guerra in Ucraina, Mosca ha firmato contratti per prestiti di soli 1,5 miliardi di dollari. “Bloomberg” scrive che «non un solo dollaro, euro o yen è stato prestato a compagnie russe nel mese di luglio». Si aggiunga che, in queste condizioni, anche il costo del debito aumenta: «“Standard & Poor’s” ha fatto il suo dovere, portando il 25 aprile scorso il valore del debito russo solo un punto al di sopra dei titoli-spazzatura. Ciò ha costretto il ministero delle finanze russo a sospendere le aste delle emissioni di bond che aveva in programma», ricorda Chiesa. I dati aggregati ufficiali dicono che alla vigilia di “Euromaidan”, il golpe di Kiev, le imprese russe e le banche avevano un debito estero complessivo di 653 miliardi di dollari e un debito verso i risparmiatori russi di altri 650 miliardi. Ma il 24% del debito estero, quasi 16 miliardi, va a maturazione quest’anno. Idem per il 2015. Le sanzioni? «Servono per impedire alla Russia di pagare il debito o, come minimo, per infliggerle danni strategici rilevanti». È vero che le riserve valutarie russe sono di 468 miliardi e che il ministero delle finanze ha fondi di riserva per altri 173 miliardi, ma in queste condizioni si pensa che Mosca sarà costretta a ridurre le riserve valutarie del 22%.Certo, continua Chiesa, è sempre possibile (ma a Washington lo considerano remoto) che “qualcun altro” – leggi sempre la Cina e i paesi del Brics – tenti di aggirare i divieti degli Stati Uniti. Ma – considerando “Swift” e altri strumenti di controllo, come la Nsa – sarebbero facilmente individuabili e velocemente puniti. Inoltre, c’è il fenomeno della fuga di capitali, «su cui Putin sembra al momento impotente». La Bcr, banca centrale russa, giura che nel primo trimestre 2014 sono usciti “solo” 51 miliardi di dollari – cioè più di 100 miliardi in un anno? Secondo la Bce, invece, la “fuga da Mosca” è di ben altra entità: 221 miliardi nel solo primo trimestre di quest’anno. In arrivo una guerra di sbarramento contro l’esportazione illegale di capitali, «ma l’esperienza occidentale dice che con questi metodi non si ferma l’emorragia». I russi, aggiunge Giulietto Chiesa, si fidano di un’unica banca, la Sberbank, che vuol dire “cassa di risparmio”. «Ed è questo il motivo per cui Sberbank è stata subito messa all’indice delle sanzioni». Contromossa: «La Bcr ha alzato il tasso d’interesse sui depositi al 10,2%, ma è ancora da vedere se sia sufficiente a trattenere i capitali in Russia».Comunque, secondo questi calcoli, Washington è certa che Putin non potrà mantenere il livello di investimenti attuale anche se riuscisse a rifinanziare il debito. Gli investimenti esteri diretti si sono già dimezzati, 41 miliardi contro gli 80 del 2013. E i calcoli occidentali prevedono una riduzione secca degli investimenti, del 30-50%, tra il 2014 e il 2015. «Il tutto dovrebbe portare, nelle loro speranze, a un crollo del Pil russo attorno al 6-10%». E manca ancora un tassello, fondamentale: l’energia. «Metà delle entrate dello Stato russo derivano da petrolio e gas. Da esse dipende la tenuta economica (e sociale) del paese. E – si progetta a Washington – anche quella di Putin. Dunque si è deciso di colpire anche e soprattutto qui», scrive Giulietto Chiesa. «L’ideale sarebbe ripetere il giochetto con cui fu affondata l’Urss di Gorbaciov: cioè far scendere bruscamente il prezzo dell’energia». Questa, però, «è la scommessa meno sicura da vincere, rispetto alle precedenti». La tendenza, infatti, è a un aumento dei prezzi, sui quali Putin e la Russia possono contare per i prossimi anni. «Non resta allora che tagliare la testa al toro: impedire alla Russia di vendere il suo prodotto. La crisi Ucraina – costruita dagli Stati Uniti e appoggiata da una parte dell’Europa – è esattamente l’attuazione di questa parte del piano: prendere in mano il rubinetto del gas russo, a spese dell’Ucraina e dell’Europa, e chiuderlo».Il costo per la Russia è già stato calcolato: circa 100 miliardi di dollari all’anno. Non a caso, osserva Chiesa, lo stesso Obama è venuto per ben due volte in poco più d’un mese in Europa a vendere il suo “shale gas” in sostituzione di quello russo. «Il problema è che Obama questo gas non ce l’ha ancora, e forse non lo avrà mai, perché ha tutta l’aria di una meteora. Ma intanto il danno può essere inferto agli europei che ci hanno creduto e ci credono. E questo costringerà la Russia a rivolgere i suoi gasdotti a est». L’alternativa, per Mosca, è la Cina, che è assetata di energia: Pechino ha già risposto all’appello, e il nuovo sistema gasifero verso est è stato avviato con un investimento cinese di 50 miliardi di dollari, che verranno sborsati come pagamento anticipato del gas che verrà. «Dunque Putin avanza di un passo senza impiegare capitali», ragiona Chiesa, «ma i primi metri cubi passeranno in quei tubi solo tra quattro anni». Certo, Obama sa che di acquirenti del gas e del petrolio russo ce n’è molti: «Bisognerà dunque intimidirli, ricattarli, punirli se insistono, così come si sta cercando di fare con i prestatori di capitali troppo capricciosi. Purtroppo per Washington, non tutti sono ricattabili. La Cina non lo è, ed è l’acquirente maggiore di tutti gli altri messi insieme».Questo è dunque il piano di guerra, ideato e avviato dagli Stati Uniti. «Le armi previste stanno facendo male, molto male, alla Russia. Alcune sono imparabili e altre sono parzialmente parabili». In ogni caso la partita è aperta, visto che «l’America è pronta a andare anche oltre». C’è però un aspetto che a Washington non hanno calcolato bene: «La popolarità di Putin cresce invece che diminuire». Letteralmente, «i russi si sono “svegliati”, a partire dalla Crimea. E la sveglia, fortissima, si è trasferita nel Donbass e in tutta la Russia». Questo, secondo Chiesa, potrebbe essere l’errore più grosso della strategia americana, forse commesso «perché queste cose non si misurano con il metro di “Standard & Poor’s”». Ma c’è ancora una notazione da fare, e riguarda noi: «Questa “politica delle cannoniere” è applicabile verso chiunque. L’America è in crisi e non è disposta a pagare nulla. Domani, con gli stessi mezzi, potrebbe colpire chiunque». Oggi, Putin sta difendendo la sovranità russa. Quanto a noi europei, «quando saremo diventati più furbi capiremo che la nostra sovranità ci è già stata sottratta, mentre applaudivamo ai nazisti che prendevano il potere a Euromaidan».Solo un cretino può assistere allo spettacolo dell’America che aggredisce la Russia, senza capire che domani potrebbe toccare a noi, alleati-sudditi, pronti eventualmente anche a entrare in guerra. A spiegare l’aria che tira provvede un super-tecnocrate come Paul Roderick Gregory, consigliere internazionale della Scuola Economica di Kiev. Il piano è semplice: abbattere Putin per conquistare Mosca. Prima si prova col ricatto della finanza. Poi, se non basta, si procede con i missili. Questo “dottor Stranamore”, scrive Giulietto Chiesa, in una recente intervista su “Forbes” parla in modo diretto, e quindi «rappresenta bene la strategia, la tattica, le intenzioni dei gruppi “neocon” americani e di una parte importante di quelli europei». Dice cose illuminanti, lo Stranamore di Kiev, «pensate per distruggere il nemico prima ancora che cominci la guerra». Attenzione: «Siamo di fronte a un progetto che è molto più importante di una profezia». E quella di Gregory «è la voce di chi conta più di Obama». Purtroppo, il piano che enuncia – salvo modifiche di percorso imposte dalle circostanze – sarà il “film” che vedremo nei prossimi mesi.
