Archivio del Tag ‘Sel’
-
Foa: Grillo s’è suicidato, Salvini avrà imparato la lezione?
Sto leggendo le analisi degli editorialisti che, ora, ci spiegano con sicurezza e spesso toni saccenti le ragioni per cui Grillo è finito. Sottolineo: ora. Come sempre accade in Italia si è cortigiani con i vincenti e spietati con i perdenti. Quelli che oggi impartiscono lezioni a Grillo sono gli stessi che hanno ignorato e poi sottovalutato la sua strepitosa ascesa. Ma tant’è, non è la prima volta. Veniamo al punto. Le ragioni per cui il “Movimento 5 Stelle” è entrato verosimilmente nella parabola finale del suo percorso politico, con scarsissime possibilità di riscatto, sono legate essenzialmente a errori di comunicazione, il che è paradossale per uno che sulla comunicazione ha costruito la propria carriera artistica e poi quella politica. Quando Grillo volava nei sondaggi mi sono chiesto più volte per quale ragione incontrasse poca resistenza dall’establishment. Sì, certo, per mesi, anzi anni, i media tradizionali lo hanno ignorato, ma la coltre del silenzio non bastò a neutralizzarlo perché Grillo (assieme a Casaleggio) raggiungeva il suo popolo via Internet.Poi c’è stata la fase in cui i media rincorrevano Grillo e ne parlavano male, ma il leader del M5S usò molto abilmente questa popolarità indotta, usando le tv, che erano costrette a trasmettere i suoi interventi, pur continuando a delegittimare e a criticare pesantemente le tv. Il fatto di negarsi ai talk show faceva salire le sue quotazioni mediatiche. Grillo e Casaleggio, come scrissi più volte su questo blog, furono bravissimi nel cavalcare l’onda. Risultato: una copertura mediatica fantastica, in cui alla mobilitazione tramite la Rete si aggiunse l’effetto propagatorio di radio, giornali e soprattutto tv che permise al M5S di raggiungere il 25% alle elezioni di inizio 2013. Ma poi sono iniziati i guai. Un leader accorto deve sapere quando è il momento di togliere il piede dall’acceleratore, quando la capacità di gestione deve prevalere sulla costruzione del successo. Bisogna saper cambiare i toni, mantenendo la tensione ideale tra i militanti della base; occorre perseguire obiettivi di lungo periodo mantenendo alta l’attenzione nel breve, partecipando ai dibattiti d’attualità ma senza farsi travolgere, dunque tenendo sempre ben presente a quale pubblico ci si rivolge e cosa bisogna dire per ampliare il consenso.E’ un’arte quasi scientifica che presuppone self control, un partito ben inquadrato, squadre compatte, capacità di modulare i toni, analisi sociologiche mirate, capacità di programmazione. E invece Grillo ha fatto l’opposto. Ha continuano a gridare come quando non aveva il 25% dei consensi, non ha costruito una classe dirigente capace di assecondarlo; non solo: ha perso chiaramente la testa procedendo a espulsioni che hanno spaventato e definitivamente allontanato la stragrande maggioranza dell’elettorato. Deputati e senatori si sono dimostrati inadeguati, un gruppo eterogeneo e piuttosto modesto; certo non una squadra compatta. Aggiungete gli sbandamenti nella comunicazione, con l’improvviso e mal motivato sdoganamento delle apparizioni in tv, che ha disorientato i suoi sostenitori, o i trattamenti riservati al portavoce Claudio Messora e le giravolte programmatiche, tra cui senz’altro la più clamorosa quella sull’euro, e il quadro è completo.Insomma abbiamo assistito a un processo di auto-distruzione che verosimilmente è irreversibile. Sarei meravigliato se Grillo riuscisse a recuperare il consenso perduto, mentre il rischio che finisca come Di Pietro o Vendola è sempre più concreto. E ora capisco perché l’establishment lo abbia lasciato scorrazzare, anche nei momenti in cui la spinta dei grillino sembrava irresistibile. Evidentemente speculava sull’incapacità di Grillo e Casaleggio di trasformarsi in forza politica consolidata. Sapeva che i due si sarebbero fatti del male da soli. E ha avuto ragione. E’ la stessa strategia – condita da attacchi alla personalità, peraltro iniziati subito dopo la vittoria della Lega in Emilia Romagna – che l’establishment riserverà all’unico politico in grado di raccogliere e raggruppare l’ampio popolo degli scontenti: Matteo Salvini. Chissà se il leader della Lega avrà la forza, il coraggio e soprattutto la saggezza di non commettere gli stessi errori di Grillo.(Marcello Foa, “Grillo s’è suicidato, Salvini avrà imparato la lezione?”, dal blog di Foa su “Il Giornale” del 30 novembre 2014).Sto leggendo le analisi degli editorialisti che, ora, ci spiegano con sicurezza e spesso toni saccenti le ragioni per cui Grillo è finito. Sottolineo: ora. Come sempre accade in Italia si è cortigiani con i vincenti e spietati con i perdenti. Quelli che oggi impartiscono lezioni a Grillo sono gli stessi che hanno ignorato e poi sottovalutato la sua strepitosa ascesa. Ma tant’è, non è la prima volta. Veniamo al punto. Le ragioni per cui il “Movimento 5 Stelle” è entrato verosimilmente nella parabola finale del suo percorso politico, con scarsissime possibilità di riscatto, sono legate essenzialmente a errori di comunicazione, il che è paradossale per uno che sulla comunicazione ha costruito la propria carriera artistica e poi quella politica. Quando Grillo volava nei sondaggi mi sono chiesto più volte per quale ragione incontrasse poca resistenza dall’establishment. Sì, certo, per mesi, anzi anni, i media tradizionali lo hanno ignorato, ma la coltre del silenzio non bastò a neutralizzarlo perché Grillo (assieme a Casaleggio) raggiungeva il suo popolo via Internet.
