Archivio del Tag ‘sanità’
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Le Pen e Orban fascisti? Ma Grillo non sa di cosa parla
Passi la condanna dell’atroce “Alba Dorata” che sfrutta la disperazione della Grecia affamata dalla Troika, richiamandosi direttamente all’iconografia nazista. Ma mettere sullo stesso banco egli imputati – categoria: epigoni del fascismo – l’ungherese Viktor Orban e la francese Marine Le Pen è più che assurdo: è ridicolo. Orban? «Quello che il blog di Grillo definisce un estremista è in realtà un moderato che combatte contro quelle lobby europee che anche Grillo dice di combattere», protestano gli analisti del blog “Scenari economici”. Tema: il “ritorno del fascismo in Europa”, evocato dal leader del M5S in vista dell’apertura della campagna elettorale per le europee 2014, in programma con terzo V-Day il 1° dicembre a Genova, destinato a segnare la svolta anti-euro del network coordinato da Casaleggio. Pietra dello scandalo, per “Scenari economici”, un recente post nel quale Grillo tenta di smarcarsi dai “colleghi” europei anti-Ue dopo la dura reprimenda impartita ai suoi parlamentari, troppo “teneri” con i profughi di Lampedusa, su cui per Grillo deve continuare a gravare il reato di clandestinità confezionato dalla Bossi-Fini.Il Grillo del novembre 2013 non spara più solo contro la piccola casta italiana dei “maggiordomi”, ma prende di mira quella vera: «Le oligarchie finanziarie si baloccano con governi compiacenti o direttamente imposti da loro». Si è “accorto”, Grillo, che «la Bce ha ormai il potere di influenzare la composizione dei governi nazionali». Brutta gente: «Questi alchimisti dello spread evocano una nuova guerra santa contro i “populismi”, rei di mettere in discussione un’architettura economica costruita sopra le teste dei cittadini». Povertà e la disoccupazione dilagano ovunque, in Europa: «La Grecia è stata lasciata morire dai “fratelli” europei, sacrificata sull’altare delle banche tedesche e francesi che volevano indietro la loro “libbra di carne”». L’Ue pretende «la spoliazione dei beni dello Stato e la distruzione del tessuto sociale, dei servizi di prima necessità, come la sanità». L’Europa? «Sta diventando un lazzaretto. Chi si ammala è lasciato alla sua sorte». Che razza di Europa è questa? «Assomiglia a quelle riunioni di mafiosi in cui chi sgarra viene assassinato».“Solidarietà”, insiste Grillo, doveva essere la prima parola, il primo mattone dell’edificio europeo. E invece, «i garanti dello status quo ormai insopportabile (in Italia la coppia al comando è Napolitano-Letta) continuano imperturbabili nelle loro convinzioni ignorando il mondo che gli sta crollando intorno. Indifferenti a un mostro che si sta svegliando e che sarà difficile, quasi impossibile, rinchiudere nelle gabbie del suo passato se diventerà più forte». Per questi «finti democratici», ma anche per le nostre democrazie, è in arrivo una minaccia che proviene direttamente dal cimitero della storia: «Il fascismo sta avanzando grazie a questi sciagurati in tutta Europa». Un sondaggio trasforma “Alba Dorata” nel primo partito in Grecia con il 26%, proprio come in Francia il Front National di Marine Le Pen, quotato al 24%. In Norvegia avanzano i conservatori, ma si afferma anche il Partito del Progresso, «nel quale militò Anders Breivik, responsabile dell’uccisione di 77 persone». E in Ungheria «il governo di estrema destra ha stilato una lista nera di personalità che avrebbero fornito ai media stranieri informazioni contro l’immagine del paese». Il premier Orban «ha cambiato la Costituzione minando l’indipendenza della banca centrale, l’autonomia della magistratura e dell’autorità garante della privacy e ha come obiettivo la Grande Ungheria nazionalista».Orban e Marine Le Pen nello stesso zoo del killer Breivik? «Quali sono le cause della nascita dei nuovi fascismi?», taglia corto Grillo. «Chi sono i veri responsabili? Chi ha tradito la democrazia?». Ora, che la politica «assurda» imposta dall’Ue ai paesi del Sud stia spingendo movimenti antisistema è senza dubbio vero, ma siamo sicuri che sia un male? Non è un sollievo, al contrario, se qualcuno comincia ad affrontare la “dittatura” di Bruxelles? «Grillo non si rende conto che quello che lui ha detto su questi movimenti, all’estero (ma anche in Italia), potrebbero dirlo tranquillamente su di lui», scrive “Scenari economici”. Se infatti un giudizio netto su “Alba Dorata” è più che comprensibile, «ben diverso è il discorso già con Marine Le Pen, una donna relativamente giovane che ha rinnovato un movimento profondamente nostalgico e che rifiuta la dicotomia destra-sinistra: quale fascismo potrebbe portare Marine Le Pen?». E poi: «Grillo ha mai letto il programma del Front National? Si può veramente aver paura di Marine Le Pen?». Certo non la temono i milioni di francesi che a maggio la voteranno, per spedirla a Strasburgo a difendere la Francia, cioè a fare il “mestiere” al quale, da Parigi, François Hollande continua a sottrarsi.Capitolo Orban. «Di solito, chi scrive sul premier ungherese è un ignorante disinformato», magari vittima della “distorsione mediatica” che, secondo “Scenari economici”, colpisce regolarmente Budapest. «Per esempio, nessuno ha mai detto che l’Ungheria sta vivendo una buona ripresa economica, sta riassorbendo la disoccupazione mentre la sua valuta, il fiorino ungherese, regge il mercato senza troppi problemi: i tempi del Fmi sono un ricordo». Orban un autocrate dittatoriale? Gli ungheresi sono con lui, democraticamente: l’hanno rieletto nel 2010 in modo schiacciante, con oltre il 50% del consensi, perché prometteva di liberare l’Ungheria dai ricatti della cupola di Bruxelles. Quanto alla banca centrale, Orban l’ha semplicemente ri-nazionalizzata, togliendola al controllo dell’élite finanziaria privatizzatrice. «Fino a quando Grillo continuerà a inserire tra indubbie verità alcune menzogne sarà sempre meno credibile», conclude “Scenari economici”. «Parlare male dell’Ungheria di Orban significa mentire», ovvero «continuare sulla strada di quell’estremismo di sinistra, in linea con i parlamentari del Movimento eletti in Parlamento, che sta distruggendo il Movimento e facendo perdere ogni voto moderato che Grillo aveva raccolto nel febbraio 2013».Passi la condanna dell’atroce “Alba Dorata” che sfrutta la disperazione della Grecia affamata dalla Troika, richiamandosi direttamente all’iconografia nazista. Ma mettere sullo stesso banco egli imputati – categoria: epigoni del fascismo – l’ungherese Viktor Orban e la francese Marine Le Pen è più che assurdo: è ridicolo. Orban? «Quello che il blog di Grillo definisce un estremista è in realtà un moderato che combatte contro quelle lobby europee che anche Grillo dice di combattere», protestano gli analisti del blog “Scenari economici”. Tema: il “ritorno del fascismo in Europa”, evocato dal leader del M5S in vista dell’apertura della campagna elettorale per le europee 2014, in programma con terzo V-Day il 1° dicembre a Genova, destinato a segnare la svolta anti-euro del network coordinato da Casaleggio. Pietra dello scandalo, per “Scenari economici”, un recente post nel quale Grillo tenta di smarcarsi dai “colleghi” europei anti-Ue dopo la dura reprimenda impartita ai suoi parlamentari, troppo “teneri” con i profughi di Lampedusa, su cui per Grillo deve continuare a gravare il reato di clandestinità confezionato dalla Bossi-Fini.
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Expo-guerra, il bazar galleggiante dell’Italia che affonda
Il nemico complotta contro l’Italia fino a farla crollare, ma la portaerei Cavour – ammiraglia della marina militare, costata 3,5 miliardi – non si dirige contro chi attenta alla vita e al futuro degli italiani, tramando per devastare l’economia, impoverire il paese e trascinarlo nella catastrofe sociale pianificata tra Bruxelles e Berlino, Wall Street e Francoforte. Al contrario, la grande nave trasformata in expò galleggiante del made in Italy bellico preferisce incrociare in acque lontane: «Si vanno a vendere altre armi ai paesi mediorientali e africani, dominati da oligarchie e caste militari, provocando un ulteriore aumento delle loro spese militari che comporterà un ulteriore aumento della povertà soprattutto in Africa», scrive il “Manifesto”. Scopo ufficiale della “campagna navale” organizzata dal governo Letta, è presentare il “sistema paese” in movimento e «rafforzare la presenza dell’Italia nelle aree geografiche considerate strategiche per gli interessi nazionali», senza trascurare la consueta ipocrisia della «assistenza umanitaria alle popolazioni bisognose».Per il ministro Mauro, il bazar navigante – ribattezzato “crociera di morte” – non andrà a vendere armi di distruzione di massa al di fuori dalle convenzioni internazionali, ma resta una «missione di promozione» che incrocerà aree dove impazzano guerre e repressioni, come ad esempio Congo, Nigeria e Kenya, o terre «dove governi potenti finanziano guerre per procura», scrivono Manlio Dinucci e Tommaso Di Francesco, indicando paesi come l’Arabia Saudita impegnata in Siria, o il Barhein con la sua “primavera” cancellata dai militari. Regioni del mondo «dove le spese sociali vengono ridimensionate se non cancellate per sostenere la sicurezza interna e le frontiere, come in Angola e Mozambico». Oman, Dubai, Doha, Gibuti, Madagascar, Sudafrica, Ghana, Senegal, e poi su fino a Casablanca in Marocco, e poi Algeri. In navigazione fino al 7 aprile 2014. Costo: 20 milioni di euro, di cui 7 a carico dello Stato e 13 dei “partner dell’industria privata”. «Soldi ben spesi: potranno usare la portaerei, lunga 244 metri e larga 39, come una grande fiera espositiva itinerante», con stand per accogliere i clienti. Prezzo amico: 200.000 euro per ogni giorno di navigazione.La portaerei non venderà certo l’immagine turistica dell’Italia: gli “ambasciatori” del paese sono le industrie di Finmeccanica come Agusta-Westland (elicotteri da guerra), Oto Melara (cannoni), Selex Es (sistemi radar e di combattimento), Wass (siluri), Telespazio (satelliti), e poi Mbda, coi suoi missili Aspide, Aster, Teseo. Poi ci sono la Intermarine (vascelli militari) e Elt, che offre apparecchiature elettroniche per la guerra aerea, terrestre e navale, mentre Beretta mette in mostra le sue pistole, accanto agli stand di lusso che presentano gli aerei executive della Piaggio e della Blackshape. «Ogni cannone, ogni missile, ogni mitraglia venduta dai commessi viaggiatori della Cavour ai governi clienti – scrivono i giornalisti del “Manifesto” – significherà meno investimenti locali nel sociale e quindi altre migliaia di bisognosi, affamati e morti, soprattutto tra i bambini, per sottoalimentazione cronica e malattie che potrebbero essere curate». Ma niente paura, sulla nave «ci sono anche gli “operatori umanitari” pronti a soccorrere i disperati che abbiamo contribuito a creare con il traffico di armi, per dimostrare quanto l’Italia sia sensibile e pronta ad aiutare “le popolazioni bisognose”».Il nemico complotta contro l’Italia fino a farla crollare, ma la portaerei Cavour – ammiraglia della marina militare, costata 3,5 miliardi – non si dirige contro chi attenta alla vita e al futuro degli italiani, tramando per devastare l’economia, impoverire il paese e trascinarlo nella catastrofe sociale pianificata tra Bruxelles e Berlino, Wall Street e Francoforte. Al contrario, la grande nave trasformata in expò galleggiante del made in Italy bellico preferisce incrociare in acque lontane: «Si vanno a vendere altre armi ai paesi mediorientali e africani, dominati da oligarchie e caste militari, provocando un ulteriore aumento delle loro spese militari che comporterà un ulteriore aumento della povertà soprattutto in Africa», scrive il “Manifesto”. Scopo ufficiale della “campagna navale” organizzata dal governo Letta, è presentare il “sistema paese” in movimento e «rafforzare la presenza dell’Italia nelle aree geografiche considerate strategiche per gli interessi nazionali», senza trascurare la consueta ipocrisia della «assistenza umanitaria alle popolazioni bisognose».