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Anche Wall Street scommette sulla Terza Guerra Mondiale
Della crisi ucraina ho già scritto a più riprese. La prima cosa che mi colpì, nel momento in cui Viktor Yanukovic fu rovesciato da un colpo di stato plateale, appoggiato patentemente dagli Stati Uniti (meglio dire da loro promosso) con l’attiva partecipazione della Polonia, della Lituania e dell’Estonia, e dei fantocci al potere a Bruxelles, fu la sua apparente inutilità. Perché mettere in atto un golpe se Yanukovic poteva essere tranquillamente tolto di mezzo tra un anno con regolari elezioni? E altre domande portavano tutte a conclusioni analoghe. Perché rovesciare il tavolo quando l’Ucraina era già nelle mani degli americani, completamente – Yanukovic o non Yanukovic – da diversi anni? Sicuramente dai tempi della cosiddetta “rivoluzione arancione” di Yushenko-Timoshenko, che consegnarono nelle mani della Cia gli ultimi rimasugli di sovranità nazionale, dopo quelli svenduti dai precedenti presidenti dell’Ucraina “indipendente”, Kravchuk e Kuchma?Perché infine rovesciare Yanukovic quando lo stesso quarto e ultimo presidente dell’Ucraina aveva già venduto il Donbass alla Chevron e alla Shell? La bellezza di quasi 8.000 chilometri quadrati di territorio per la durata di 50 anni, un accordo segreto in gran parte valutato 10 miliardi di dollari, alla ricerca del gas da scisti bituminosi che avrebbe liberato “per sempre” l’Ucraina dalla dipendenza energetica dall’odiata Russia. Insomma: Yanukovic – presentato come «l’uomo di Mosca» da tutti i media occidentali – non era poi quel grande amico di Putin. Perché farlo fuori così brutalmente? Che bisogno c’era? Solo perché non aveva firmato a Vilnius il documento giugulatorio di “associazione” all’Unione Europea? Ma fino al novembre dell’anno precedente Viktor Yanukovic aveva negoziato, lasciando sperare in un successo europeo totale. Il documento era già pronto, anche se in parte assai segreto. Bastava aspettare qualche mese e sarebbe stato imposto, con le buone o con le cattive.No, tutti questi interrogativi non avevano risposte adeguate. Doveva esserci qualcos’altro. La fretta con cui Washington aveva premuto, e Varsavia aveva agito ai suoi ordini, indicava qualche altra impellente necessità. A me fu subito chiaro che il golpe – non a caso un golpe con le stigmate naziste così visibili – era diretto non contro Yanukovic, pedina di nessun peso, ma contro la Russia. I neocon, tramite la esecutrice Victoria Nuland, volevano una crisi di valenza internazionale, se non addirittura mondiale. Ma perché la fretta? Perché accelerare lo scontro e portare la Nato praticamente sul portone del Cremlino? Era, in fondo, uno scenario che io stesso avevo previsto sarebbe accaduto. Ma assistevo a un’improvvisa e drammatica accelerazione. Doveva esserci qualcos’altro a spiegare la fretta. E le dimensioni della rottura che si stava creando. Non si trattava di una crisi regionale, non un episodio passeggero. Le potenziali ripercussioni erano evidenti: uno scontro di portata non minore di quello della crisi dei missili a Cuba del 1962.Bisognava spiegare il senso e le ragioni dell’accelerazione. Io non sono un economista (lo ripeto sempre, per non eccitare le rimostranze degli scopritori dell’aria calda). Non sono neanche un esperto dei sotterfugi della finanza mondiale. Credo poco o nulla ai numeri che arrivano da quella parte, convinto ormai da tempo che sono in gran parte falsi o comunque molto manipolati. Ma tutto il nervosismo che da tempo leggo nei commenti di coloro che dicono d’intendersene (anche perché su quei trucchi ci hanno vissuto e ci vivono), mi ha fatto pensare che qualcosa non funzionava nei ragionamenti sopra esposti. Così mi sono trovato, con qualche sorpresa, in buona compagnia a parlare di “inizio della Terza Guerra Mondiale”. Devo prima di tutto esprimere i miei ringraziamenti a Roberto Savio, ideatore di quel fondamentale bollettino che si chiama “Other News”, con sottotitolo esplicativo: “L’informazione che i mercati eliminano”. Il primo di agosto, “Other News” ha pubblicato una rassegna che riprende numerosi spunti dal “Washington’s Blog”, così intitolata: “Un gruppo di esperti finanziari ai massimi livelli afferma che la Terza Guerra Mondiale è in arrivo, a meno che non la fermiamo”. Saccheggerò questa rassegna, che mi pare estremamente istruttiva.In primo luogo i nomi sono effettivamente grossi calibri, a giudicare dalla frequenza con cui i mercati li citano. Prendiamo per esempio Nouriel Rubini, che a gennaio di quest’anno twittava da Davos: «Molti oratori qui paragonano il 2014 con il 1914, quando la Prima Guerra Mondiale esplose e nessuno se l’aspettava. Siamo di fronte a un cigno nero nella forma di una guerra tra Cina e Giappone?» Fuochino. Ma gli fa eco Kile Bass, multimiliardario manager di hedge funds, che prima cita un «influente analista cinese» e poi lo stesso premier giapponese Abe, che «non escludono un confronto militare tra Cina e Giappone». Aggiungendo previsioni molto ben descritte, che in bocca a un gestore finanziario di quel calibro non possono essere trascurate. «Miliardi di dollari di depositi bancari saranno ristrutturati – ci informa Kile Bass – e milioni di prudenti risparmiatori finanziari perderanno grandi percentuali del loro reale potere d’acquisto esattamente nel momento sbagliato delle loro vite [sempre che ci sia un momento giusto per perdere i propri averi, ndr]. Neanche questa volta il mondo finirà, ma la struttura sociale delle nazioni influenti sarà posta in acuta tensione e in qualche caso fatta a pezzi. (…) Noi crediamo che la guerra sia un’inevitabile conseguenza dell’attuale situazione economica globale».Gli fa eco l’ex capo dell’Office for Management and Budget ai tempi di Reagan, David Stockman. Anche per lui lo scontro in atto tra America e Russia condurrà alla terza guerra mondiale. Un po’ più generico sulle modalità, ma convinto anche lui che si sta andando verso «una grossa guerra» (“a major war”) è l’ex analista tecnico di Goldman Sachs, Charles Nenner, che, ora in proprio, vanta tra i suoi clienti numerosi importanti hedge funds, banche, e un certo numero di ricchissimi investitori internazionali. Altrettanto, con qualche variazione, pensano investitori americani di primo piano come James Dines e Marc Faber. Quest’ultimo afferma apertamente che il governo americano comincerà nuove guerre in risposta alla crisi economica in atto. «La prossima cosa che il governo