-
Giannuli: la grazia a Berlusconi, poi Amato al Quirinale?
La grazia a Berlusconi, in cambio del “proprio” candidato alla successione al Qurinale: Giuliano Amato. Secondo Aldo Giannuli, per designare il suo “erede” sul Colle, Napolitano avrebbe in tasca «il vero asso da calare», il colpo di spugna per il Cavaliere: «Otterrebbe i voti di Fi e vicini, garantirebbe il Nazareno e caricherebbe la responsabilità della decisione sulle spalle di un presidente in uscita, togliendo le castagne dal fuoco del successore». E Renzi? Per lui, «il presidente perfetto è quello che non esiste, l’ideale sarebbe lasciare il Quirinale sede vacante: per questo pensa a candidati come la Pinotti, Franceschini, Fassino», cioè «gente che non gli farebbe ombra», candidati impalpabili. In Parlamento, Amato «conta molti più nemici che amici», sicuramente è inviso a Lega, FdI e M5S, «Berlusconi non lo odia particolarmente, ma neppure lo ama tantissimo», accoglienza tipeida nel centro, «dove però non ha neppure nemici giurati». Certo «non è simpatico né a Sel né alla sinistra Pd», forse «può contare su qualche tiepida simpatia di Bersani e D’Alema, che però a loro volta di amici ne hanno davvero pochi». Ma, soprattutto, «è Renzi che lo vede come il fumo negli occhi».Eppure, scrive Giannuli nel suo blog, il “dottor sottile” di Craxi potrebbe anche essere la carta coperta di Napolitano, sempre che il capo dello Stato non ceda alle pressioni di Renzi per restare al Colle fino a maggio, anziché lasciare a gennaio. Certo, la grande partita è aperta: «Gli interessati, quasi tutti, a cominciare da Prodi, smentiscono di essere interessati, il che è la conferma più sicura che sono candidati». Il toto-presidente già impazza, da Veltroni alla Finocchiaro. E Amato? Possibile che non sia nella rosa dei papabili? «In tutta la sua interminabile carriera – osserva Giannuli – l’abilità di Giuliano Amato è sempre stata quella di galleggiare a pelo d’acqua senza avere un esercito proprio. E’ stato anche presidente del Consiglio e varie volte ministro, ma non è mai stato segretario di un partito, è stato vicesegretario del Psi ma senza mai avere una propria corrente». La sua abilità? «Coltivare contatti coi più diversi settori della classe dominante: è molto amico dei francesi, come Bassanini, ma non è certo inviso a tedeschi ed americani, ha molti amici in Loggia ma non è sgradito in Curia, ha sempre operato nell’area laico-socialista ma ha sempre avuto solide amicizie tanto nella Dc quanto nel Pci», essendo anche «amico dei sindacati», ma non-nemico della Confindustria.«Riuscirebbe a essere trasversale anche tra Inferno e Paradiso, amico del Padreterno ma simpatico anche a Satana», scherza Giannuli. Amato «gode di un carisma molto particolare, dovuto alla sua fama consolidata di grande giurista e di esperto di finanza». Fine, disinvolto, raffinato e convincente. «Sarebbe capace di dimostrarti che la camicia che porti addosso, in realtà, gli appartiene, anche se tu non lo sai, e alla fine ti convincerebbe a dargliela, e poi gli pagheresti anche la parcella per la consulenza». Un uomo così, insiste Giannuli, è destinato a emergere nei momenti di crisi, quando l’impasse impone la scelta di un super-partes, un “tecnico”. Grande galleggiatore, Amato: dal Psiup di Antonio Giolitti passò al Psi di Bettino Craxi, di cui fu consigliere nei giorni del “decreto di San Valentino”, per poi diventare anticraxiano e alleato del Pds, quindi occhettiano, poi dalemiano, e così via.«Questa disinvolta prassi politica, se condotta con la necessaria abilità, può garantire una carriera lunga e carica di successi ma, anche quando non manchi la maestria, conquista molti nemici che, prima o poi, diventano troppi». Sulla carta, ragiona Giannuli, oggi Amato metterebbe insieme non più di 60-70 voti. Anche nell’ipotesi del candidato “istituzionale”, sarebbe appesantito dal suo passato: troppi incarichi politici per poter essere speso come “potere neutro” (più adatti, in qual caso, Casini e Monti). Ma i giochi sono aperti. E Amato «ha un importante sponsor in Napolitano». Intanto, il presidente uscente potrebbe presentarlo «come il suo successore nel ruolo di regista del Nazareno» e, per di più, «giocare la carte dei suoi rapporti in Europa», di cui Renzi potrebbe aver bisogno. Un ruolo, rispetto a Bruxelles, «che sicuramente non potrebbe essere assicurato da mezze scartine come la Pinotti e Franceschini, e probabilmente neppure da quel budino di Veltroni». Se il Cavaliere resta in sella e il Patto del Nazareno sopravvive, ipotizza Giannuli, sarebbe dunque avventato scartare l’ipotesi-Amato, eventualmente sostenuta da Napolitano in cambio della piena riabilitazione di Berlusconi.La grazia a Berlusconi, in cambio del “proprio” candidato alla successione al Qurinale: Giuliano Amato. Secondo Aldo Giannuli, per designare il suo “erede” sul Colle, Napolitano avrebbe in tasca «il vero asso da calare», il colpo di spugna per il Cavaliere: «Otterrebbe i voti di Fi e vicini, garantirebbe il Nazareno e caricherebbe la responsabilità della decisione sulle spalle di un presidente in uscita, togliendo le castagne dal fuoco del successore». E Renzi? Per lui, «il presidente perfetto è quello che non esiste, l’ideale sarebbe lasciare il Quirinale sede vacante: per questo pensa a candidati come la Pinotti, Franceschini, Fassino», cioè «gente che non gli farebbe ombra», candidati impalpabili. In Parlamento, Amato «conta molti più nemici che amici», sicuramente è inviso a Lega, FdI e M5S, «Berlusconi non lo odia particolarmente, ma neppure lo ama tantissimo», accoglienza tipeida nel centro, «dove però non ha neppure nemici giurati». Certo «non è simpatico né a Sel né alla sinistra Pd», forse «può contare su qualche tiepida simpatia di Bersani e D’Alema, che però a loro volta di amici ne hanno davvero pochi». Ma, soprattutto, «è Renzi che lo vede come il fumo negli occhi».