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Vandana Shiva: perché la crescita è nemica della vita
La crescita illimitata è la fantasia di economisti, imprese e politici. La vedono come una misura del progresso. Come risultato, il prodotto interno lordo (Pil), che dovrebbe misurare la ricchezza delle nazioni, è diventato sia il numero più potente che il concetto dominante del nostro tempo. Tuttavia, la crescita economica nasconde la povertà creata attraverso la distruzione della natura, la quale a sua volta porta a comunità incapaci di provvedere a se stesse. Durante la seconda guerra mondiale il concetto di crescita fu presentato come una misura per la movimentazione delle risorse. Il Pil si basa sulla creazione di un confine artificiale e fittizio, il quale parte dal presupposto che se produci ciò che consumi, non produci. In effetti, la “crescita” misura la trasformazione della natura in denaro e dei beni comuni in merci. Così i magnifici cicli naturali di rinnovamento dell’acqua e delle sostanze nutritive sono qualificati non produttivi.I contadini di tutto il mondo, che forniscono il 72% del cibo, non producono; le donne che coltivano o fanno la maggior parte dei lavori domestici non rispettano questo paradigma di crescita. Una foresta vivente non contribuisce alla crescita, ma quando gli alberi vengono tagliati e venduti come legname, abbiamo la crescita. Le società e le comunità sane non contribuiscono alla crescita, ma la malattia crea crescita attraverso, ad esempio, la vendita di medicine brevettate. L’acqua disponibile come bene comune condiviso liberamente e protetto da tutti viene fornita a tutti. Tuttavia, essa non crea crescita. Ma quando la Coca-Cola impone una pianta, estrae l’acqua e con essa riempie le bottiglie di plastica, l’economia cresce. Ma questa crescita è basata sulla creazione di povertà – sia per la natura sia per le comunità locali. L’acqua estratta al di là della capacità della natura di rigenerarsi crea una penuria d’acqua. Le donne sono costrette a percorrere lunghe distanze in cerca di acqua potabile. Nel villaggio di Plachimada nel Kerala, quando la passeggiata per l’acqua è diventata 10 chilometri, la tribale donna locale Mayilamma ha detto che il troppo è troppo. Non possiamo camminare ulteriormente, l’impianto della Coca-Cola deve chiudere. Il movimento che le donne incominciarono ha portato infine alla chiusura dello stabilimento.Nella stessa ottica, l’evoluzione ci ha regalato il seme. Gli agricoltori lo hanno selezionato, allevato e lo hanno diversificato – esso è la base della produzione alimentare. Un seme che si rinnova e si moltiplica produce semi per la prossima stagione, così come il cibo. Tuttavia, il contadino di razza e il contadino che salva i semi non sono visti come un contributo alla crescita. Ciò crea e rinnova la vita, ma non porta a profitti. La crescita inizia quando i semi vengono modificati, brevettati e geneticamente resi sterili, portando gli agricoltori ad essere costretti a comprarne di più ad ogni stagione. La natura si impoverisce, la biodiversità è erosa e una risorsa aperta libera si trasforma in una merce brevettata. L’acquisto di semi ogni anno è una ricetta per l’indebitamento dei poveri contadini dell’India. E da quando è stato istituito il monopolio dei semi, l’indebitamento degli agricoltori è aumentato. Dal 1995, oltre 270.000 agricoltori in India sono stati presi nella trappola del debito e si sono suicidati.La povertà è anche ulteriore spreco quando i sistemi pubblici vengono privatizzati. La privatizzazione di acqua, elettricità, sanità e istruzione genera crescita attraverso i profitti. Ma genera anche povertà, costringendo la gente a spendere grandi quantità di denaro per ciò che era disponibile a costi accessibili come bene comune. Quando ogni aspetto della vita è commercializzato e mercificato, vivere diventa più costoso e la gente diventa più povera. Sia l’ecologia che l’economia sono nate dalla stessa radice – “oikos”, la parola greca per “casa”. Fino a quando l’economia è stata incentrata sulla famiglia, riconosceva e rispettava le sue basi nelle risorse naturali e i limiti del rinnovamento ecologico. Era focalizzata a provvedere ai bisogni umani di base all’interno di questi limiti. L’economia basata sulla famiglia era anche incentrata sulle donne. Oggi l’economia è separata sia dai processi ecologici che dai bisogni fondamentali e si oppone ad ambedue. Mentre la distruzione della natura veniva motivata da ragioni di creazione della crescita, la povertà e l’espropriazione aumentavano. Oltre ad essere insostenibile, è anche economicamente ingiusta.Il modello dominante di sviluppo economico è infatti diventato contrario alla vita. Quando le economie sono misurate solo in termini di flusso di denaro, i ricchi diventano più ricchi e i poveri sempre più poveri. E i ricchi possono essere ricchi in termini monetari – ma anche loro sono poveri nel contesto più ampio di ciò che significa essere umani. Nel frattempo, le richieste del modello attuale dell’economia stanno portando a guerre per le risorse come quelle per il petrolio, guerre per l’acqua, guerre alimentari. Ci sono tre livelli di violenza implicati nello sviluppo non sostenibile. Il primo è la violenza contro la terra, che si esprime come crisi ecologica. Il secondo è la violenza contro l’uomo, che si esprime come povertà, miseria e migrazioni. Il terzo è la violenza della guerra e del conflitto, come potente caccia alle risorse che si trovano in altre comunità e paesi per i propri appetiti illimitati.L’aumento del flusso di denaro attraverso il Pil si è dissociato dal valore reale, ma coloro che accumulano risorse finanziarie possono poi reclamare pretese sulle risorse reali delle persone – la loro terra e l’acqua, le foreste e i semi. Questa sete li conduce all’ultima goccia d’acqua e all’ultimo centimetro di terra del pianeta. Questa non è la fine della povertà. É la fine dei diritti umani e della giustizia. Gli economisti e premi Nobel Joseph Stiglitz e Amartya Sen hanno riconosciuto che il Pil non coglie la condizione umana e hanno sollecitato la creazione di altri strumenti per misurare il benessere delle nazioni. Questo è il motivo per cui paesi come Bhutan hanno adottato la “felicità nazionale lorda” al posto del prodotto interno lordo per calcolare il progresso. Abbiamo bisogno di creare misure che vadano oltre il Pil, ed economie che vadano al di là del supermercato globale, per ringiovanire la ricchezza reale. Dobbiamo tener presente che la vera valuta della vita è la vita stessa.(Vandana Shiva, “Come la crescita economica è diventata nemica della vita”, intervento pubblicato dal “Guardian” e ripreso il 4 novembre 2013 da “Come Don Chisciotte”).La crescita illimitata è la fantasia di economisti, imprese e politici. La vedono come una misura del progresso. Come risultato, il prodotto interno lordo (Pil), che dovrebbe misurare la ricchezza delle nazioni, è diventato sia il numero più potente che il concetto dominante del nostro tempo. Tuttavia, la crescita economica nasconde la povertà creata attraverso la distruzione della natura, la quale a sua volta porta a comunità incapaci di provvedere a se stesse. Durante la seconda guerra mondiale il concetto di crescita fu presentato come una misura per la movimentazione delle risorse. Il Pil si basa sulla creazione di un confine artificiale e fittizio, il quale parte dal presupposto che se produci ciò che consumi, non produci. In effetti, la “crescita” misura la trasformazione della natura in denaro e dei beni comuni in merci. Così i magnifici cicli naturali di rinnovamento dell’acqua e delle sostanze nutritive sono qualificati non produttivi.