farà per distrarre l’attenzione della gente dalle cattive condizioni economiche – scrive Marc Faber – sarà di cominciare una qualche guerra da qualche parte».Tutto chiaro, ma allora come mai i giornali e le tv ci dicono che l’America va fortissimo? Pochi giorni fa Martin Armstrong – un gestore di fondi d’investimenti sovrani multimiliardari – dice la stessa cosa: «Occorre distrarre la gente dall’imminente declino economico». Gli ultimi due pezzi che ha scritto li ha intitolati così: “Andremo in guerra contro la Russia” e “Prepariamoci alla terza guerra mondiale”. Non è ben chiaro se tutti questi profeti stiano enunciando prognosi sincere o siano semplicemente festeggiando in anticipo i futuri successi economico-finanziari che si aspettano dalla guerra, essendo evidente, da sempre, che le guerre ingrassano prima di tutto i banchieri e poi i produttori di armi. Ma l’insistenza con cui il tema viene sollevato indica comunque che il puzzo di bruciato tutti costoro lo sentono in anticipo.Altri, per esempio la presidentessa del Brasile, Dilma Rousseff, osservano che il mondo è attraversato da una «guerra delle valute» che sta diventando globale, cioè di tutti contro tutti. Da non dimenticare che la seconda guerra mondiale arrivò dopo una serie violenta di svalutazioni competitive. Sta accadendo ora la stessa cosa, quando le nazioni svalutano per rendere più competitive le loro merci e per incentivare le esportazioni. E molti si stanno accorgendo che la nuova banca, creata dal Brics, con capitale iniziale di 100 miliardi di dollari, basata in Cina, costituisce una novità impressionante nel panorama globale, dove un numero crescente di transazioni avviene in yuan, in rubli, invece che in dollari Usa. Come scrive Jim Rickards – che nel 2009 partecipò ai primi “giochi di guerra finanziari” organizzati dal Pentagono – c’è il rischio che gli Stati Uniti si trovino «trascinati» in «guerre asimmetriche» di valute, in grado di accrescere le incertezze globali. È evidente che Rickards sta dalla parte americana. Ma, se il Pentagono – e non la Federal Reserve – organizza questo tipo di “giochi”, vuol dire che ci siamo già dentro fino al collo e che il loro carattere militare è fuori discussione.Del resto (questa volta parla il multimiliardario Hugo Salinas Price) «sono molti a chiedersi quali siano state le ragioni vere che hanno portato all’eliminazione di Gheddafi. Egli stava pianificando una valuta pan-africana. La stessa cosa accadde a Saddam Hussein. Gli Stati Uniti non tollerano alcun’altra solida valuta in grado di competere con il dollaro». Altri mettono il dito sulla crescente scarsità di risorse, soprattutto energetiche. Altri ancora guardano alla Cina come a un avversario bisbetico e sempre più incontrollabile – forse il protagonista di quella guerra asimmetrica citata da Jim Rickards. Gerald Celente, autore di accurate previsioni finanziarie e geopolitiche da molti anni, va anche lui seccamente alla conclusione: «Una terza guerra mondiale comincerà presto». Jim Rogers, un altro investitore internazionale miliardario, punta gli occhi sull’Europa: «Se si continua a salvare uno Stato dietro l’altro si finirà in un’altra guerra mondiale». Dunque continuiamo a strozzare i popoli europei, con l’obiettivo di evitare la guerra. Un pacifismo molto sospetto, ma comunque allarmato. Ovviamente sarà utile guardarsi da certi “pacifisti”. Ma questa rassegna è utile per capire che l’allarme è in aumento.La Cina, senza fare troppo rumore, fa provvista di risorse, energetiche e territoriali, solo che invece di mandare le proprie cannoniere (non è il tempo), quelle risorse se le compra, con i denari del debito americano. Putin deve fronteggiare la prima offensiva e non ha tempo da perdere. Tra l’altro un tribunale olandese, senza alcuna autorità o potere, ha decretato che la Russia dovrà pagare 50 miliardi di dollari, più gl’interessi, alla Yukos, cioè a quel bandito di Mikhail Khodorkovskij che la Russia ha scarcerato qualche mese fa con un gesto di distensione verso l’Europa (si noti che il tribunale sedeva nello stesso paese che aveva avuto il più alto numero di vittime nell’abbattimento del Boeing delle linee aeree malaysiane). Sarà stato un caso? Comunque, uno dei più vicini consiglieri di Putin, di fronte alla domanda “cosa farà la Russia di fronte a quella sentenza?”, ha risposto stringendosi nelle spalle: «C’è una guerra alle porte in Europa. Lei pensa realmente che una tale decisione abbia qualche importanza?».Giuridicamente non ce l’ha, ma sarà usata dai centri di comando dell’Occidente per colpire i beni russi all’estero, per sequestrare e congelare conti bancari, proprietà azionarie. Ecco una guerra asimmetrica appena iniziata senza essere stata nemmeno dichiarata. Un influente settimanale americano ha dedicato la sua copertina a Vladimir Putin, con questo commento: “Il Paria”. Un titolo che è, invece, una dichiarazione di guerra. Solo che non è stata pronunciata dal Dipartimento di Stato, bensì dal “ministero della propaganda”, cioè dai media occidentali. È stato Paul Craig Roberts a usare questa definizione in un articolo di qualche giorno fa. Chi è Paul Craig Roberts? È stato Assistente Segretario al Tesoro durante la presidenza Reagan, ex editore del “Wall Street Journal”, considerato dal “who’s who” americano come uno dei mille pensatori politici più influenti del mondo. L’articolo era intitolato: “La guerra sta arrivando” (“War is coming”).(Giulietto Chiesa, “Chi parla di Terza Guerra Mondiale?”, da “Megachip” del 6 agosto 2014).Della crisi ucraina ho già scritto a più riprese. La prima cosa che mi colpì, nel momento in cui Viktor Yanukovic fu rovesciato da un colpo di stato plateale, appoggiato patentemente dagli Stati Uniti (meglio dire da loro promosso) con l’attiva partecipazione della Polonia, della Lituania e dell’Estonia, e dei fantocci al potere a Bruxelles, fu la sua apparente inutilità. Perché mettere in atto un golpe se Yanukovic poteva essere tranquillamente tolto di mezzo tra un anno con regolari elezioni? E altre domande portavano tutte a conclusioni analoghe. Perché rovesciare il tavolo quando l’Ucraina era già nelle mani degli americani, completamente – Yanukovic o non Yanukovic – da diversi anni? Sicuramente dai tempi della cosiddetta “rivoluzione arancione” di Yushenko-Tymoshenko, che consegnarono nelle mani della Cia gli ultimi rimasugli di sovranità nazionale, dopo quelli svenduti dai precedenti presidenti dell’Ucraina “indipendente”, Kravchuk e Kuchma?