-
Renzi è l’effetto, non la causa: il Pd serve al nuovo regime
Grandi proteste della minoranza Pd per il tracollo del tesseramento al partito, passato dai 539.000 iscritti del 2013 ai a circa centomila del primo semestre 2014? Attenzione: Renzi c’entra fino a un certo punto, secondo Aldo Giannuli, come dimostra la serie storica del tesseramento: gli iscritti sono calati a partire dal 2008, quando erano 830.000, e il calo è stato interrotto solo nel 2013, «anno di votazioni per il segretario del partito e del gruppo dirigente», cosa che «fa pensare che ci sia stato un bel pacco di tessere “gonfiate”». Il punto è un altro, avverte Giannuli: il Pd «non sta scomparendo», ma «sta subendo una mutazione genetica: da partito di centro-sinistra in partito di centro-destra, da partito pur scolorito ideologicamente ma con tracce del suo passato identitario, in partito “prenditutto”, da partito organizzato di iscritti in partito di elettori, appunto all’americana». Renzi? Più che la causa, è il risultato di questa tendenza: «La liquidazione dei resti del fu Pci e la costruzione di questo partito amebico e privo di identità e cultura politica è il punto di arrivo di un processo più che ventennale».Tanti i fattori che hanno sottratto agli elettori l’opzione di sinistra, verso l’incolore Pd: intanto «l’adozione del sistema elettorale maggioritario e senza preferenze, che ha passivizzato la base e accentuato la trasformazione in partito “prenditutto”». Poi, certo, la fusione con la “Margherita”, «che ha ulteriormente cancellato le culture politiche di provenienza, affogando tutto in un unico e indistinto poltiglione». Pesante, peraltro, «l’accentuazione del partito come partito del leader», sull’esempio di Berlusconi. Questo favorisce «la pratica politica basata su una crescente delega ad un inamovibile ceto politico, con una base sempre più emarginata e convocata solo per le scadenze canoniche (elezioni e rinnovo delle cariche interne) senza alcun dibattito interno». Ma soprattutto, aggiunge Giannuli, «l’adozione del modello organizzativo basato sulle primarie di “elettori” ha determinato la “svolta americana”», con primarie aperte ai non-iscritti.«Il punto centrale è questo: se io, non iscritto al partito, posso votare per l’elezione del segretario, per il candidato presidente del Consiglio, per i candidati al Parlamento e alle Regioni, e, per di più in quel partito non esiste una pratica di dibattito interno sulla linea (ad esempio: chi ha mai consultato i militanti del Pd sull’articolo 18 o sulla riforma del Senato?), sapete dirmi per quale ragione devo prendere la tessera?». Dunque, il passaggio da partito militante e di insediamento territoriale a partito di elettori non organizzati sul territorio è ormai molto avanzato. La segreteria Renzi? «Un po’ per scelta un po’ per la situazione oggettiva che vede il Pd senza sfidanti credibili, sta provocando un altro mutamento che prefigura un vero e proprio regime». La destra è divisa in tre tronconi – Forza Italia, Lega Nord e Ncd – difficilmente coalizzabili e con sondaggi che (tranne in parte la Lega) la danno in picchiata: anche aggiungendo “Fratelli d’Italia”, a stento si arriva al 25%. Da sola, Forza Italia non è detto neppure che arrivi al ballottaggio. Il centro? Non esiste più. E a sinistra, Sel e Rifondazione «forse non hanno nemmeno i voti per entrare in Parlamento».Quanto al M5S, il sogno di un rapido sfondamento contro tutto e tutti «mi pare che sia definitivamente tramontato dopo le europee», annota Giannuli. E se il movimento non scoprirà la necessità di una politica delle alleanze, potrà al massimo arrivare a un eventuale ballottaggio con poche probabilità di vincerlo. Ecco perché il Pd vince “per posizione”, collocandosi nettamente al centro e prendendo voti da tutte le direzioni. «Quello che viene fuori è una sorta di riedizione tardiva e assai peggiorata della Dc, che era invece un grande partito, nonostante i suoi non pochi e non leggeri vizi». Il Pd, invece, vince semplicemente “perché vince”. «Cioè: gode della rendita di posizione del partito che prende anche voti non suoi, solo sulla considerazione che, tanto, è il partito che vincerà» e allora tanto vale, «lo si vota per rafforzare questa o quella ala». Renzi, naturalmente, sta «smontando il blocco sociale storico del Pci: pensate alla questione dell’articolo 18, la sua abrogazione: in breve offrirebbe il destro (ovviamente ben mascherato) per licenziare i rappresentanti sindacali della Cgil nell’industria e nei servizi, il che significa che la Cgil in breve si ridurrebbe a pensionati e pubblico impiego, avviandosi al definitivo declino». Ed ecco dunque il partito all’americana, «basato sul massimo della delega al suo ceto politico che, però, agisce in una condizione di monopolio di potere, senza alternative. Detto in parole povere, un vero regime».Grandi proteste della minoranza Pd per il tracollo del tesseramento al partito, passato dai 539.000 iscritti del 2013 ai a circa centomila del primo semestre 2014? Attenzione: Renzi c’entra fino a un certo punto, secondo Aldo Giannuli, come dimostra la serie storica del tesseramento: gli iscritti sono calati a partire dal 2008, quando erano 830.000, e il calo è stato interrotto solo nel 2013, «anno di votazioni per il segretario del partito e del gruppo dirigente», cosa che «fa pensare che ci sia stato un bel pacco di tessere “gonfiate”». Il punto è un altro, avverte Giannuli: il Pd «non sta scomparendo», ma «sta subendo una mutazione genetica: da partito di centro-sinistra in partito di centro-destra, da partito pur scolorito ideologicamente ma con tracce del suo passato identitario, in partito “prenditutto”, da partito organizzato di iscritti in partito di elettori, appunto all’americana». Renzi? Più che la causa, è il risultato di questa tendenza: «La liquidazione dei resti del fu Pci e la costruzione di questo partito amebico e privo di identità e cultura politica è il punto di arrivo di un processo più che ventennale».