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Chomsky: liberarsi dagli Usa, lo Stato-canaglia impunito
Durante l’ultima puntata della farsa di Washington che ha stupito e divertito il mondo, un commentatore cinese ha scritto che se gli Usa non possono essere un membro responsabile del sistema mondiale, forse il mondo dovrebbe “de-americanizzarsi” – separarsi dallo Stato-canaglia che regna tramite il suo potere militare, ma sta perdendo credibilità in altri settori. La fonte diretta dello sfacelo di Washington è stato il forte spostamento a destra della classe politica. In passato, gli Usa sono stati talvolta descritti ironicamente – ma non erroneamente – come uno Stato avente un unico partito: il partito degli affari, con due fazioni chiamate democratici e repubblicani. Questo non è più vero. Gli Usa sono ancora uno Stato a partito unico, il partito-azienda. Ma hanno una sola fazione: i repubblicani moderati, ora denominati New Democrats (come la coalizione al Congresso Usa designa se stessa).Esiste ancora una organizzazione repubblicana, ma essa da lungo tempo ha abbandonato qualsiasi pretesa di essere un partito parlamentare normale. Il commentatore conservatore Norman Ornstein, dello Enterprise Institute, descrive i repubblicani di oggi come «una rivolta radicale – ideologicamente estrema, sdegnosa dei fatti e dei compromessi, che disprezza la legittimità della sua opposizione politica»: un grave pericolo per la società. Il partito è al servizio dei più ricchi e delle imprese. Siccome i voti non possono essere ottenuti a quel livello, il partito è stato costretto a mobilitare settori della società che per gli standard mondiali sono estremisti. Pazza è la nuova norma tra i membri del Tea Party e una miriade di altri gruppi, al di là della corrente tradizionale. La classe dirigente repubblicana e i suoi sponsor d’affari avevano previsto di usarli come ariete nell’assalto neoliberista contro la popolazione – privatizzare, deregolamentare e limitare il governo, pur mantenendo quelle parti che sono al servizio della ricchezza e del potere, come i militari.La classe dirigente repubblicana ha avuto un certo successo, ma ora si accorge che non riesce più a controllare la sua base, con sua grande costernazione. L’impatto sulla società americana diventa così ancora più grave. Un esempio: la reazione virulenta contro l’Affordable Care Act (Atto sulla Salute Conveniente, è il piano nazionale per la sanità, più noto in Italia come ObamaCare, ndt) e il quasi shutdown del governo federale. L’osservazione del commentatore cinese non è del tutto nuova. Nel 1999, l’analista politico Samuel Huntington avvertiva che, per gran parte del mondo, gli Usa stavano diventando «la superpotenza canaglia», visti come «la più grande minaccia esterna per le loro società». A pochi mesi dall’inizio del mandato di Bush, Robert Jervis, presidente della American Political Science Association, avvertiva che «agli occhi di gran parte del mondo, il primo Stato-canaglia oggi sono gli Stati Uniti». Sia Huntington che Jervis hanno avvertito che un tale corso è imprudente. Le conseguenze per gli Stati Uniti potrebbero essere deleterie.Nell’ultimo documento emanato da “Foreign Affairs”, uno dei principali giornali, David Kaye esamina un aspetto dell’allontanamento di Washington dal mondo: il rifiuto dei trattati multilaterali, «come se si trattasse di sport». Kaye spiega che alcuni trattati vengono respinti in modo definitivo, come quando il Senato degli Stati Uniti «ha votato contro la Convenzione sui diritti delle persone con disabilità nel 2012 e il Comprehensive Nuclear – Test Ban Treaty (il trattato sulla messa al bando del nucleare – Ctbt), nel 1999». Per altri trattati si preferisce non agire, se riguardano «temi come il lavoro, i diritti economici e culturali, le specie in pericolo di estinzione, l’inquinamento, i conflitti armati, il mantenimento della pace, le armi nucleari, la legge del mare, la discriminazione contro le donne». Il rifiuto degli obblighi internazionali è cresciuto in modo così radicato, scrive Kaye, che «i governi stranieri non si aspettano più la ratifica di Washington o la sua piena partecipazione nelle istituzioni create dai trattati. Il mondo va avanti; le leggi vengono fatte altrove, con limitato (quando c’è) coinvolgimento americano».Anche se non è nuova, la pratica si è effettivamente consolidata in questi ultimi anni, insieme con la tranquilla accettazione, all’interno della nazione, della dottrina secondo cui gli Usa hanno tutto il diritto di agire come uno Stato-canaglia. Per fare un esempio, un paio di settimane fa le forze speciali Usa hanno preso un sospetto, Abu Anas al-Libi, dalle strade della capitale libica Tripoli, portandolo su una nave da guerra per l’interrogatorio, senza avvocato o diritti. Il segretario di Stato americano John Kerry ha informato la stampa che quelle azioni sono “legali” perché sono conformi con il diritto americano, senza suscitare alcun particolare commento. I principi sono validi solo se sono universali. Le reazioni sarebbero un po’ diverse, manco a dirlo, se le forze speciali cubane avessero rapito il prominente terrorista Luis Posada Carriles a Miami, portandolo a Cuba per l’interrogatorio e il processo in conformità alla legge cubana.Tali azioni sono limitate agli Stati-canaglia. Più precisamente, a quegli Stati-canaglia abbastanza potenti da agire impuniti, in questi ultimi anni, fino a svolgere aggressioni a volontà e terrorizzare le grandi regioni del mondo, con gli attacchi dei droni e molto altro. E a sfidare il mondo in altri modi, ad esempio persistendo nel suo embargo contro Cuba, nonostante l’opposizione di lunga durata di tutto il mondo, oltre a Israele, che ha votato con il suo protettore quando le Nazioni Unite hanno condannato ancora una volta l’embargo nel mese di ottobre. Qualunque cosa il mondo possa pensare, le azioni degli Usa sono legittime perché diciamo così. Il principio fu enunciato dall’eminente statista Dean Acheson nel 1962, quando diede istruzioni alla Società americana di diritto internazionale, in base alle quali nessun problema giuridico si pone quando gli Stati Uniti rispondono a una sfida per il loro «potere, posizione e prestigio». Cuba ha commesso quel delitto quando ha sconfitto un’invasione proveniente dagli Stati Uniti e poi ha avuto l’ardire di sopravvivere a un assalto progettato per portare «i terroristi della terra» a Cuba, nelle parole dello storico Arthur Schlesinger, consigliere di Kennedy.Quando gli Stati Uniti hanno ottenuto l’indipendenza, hanno cercato di unirsi alla comunità internazionale del tempo. E’ per questo che la Dichiarazione d’Indipendenza si apre esprimendo la preoccupazione per il “rispetto delle opinioni dell’umanità”. Un elemento cruciale fu l’evoluzione da una confederazione disordinata verso un’unica «nazione degna di stipulare trattati», secondo l’espressione storica del diplomatico Eliga H. Gould, che osservava le convenzioni dell’ordine europeo. Con il raggiungimento di questo status, la nuova nazione otteneva anche il diritto di agire a suo piacimento a livello nazionale. Poteva quindi procedere a liberarsi della popolazione indigena e ad espandere la schiavitù, una istituzione così “odiosa” che non poteva essere tollerata in Inghilterra, come l’illustre giurista William Murray, conte di Mansfield, stabilì nel 1772. L’evoluzione del diritto inglese era un fattore che spingeva la società schiavista a sfuggire alla sua portata. Il diventare una “nazione degna di stipulare trattati” conferì molteplici vantaggi: il riconoscimento da parte degli altri Stati e la libertà di agire senza interferenze a casa propria. Il potere egemonico fornisce l’opportunità di diventare uno Stato-canaglia, sfidando liberamente il diritto internazionale e le sue norme, mentre affronta una crescente resistenza all’estero e contribuisce al proprio declino attraverso ferite auto-inflitte.(Noam Chomsky, “De-americanizzare il mondo”, intervento pubblicato su “Truth Out” il 5 novembre 2013 e ripreso da “Come Don Chisciotte”).Durante l’ultima puntata della farsa di Washington che ha stupito e divertito il mondo, un commentatore cinese ha scritto che se gli Usa non possono essere un membro responsabile del sistema mondiale, forse il mondo dovrebbe “de-americanizzarsi” – separarsi dallo Stato-canaglia che regna tramite il suo potere militare, ma sta perdendo credibilità in altri settori. La fonte diretta dello sfacelo di Washington è stato il forte spostamento a destra della classe politica. In passato, gli Usa sono stati talvolta descritti ironicamente – ma non erroneamente – come uno Stato avente un unico partito: il partito degli affari, con due fazioni chiamate democratici e repubblicani. Questo non è più vero. Gli Usa sono ancora uno Stato a partito unico, il partito-azienda. Ma hanno una sola fazione: i repubblicani moderati, ora denominati New Democrats (come la coalizione al Congresso Usa designa se stessa).