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Giannuli: rebus Germania, a metà strada tra Usa e Russia
«Se c’è un paese che gli Usa hanno interesse a spiare è proprio la Germania, il membro più irrequieto della Nato e anche quello più vicino ai russi». Alleati? Sì, ma di chi? Attenti alla Germania, avverte Aldo Giannuli: il paese leader della nuova Europa, ormai assurto al rango di potenza internazionale, potrebbe decidere di riposizionarsi sullo scacchiere mondiale alla luce del nuovo drammatico bipolarismo, da una parte Washington e dall’altra Mosca e Pechino. Tutti gli eventi degli ultimi mesi, incluse le voci sulle possibili dimissioni di Angela Merkel nel giro di un paio d’anni, sono «i sordi rimbombi che avvertono di un temporale in arrivo». A far da detonatore, la crisi in Ucraina che oppone gli Stati Uniti alla Russia, di cui la Germania è il primo partner commerciale. Berlino di fronte a un bivio drammatico? «E’ presto per dire se questa tendenza prenderà corpo e si materializzerà in un nuovo ordine mondiale, ma tutti iniziano a prendere le misure e a posizionarsi nel caso ciò dovesse accadere. E la domanda che gli americani e i russi si pongono è: “Ma la Germania da quale parte deciderà di stare?”».Nel giro di pochi mesi, scrive Giannuli nel suo blog, la Germania si è trovata al centro di una serie di notizie, tutte in qualche modo collegate tra loro. In primis, l’adesione al diktat statunitense per il blocco di alcuni conti russi, per lo più detenuti da magnati e oligarchi, protagonisti del «fittissimo import-export fra i due paesi». Come previsto, il boicottaggio dei conti russi ha causato un crollo della Borsa di Mosca, proprio mentre iniziava una manovra Usa per destabilizzare il rublo. «Poi, in marzo sono giunte notizie non proprio confortanti sulla situazione delle banche tedesche in vista degli stress-test previsti per il 2018. Del precario stato di salute della Commerzbank si sapeva, mentre era meno nota la situazione non più floridissima della Deutsche Bank», che alcuni analisti ritengono la peggiore banca europea, piena di titoli “marci”, cioè inesigibili. «Nel frattempo, i rapporti russo-tedeschi, pur sotto minaccia, sono proseguiti», e società tedesche e francesi hanno rilevato consistenti quote dell’Eni nella società impegnata a costruire Southstream, il grande gasdotto destinato ad aggirare l’Ucraina: il tracciato è stato modificato escludendo il nodo italiano di Tarvisio e creando una linea diretta Balcani-Austria, ma per ora «diverse società tedesche continuano a scommettere sulla Russia».Poi ci sono state le elezioni europee, dove la Merkel ha vinto e, alla fine, è riuscita a imporre il suo candidato, Juncker, a capo della Commissione. Pochi giorni dopo, «è nuovamente esplosa la grana dello spionaggio americano nei confronti della Germania, che sarebbe allegramente continuato dopo il caso Snowden». Al che, «scontata meraviglia sia della Merkel (“Non si spiano gli alleati!”) che di Obama (“Non ne sapevo nulla!”), scesi tutti e due dal pero». Domanda: com’è venuta fuori, la notizia? «Chi c’è dietro? Lo stesso che ha manovrato il caso Snowden?». In piena tempesta-spionaggio, per un solo giorno è lampeggiata sui media la notizia delle singolari dimissioni della Merkel: rinuncerebbe a ripresentarsi nel 2018, lasciando con largo anticipo per mettere in pista il successore. «La cosa è strana: la Merkel ha vinto le politiche solo 10 mesi fa, poi è andata tutto sommato bene alle europee e ha saldamente il governo in mano. Perché parla di dimissioni? E perché mai dovrebbe avviare la successione con un paio di anni di anticipo annunciandola un altro paio di anni prima? Lecito porsi una domanda: a chi sta parlando?».La riunificazione tedesca, continua Giannuli, è stata il principale avvenimento prodotto dalla fine del bipolarismo: la caduta del Muro è stata il simbolo visivo della fine di quell’ordine mondiale. «Poi le floride sorti della Germania sono andate di pari passo con la fase trionfale del nuovo ordine mondiale: la distensione nei rapporti con la Russia schiudeva ricche praterie alle imprese tedesche, la nascita dell’euro candidava Berlino a capitale naturale della nuova Europa, nuove frontiere all’espansionismo economico tedesco di aprivano via via verso est: Turchia, Kazakhstan, Cina, Corea». La Germania poteva ritenersi a buon diritto «uno dei protagonisti nel nuovo ordine mondiale sotto l’ombrello americano». E quando è arrivata la crisi del 2008, «è stata certamente uno dei paesi che ha retto meglio il colpo, anzi ha moltiplicato crediti ed influenza». Inoltre «è rimasta al centro di un sistema di alleanze a cerchi sovrapposti: membro della Nato, paese leader della Ue, ma insieme massimo partner commerciale della Russia. Ora però il vento è girato e le cose si mettono male». La crisi ucraina inizia a prospettare un nuovo bipolarismo est-ovest. La Germania da che parte starà?«Se c’è un paese che gli Usa hanno interesse a spiare è proprio la Germania, il membro più irrequieto della Nato e anche quello più vicino ai russi». Alleati? Sì, ma di chi? Attenti alla Germania, avverte Aldo Giannuli: il paese leader della nuova Europa, ormai assurto al rango di potenza internazionale, potrebbe decidere di riposizionarsi sullo scacchiere mondiale alla luce del nuovo drammatico bipolarismo, da una parte Washington e dall’altra Mosca e Pechino. Tutti gli eventi degli ultimi mesi, incluse le voci sulle possibili dimissioni di Angela Merkel nel giro di un paio d’anni, sono «i sordi rimbombi che avvertono di un temporale in arrivo». A far da detonatore, la crisi in Ucraina che oppone gli Stati Uniti alla Russia, di cui la Germania è il primo partner commerciale. Berlino di fronte a un bivio drammatico? «E’ presto per dire se questa tendenza prenderà corpo e si materializzerà in un nuovo ordine mondiale, ma tutti iniziano a prendere le misure e a posizionarsi nel caso ciò dovesse accadere. E la domanda che gli americani e i russi si pongono è: “Ma la Germania da quale parte deciderà di stare?”».