-
Se solo la Camusso avesse il coraggio di boicottare il Pd
La Cgil, con i suoi quasi 5 milioni di iscritti, è un pezzo non irrilevante dell’elettorato Pd: pur depurando il dato dai gonfiamenti, tenendo conto del fatto che moltissimi iscritti non seguono le indicazioni elettorali del sindacato e votano Sel, Lega o M5S, resta pur sempre una quota maggioritaria che vota Pd e, considerando anche il “voto familiare”, una quota di 2 milioni – 2 milioni e mezzo di voti al Pd è una stima prudenziale. Il che significa un buon 6-7,5%. Anche ipotizzando il distacco di una metà di essi, significherebbe un 3-4% che se ne va. Renzi, ne sono convinto, vuole disfarsi della sua sinistra interna, ma non vede affatto di buon occhio il sorgere di un partito concorrente alla sua sinistra, con il 10-12% dei voti (mettendo insieme gli attuali elettorati di sinistra Pd, Sel, Rifondazione) e che magari giochi di sponda con il M5S. Nel suo schema di gioco il Pd deve trasformarsi stabilmente in un partito interclassista di centrodestra, che non faccia più neppure finta di essere di sinistra (medita anche di cambiare il nome in Partito della Nazione), ma la sinistra non deve proprio esistere, né come corrente interna né come partito esterno, deve semplicemente scomparire e non avere più alcuna rappresentanza.L’idea di Renzi è quella di un grande pachiderma al centro del sistema politico, con una serie di forze di opposizione minoritarie né coalizzabili fra loro, né in grado, ciascuna, di sfidare credibilmente il pachiderma. Qualcosa di simile a quello che è stato per lunghissimo tempo il Partito del Congresso in India (sempre che Renzi sappia dove sta l’India). Il tutto sostenuto da un sistema elettorale fortemente disrappresentativo e con alte soglie di accesso, e da un partito del leader, di tipo plebiscitario, con pochissimi iscritti e privo di democrazia interna. Per fare questo, Renzi non può permettersi una scissione (a meno che non si tratti di una pattuglia sotto quota di accesso, che resta fuori alle prime elezioni). Deve far fuori i suoi oppositori uno alla volta, disarticolarne le correnti, silurarli negli enti locali e nel partito, per poi arrivare al botto finale in occasione delle elezioni politiche, quando saranno epurati dalla liste tranne una manciata di 5 o 6 superstiti.La totale mancanza di coraggio di Cuperlo, Bersani & c., che si rifiutano di capire che non c’è possibilità di riscossa interna e che ogni giorno che passa li indebolisce, è la risorsa migliore di Renzi. In questo quadro, lo scontro con la Cgil diventa potenzialmente molto pericoloso, nonostante il teatrino messo in scena dalla Camusso e Landini, perché la cosa può sfuggire di mano a tutti e spingere a quella scissione che ora non deve avvenire. Ma cosa accadrebbe se la Cgil – oltre che fare lo sciopero generale che va benissimo – minacciasse di dare indicazione di non votare il Pd nelle prossime elezioni, costatata la sua politica apertamente antisindacale? Sarebbe divertente vedere la reazione di Renzi che, nel frattempo, sta vedendo calare i suoi consensi nei sondaggi. Ma la Camusso avrà mai un ardire del genere? Figuriamoci!(Aldo Giannuli, estratto da “Renzi fra Gentiloni e la Camusso”, dal blog di Giannuli del 3 novembre 2014).La Cgil, con i suoi quasi 5 milioni di iscritti, è un pezzo non irrilevante dell’elettorato Pd: pur depurando il dato dai gonfiamenti, tenendo conto del fatto che moltissimi iscritti non seguono le indicazioni elettorali del sindacato e votano Sel, Lega o M5S, resta pur sempre una quota maggioritaria che vota Pd e, considerando anche il “voto familiare”, una quota di 2 milioni – 2 milioni e mezzo di voti al Pd è una stima prudenziale. Il che significa un buon 6-7,5%. Anche ipotizzando il distacco di una metà di essi, significherebbe un 3-4% che se ne va. Renzi, ne sono convinto, vuole disfarsi della sua sinistra interna, ma non vede affatto di buon occhio il sorgere di un partito concorrente alla sua sinistra, con il 10-12% dei voti (mettendo insieme gli attuali elettorati di sinistra Pd, Sel, Rifondazione) e che magari giochi di sponda con il M5S. Nel suo schema di gioco il Pd deve trasformarsi stabilmente in un partito interclassista di centrodestra, che non faccia più neppure finta di essere di sinistra (medita anche di cambiare il nome in Partito della Nazione), ma la sinistra non deve proprio esistere, né come corrente interna né come partito esterno, deve semplicemente scomparire e non avere più alcuna rappresentanza.