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Krugman: complotto contro Hollande, che sfida la Troika
Un piano per stroncare Hollande, che avrebbe osato tener testa alla Troika. Il killer incaricato: l’agenzia di rating “Standard & Poor’s”, pronta a declassare la Francia nonostante abbia i bilanci in ordine. Certo, il presidente socialista non si è spinto fino al punto da denunciare Bruxelles, contestando il Fiscal Compact e il meccanismo oligarchico del tritacarne europeo (tagli per tutti, tranne che per i super-ricchi). Ma a irritare gli eurocrati è bastato che Parigi scegliesse di “interpretare” il rigore in modo meno feroce, puntando a proteggere i francesi. Lo rivela un peso massimo dell’economia mondiale, Paul Krugman, sceso in campo dalle pagine del “New York Times” in favore del capo dell’Eliseo: proprio mentre i sondaggi bocciano Hollande e lanciano Marine Le Pen, che minaccia l’uscita dall’euro e addirittura dall’Ue, il Premio Nobel vicino ad Obama sostiene che il livello di intolleranza della Troika è tale da mettere al bando, ricorrendo addirittura a un complotto, l’unico governante europeo che abbia osato anche solo negoziare l’adozione dell’austerity.Per Krugman, il declassamento della solvibilità francese è una «manovra politica destabilizzante»: Wall Street punisce Hollande per aver “osato” salvaguardare il welfare francese. «E’ la prima volta che un economista di punta americano, nonché consulente della Casa Bianca, professore e maestro di colei che andrà a guidare la Federal Reserve Usa, sbugiarda i rating americani denunciandone l’uso politico», scrive Sergio Di Cori Modigliani nel suo blog. Per il “maestro” di Janet Yellen, erede di Benanke alla Fed, «la Repubblica di Francia e monsieur Hollande sono vittime di un complotto del mondo della finanza e delle oligarchie politiche europee perché la Francia è l’unica nazione d’Europa che sta diminuendo il proprio disavanzo pubblico, sta migliorando i propri conti, è perfettamente in linea con i parametri europei, ma ha un difetto grave che nessuno gli perdona: ha salvato, sta salvando e intende salvare lo Stato Sociale della sua nazione».Black out totale, in Italia, sulle enormi ripercussioni dello scontro: da noi, scrive Di Cori Modigliani, si è sorvolato sull’incontro tra Hollande e la Troika nel corso del quale il presidente francese ha chiesto (e ottenuto) il permesso di sforare il tetto del 3% della spesa pubblica «fino alla cifra che riterremo opportuna per gli interessi della Francia», rimandando il pareggio di bilancio al 2015. «L’ha fatto Hollande, lo potevano fare Mario Monti ed Enrico Letta: sarebbe stato sufficiente convocare la Troika, un mese fa – invece che farsi convocare – pretendere di rimandare la scadenza europea al 2015 avvalendosi del precedente francese e sostenere “o ci date una deroga e ci consentite quindi di investire 100 miliardi di euro per pagare i debiti alle piccole e medie imprese immediatamente oppure noi usciamo dall’euro domattina”». Per il blogger, «la Troika si sarebbe arresa». Ma, ovviamente, sarebbero stati necessari «attributi solidi, non quelli di plastica di cui è fornita la nostra classe dirigente», in realtà perfettamente organica (Bilderberg, Goldman Sachs) al “cerchio magico” del super-potere mondiale.In un incontro pubblico all’università di New York, lo stesso Krugman ha rivelato con dovizia di particolari i retroscena del «tragico incontro» che, circa due mesi fa, François Hollande ha avuto con Herman Van Rompuy e Olli Rehn, due sbiaditi politici europei (Belgio, Finlandia) trasformati in “serial killer politici” dal potere non-democratico di Bruxelles. La Francia aveva appena presentato i propri conti alla famigerata Commissione Europea: erano tutti a posto e in linea con le richieste. Ma sia Van Rompuy che Olli Rehn, rispettivamente presidente del Consiglio d’Europa e super-commissario all’economia Ue, contestarono le misure “per come erano state fatte”. Perché Hollande, dice Modigliani, «aveva alzato le tasse ai super-ricchi e quelle sulle rendite finanziarie, aveva dimezzato i costi della politica, aveva aggredito (decurtandoli) gli stipendi dei grossi manager pubblici». E il risparmio così ottenuto, «invece di investirlo per rifinanziare le proprie banche lo aveva dirottato nell’istruzione pubblica, nella ricerca scientifica, nella salvaguardia e cura del patrimonio artistico nazionale, avviando un piano di recupero del territorio e di sostegno per la disoccupazione intellettuale, quest’ultima (per la Francia) una priorità assoluta di cui occuparsi». Attenzione alla perversa sottigliezza della Troika: «Non vennero contestati i conti, che erano a posto, ma venne contestato il principio sulle modalità usate per ottenere il beneplacito della Commissione Europea».Per la Troika «non era accettabile l’idea che lo stato sociale venisse salvaguardato, addirittura implementato». Quindi, non c’entra lo stato di salute del bilancio: quello che davvero importa è che i conti siano a posto «solo e soltanto se contemporaneamente aumenta la disoccupazione e le risorse non vengono investite nei campi dell’istruzione pubblica, della sanità pubblica, della ricerca scientifica». In Italia il Movimento 5 Stelle spiega come e dove trovare in soldi per i 600 euro mensili del “reddito di cittadinanza”? Una proposta sicuramente indigesta, per figuri come Rehn e Van Rompuy: ecco perché Letta & colleghi non la prendono nemmeno in considerazione. «La vera guerra in corso – conclude Modigliani – è tra gli oligarchi del privilegio e la cittadinanza che lavora: il mondo ormai si divide tra chi fa la guerra contro i poveri e chi fa la guerra contro la povertà». Hollande sa che i francesi non accetterebbero di veder cancellato il proprio welfare? E allora la Troika lo fa “bastonare” dalle agenzie di rating. Ora lo difende Krugman, ben sapendo che in panchina si sta già scaldando madame Le Pen: in viste delle europee, il Front National annuncia che, di questo passo, per rimettere piede in Francia, personaggi come Rehn e Van Rompuy dovranno esibire i loro documenti alla polizia di frontiera.Un piano per stroncare Hollande, che avrebbe osato tener testa alla Troika. Il killer incaricato: l’agenzia di rating “Standard & Poor’s”, pronta a declassare la Francia nonostante abbia i bilanci in ordine. Certo, il presidente socialista non si è spinto fino al punto da denunciare Bruxelles, contestando il Fiscal Compact e il meccanismo oligarchico del tritacarne europeo (tagli per tutti, tranne che per i super-ricchi). Ma a irritare gli eurocrati è bastato che Parigi scegliesse di “interpretare” il rigore in modo meno feroce, puntando a proteggere i francesi. Lo rivela un peso massimo dell’economia mondiale, Paul Krugman, sceso in campo dalle pagine del “New York Times” in favore del capo dell’Eliseo: proprio mentre i sondaggi bocciano Hollande e lanciano Marine Le Pen, che minaccia l’uscita dall’euro e addirittura dall’Ue, il Premio Nobel vicino ad Obama sostiene che il livello di intolleranza della Troika è tale da mettere al bando, ricorrendo addirittura a un complotto, l’unico governante europeo che abbia osato anche solo negoziare l’adozione dell’austerity.
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Nato economica: giudici scavalcati, il business sarà legge
«Vi ricordate di quel referendum sulla creazione di un mercato unico con gli Stati Uniti? Sapete, quello in cui ci è stato chiesto se le multinazionali dovrebbero avere il potere di annullare le nostre leggi? No, nemmeno io». Geroge Monbiot, sul “Guardian”, avverte: è in arrivo l’ennesimo attacco letale a quel che resta della nostra sovranità: «Dopo tutta quella lunga e penosa discussione sul fatto se dobbiamo o meno restare nell’Unione Europea, il governo non cederà la nostra sovranità a qualche organismo-ombra antidemocratico senza consultarci. O no?». Lo scopo della Ttip, “Transatlantic Trade and Investment Partnership”, nota anche come “la Nato economica”, è quello di eliminare le differenze normative tra Usa e paesi europei. Dettaglio fatale: il nuovo potere «concederebbe al grande business di citare in giudizio i governi che cercano di difendere i propri cittadini». Ovvero, «consentirebbe a una giuria formata da giuristi d’impresa che operano a porte chiuse di non tener conto della volontà del Parlamento e annullare le nostre protezioni legali». E ovviamente, «i difensori della nostra sovranità» (politici, governi, partiti) «non ci dicono nulla».Il meccanismo attraverso cui si arriva a tutto ciò, scrive Monbiot in un servizio ripreso da “Megachip”, è noto come “investor-State dispute settlement”, cioè: risoluzione delle controversie tra Stati e investitori. «E’ già utilizzato in molte parti del mondo per togliere di mezzo le regolamentazioni a tutela delle persone e del pianeta vivente». Primo esempio, l’Australia: dopo un lungo dibattito dentro e fuori del Parlamento, il governo ha deciso che le sigarette avrebbero dovuto essere vendute in semplici pacchetti, contrassegnati solo con delle scioccanti avvertenze per la salute. Decisione convalidata dalla Corte Suprema australiana. «Ma, in seguito a un accordo commerciale tra l’Australia e Hong Kong, la società del tabacco Philip Morris ha agito presso un tribunale offshore per ottenere una ragguardevole somma a titolo di risarcimento per la perdita di quella che definisce una sua proprietà intellettuale». Altro caso, l’Argentina: durante la crisi, in risposta alla rabbia popolare, Buenos Aires aveva imposto il congelamento delle tariffe dell’energia e dell’acqua. Anche lì, però, il governo è stato citato in giudizio da quelle stesse società (internazionali) decise a lucrare sui servizi. Morale: «L’Argentina è stata costretta a pagare più di un miliardo di dollari di risarcimento».Stesso copione nel Salvador, dove le comunità locali hanno pagato un caro prezzo (tre attivisti uccisi) per convincere il governo a rifiutare la concessione per una grande miniera d’oro che minacciava di contaminare le riserve idriche. «Una vittoria per la democrazia? Non per molto, forse», annota Monbiot. «La società canadese che aveva chiesto la concessione ora sta citando El Salvador per 315 milioni di dollari – per la perdita dei suoi profitti futuri». Dal Salvador al Canada: un tribunale aveva revocato due brevetti di proprietà della società americana Eli Lilly, perché la società non aveva prodotto prove sufficienti sui presunti effetti benefici dei suoi prodotti. Eli Lilly ora sta facendo causa al governo canadese per 500 milioni di dollari, e chiede che le leggi sui brevetti del Canada siano cambiate. «Queste aziende (insieme a centinaia di altre) stanno utilizzando le regole sulla risoluzione delle controversie investitore-Stato incorporate nei trattati commerciali firmati dai paesi», scrive il giornalista del “Guardian”. «Le regole sono applicate da giurie che non offrono nessuna delle garanzie assicurate nei nostri tribunali».Le audizioni si svolgono a porte chiuse e i giudici sono avvocati aziendali, molti dei quali lavorano per le stesse società che agiscono in giudizio. I cittadini e le comunità colpite dalle loro decisioni non hanno più alcun valore legale: attraverso quei “giudici del business”, le aziende «possono rovesciare la sovranità dei Parlamenti» e perfino le sentenze delle corti supreme nazionali. Ammette uno dei giudici di questi tribunali: «A tre individui privati è affidato il potere di rivedere, senza alcun limite e senza possibilità di appello, tutte le azioni dei governi, tutte le decisioni dei tribunali, e tutte le leggi di regolamentazione emanate dal Parlamento. Non ci sono dei corrispondenti diritti dei cittadini, osserva Monbiot. «Non possiamo agire in questi tribunali per chiedere una migliore protezione dall’avidità delle società». Come dice il Democracy Centre, questo è «un sistema di giustizia privatizzata per società globali». Parlando delle regole introdotte dal North American Free Trade Agreement, un funzionario del governo canadese rivela: «Ho visto lettere in arrivo da New York e da studi legali con sede a Washington, praticamente su tutte le nuove normative e proposte a tutela dell’ambiente degli ultimi cinque anni. Riguardano prodotti chimici per lavaggio a secco, prodotti farmaceutici, pesticidi, diritti dei brevetti. Praticamente tutte le nuove iniziative sono state prese di mira e la maggior parte non ha mai visto la luce del giorno».Tecnicamente, è la fine della democrazia. E questo, aggiunge Monbiot, è esattamente «il sistema che ci governerà se il trattato transatlantico va avanti». Gli Usa e la Commissione Europea? Entrambi “catturati” dalle multinazionali. Per Bruxelles, i tribunali nazionali non offrono alle aziende una protezione adeguata perché «potrebbero essere prevenuti o non indipendenti». E’ vero il contrario, scrive il “Guardian”: «E’ proprio perché i nostri tribunali generalmente non hanno pregiudizi e sono indipendenti che le imprese vogliono bypassarli». Così, le nuove regole sulle controversie tra investitori e Stati «potrebbero essere utilizzate per distruggere ogni tentativo di salvare il sistema sanitario nazionale dal controllo societario, di regolamentare di nuovo le banche, di frenare l’avidità delle compagnie energetiche, di rinazionalizzare le ferrovie, di lasciare i combustibili fossili nel terreno». Queste regole, sintetizza Monbiot, «distruggono le alternative democratiche» e «mettono fuorilegge le politiche di sinistra», decretando la fine del welfare e della sicurezza sociale, storico pilastro dell’Europa nella quale siamo tutti cresciuti. “Riforme” clandestine, sostenute di soppiatto dai nostri attuali politici: «Questo è il motivo per cui non vi è stato alcun tentativo da parte del governo britannico di informarci su questa mostruosa aggressione alla democrazia, per non parlare poi di fare una consultazione popolare». A tacere sono i politici che «sbuffano a sentir parlare di sovranità», conclude Monbiot. «Svegliamoci, gente: ci stanno fregando».«Vi ricordate di quel referendum sulla creazione di un mercato unico con gli Stati Uniti? Sapete, quello in cui ci è stato chiesto se le multinazionali dovrebbero avere il potere di annullare le nostre leggi? No, nemmeno io». Geroge Monbiot, sul “Guardian”, avverte: è in arrivo l’ennesimo attacco letale a quel che resta della nostra sovranità: «Dopo tutta quella lunga e penosa discussione sul fatto se dobbiamo o meno restare nell’Unione Europea, il governo non cederà la nostra sovranità a qualche organismo-ombra antidemocratico senza consultarci. O no?». Lo scopo della Ttip, “Transatlantic Trade and Investment Partnership”, nota anche come “la Nato economica”, è quello di eliminare le differenze normative tra Usa e paesi europei. Dettaglio fatale: il nuovo potere «concederebbe al grande business di citare in giudizio i governi che cercano di difendere i propri cittadini». Ovvero, «consentirebbe a una giuria formata da giuristi d’impresa che operano a porte chiuse di non tener conto della volontà del Parlamento e annullare le nostre protezioni legali». E ovviamente, «i difensori della nostra sovranità» (politici, governi, partiti) «non ci dicono nulla».