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Europei svegliatevi, o entro il 2018 siamo tutti in guerra
La divisione del mondo in due blocchi – l’Occidente e tutti gli altri – non è un’ipotesi pessimistica, ma una realtà che si sta concretizzando sotto i nostri occhi. Gufi e Cassandre non c’entrano. Contrapposizioni, blocchi oligarchici e pericolo di guerra sono reali. Seguono alcuni fatti che cerchiamo di interpretare, proponendo anche una possibile “uscita di sicurezza”. In Medio Oriente si sta compiendo l’ultima fase della dislocazione geopolitica del “mondo arabo”. Il lungo immobilismo imposto dagli europei e dagli americani – nel 1916 e poi dal 1945 al 2010 – non era più difendibile, anche perché insidiato significativamente dalla penetrazione commerciale cinese. La prima fase è stata quella di sostenere attivamente la divisione del mondo sunnita attraverso operazioni di promozione della “democrazia”, inaugurate da Obama al Cairo nel 2009 con il discorso sul “nuovo inizio”, e per la rinascita dei Fratelli Musulmani – che già negli anni ‘20 rifiutavano la dominazione wahabita – attraverso una serie di rivoluzioni che servivano a irreggimentare in nuovi regimi dal volto democratico le legittime rivolte popolari.La seconda fase è stata militare e ha avuto avvio nel 2011 con il bombardamento della Libia e l’uccisione di Gheddafi, seguita dall’inizio della guerra anti-Assad in Siria, compiuta dando sostegno militare a milizie islamiste sunnite che, come oggi vediamo, intendono colpire al cuore il dominio wahabita creando uno “Stato islamico” sunnita tra Iraq e Siria (non a caso l’Arabia Saudita ha schierato 30.000 soldati sul confine iracheno). La terza fase è la neutralizzazione di due nemici strategici dell’Occidente, Arabia Saudita e Iran, attraverso la manipolazione delle informazioni in entrambi i campi contrapposti, cioè sunniti e sciiti. Quest’ultima fase avrà una durata variabile – tra due e cinque anni – e intende dividere e distruggere il Medio Oriente, in modo tale che anche per la Cina, e più recentemente per la Russia, diventi poco conveniente fare commerci in quei territori. È prevedibile che alla fine, per necessità ma non senza difficoltà, Turchia, Iran e Kurdistan sceglieranno un legame più stretto con il “nuovo mondo” che si sta coagulando all’ombra della Russia e della Cina.In Ucraina è in corso una guerra che incide significativamente sulla ridefinizione del carattere politico dell’Eurasia. Come in altri teatri strategici, l’Occidente (anglo-americano) preferisce la frantumazione all’unificazione. Infatti, con la guerra in Ucraina, le potenze atlantiche (Usa, Uk e Francia) vogliono impedire la percorribilità della saldatura tra l’Unione Europea e la Russia, e più precisamente tra la potenza continentale europea, la Germania, e Mosca. La combinazione della potenza industriale tedesca con le materie prime e la forza militare russa avrebbe creato immediatamente un colosso che metteva a rischio il dominio, sebbene declinante, delle “potenze marittime”. La situazione è ancora piuttosto fluida, ma la decisione tedesca di isolare il Regno Unito nella designazione del nuovo presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker, è un segnale politico di non poco conto. Infatti, le ultime mosse tedesche – dalle nomine europee alle scelte di orientamento delle politiche energetiche, monetarie e fiscali – indicano che più che una Germania europea stia rafforzandosi l’Europa tedesca.Questo spiega le parole di attrito con la Germania che sono emerse nei recenti discorsi del premier italiano, Matteo Renzi, che è corso a sostegno della linea “atlantica”, anche contro i propri interessi nazionali. Un primo segno di frantumazione dell’unità europea, rappresentata dalla grande coalizione socialisti-popolari-liberali, è emerso con la posizione del gruppo dei socialisti e democratici (S&D) che ha minacciato di non votare Juncker senza una “cambiamento di rotta sulla crescita”. Come abbiamo già riferito su queste pagine, dietro la magica parolina “crescita” si nasconde lo scontro tra due gruppi oligarchici occidentali. Il primo che sostiene “politiche monetarie e fiscali espansive” e il secondo che non cede su quelle rigoriste e d’austerità finalizzate alla difesa e conservazione del valore. A ben vedere sono due anime della sovranità e dell’esercizio del dominio occidentale: la prima è incline alla guerra finanziaria, la seconda a quella economica. Sull’uso della forza militare per difendere i propri interessi, le due oligarchie non differiscono granché. È possibile che la grande coalizione europea reggerà e che il Regno Unito riuscirà a non abbandonare completamente l’Ue. Se così sarà, non potendo trovare sfogo in Eurasia, la potenza tedesca si accrescerà in Europa continentale. Questo è il prezzo che Usa e Uk sono pronti a pagare per ridefinire il carattere politico dell’Eurasia ed evitare la disintegrazione dell’Ue. La conseguenza sarà un’Eurasia sempre più asiatica.A livello mondiale si profilano due blocchi: l’Occidente e il resto del mondo. Quest’ultimo è partito in ritardo, nell’ultimo ventennio, ma sta procedendo a una velocità elevata verso la creazione di infrastrutture e sistemi di scambio commerciale e finanziario progressivamente indipendenti dal dollaro americano. A giugno di quest’anno è stato concluso l’accordo di swap rublo-yuan, per semplificare il finanziamento del commercio tra i due paesi. Questo accordo è la base per la «creazione di un’istituzione di un sistema di scambi multilaterali che permetterà di trasferire risorse da un paese all’altro, se necessario. Una parte delle riserve valutarie potrà essere destinata a questo scopo [il nuovo sistema]» (“Prime News Agency”). Da questo scaturirà un “sistema quasi-Fmi”. I Brics utilizzeranno una parte (molto probabilmente la “parte del dollaro”) delle proprie riserve valutarie per sostenerlo, riducendo drasticamente la quantità di strumenti in dollari acquistati dai più grandi creditori esteri degli Stati Uniti.Anche in Europa cresce la convinzione che un accordo con la Cina e lo yuan sia improcrastinabile. Tra le ultime mosse in ordine di tempo spicca quella della Banca nazionale della Francia, che ha costituito una piattaforma per lo scambio euro-yuan. Il suo presidente, Christian Noyer, avrebbe dichiarato che come corollario a quanto gli americani hanno fatto alla Bnp Paribas (una multa di 10 miliardi di dollari per violazione delle sanzioni Usa), il commercio con la Cina deve essere gestito in yuan o euro. In contemporanea, Usa e Regno Unito stanno accelerando sulla conclusione di due enormi accordi commerciali che hanno la finalità di “consolidare” gli asset dell’Occidente. Sul Ttip, l’accordo di partenariato commerciale degli investimenti tra Ue e Usa, si attende la conclusione dei negoziati entro la fine dell’anno, sebbene ci sia stato qualche disaccordo sull’estensione del Ttip al settore dei servizi finanziari (fortemente sostenuto dal Regno Unito, ma non dalla Francia e dalla Germania).Sul secondo accordo, il Tisa, “Trade in service agreement”, si sa che è stato negoziato dal settembre 2013 a porte chiuse a Ginevra dai seguenti Stati: Australia, Canada, Cile, Taiwan, Colombia, Costa Rica, Unione Europea, Hong Kong, Islanda, Israele, Giappone, Liechtenstein, Messico, Nuova Zelanda, Norvegia, Pakistan, Panama, Paraguay, Perù, Corea, Svizzera, Turchia e Usa. Non riuscendo a inserire il settore dei servizi nel Ttip, il Tisa risolve il problema, allargandone lo scopo a tutte le attività di servizio, inclusi i servizi pubblici. Il settore dei servizi significa il 70% del Pil dei paesi industrializzati e l’ultima volta che fu trattato a livello multilaterale era il 1995 in ambito Gatts e poi Omc. Il 19 giugno scorso, Wikileaks ha rivelato uno dei protocolli del Tisa. Sulle conseguenze e la pericolosità sociale del Tisa si rimanda a un ottimo dossier pubblicato dal quotidiano francese “L’Humanité”.Secondo il quotidiano svizzero “Bilan”, già nell’aprile 2014 il testo finale del Tisa era «sufficientemente maturo» per essere approvato e sottoposto alla firma dei governi. I dirigenti dell’Ue tacciono, così come i governi degli Stati dell’Unione: nessuna informazione pubblica. Recentemente, Mauro Bottarelli, visti i dati finanziari in suo possesso, si interrogava su questo giornale se si stesse avvicinando una guerra. In considerazione di quanto abbiamo descritto sopra, tutto farebbe pensare a preparativi propedeutici a uno scontro tra i due blocchi. Tuttavia, l’eventualità di uno scontro armato potrebbe collocarsi dopo le elezioni presidenziali americane del novembre 2016. Inoltre, la