-
De Luna: un deserto senza politica a sinistra di Matteo
Il conflitto tra il governo e la Cgil spalanca intere praterie a sinistra del Pd. E’ la conseguenza della scelta di Renzi di puntare sul partito pigliatutto, spostandosi verso il centro, inglobando gli uomini di Alfano ed esercitando una fortissima attrazione verso Forza Italia. Di fatto, il partito a vocazione maggioritaria tende a svuotare di senso il bipolarismo su cui si è fondata la Seconda Repubblica, dilatando gli spazi del “grande centro”, ma favorendo anche una radicalizzazione delle ali estreme del sistema politico. A destra questo è puntualmente avvenuto con il ritorno in campo della Lega; un sussulto difficile da prevedere dopo gli scandali che avevano segnato il tramonto di Bossi. Il partito di Matteo Salvini sembra in grado di intercettare i consensi dei transfughi del centrodestra berlusconiano (e di una composita galassia di ex fascisti) rilanciando l’immagine conflittuale della Lega degli esordi (quando legò le sue fortune alla lotta contro i meridionali, contro il fisco, contro il centralismo statale) nel contesto di una crisi economica che, rispetto agli anni ‘80 del tumultuoso successo del movimento di Bossi, ha accentuato in maniera dirompente le tensioni e lo scontro sociale.A sinistra non è successo niente di tutto questo. Nel 1994 Rifondazione Comunista rappresentava circa il 10% dell’elettorato. Da allora in poi, mentre gli uomini dell’ex Pci intraprendevano la loro lunga marcia verso il centro, scandita dalle sigle Pds, Ds, Pd, quel 10% è andato sgretolandosi fino a configurarsi oggi come una costellazione di piccoli partiti rinchiusi nel ghetto di un’opposizione impotente. E’ il prezzo pagato a una sorta di coazione a ripetere che ha sempre portato a raccogliere le bandiere lasciate cadere dagli altri senza mai trovarne di diverse e spesso mutuando dagli altri le derive personalistiche, la frammentazione in correnti, un modo narcisistico e autoriferito di far politica. Per anni è sembrato che il problema fosse quello di trovare una leadership autorevole. Le esperienze in questo senso, da Bertinotti a Vendola, sono sempre naufragate; il loro tentativo non è andato oltre la soglia di una “narrazione” seduttiva, ma incapace di incidere sulla realtà.C’è stata poi la stagione disastrosa dei leader chiesti in prestito alla magistratura: il flirt con Di Pietro, l’abbraccio a De Magistris, gli entusiasmi per Ingroia. Ora tocca a Landini, alla Fiom e al sindacato con un trasporto che ricorda quello per Cofferati e per i tre milioni di manifestanti che affollarono Piazza San Giovanni. Ma ha un senso guardare alla magistratura e al sindacato come ad ambiti in cui si forma oggi una leadership politica? Il sindacato degli anni ‘70 fu quello che allargò la sua sfera di intervento dalla tutela del salario alla contrattazione complessiva di tutte le condizioni del lavoro, estendendo il suo raggio d’azione fino a interagire con il governo sulla scuola, la sanità, i trasporti, la casa. In quegli stessi anni la magistratura, finalmente, spezzò la continuità che aveva legato i suoi apparati ai codici del fascismo, aprendosi all’applicazione della Costituzione e ampliando gli spazi della nostra democrazia.Quel sindacato fu sconfitto nel 1985, con il referendum sulla scala mobile, perdendo da allora in poi rappresentanza e rappresentatività; e la magistratura in questi anni è stata chiamata ad esercitare un ruolo di supplenza nei confronti di una classe politica inadeguata, fino ad assumere un ruolo improprio, con uno straripamento che ha funzionato come un vero e proprio boomerang per la sua credibilità. In questa coazione a ripetere è come se la fine del Novecento abbia provocato un lutto mai elaborato. Il Pd ha semplicemente rimosso quel passato. L’altra sinistra in quel passato è rimasta invischiata, limitandosi a contemplare attonita le macerie dei pilastri (Stato, Partito, Lavoro, tutti con la maiuscola) su cui si era fondata la sua tradizione novecentesca e incapace di trovare alternative alla dissoluzione di quella forma partito. Così, in attesa che si sviluppino le potenzialità intraviste nell’esperienza della lista Tsipras, si prospetta l’eventualità del vecchio gioco delle scissioni e delle fusioni, in un orizzonte che oggi guarda a Civati, domani a Bersani e poi ancora, forse, a D’Alema. Non un presagio rassicurante per il futuro.(Giovanni De Luna, “Un deserto a sinistra di Matteo”, da “La Stampa” del 25 ottobre 2014).Il conflitto tra il governo e la Cgil spalanca intere praterie a sinistra del Pd. E’ la conseguenza della scelta di Renzi di puntare sul partito pigliatutto, spostandosi verso il centro, inglobando gli uomini di Alfano ed esercitando una fortissima attrazione verso Forza Italia. Di fatto, il partito a vocazione maggioritaria tende a svuotare di senso il bipolarismo su cui si è fondata la Seconda Repubblica, dilatando gli spazi del “grande centro”, ma favorendo anche una radicalizzazione delle ali estreme del sistema politico. A destra questo è puntualmente avvenuto con il ritorno in campo della Lega; un sussulto difficile da prevedere dopo gli scandali che avevano segnato il tramonto di Bossi. Il partito di Matteo Salvini sembra in grado di intercettare i consensi dei transfughi del centrodestra berlusconiano (e di una composita galassia di ex fascisti) rilanciando l’immagine conflittuale della Lega degli esordi (quando legò le sue fortune alla lotta contro i meridionali, contro il fisco, contro il centralismo statale) nel contesto di una crisi economica che, rispetto agli anni ‘80 del tumultuoso successo del movimento di Bossi, ha accentuato in maniera dirompente le tensioni e lo scontro sociale.