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Sgonfiare il malcontento: è la truffa delle larghe intese
Cosa sarebbe successo se in questi due anni di larghe intese ci fosse stato un governo Berlusconi o un governo Bersani? Siamo usciti dal G8, è esploso il debito pubblico, sono state amputate le pensioni, è cresciuta la pressione fiscale, hanno chiuso decine di migliaia di piccole aziende e i disoccupati sono ormai 6 milioni. Se quello che ha fatto Monti l’avesse fatto il Cavaliere, credete che il Pd sarebbe rimasto silente, insieme alla Cgil e i media “amici”, dalla “Repubblica” fino a Fazio e Ballarò? Viceversa, se i pessimi risultati del governo Letta-Brunetta fossero stati frutto di un governo Pd, i media di Berlusconi sarebbero stati così accondiscendenti o avrebbero “gonfiato” la crisi, intervistando licenziati e imprenditori disperati? Nulla di questo è accaduto, dice Massimo Ragnedda, perché – grazie ai governi di unità nazionale, tecnici e non – nessuno ha interesse a cavalcare la protesta, perché Pd e Pdl di fatto hanno le stesse responsabilità. Vero risultato: addormentare il paese, bloccando sul nascere la protesta.«Se il malcontento non ha voce la protesta si sgonfia, o meglio non nasce», scrive Ragnedda su “Tiscali Notizie”. Aumentano la rassegnazione, la sfiducia nei confronti delle istituzioni e della classe politica, così come «la disaffezione, il qualunquismo del “son tutti uguali”». E, naturalmente, l’astensionismo. «Aumentano pertanto i margini di manovra di chi impone, lontano dai riflettori e lontano dalle scelte democratiche, le regole che i governi “devono” seguire». E’ esattamente la strategia della Troika, braccio operativo dei poteri forti. Strategia che si diffonde in tutta Europa, e che «a casa nostra ci viene imposta da Napolitano». E’ lui che «ha fatto cadere Berlusconi nel 2011 per imporci il governo Monti, super-amato dal Fmi e dall’élite finanziaria internazionale», ed è sempre lui che «ha tramato dietro le quinte per scongiurare l’elezione di Rodotà come presidente della Repubblica» per poi imporci Enrico Letta, «uomo della Trilaterale, del gruppo Bildeberg e dell’élite internazionale».Napolitano è tutt’altro che super-partes, accusa Ragnedda: il capo dello Stato è il vero regista dei governi di unità nazionale che servono ai poteri forti. «Governi che scontentano tutti (nessun elettore né di centrodestra né di centrosinistra avrebbe voluto questo governo), ma che sono la felicità della Troika che per imporre le sue scelte impopolari (far pagare la crisi ai poveri) ha bisogno di governi di emergenza nazionale». Governi che, per definizione, arginano al massimo la protesta, «silenziano mediaticamente la crisi e impediscono che qualcuno, per ragioni strumentali, possa dar voce al malcontento che pur aleggia». Le larghe intese servono appunto a questo: “sgonfiare” la rabbia sociale, «perché quando una pessima manovra è imposta (anche) dal partito che sostieni è più facile giustificarla e accettarla. E così, da due anni, gli italiani accettano quasi tutto».Cosa sarebbe successo se in questi due anni di larghe intese ci fosse stato un governo Berlusconi o un governo Bersani? Siamo usciti dal G8, è esploso il debito pubblico, sono state amputate le pensioni, è cresciuta la pressione fiscale, hanno chiuso decine di migliaia di piccole aziende e i disoccupati sono ormai 6 milioni. Se quello che ha fatto Monti l’avesse fatto il Cavaliere, credete che il Pd sarebbe rimasto silente, insieme alla Cgil e i media “amici”, dalla “Repubblica” fino a Fazio e Ballarò? Viceversa, se i pessimi risultati del governo Letta-Brunetta fossero stati frutto di un governo Pd, i media di Berlusconi sarebbero stati così accondiscendenti o avrebbero “gonfiato” la crisi, intervistando licenziati e imprenditori disperati? Nulla di questo è accaduto, dice Massimo Ragnedda, perché – grazie ai governi di unità nazionale, tecnici e non – nessuno ha interesse a cavalcare la protesta, perché Pd e Pdl di fatto hanno le stesse responsabilità. Vero risultato: addormentare il paese, bloccando sul nascere la protesta.