maturazione del blocco non occidentale richiede ancora del tempo. Quindi, semmai si dovesse intraprendere la disgraziata via delle armi, l’area temporale sarebbe tra il 2018 e il 2020. Per evitare questo scenario da incubo – si ricorda che la proliferazione non convenzionale è molto cresciuta negli ultimi anni – l’unica possibilità sarebbe il risveglio degli europei.A iniziare dalla guerra in Ucraina, una soluzione sarebbe, come ha suggerito “Leap 2020”, da sviluppare in tre stadi: a) riconoscere in modo preliminare le responsabilità condivise; b) riprendere al più presto le relazioni euro-russe per creare le condizioni di una soluzione sostenibile per l’Ucraina; c) convocare una conferenza internazionale euro-Brics per risolvere la crisi ucraina. Per la situazione del Medio Oriente, né l’Europa né gli Usa devono intervenire, anche a causa del fardello storico che li farebbe sospettare, non a torto, di essere di parte. Quindi sarà una situazione che potrà trovare uno sbocco solo permettendo alle forze locali di misurarsi e di trovare un punto di equilibrio. Considerata la responsabilità storica, anche recente, che hanno l’Europa e gli Usa, la miglior soluzione sarebbe di evitare mediazioni e coinvolgimenti diretti o indiretti, finanziando invece sostanzialmente le organizzazioni internazionali. Quanto agli accordi Ttip e Tisa, l’Ue e i suoi Stati rischiano di accelerare l’integrazione del continente invece di prevenirla. Sarebbe forse il caso che tali accordi divenissero innanzitutto pubblici e poi che siano sottomessi a referendum popolare. Ma forse questo è il libro dei sogni e i dati di Bottarelli, nella loro crudezza, già indicano il futuro che ci attende.(Paolo Raffone, “Geo-finanza, gli accordi che avvicinano una guerra”, da “Il Sussidiario” del 7 luglio 2014).La divisione del mondo in due blocchi – l’Occidente e tutti gli altri – non è un’ipotesi pessimistica, ma una realtà che si sta concretizzando sotto i nostri occhi. Gufi e Cassandre non c’entrano. Contrapposizioni, blocchi oligarchici e pericolo di guerra sono reali. Seguono alcuni fatti che cerchiamo di interpretare, proponendo anche una possibile “uscita di sicurezza”. In Medio Oriente si sta compiendo l’ultima fase della dislocazione geopolitica del “mondo arabo”. Il lungo immobilismo imposto dagli europei e dagli americani – nel 1916 e poi dal 1945 al 2010 – non era più difendibile, anche perché insidiato significativamente dalla penetrazione commerciale cinese. La prima fase è stata quella di sostenere attivamente la divisione del mondo sunnita attraverso operazioni di promozione della “democrazia”, inaugurate da Obama al Cairo nel 2009 con il discorso sul “nuovo inizio”, e per la rinascita dei Fratelli Musulmani – che già negli anni ‘20 rifiutavano la dominazione wahabita – attraverso una serie di rivoluzioni che servivano a irreggimentare in nuovi regimi dal volto democratico le legittime rivolte popolari.
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I Brics: addio dollaro, così fermeremo i missili Usa
Porre fine al monopolio del dollaro come valuta internazionale. Obiettivo: frenare l’aggressività militare degli Usa, che sta mettendo in pericolo la stabilità geopolitica del mondo. Russia e Cina guidano i Brics verso la de-dollarizzazione del pianeta, allo scopo di sottrarre linfa all’apparato industriale-militare statunitense. Grandi manovre sono ormai in corso, conferma “Zero Hegde”, per re-impostare il commercio mondiale costruendo un’alternativa al dollaro come moneta di scambio. «Mentre i governi di tutto il mondo sono occupati a nascondere alla loro devastata classe media la vera faccia del mercato e a distrarla dal progressivo impoverimento della sua esistenza, dietro le quinte sta avvenendo qualcosa di veramente importante, di cui solo pochissimi si rendono conto». Un nuovo sistema di scambio monetario tra le banche centrali dei Brics faciliterà il finanziamento del commercio, bypassando completamente il dollaro. Il nuovo sistema «potrà agire anche come sostituto de facto del Fmi», segnando la fine di un’epoca.Sono molti, segnala “Zero Hedge” in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”, i paesi che stanno «gettando le basi per questa guerra valutaria finale». Valentin Madrescu, di “Vor”, spiega che la “riconversione” sta avvenendo «lentamente ma inesorabilmente, nei paesi del Brics». Lavori in corso: Elvira Nabiullina, governatore della banca centrale russa, ha concertato con Putin l’imminente accordo rublo-yuan con la Banca Popolare Cinese. Sergej Glaziev, consigliere economico di Putin, sostiene la necessità di «creare un’alleanza internazionale di paesi disposti a sbarazzarsi del dollaro per i loro commerci internazionali e a rifiutarsi di continuare a stoccare dollari come riserve valutarie». L’obiettivo finale, rileva “Zero Hedge”, sarebbe quello di «far ingrippare la macchina-stampa-soldi di Washington che serve ad alimentare il suo complesso militare e industriale, che sta permettendo agli Usa di diffondere il caos in tutto il mondo, fomentando le guerre civili in Libia, Iraq, Siria e in Ucraina».La missione tecnica dei banchieri russi e cinesi: semplificare il finanziamento del commercio internazionale. «Stiamo discutendo con la Cina e con i nostri parter del Brics sull’istituzione di un sistema di scambi multilaterali, che permetterà di trasferire risorse da un paese all’altro, se necessario», dice Glaziev a “Prime News Agency”. «Una parte delle riserve valutarie potrà essere destinata a questo scopo», cioè la creazione del nuovo sistema.«Sembra che il Cremlino abbia scelto l’approccio all-in-one per costruire la sua alleanza anti-dollaro», scrive Tyler Durden. «Uno scambio monetario tra le banche centrali dei Brics faciliterà il finanziamento del commercio, bypassando completamente il dollaro. Allo stesso tempo, il nuovo sistema potrà anche agire come sostituto de facto del Fondo Monetario Internazionale, perché permetterà ai membri dell’alleanza di usare le risorse per finanziare i paesi più deboli». I Brics probabilmente useranno le loro attuali riserve in dollari per sostenere il nuovo sistema, «riducendo drasticamente la quantità di strumenti in dollari acquistati dai più grandi creditori esteri degli Stati Uniti».Gli scettici, aggiunde Durden, sicuramente diranno che l’alleanza dei Brics contro il dollaro non riuscirà a privare il biglietto verde del suo status di valuta di riserva globale. In compenso, bisogna ammettere che Washington «sta facendo del suo meglio per allargare le fila dei nemici del dollaro». Quando il canale televisivio “Russia 24” ha chiesto a Sergej Kostin di commentare le dichiarazioni della Nabiullina, tra le più convinte sostenitrici della svolta anti-dollaro, ha ottenuto una risposta illuminante sui contraccolpi in Europa: l’asse tra la valuta russa e quella cinese è ormai imminente, la modalità dei pagamenti rublo-yuan «sarà lasciata libera», mentre la stessa Banca di Francia – per proteggere Bnp Paribas da Wall Street – per bocca del governatore Christian Noyer annuncia che il commercio con la Cina sarà «gestito in yuan o in euro», non più in dollari. «Se la tendenza attuale dovesse continuare – rileva Durden su “Zero Hedge” – presto il dollaro sarà abbandonato dalle più importanti economie globali e sbattuto fuori dalla finanza del commercio globale. Il bullismo di Washington porterà anche i suoi alleati storici a dover scegliere l’allenza dei Brics, invece del sistema monetario attuale basato sul dollaro». Secondo Durden, «il punto di non-ritorno per il dollaro potrebbe essere molto più vicino di quanto si creda».Porre fine al monopolio del dollaro come valuta internazionale. Obiettivo: frenare l’aggressività militare degli Usa, che sta mettendo in pericolo la stabilità geopolitica del mondo. Russia e Cina guidano i Brics verso la de-dollarizzazione del pianeta, allo scopo di sottrarre linfa all’apparato industriale-militare statunitense. Grandi manovre sono ormai in corso, conferma “Zero Hegde”, per re-impostare il commercio mondiale costruendo un’alternativa al dollaro come moneta di scambio. «Mentre i governi di tutto il mondo sono occupati a nascondere alla loro devastata classe media la vera faccia del mercato e a distrarla dal suo progressivo impoverimento, dietro le quinte sta avvenendo qualcosa di veramente importante, di cui solo pochissimi si rendono conto». Un nuovo sistema di scambio monetario tra le banche centrali dei Brics faciliterà il finanziamento del commercio, bypassando completamente il dollaro. Il nuovo sistema «potrà agire anche come sostituto de facto del Fmi», segnando la fine di un’epoca.