-
Cercasi leader che ci porti in salvo, lontano dall’euro
Cercasi politica per uscire dall’euro. Servirebbe un premier. Ci vorrebbe un governo dalla parte degli italiani, non asservito ai poteri forti tecno-finanziari, quelli che impongono il rigore, il suicidio a rate dello Stato, la privatizzazione di tutto. Moneta sovrana, unica arma per la ricostruzione dell’economia. Domanda: si può uscire dalla trappola dell’euro e dell’Europa a guida tedesca o saremo costretti a rimanere per sempre legati alle catene dell’Eurozona, cioè dell’euro-marco che affossa l’Italia? La risposta, ammette Enrico Grazzini, è squisitamente politica: «Dopo il dollaro, l’euro è la seconda valuta di riserva per le banche centrali di tutti i paesi del mondo e la sua rottura potrebbe provocare non solo la crisi della Ue ma una crisi geopolitica internazionale». Non a caso l’euro è sostenuto, in quanto valuta internazionale non competitiva nei confronti del dollaro, anche dall’amministrazione Obama. Peccato che, per noi europei, la moneta unica della Bce sia una autentica tragedia. L’ingresso nell’euro? «Un errore enorme e grossolano».Ormai è chiaro a tutti: l’ingresso dell’Italia nell’euro è stato «un escamotage inventato dalle classi dirigenti nazionali per tentare di vincolare l’economia italiana a quella europea, di riportare a bada l’inflazione e i sindacati, e di domare il lavoro e la spesa pubblica». Risultato: l’economia precipita, la comunità nazionale vacilla e gli Stati sono completamente in balia della speculazione internazionale, visto che non possono più emettere moneta e si finanziano solo attraverso la cessione di titoli di Stato, con la mediazione monopolistica del sistema bancario privato. «Purtroppo l’Unione Europea è ormai fondata soprattutto sulla moneta unica, sull’euro che divide», scrive Grazzini su “Micromega”. «E la Ue ha abbandonato ogni prospettiva di cooperazione e di benessere sociale». Diciamoci la verità: «Gli Stati Uniti d’Europa – invocati in Italia da un ampio ed eterogeneo schieramento, da Matteo Renzi a Giorgio Squinzi, da Nichi Vendola a Barbara Spinelli – sono solo una chimera, e sotto l’ombrello dell’euro-marco e dell’egemonia tedesca sarebbero comunque un vero e proprio incubo».Il problema, continua Grazzini, è che una moneta unica per 18 paesi estremamente diversi sul piano competitivo – inflazione, tecnologie, costo del lavoro – è un vero e proprio «insulto al buon senso». L’euro-marco? «E’ una moneta troppo forte e soprattutto troppo rigida, una moneta straniera, una trappola che provoca crisi non solo perché è scioccamente unica (e quindi rigida) ma perché è costruita su istituzioni e politiche monetarie intrinsecamente deflattive, modellate a somiglianza del marco e della Bundesbank». Così, la moneta unica nata dichiaratamente per unire l’Europa «è diventata lo strumento principe di una politica neo-coloniale che le élite finanziarie e industriali tedesche e dei paesi del nord Europa conducono per egemonizzare l’Europa». Impedendo le svalutazioni competitive ai paesi deboli e la rivalutazione monetaria dei paesi forti, la moneta della Bce ha favorito solo la Germania, che ha potuto esportare manufatti e capitali in tutti i paesi europei, indebolendoli e indebitandoli. Poi, i deficit commerciali dei paesi deboli hanno generato i debiti verso i paesi forti. E i paesi creditori dettano legge.I trattati europei imposti dalla Germania – da Maastricht in poi (Fiscal Compact, Six Pack, Two Pack) sono sempre più soffocanti. Più che governare, la Troika regna e scavalca i Parlamenti eletti. E’ un disegno neo-feudale, perfettamente realizzato, per moltiplificare i profitti dell’élite finanziaria al prezzo della devastazione dei sistemi economici, sociali e produttivi. Si va avanti a suon di diktat: via i diritti del lavoro, tagli al welfare, tassazione folle. E la democrazia è ormai un ricordo. «La Germania non abbandonerà queste politiche recessive e suicide – dice Grazzini – semplicemente perché le convengono e perché l’ideologia monetarista è connaturata alla Bundesbank». Niente illusioni: «Non ci sarà alcuna solidarietà o cooperazione europea, e nemmeno flessibilità. Con questo euro non usciremo dalla crisi, anche se la Bce ogni tanto concede un po’ di ossigeno per non soffocare del tutto la moribonda economia europea. La stagnazione-recessione potrebbe proseguire, provocando gravi crisi sociali fino a riportare l’Europa a un equilibrio economico assestato al livello più basso – con la rovina del welfare, del lavoro e dei paesi e delle regioni deboli – o potrebbe deflagrare in una nuova disastrosa crisi finanziaria europea e globale».Come uscire dalla trappola? Secondo Emiliano Brancaccio, dopo la svalutazione iniziale causata dall’abbandono dell’euro, i lavoratori potrebbero recuperare i loro salari in pochi anni. Addio Bce? «Cambierà tutto se la rottura dell’euro sarà in qualche maniera concordata con la Ue e con la Germania o se invece sarà del tutto unilaterale», sostiene Grazzini, «e se la mossa italiana avrà in qualche modo il consenso o anche solo la neutralità delle potenze globali o regionali extraeuropee, come gli Usa, la Cina, la Russia (e le grandi potenze private, le banche d’affari come Jp Morgan e Goldman Sachs e i fondi speculativi) o se invece le grandi potenze saranno