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Finiremo come il cavallo quando arrivò il treno a vapore
S’intitola “Inequality for All” il film-documentario che in questi giorni porta nelle sale americane le lezioni universitarie in cui Robert Reich, docente di Berkeley ed ex ministro del lavoro di Bill Clinton, denuncia gli effetti sociali dirompenti dell’accentuazione delle diseguaglianze che si è verificata negli Usa: un fossato tra ricchi e resto della società di una profondità mai vista dagli anni ‘20 del Novecento. E mentre Obama promette posti di lavoro per un ceto medio che sta scomparendo, Sidney Blumenthal spiega che i democratici imposteranno la campagna presidenziale del 2016 proprio sulle diseguaglianze. Nelle librerie è appena arrivato “Average is Over”, un saggio di Tyler Cowen nel quale l’economista della George Mason University disegna scenari futuri allarmanti: i ceti intermedi scompariranno, e solo il 10-15% della popolazione resta al riparo dalla crisi, svolgendo professioni non intaccate dall’automazione o avendo imparato e dominare le macchine e a migliorarne il rendimento.Tutti gli altri, scrive Massimo Gaggi sul “Corriere della Sera”, troveranno impiego soltanto «negli interstizi della società robotizzata», oppure svolgeranno lavori che le macchine non potranno sostituire, come quelli nel settore sanitario. Una grande massa di cittadini dovrà imparare a vivere in modo più austero: «Un destino al quale, secondo Cowen, è inutile ribellarsi e col quale anche i meno fortunati impareranno a convivere, scoprendo che la frugalità ha anche aspetti positivi», annota Gaggi. Sarà una società diversa, “iper-meritocratica”, mentre «la memoria del mezzo secolo di rapida crescita, welfare generoso e prosperità, in Occidente dopo la Seconda guerra mondiale, si appannerà sempre più». L’epoca che abbiamo alle spalle «sarà catalogata come una sorta di incidente della storia, felice ma insostenibile e quindi irripetibile».Fino a ieri, l’opinione prevalente era che le difficoltà che affliggono i paesi industrializzati fossero legate allo strapotere della finanza e a una globalizzazione che ha creato di certo nuove opportunità, ma ha anche provocato un trasferimento di ricchezza senza precedenti dall’Occidente ai paesi emergenti, soprattutto quelli dell’Asia. La nuova economia digitale? E’ vero, taglia i vecchi posti di lavoro, ma aumenta l’efficienza del sistema producendo nuova ricchezza e, quindi, maggiori occasioni di lavoro. In fondo, ragionavano i “tecno-ottimisti”, nel 1790 il 93% degli americani viveva di agricoltura. Duecento anni dopo, nel 1990, la quota dei contadini era scesa al 2%, eppure gli Stati Uniti erano un paese prospero, che aveva raggiunto il pieno impiego. Siamo entrati in una nuova era di “distruzione creativa”, come quando il motore a vapore mandò in pensione il cavallo come mezzo di trasporto e l’economia che gli era cresciuta intorno? La ferrovia alimentò l’industria e un’economia ben più vasta di quella che malpagava i braccianti. Solo che, nell’era digitale, il lavoro è in via di estinzione.Secondo Robert Gordon, della Northwestern University, le tecnologie digitali non creano tanto lavoro quanto le rivoluzioni precedenti – vapore, elettricità, motore a scoppio. E Noah Smith, giovane economista della Michigan University, sostiene che il grande cambiamento riguarda la distribuzione del reddito: «Durante quasi tutta la storia moderna, i due terzi della ricchezza prodotta è servita per pagare i salari mentre il terzo rimanente è andato in dividendi, affitti e altri redditi da capitale». Ma dal 2000 – quindi ben prima della crisi prodotta dal crollo di Wall Street del 2008 – le cose sono cambiate: «La quota del lavoro ha cominciato a calare stabilmente fino ad arrivare al 60%, mentre i redditi da capitale sono cresciuti». La causa? E’ nella tecnologia: «In passato il progresso tecnico ha sempre aumentato le capacità dell’essere umano: un operaio con una motosega è più produttivo di uno che lavora con una sega a mano. Ma quell’era è passata. La nuova rivoluzione, quella dei computer e delle tecnologie digitali, riguarda le funzioni cognitive, non l’estensione delle capacità fisiche. E una volta che le capacità cognitive dell’uomo sono sostituite da una macchina, diventiamo obsoleti come i cavalli».Secondo David Autor, docente del Mit di Boston, sono al riparo dalle macchine solo i mestieri altamente creativi – manager, scienziati, medici, ingegneri e designer – oppure quei lavori manuali che richiedono interazioni, capacità di adattamento e osservazione: preparare un pasto, guidare un camion, pulire una stanza d’albergo. Uno studio della Oxford University svolto su 72 settori produttivi rivela che quasi la metà dei lavori ancora svolti dall’uomo (il 47%) verrà sostituito dalle macchine. Per Autor, alle macchine non c’è scampo: i lavori manuali saranno meno pagati, e questo aumenterà la polarizzazione dei salari e la divaricazione abissale tra ricchi e poveri. Gli economisti progressisti, scrive Gaggi, «non credono che un aumento delle disparità sia alla lunga sostenibile e temono per la tenuta delle democrazie». Mezzo secolo fa, conclude Gaggi, si immaginava un mondo nel quale avremmo lavorato poche ore alla settimana: scontato che le macchine avrebbero sostituito l’uomo, ma per far crescere la produttività a beneficio di tutti. Così non è stato, ed è indispensabile porvi rimedio prima che sia troppo tardi.S’intitola “Inequality for All” il film-documentario che in questi giorni porta nelle sale americane le lezioni universitarie in cui Robert Reich, docente di Berkeley ed ex ministro del lavoro di Bill Clinton, denuncia gli effetti sociali dirompenti dell’accentuazione delle diseguaglianze che si è verificata negli Usa: un fossato tra ricchi e resto della società di una profondità mai vista dagli anni ‘20 del Novecento. E mentre Obama promette posti di lavoro per un ceto medio che sta scomparendo, Sidney Blumenthal spiega che i democratici imposteranno la campagna presidenziale del 2016 proprio sulle diseguaglianze. Nelle librerie è appena arrivato “Average is Over”, un saggio di Tyler Cowen nel quale l’economista della George Mason University disegna scenari futuri allarmanti: i ceti intermedi scompariranno, e solo il 10-15% della popolazione resta al riparo dalla crisi, svolgendo professioni non intaccate dall’automazione o avendo imparato e dominare le macchine e a migliorarne il rendimento.
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Fukushima, la bonifica nucleare è in mano alla mafia
Grandi cantieri, grandi affari. Tutto il mondo è paese, incluso il Giappone. Nessuna sorpresa, dunque, se spunta anche a Tokyo il convitato di pietra di molte grandi opere: la mafia. Peccato che l’opera in questione sia la bonifica di Fukushima: in ballo non ci sono treni veloci, ma la sicurezza del pianeta. Contratti complessi e carenza di lavoratori disponibili: per questo s’è fatta avanti la Yakuza, conferma la “Reuters”. Prima il disastro atomico causato da terremoto e tsunami, poi le menzogne di governo e media per coprire gli errori della Tepco e la reale entità del dramma: le autorità giapponesi non hanno ancora fatto i conti seriamente con l’apocalisse, emergenza sanitaria e contaminazione dell’acqua, dei terreni agricoli e del cibo. «E’ una guerra nucleare senza una guerra», dice lo scrittore Haruki Murakami: stavolta «nessuno ha sganciato una bomba su di noi», i giapponesi hanno fatto tutto da soli: «Abbiamo impostato il palco, abbiamo commesso il fatto con le nostre mani, stiamo distruggendo le nostre terre e stiamo distruggendo la nostra vita». Con la collaborazione di una potente forza occulta: la mafia.«Il coordinamento della decontaminazione di Fukushima, operazione multimiliardaria, si basa sulla criminalità organizzata del Giappone», che è «attivamente coinvolta nel reclutamento del personale “specializzato” per compiti pericolosi», accusa il professor Michel Chossudovsky dell’istituto canadese “Global Research”, in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”. «Le pratiche di lavoro Yakuza a Fukushima – spiega Chossudovsky – si basano su un sistema corrotto di subappalto, che non favorisce l’assunzione di personale specializzato competente». Qualcosa che ricorda da vicino gli strani appalti a cascata nei quali si infiltrano le cosche, in Europa e in particolare in Italia, gonfiando i prezzi e spremendo come limoni le aziende che poi i lavori devono farli davvero. «Si crea un ambiente di frode e incompetenza, che nel caso di Fukushima potrebbe avere conseguenze devastanti», visto che ne va della sicurezza di tutti. In compenso, la manovalanza mafiosa è conveniente: «Il subappalto con la criminalità organizzata è un mezzo per grandi aziende coinvolte nella bonifica per ridurre in modo significativo il costo del lavoro».Alla criminalità organizzata giapponese, continua Chossudovsky, è affidata anche la delicatissima rimozione delle barre di combustibile dal reattore 4: il minimo errore potrebbe causare conseguenze apocalittiche, a livello mondiale, desertificando il Giappone e investendo di radioattività tutto l’oriente, dalla Cina all’Australia. In ballo, la rimozione con una gru di 1.300 barre di combustibile nucleare: in caso di incidente (anche solo il contatto fra due barre) si calcola che si produrrebbe un’onda radioattiva pari a 14.000 bombe di Hiroshima. Operazione che, a quanto pare, sarà effettuata da aziende non proprio pulite: la “Reuters” documenta il ruolo della Yakuza e il suo «rapporto insidioso» con la Tepco e i ministeri della salute, del lavoro e del welfare. Solo nella prefettura di Fukushima, conferma la polizia nipponica, operano almeno 50 clan, con oltre mille affiliati. Gli investigatori sono al lavoro per tentare di sradicare la criminalità organizzata dal progetto di bonifica nucleare. In una rara azione penale, il boss Yoshinori Arai è stato appena condannato per aver intascato 60.000 dollari facendo la cresta sui salari degli operai, ridotti di un terzo.Il mafioso, continua Chossudovsky, è stato condannato per la fornitura di lavoratori per un sito gestito da Obayashi, uno dei maggiori imprenditori del Giappone, a Date, una città a nord-ovest della centrale di Fukushima, investita dalle radiazioni dopo il disastro. Per un funzionario della polizia, il caso Arai è solo «la vetta dell’iceberg», perché l’intera bonifica di Fukushima puzza di mafia. «Un portavoce di Obayashi ha detto che la società “non ha notato” che uno dei suoi subappaltatori stava prendendo lavoratori da un criminale», ma l’azienda si impegna ora a collaborare con la polizia. Peccato che la testa dell’organizzazione sia a Tokyo: ad aprile, racconta “Global Research”, il governo ha selezionato ben tre società implicate nell’invio illegale di lavoratori a Fukushima: «Una di queste, una società basata a Nagasaki denominata Yamato Engineering, ha inviato 510 lavoratori per collocare un tubo alla centrale nucleare in violazione delle leggi sul lavoro». Tutto questo, per «migliorare le pratiche di business» a scapito della sicurezza. Già nel 2009, aggiunge Chossudovsky, alla Yamato Engineering erano stati «vietati i progetti di opere pubbliche», a causa di una sentenza che definiva l’azienda «effettivamente sotto il controllo della criminalità organizzata».Nelle città attorno a Fukushima sono al lavoro migliaia di operai. Tubi industriali, ruspe, dosimetri per misurare le radiazioni. Tutto questo per pulire case e strade, scavare terreno vegetale ed eliminare alberi contaminati, per consentire il ritorno degli sfollati. Centinaia le imprese coinvolte: di queste, secondo il ministero del lavoro, quasi il 70% avrebbe infranto le normative. «A marzo, l’ufficio del ministero a Fukushima aveva ricevuto 567 denunce, relative alle condizioni di lavoro per la decontaminazione: ha emesso 10 avvisi, ma nessuna impresa è stata penalizzata». Una delle aziende denunciate, la Denko Keibi, prima del disastro forniva le guardie di sicurezza privata per i cantieri. «Di fronte alla incessante disinformazione dei media relative ai pericoli di radiazione nucleare globale – conclude Chossudovsky – l’obiettivo di “Global Research” è quello di rompere il vuoto dei media e di sensibilizzare l’opinione pubblica, indicando le complicità dei governi, dei media e dell’industria nucleare».Grandi cantieri, grandi affari. Tutto il mondo è paese, incluso il Giappone. Nessuna sorpresa, dunque, se spunta anche a Tokyo il convitato di pietra di molte grandi opere: la mafia. Peccato che l’opera in questione sia la bonifica di Fukushima: in ballo non ci sono treni veloci, ma la sicurezza del pianeta. Contratti complessi e carenza di lavoratori disponibili: per questo s’è fatta avanti la Yakuza, conferma la “Reuters”. Prima il disastro atomico causato da terremoto e tsunami, poi le menzogne di governo e media per coprire gli errori della Tepco e la reale entità del dramma: le autorità giapponesi non hanno ancora fatto i conti seriamente con l’apocalisse, emergenza sanitaria e contaminazione dell’acqua, dei terreni agricoli e del cibo. «E’ una guerra nucleare senza una guerra», dice lo scrittore Haruki Murakami: stavolta «nessuno ha sganciato una bomba su di noi», i giapponesi hanno fatto tutto da soli: «Abbiamo impostato il palco, abbiamo commesso il fatto con le nostre mani, stiamo distruggendo le nostre terre e stiamo distruggendo la nostra vita». Con la collaborazione di una potente forza occulta: la mafia.