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Altre sanzioni, e addio dollaro: Mosca passa allo yuan
L’asse eurasiatico anti-dollaro sta rapidamente prendendo forma, accelerato dalla politica estera degli Usa in Ucraina: la crisi, osserva Tyler Durden, ha rapidamente spinto la Russia verso la Cina. Il “Financial Times” conferma che le imprese russe si stanno preparando a modificare i loro contratti per accettare pagamenti in renminbi e altre valute asiatiche, nel timore che le sanzioni occidentali possano congelare le loro spettanze una volta tagliate fuori dal mercato del dollaro. Lo conferma Pavel Teplukhin, capo della Deutsche Bank in Russia, mentre un altro super-banchiere come Andrej Kostin, ceo della banca di Stato russa Vtb, ammette che l’allargamento dell’uso di valute alternative al dollaro è uno dei loro «maggiori obiettivi», in vista del poderoso incremento dei volumi del commercio bilaterale con la Cina. Per i pagamenti, dunque, via libera al rublo e allo yuan. «Ci stiamo lavorando», conferma lo stesso Putin. E un altro banchiere europeo in Russia ammette: «Non c’è niente di sbagliato se la Russia vuol provare a ridurre la propria dipendenza dal dollaro».La notevole esposizione in dollari della Russia costringe Mosca ad un’estrema volatilità, pericolosa in tempi di crisi: «Non c’è ragione, per esempio, di pagare i conti in dollari se si commercia con il Giappone». L’amministratore delegato di una importante industria manufatturiera russa, che fattura le esportazioni per il 70% in dollari Usa, spiega che la sua azienda ha già fatto i passi opportuni per modificare la forma di pagamento dei suoi contratti anche in altre valute, nel caso di ulteriori sanzioni: «Se capitasse qualcosa, saremmo pronti ad accettare pagamenti anche in altre valute, per esempio in yuan o in dollari di Hong Kong e Singapore dalla Cina». Mentre i rapporti di Mosca con l’Unione Europea si vanno facendo sempre più tesi, scrive Durden in un post su “Come Don Chisciotte”, è evidente la svolta della Russia verso Pechino: non devono meravigliare gli attacchi improvvisi contro il valore del renmimbi, in vista del suo possibile futuro «come valuta di capitali russi».La domanda più importante: quanto peserà sulla tenuta della valuta cinese la maggiore domanda di yuan per pagare le importazioni russe? «Quello che non si vuol capire, ancora una volta – scrive Durden – è che la Russia sta servendo solamente l’aperitivo di quello che serviranno al G-20 gli altri paesi, molti dei quali sono veramente indispettiti per l’uso prepotente del potere di voto Usa al Fondo Monetario Internazionale». Questo, secondo l’analista, potrebbe portare ad accordi bilaterali che ogni paese potrebbe stipulare con la Cina: «Pratiche che comporterebbero una ulteriore de-dollarizzazione, permettendo al renminbi di diventare progressivamente ancora più importante sul palcoscenico mondiale». Secondo Teplukhin, le società russe sono già pronte ad affrontare il rischio di future sanzioni Usa con un semplice «cambio di clausola nei loro contratti, per permettere di cambiare la valuta di pagamento, ove necessario».Ma forse, continua Durden, è ancora più importante il prossimo passo accennato dal Cremlino: a Mosca c’è chi suggerisce a Putin di rispondere alle sanzioni occidentali con una «completa de-dollarizzazione» della propria economia. Per il momento, Putin valuta e prende tempo. «Fino a quando la Russia non sarà soggetta a sanzioni sistemiche, che potrebbero portare a dei limiti artificiali per la nostra economia nell’accesso al dollaro, non credo che faremo ulteriori passi per raggiungere una artificiosa de-dollarizzazione», dice Andrej Belousov, consigliere economico di Putin. In ogni caso, per Tyler Durden lo scenario è delineato: «Più l’Occidente insisterà con le sanzioni, più rapida sarà la caduta del dollaro americano». La Russia? Oggi «ha in mano la carta vincente», perché «se solo volesse mostrare al mondo che l’asse Russia-Cina non ha bisogno dei verdoni dello Zio Sam, le basterebbe essere appena più “aggressiva” in Ucraina e farsi appioppare altre sanzioni, in modo da essere “obbligata” a de-dollarizare un tantino di più. Poi la vedremmo risciacquarsi la bocca e sputare l’acqua sporca».L’asse eurasiatico anti-dollaro sta rapidamente prendendo forma, accelerato dalla politica estera degli Usa in Ucraina: la crisi, osserva Tyler Durden, ha rapidamente spinto la Russia verso la Cina. Il “Financial Times” conferma che le imprese russe si stanno preparando a modificare i loro contratti per accettare pagamenti in renminbi e altre valute asiatiche, nel timore che le sanzioni occidentali possano congelare le loro spettanze una volta tagliate fuori dal mercato del dollaro. Lo conferma Pavel Teplukhin, capo della Deutsche Bank in Russia, mentre un altro super-banchiere come Andrej Kostin, ceo della banca di Stato russa Vtb, ammette che l’allargamento dell’uso di valute alternative al dollaro è uno dei loro «maggiori obiettivi», in vista del poderoso incremento dei volumi del commercio bilaterale con la Cina. Per i pagamenti, dunque, via libera al rublo e allo yuan. «Ci stiamo lavorando», conferma lo stesso Putin. E un altro banchiere europeo in Russia ammette: «Non c’è niente di sbagliato se la Russia vuol provare a ridurre la propria dipendenza dal dollaro».