contrarie». E’ chiaro che l’Italia, come potenza industriale e manifatturiera con vocazione esportatrice, «potrebbe più di altri paesi beneficiare dall’uscita dall’euro e dalla conseguente svalutazione della sua ritrovata moneta nazionale». Il momento sarebbe propizio: oggi il bilancio statale è in attivo e la bilancia commerciale è in sostanziale pareggio, quindi il nostro paese non avrebbe bisogno dell’aiuto di nessuno, né della Bce né della finanza internazionale.A pesare è l’ingombro del peso storico del deficit, «2300 miliardi di euro di debito pubblico verso l’estero». Oggi, in mancanza di moneta sovrana, lo si potrebbe finanziare solo «con le tasse dei cittadini o con i tagli di spesa», due strade che, come si vede, conducono nel vicolo cieco della depressione cronica. Tutto cambierebbe, invece, se si disponesse della nuova lira: «Senza il peso del debito pubblico verso l’estero – che è stato emesso secondo le leggi italiane e che quindi potrebbe essere riconvertito abbastanza facilmente e legalmente in moneta nazionale – non ci sarebbe bisogno di aumentare il deficit: e nessuno proporrebbe di aumentare le tasse o di tagliare selvaggiamente la spesa pubblica nazionale, che è minore della media europea», osserva Grazzini. Con la svalutazione della nuova lira, secondo Alberto Bagnai, l’economia diventerebbe più competitiva, gli investimenti e la produzione riprenderebbero, così come l’occupazione. Alla fine anche i redditi da lavoro aumenterebbero, dopo la svalutazione iniziale. «In questo senso, l’ipotesi di uscire unilateralmente dall’euro ristrutturando i debiti verso l’estero avrebbe un senso economico apparentemente positivo».In più, aggiunge Grazzini, «la svalutazione della lira non sarebbe una disgrazia o un fatto vergognoso, come molti economisti anche di sinistra ci dicono: infatti tutti i paesi – Usa, Giappone, Cina – stanno svalutando la loro moneta per recuperare competitività sul piano internazionale e crescita sul fronte nazionale». Quindi, «la svalutazione non è un peccato di cui vergognarsi: è solo un riallineamento dei prezzi verso l’estero». Secondo Grazzini, però, è sbagliato limitarsi al profilo economico e finanziario sottovalutando quello politico internazionale: «Nessun modello econometrico e quantitativo potrebbe stabilire che cosa succederà realmente se un paese come l’Italia, o anche solo un paese più piccolo come la Grecia, uscisse dell’euro». La moneta della Bce «rappresenta all’incirca un quarto delle valute di riserva mondiali, per un valore complessivo pari a oltre 2.000 miliardi, cioè al 25% del totale delle valute di riserva, mentre il dollaro è al 60% circa». Per questo, «molti Stati hanno un preminente interesse economico a salvaguardare l’euro», la cui drastica svalutazione o rottura comporterebbe «sconvolgimenti tellurici per quanto riguarda le riserve valutarie di Stati come Cina, Russia, Giappone, India e Brasile».Inoltre, agli Usa converrebbe «mantenere l’euro come moneta internazionale debole, cioè come improbabile alternativa al suo dollaro», cioè al dollaro che gli Stati Uniti possono «stampare all’infinito per pagare i loro debiti e comprare ciò che vogliono nel mondo». Vivecersa, sempre secondo Grazzini, Washington appoggerebbe la fine dell’euro per motivi geopolitici, «per esempio per punire la Germania e l’Europa se si avvicinassero troppo alla Russia». Purtroppo, però, la sensazione è che sia Wall Street che la Casa Bianca puntino sulla sopravvivenza dell’Eurozona, calcolando che l’euro impiegherà ancora qualche anno prima di completare la distruzione definitiva dell’economia europea. Pessime notizie, dunque, perché «l’euro non conviene all’Italia, né alle sue industrie, né alle sue banche, né ai lavoratori né al ceto medio, né al sud né al nord», sottolinea Grazzini. «E’ convenuto solo alle multinazionali finanziarie e industriali per eliminare i rischi di cambio. Ma ora è una gabbia anche per le imprese medio-grandi, perché impedisce la crescita».In più, una volta entrati nella moneta unica «è molto difficile uscirne senza danni e senza sofferenze, proprio perché l’euro è una valuta di riserva mondiale e non una moneta nazionale qualsiasi». Per Grazzini, una rottura unilaterale è rischiosa: «Se l’Italia si trovasse contro tutti gli Stati e tutta la finanza europea e mondiale, l’uscita unilaterale provocherebbe prevedibilmente una svalutazione a catena e un disastro nazionale (e globale) difficilmente valutabile e recuperabile». Peggio: «La tragedia è che attualmente non sembrano esserci via di uscita», perché «le scelte alternative sono comunque tragiche». Infatti, «se da una parte l’uscita unilaterale appare difficilmente proponibile, dall’altra – rimanendo nella prigione dell’euro-marco – la condizione europea e italiana peggiorerà a causa del Fiscal Compact». Questo sarebbe dunque il paradiso europeo profetizzato dai vari Prodi, Visco, Bassanini, Padoa-Schioppa. Non uno dei dirigenti decisivi del centrosinistra italiano, responsabile della consegna del paese alla sciagura dell’Eurozona, ha finora pronunciato una sola parola di autocritica.Se la politica tace, per Grazzini c’è solo da sperare nel blackout: «Prima o poi il sistema dell’euro-marco imploderà, perché è intrinsecamente insostenibile a causa della sua assoluta inefficienza economica e dei