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Deficit al 3%: Renzi, Cuperlo e la Grecia che ci attende
Per Gianni Cuperlo, l’ultimo anonimo prodotto di quello che Diego Fusaro chiama «il tragicomico serpentone metamorfico Pci-Pds-Ds-Pd», cioè la macchina elettorale che da più di vent’anni drena voti di sinistra per fare politiche al servizio della destra neoliberista all’insaputa degli elettori, è possibile salvare l’Italia dalla catastrofe in cui sta precipitando anche senza superare il tetto “impossibile” del deficit, fissato al 3% del Pil dai signori di Bruxelles, che nessuno ha mai eletto. La pensano allo stesso modo anche i renziani: prima di rivendicare giustizia finanziaria in sede europea, l’Italia deve scontare i suoi “peccati” storici e spremere altri soldi tagliando gli sprechi: operazione che, da sola, basterebbe a rimettere in piedi il paese. In realtà, l’Italia è stremata dalla deflazione indotta dalla Bce, dalla mancanza di liquidità, dal crollo della domanda di consumi. Disoccupazione apocalittica. La causa: ridotto in bolletta dell’euro e costretto a tagliare la spesa pubblica vitale, lo Stato determina anche in crollo del settore privato. Lo conferma l’esperimento di genocidio economico più vicino a noi, quello della Grecia.La crisi del debito sovrano che ha travolto Atene ha avuto un effetto drammatico, quasi dimezzando il reddito disponibile degli ellenici rispetto a cinque anni fa, rileva il blog di Gad Lerner. Il reddito lordo disponibile è sceso del 29,5% tra il secondo trimestre del 2008 e lo stesso periodo del 2013, spiega il servizio statistico Elstat. Se si considera anche l’inflazione, il calo si avvicina al 40%. «Questi dati – sottolinea il blog – illustrano l’impatto della brutale recessione e delle misure di austerità che il governo potrebbe essere costretto a estendere al prossimo anno: a causa della minaccia della bancarotta, il governo di Atene ha continuamente ridotto le spese sociali e alzato le tasse, al fine di ricevere i crediti internazionali che hanno finanziato parte delle attività statali dopo l’uscita del paese dai mercati dei capitali». Criminalizzata per il debito pubblico, la Grecia dell’euro – mentre il Giappone (moneta sovrana) veleggia verso un maxi-indebitamento espansivo pari al 250% del Pil, e senza scosse finanziarie perché la banca centrale garantisce per i titoli di Stato.Negli ultimi quattro anni, nella Grecia spolpata dalla Troika le prestazioni sociali sono state ridotte del 26%: «Una misura che ha pesantemente contratto i consumi, che rappresentavano circa tre quarti del Prodotto interno lordo, la proporzione maggiore dell’Eurozona». Salari in picchiata: «Gli stipendi dei lavoratori sono scesi del 34% dal secondo trimestre 2009, sempre secondo i dati Elstat». Il servizio statistico greco sottolinea come la crisi abbia interessato anche i livelli di risparmio delle famiglie, scesi dell’8,7% nel secondo trimestre del 2013 contro un calo del 6,7% dell’anno prima. E oltre il danno, la beffa: gli economisti mainstream considerano “buone notizie” quelle sui conti ellenici, dove si prevede un avanzo primario a fine 2013. I greci non sanno più come mangiare e come curarsi se sono malati, ma almeno il bilancio dello Stato non è più in rosso. Che consolazione. E chissà cosa ne pensano Renzi, Cuperlo e colleghi. Ben decisi ancora e sempre a presentare il debito pubblico come “problema”, sperando che alle elezioni europee del maggio 2014 si parli di tutto tranne che di soluzioni, a condizione che l’elettorato italiano continui a dormire.Per Gianni Cuperlo, l’ultimo anonimo prodotto di quello che Diego Fusaro chiama «il tragicomico serpentone metamorfico Pci-Pds-Ds-Pd», cioè la macchina elettorale che da più di vent’anni drena voti di sinistra per fare politiche al servizio della destra neoliberista all’insaputa degli elettori, è possibile salvare l’Italia dalla catastrofe in cui sta precipitando anche senza superare il tetto “impossibile” del deficit, fissato al 3% del Pil dai signori di Bruxelles, che nessuno ha mai eletto. La pensano allo stesso modo anche i renziani: prima di rivendicare giustizia finanziaria in sede europea, l’Italia deve scontare i suoi “peccati” storici e spremere altri soldi tagliando gli “sprechi”: operazione che, da sola, basterebbe a rimettere in piedi il paese. In realtà, l’Italia è stremata dalla deflazione indotta dalla Bce, dalla mancanza di liquidità, dal crollo della domanda di consumi. Disoccupazione apocalittica. La causa: ridotto in bolletta dell’euro e costretto a tagliare la spesa pubblica vitale, super-tassando famiglie e aziende, lo Stato determina anche il crollo del settore privato. Lo conferma l’esperimento di genocidio economico più vicino a noi, quello della Grecia.
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Gaffe, bugie e arroganza: la Merkel smaschera Obama
Gaffe, arroganza e menzogne: così perfino Angela Merkel finisce per “smascherare” un’America in cui l’opinione pubblica è distratta dal «pessimo debutto della nuova sanità obamiana», i mass media “dormono al volante” e Barack Obama «è lento a reagire all’ultima puntata del Datagate», lo scandalo sullo spionaggio globale rivelato da Edward Snowden, ex consulente Cia e Nsa oggi riparato a Mosca. Il capo della Casa Bianca, spiega Federico Rampini, è stato «colto di sorpresa dalla durezza di Angela Merkel», ovvero dalla brusca telefonata “voluta da Berlino” per protestare vibratamente contro lo spionaggio del cellulare della cancelliera. «L’impreparazione della Casa Bianca e dell’America intera di fronte allo sdegno degli alleati – osserva Rampini – traspare nei bizantinismi adottati per placare e minimizzare: false smentite e bugie dalle gambe corte tradiscono imbarazzo e pigrizia, sottovalutazione o arroganza».Obama risponde alla Merkel che «l’America non spia e non spierà la cancelliera tedesca», ma si guarda bene dall’usare il verbo al passato: dunque, scrive Rampini su “Repubblica”, non esclude che lo spionaggio sia accaduto in passato. Trucchi semantici come quelli usati dal capo dell’intelligence, James Clapper: di fronte alle rivelazioni di “Le Monde” sui 70 milioni di telefonate francesi sorvegliate dalla National Security Agency in un solo mese, Clapper smentisce che siano state “intercettate”. Ma lo spionaggio nell’èra di Big Data, per controllare quantità così smisurate di comunicazioni, cattura a tappeto i “meta-dati”, registrando chi ha chiamato chi, da dove, quando. «L’intercettazione dei contenuti scatta semmai ex post, se gli algoritmi che analizzano i meta-dati segnalano qualcosa di sospetto». Questo, aggiunge Rampini, è il succo dei due maggiori programmi di spionaggio, “Prism” e “Swift”.Del resto, lo stesso Clapper non smentisce le intercettazioni alle ambasciate francesi a Washington e all’Onu, indebolendo la linea difensiva di Obama, secondo cui la Nsa avrebbe «salvato vite umane, sventato attentati terroristici anche ai danni dei nostri alleati». No, protesta Rampini: «Lo spionaggio delle ambasciate all’Onu serviva per le manovre della diplomazia Usa ai tempi delle sanzioni contro l’Iran». La tempesta con Berlino, ricorda il giornalista di “Repubblica”, era stata anticipata da un primo screzio il 19 giugno, quando Obama si preparava a replicare lo storico discorso di Kennedy. Poche ore prima, in una gelida conferenza stampa, la Merkel aveva avanzato le prime proteste per iniziali rivelazioni sullo spionaggio della Nsa ai danni degli alleati Usa. Già allora, Obama rispose che quelle intercettazioni erano «servite a prevenire attacchi terroristici, anche qui sul territorio tedesco». Spiegazione, osserva Rampini, accettata in un primo momento sia dai media, sia dall’opinione pubblica «assuefatta al Grande Fratello post-11 Settembre».Analoga indifferenza, dal mainstream americano, anche dopo la telefonata di protesta della Merkel del 23 ottobre. E le proteste del presidente francese Hollande per lo spionaggio? «Quattro righe nei notiziari esteri del “New York Times”, un colonnino sul “Wall Street Journal” che precisa: “Il governo francese vuole già ridimensionare, non ci saranno conseguenze”». In questo clima, «autoreferenziale e distratto», Obama è colto in contropiede dalla cancelliera e dalla sua minaccia di “gravissimi danni” nelle relazioni bilaterali Germania-Usa. «Difficile, stavolta, rispondere alla Merkel che il suo cellulare fu spiato per prevenire attacchi terroristici», annota Rampini. Per di più, «l’incidente con Berlino giunge al termine di un crescendo di disastri». Dilma Roussef, presidente del Brasile, «non si è accontentata di cancellare una visita di Stato»: è andata all’Onu per proclamare la sua indignazione all’assemblea generale. E il Messico, alleato di ferro degli Stati Uniti, «è in subbuglio per lo spionaggio sul suo ex-presidente». L’intera America latina sprofonda in un clima “anti-yankee” che non si ricordava da decenni. «Valeva la pena pagare un prezzo così alto, pur di lasciare le briglie sciolte al Grande Fratello della Nsa?».È questo, dice Rampini, il dibattito assente negli Stati Uniti, tra la classe dirigente e sui media. È vero, Obama aveva promesso una riforma dell’intelligence con nuove tutele per la privacy, come conferma anche oggi alla Merkel. «Ammesso che questa riforma avanzi, la sua lentezza tradisce la sottovalutazione del danno inflitto nel mondo intero al “soft power” americano», scrive il giornalista di “Repubblica”. «Visti da Washington, gli europei sono sempre un’Armata Brancaleone che reagisce in ordine sparso». Hollande, Letta, Merkel: «Ciascuno parla per sé, con sfumature diverse,». Una posizione unitaria dell’Europa? Forse è ormai imminente. Nonostante la tradizionale debolezza politico-diplomatica di Bruxelles, «dall’Europa si sente crescere la voglia di rappresaglie: contro la cooperazione anti-terrorismo tra le due sponde dell’Atlantico, o contro il patto per la liberalizzazione degli scambi e degli investimenti». Risultato: «Per un’America obamiana che partiva da una popolarità a livelli record, la caduta dovrebbe essere inquietante». Sintetizza da Parigi il presidente della commissione parlamentare affari legislativi: «Gli Stati Uniti non sanno avere alleati, per loro il mondo si divide tra nemici e vassalli».Gaffe, arroganza e menzogne: così perfino Angela Merkel finisce per “smascherare” un’America in cui l’opinione pubblica è distratta dal «pessimo debutto della nuova sanità obamiana», i mass media “dormono al volante” e Barack Obama «è lento a reagire all’ultima puntata del Datagate», lo scandalo sullo spionaggio globale rivelato da Edward Snowden, ex consulente Cia e Nsa oggi riparato a Mosca. Il capo della Casa Bianca, spiega Federico Rampini, è stato «colto di sorpresa dalla durezza di Angela Merkel», ovvero dalla brusca telefonata “voluta da Berlino” per protestare vibratamente contro lo spionaggio del cellulare della cancelliera. «L’impreparazione della Casa Bianca e dell’America intera di fronte allo sdegno degli alleati – osserva Rampini – traspare nei bizantinismi adottati per placare e minimizzare: false smentite e bugie dalle gambe corte tradiscono imbarazzo e pigrizia, sottovalutazione o arroganza».