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Piano Manhattan: banche, guerra segreta contro Putin
«Questa non è un’altra guerra fredda: non c’è nessun plausibile equilibrio tra Russia e Occidente, e nessuna ideologia mistica da contrapporre». Quella in atto contro Mosca è una guerra economica, che gli Usa stanno preparando da 12 anni. Si chiama “Progetto Manhattan”, messo a punto da un dipartimento d’élite del Tesoro: una «bomba finanziaria al neutrone», progettata per «mettere la Russia in ginocchio senza sparare un colpo». La strategia si basa sul controllo egemonico del sistema bancario globale: si tratta di colpire le banche russe, con la collaborazione – convinta o riluttante – di tutti gli alleati degli Usa. «La resa dei conti per la finanza degli Stati Uniti con la Russia è più pericolosa di quello che sembra», avverte Ambrose Evans-Pritchard: la Russia è il più grande produttore mondiale di energia, ha un fatturato da duemila miliardi di dollari, dispone di eccellenti scienziati e mantiene in efficienza un arsenale nucleare di prim’ordine.Juan Zarate, il “cervello” del Tesoro che ha contribuito a ridisegnare la politica della Casa Bianca dopo l’11 Settembre, la definisce «un nuovo tipo di guerra, una specie di insurrezione finanziaria strisciante, con l’intento di incidere senza precedenti sulla linfa vitale finanziaria dei nostri nemici». Una strategia «più efficiente e sottile di qualsiasi altro confronto geopolitico del passato, ma non meno spietato e distruttivo», scrive nel suo libro “La guerra del Tesoro: lo scatenamento di una nuova era di guerra finanziaria”. Obiettivo: stringere il cappio intorno al collo della Russia di Vladimir Putin, chiudendo lentamente l’accesso al mercato per banche, le aziende gli enti statali russi, scrive Evans-Pritchard in un intervento sul “Telegraph” ripreso da “Come Don Chisciotte”. L’arma invisibile è una disposizione contenuta nel Patriot Act: se una banca si macchia di mancato rispetto delle norme previste – se viene accusata di riciclaggio di denaro o di sovvenzionare attività terroristiche o reati collaterali – diventa “radioattiva” e viene catturata nell’abbraccio mortale di Wall Street. Il suo valore crolla e gli azionisti fuggono.«Questa può essere una condanna a morte, anche se il creditore non svolge nessuna operazione negli Stati Uniti», annota Evans-Pritchard. «Le banche europee non hanno il coraggio di sfidare le autorità di regolamentazione Usa e rompono tutti i loro rapporti con la vittima». Così, finora, hanno fatto anche i cinesi: nel 2005 gli Usa colpirono il Banco Delta Asia (Bda) di Macao, accusandolo di essere stato un canale di pirateria commerciale verso la Corea del Nord. La Cina staccò la spina e il Bda fallì entro due settimane. Zarate, lo stratega della guerra finanziaria contro Mosca, sostiene che gli Usa potrebbero procedere anche da soli con le sanzioni, senza neppure attendere gli alleati europei. Il nuovo arsenale, continua Evans-Pritchard, è stato schierato contro l’Ucraina già nel 2002, quando gli Usa accusarono le banche di Kiev di riciclare i fondi della mafia russa, facendole capitolare.«Si sta facendo una guerra segreta su scala globale di lungo termine», conferma Zarate. EPutin sa esattamente che cosa possono fare gli Usa con le loro armi finanziarie. Secondo Zarate, la Casa Bianca di Obama ha aspettato anche troppo a lungo per fare sul serio, aggrappandosi alla speranza che Putin avrebbe smesso presto di infrangere le regole. Non sono bastati gli “avvertimenti” inviati alle banche russe che sostenevano il regime siriano. Per lo stratega di Washington, gli americani ora «dovrebbero togliersi i guanti: più aspettano, più dovranno muoversi pesantemente». Sempre secondo Zarate, potrebbe essere già troppo tardi per mantenere il controllo dell’Ucraina orientale, ma non troppo tardi per far pagare ai russi un prezzo molto caro. «Se il Tesoro degli Stati Uniti affermasse che tre banche russe sono coinvolte in preoccupanti operazioni di riciclaggio – dice – siamo sicuri che Ubs o Standard Chartered non ci rimetterebbero niente?».Questo potrebbe far emettere sanzioni progressive alle imprese della difesa russa e alle esportazioni di minerali e di energia: basterebbe una stretta su Gazprom, per far crollare tutto il sistema. Per Evans-Pritchard, invece, è meglio che alla Casa Bianca non si facciano illusioni: la Russia ha 470 miliardi di dollari di riserve estere, con le quali la banca centrale combatte la fuga dei capitali e difende il rublo. Il professor Harold James, di Princeton, ricorda la vigilia della Prima Guerra Mondiale: Gran Bretagna e Francia pensavanodi scatenare una guerra finanziaria per controllare la potenza tedesca. Ma attenzione: rompere gli equilibri che sostengono la finanza mondiale significa che niente potrà più contenerla. Le sanzioni? Rischiano solo di innescare reazioni a catena simili allo shock del 2008. «Lehman era solo un piccolo istituto, se lo dovessimo confrontare con le banche austriache, francesi e tedesche che sono oggi altamente esposte al sistema finanziario della Russia. Un congelamento dei beni russi – scrive James “Project Syndicate” – potrebbe essere catastrofico per i mercati finanziari europei, anzi per i mercati globali».Secondo Evans-Pritchard, è molto serio il rischio di una «replica asimmetrica» dal Cremlino: «Gli esperti russi di guerrra cibernetica sono tra i migliori, e fecero un giro di prova sull’Estonia nel 2007. Un fermo cibernetico di un sistema idrico dell’Illinois nel 2011 è stato attribuito a fonti russe. Non sappiamo se la Us Homeland Security possa essere in grado di contrastare un attacco in piena regola che preveda un blocco dei servizi alle reti elettriche, ai sistemi idrici, al controllo del traffico aereo o peggio ancora al New York Stock Exchange, o a Washington stessa». Se scoppiasse una guerra cibernetica oggi, «gli Stati Uniti perderebbero: siamo semplicemente un paese molto dipendente e vulnerabile», disse nel 2010 il capo del servizio di spionaggio Usa, Mike McConnell. E nel 2012 il segretario alla difesa Leon Panetta lanciò l’allerta per un possibile cyber-attack tipo Pearl-Harbour, capace di paralizzare tutti i sistemi di logistica e di erogazione dei servizi vitali.«Potrebbero bloccare la rete elettrica di vaste zone del paese, potrebbero far deragliare treni passeggeri o, ancor più pericolosamente, far deragliare treni carichi di sostanze chimiche letali», o addittura «contaminare la fornitura d’acqua nelle grandi città». Solo una boutade esagerata, quella di Panetta, magari per chiedere più fondi al Congresso? Evans-Pritchard resta prudente: non è saggio provocare la Russia in modo tanto grave e pericoloso. «Le sanzioni sono vecchie come il mondo, così come le lezioni salutari», conclude il notista del “Telegraph”, ricorrendo all’insegnamento dell’antica Grecia. «Pericle cercò di spaventare la città-stato di Megara nel 432 a.C. bloccando tutti i suoi commerci con i mercati dell’impero ateniese e cominciarono così le guerre del Pelopenneso che portarono la fanteria oplita di Sparta ad abbattersi su Atene e distruggere tutto. Il sistema economico della Grecia cadde in rovina e in balia della Persia. Quello fu un assaggio di asimmetria».«Questa non è un’altra guerra fredda: non c’è nessun plausibile equilibrio tra Russia e Occidente, e nessuna ideologia mistica da contrapporre». Quella in atto contro Mosca è una guerra economica, che gli Usa stanno preparando da 12 anni. Si chiama “Progetto Manhattan”, messo a punto da un dipartimento d’élite del Tesoro: una «bomba finanziaria al neutrone», progettata per «mettere la Russia in ginocchio senza sparare un colpo». La strategia si basa sul controllo egemonico del sistema bancario globale: si tratta di colpire le banche russe, con la collaborazione – convinta o riluttante – di tutti gli alleati degli Usa. «La resa dei conti per la finanza degli Stati Uniti con la Russia è più pericolosa di quello che sembra», avverte Ambrose Evans-Pritchard: la Russia è il più grande produttore mondiale di energia, ha un fatturato da duemila miliardi di dollari, dispone di eccellenti scienziati e mantiene in efficienza un arsenale nucleare di prim’ordine.