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Ragnedda: condannati dall’euro, come Atene e Lisbona
Il Portogallo sprofonda come la Grecia e anticipa quello che potrebbe accadere all’Italia. Uno schema micidiale: gli Stati europei si indebitano, esattamente come tutti gli altri Stati al mondo, ma «non potendo emettere moneta (a differenza del Giappone, degli Usa, dell’Inghilterra e della Svizzera) chiedono aiuto alla Troika». Bce, Fmi e Unione Europea ben volentieri concedono prestiti, ovviamente a condizioni-capestro: indietro non vogliono solo i soldi che prestati (più gli interessi usurai) ma impongono anche un insieme di misure antisociali per “snellire” il welfare. Così, riassume Massimo Ragnedda, lo Stato non più sovrano è costretto a comportarsi come i cittadini «indebitati e disperati», che chiedono “aiuto” agli strozzini. Si accettano i vincoli e i tagli più drammatici alla spesa pubblica, pur sapendo che non faranno che aggravare la crisi. E’ tutto orribilmente semplice: «Gli Stati un tempo sovrani sono così costretti a vendere i gioielli di famiglia (come fanno gli strozzati dagli usurai), licenziare dipendenti pubblici, ridurre la sanità pubblica, tagliare i finanziamenti alla scuola e alla ricerca, ridurre le pensioni».La politica economica dell’Eurozona, scrive Ragnedda su “Tiscali” in un intervento ripreso da “Megachip”, è ordinata e imposta da oscuri burocrati e banchieri che vivono in un mondo dorato senza nessun contatto con quello che un tempo si sarebbe definito “il popolo”. «A noi rimane l’illusione che, votando, possiamo scegliere da chi essere governati». Ora, dopo aver schiacciato la Grecia, è il turno del Portogallo: in cambio del generoso piano di “salvataggio”, la Troika ha imposto al conservatore Passos Coelho di tagliare gli stipendi pubblici. Dal 2014 tutti i dipendenti pubblici portoghesi che guadagnano più di 600 euro si vedranno tagliare lo stipendio da un minimo del 2,5% ad un massimo del 12%, annota Ragnedda. Ma non basta: «La Troika ha imposto il licenziamento del 3% dei dipendenti pubblici, in un paese in cui la disoccupazione ha già superato quota 17,4%». In più, il super-potere europeo ha anche ordinato di aumentare l’orario settimanale dei lavoratori pubblici da 35 a 40 ore. Misure ora al vaglio della Corte Costituzionale di Lisbona: in mancanza di alternative, lo Stato sarà costretto ad applicarle.La Troika, continua Ragnedda, chiede anche che vengano privatizzate le aziende in attivo, come la Rete Energetica Nazionale. «Privatizzare significa vendere a prezzi di saldo, agli amici della Troika ovviamente, le aziende che producono. I soldi che si ricaveranno dalla vendita (un po’ come i nostri soldi dell’Imu che sono serviti a salvare il Monte Paschi di Siena) serviranno per salvare dal fallimento il quinto gruppo finanziario del paese, la Banif». Ma il debito non andrebbe pagato? Certo: quello di famiglie e aziende. Quanto al debito pubblico, quello dello Stato, dipende: se si tratta di un paese libero, come il Giappone che emette moneta sovrana, il debito può tranquillamente arrivare al 250% del Pil (più del doppio dell’esposizione italiana) senza che si scateni nessuna tempesta finanziaria. Motivo: gli speculatori sanno che lo Stato giapponese è in grado di ripianare il deficit in qualsiasi momento, ricorrendo all’emissione di valuta. L’Eurozona, senza più alcun potere di autodifesa monetaria, è invece in balia del ricatto finanziario: il deficit italiano è attualmente attorno al 3% del Pil, mentre quello nipponico è al 10%.In regime di moneta sovrana, debito pubblico significa, letteralmente: soldi che lo Stato anticipa ai cittadini, in termini di servizi, stipendi e infrastrutture, assicurando in tal modo il necessario supporto all’economia, in termini di fatturati e consumi, oltre che di stabilità sociale. Infatti, nonostante il suo elevatissimo debito virtuale, il Giappone non solo non ha tagliato la spesa pubblica (come invece la Grecia che ha dovuto chiudere ospedali e università, fabbriche e uffici) ma ha lanciato un ulteriore piano di espansione della spesa statale con un primo intervento da 85 miliardi di euro, con l’obiettivo di creare 600.000 nuovi posti di lavoro, secondo i piani keynesiani del premier Shinzo Abe. «Mentre in Grecia si registra un drastico aumento della povertà, casi di malnutrizione minorile, aumento dei reati legati alla “sopravvivenza”, sistema educativo e sanitario ridotto all’osso, in Giappone il tasso di disoccupazione è del 4.5%», precisa Ragnedda. Dopo la Grecia, ora tocca al Portogallo: il paese è costretto a licenziare i dipendenti pubblici, tagliare loro lo stipendio, ridurre la spesa pubblica elargendo meno servizi vitali per i cittadini.Dov’è il trucco? Nella moneta: a differenza di noi sventurati “sudditi” della Bce, i giapponesi sono proprietari del loro denaro, che può essere liberamente emesso dalla Bank of Japan, così come fanno la Federal Reserve statunitense, la Bank of England e la Banca centrale svizzera. Il rischio è l’aumento dell’inflazione, continua Ragnedda, ma il vantaggio è che non si è costretti a chiedere prestiti usurai alla Troika e farsi dettare la politica economica e sociale da oscuri banchieri. Attenti poi a maneggiare lo spauracchio dell’inflazione, sempre agitato dal super-potere neoliberista che, dopo quarant’anni di guerra ideologico-economica, sta finendo di distruggere lo Stato democratico come “sindacato dei cittadini” e loro grande sponsor economico. Secondo Paolo Barnard e Warren Mosler, in base alla “teoria della moneta moderna” ci si cautela facilmente dell’iper-inflazione se lo Stato crea posti di lavoro produttivi, e non assistenziali, vincolando quindi la maggiore liquidità all’incremento del Pil, cioè dell’economia reale.Per un vero piano di piena occupazione, abbonderebbero gli spazi nei settori con elevato impiego di personale, dai servizi alla persona alle opere di ripristino del territorio. Senza contare i posti di lavoro – centinaia di migliaia, forse milioni – ricavabili da un grande piano nazionale di riconversione ecologica dell’economia, dalle fonti rinnovabili alla ristrutturazione energetica del patrimonio edilizio pubblico e privato. Lo Stato, però, può tornare a tutelare la comunità nazionale a una sola condizione: rientrando in possesso della propria moneta sovrana. Giochino piuttosto semplice, conclude Ragnedda: «Il Giappone, l’Inghilterra e gli Usa possono finanziarie il loro debito direttamente, emettendo moneta. Noi no. E per poter pagare il debito siamo perciò costretti a chiedere i soldi alla Bce e aprirci alla speculazione internazionale». Se l’Italia è ancora sospesa nell’anticamera dell’inferno, la micidiale road map di Bruxelles – Atene, poi Lisbona – indica che sta per toccare a noi, perché nessun governo (senza moneta, e quindi senza potere di spesa pubblica) potrà fare nulla di importante per invertire la rotta e opporsi alla catastrofe. Domanda: c’è qualche forza politica che osi porre la questione, in Parlamento?Il Portogallo sprofonda come la Grecia e anticipa quello che potrebbe accadere all’Italia. Uno schema micidiale: gli Stati europei si indebitano, esattamente come tutti gli altri Stati al mondo, ma «non potendo emettere moneta (a differenza del Giappone, degli Usa, dell’Inghilterra e della Svizzera) chiedono aiuto alla Troika». Bce, Fmi e Unione Europea ben volentieri concedono prestiti, ovviamente a condizioni-capestro: indietro non vogliono solo i soldi che prestati (più gli interessi usurai) ma impongono anche un insieme di misure antisociali per “snellire” il welfare. Così, riassume Massimo Ragnedda, lo Stato non più sovrano è costretto a comportarsi come i cittadini «indebitati e disperati», che chiedono “aiuto” agli strozzini. Si accettano i vincoli e i tagli più drammatici alla spesa pubblica, pur sapendo che non faranno che aggravare la crisi. E’ tutto orribilmente semplice: «Gli Stati un tempo sovrani sono così costretti a vendere i gioielli di famiglia (come fanno gli strozzati dagli usurai), licenziare dipendenti pubblici, ridurre la sanità pubblica, tagliare i finanziamenti alla scuola e alla ricerca, ridurre le pensioni».