pesantissimi costi sociali e politici che comporta». Tutto è possibile, però: persino che l’euro «sopravviva con il sostegno della finanza internazionale», o che «gli Stati europei si adeguino alla rovina economica e alla subordinazione economica e politica imposte dall’egemonia tedesca». Difficile, però, che i paesi sopportino a lungo questa situazione: «Nonostante la stupefacente inettitudine di François Hollande, perfino una parte dei socialisti francesi – che certamente non brillano per acume e progressismo ma appaiono piuttosto propensi al suicidio elettorale – hanno cominciato a reagire dopo il successo travolgente dell’antieuro partito del Front National». Anche le potenze extraeuropee sono preoccupate del possibile contagio derivante dalla malattia europea, e la speculazione è sempre in agguato: prima o poi la finanza anglosassone «interverrà per trarre profitto dai conflitti tra i diversi Stati europei in modo da affossare la moneta unica».E’ certo che la crisi si prolungherà perché i paesi europei non crescono, la disoccupazione aumenta e i debiti pubblici continuano a crescere. Se poi i paesi del sud Europa – Francia e Italia – riuscissero ad allentare i vincoli imposti dalle regole Ue, allora la stessa Germania potrebbe abbandonare l’euro e ritornare al marco per difendere la forza della sua moneta. Secondo Grazzini, «la sinistra italiana ed europea dovrebbe battersi fin da ora per una rottura concordata dell’euro in modo da minimizzare i danni e permettere ai popoli e ai governi democraticamente eletti di perseguire una via di uscita dalla crisi». Ma forse Grazzini ha in mente una sinistra immaginaria: quella italiana ed europea è esattamente la forza che più di ogni altra ha collaborato al disegno eurocratico, antidemocratico e anti-sovranista. In Germania la riforma Harz contro i sindacati è stata condotta dalla Spd di Schroeder, in Gran Bretagna i lavoratori sono stati “sistemati” dai laburisti di Blair. E in Italia, liquidati i partiti della Prima Repubblica, le principali riforme strutturali contro il lavoro e la sovranità nazionale sono state progettate e realizzate da Ciampi, Prodi e D’Alema.Oggi, Grazzini riconosce che se si resta nell’euro si sprofonda nella crisi. E per uscire dalla moneta unica nel modo meno doloroso possibile è necessario «ricreare una banca centrale nazionale responsabile verso il governo e il Parlamento», una Banca d’Italia «in grado di sostenere una politica espansiva, ovvero di comprare i titoli del debito pubblico nazionale». Va ricordato che a disabilitare Bankitalia come “prestatore di ultima istanza” non fu certo il bieco Berlusconi, all’epoca non ancora “sceso in campo”, ma furono il governatore Carlo Azeglio Ciampi e il ministro del Tesoro Beniamino Andreatta, esponente di quella sinistra Dc che mirava – insieme ai politici del futuro centrosinistra – a consegnare a Bruxelles la cassaforte del paese, per sottrarla alla nomenklatura dei Craxi, degli Andreotti e dei Forlani. A più di trent’anni dal “misfatto” del 1981, oggi si ammette che solo una banca centrale in grado di emettere moneta sovrana potrebbe finanziare il governo e gli investimenti produttivi, sostenere la spesa pubblica strategica, controllare i movimenti di capitali, convogliare il risparmio nazionale verso lo sviluppo del paese.Per Grazzini, «bisognerebbe copiare l’esperienza dei paesi emergenti, come Cina e Brasile, che mantengono vincoli forti sulla finanza e la valuta ma incentivano gli investimenti industriali esteri». E attenzione: «Bisognerebbe nazionalizzare – anche con difficili misure di prestito forzoso – il debito pubblico, in modo che la nazione sia indebitata quasi esclusivamente con se stessa (come il Giappone, che ha il più alto debito al mondo ma lo sostiene perché è debito interno)». Il problema maggiore, aggiunge Grazzini, verrebbe però dal debito privato pagabile solo in euro, e soprattutto dal debito estero delle grandi banche. Dunque, «occorrerebbe nazionalizzare le maggiori banche anche per rilanciare il credito verso le piccole e medie aziende». Di pari passo, «per proteggere i salari e gli stipendi e rilanciare la domanda interna bisognerebbe ripristinare meccanismi analoghi alla scala mobile e agganciare automaticamente i salari all’inflazione e alla crescita della produttività».Un percorso impervio, tenendo conto del personale politico italiano: partiti e leader sono stati completamente “colonizzati” dal capitale finanziario straniero, da cui dipende la protezione delle loro carriere. La parola chiave, dunque, è democrazia: solo nuove leve e nuovi politici, non ancora presenti sulla scena odierna, potrebbero progettare l’uscita dall’euro mettendo a punto innanzitutto una politica di alleanze internazionali, «non solo con gli altri paesi del sud Europa e la Francia, ma anche con le banche centrali dei paesi extraeuropei». Servirebbe anche «una moneta comune (ma non più unica, come l’euro) contro la speculazione internazionale», come l’euro-bancor proposto da Keynes «come moneta comune europea da fare valere verso il dollaro e le altre valute internazionali».Qualcuno lo vede, un governo italiano in grado di compiere questi difficili passi? «Non solo non esiste attualmente – ammette Grazzini – ma è molto dubbio che esisterà mai». Un governo anti-euro, cioè di salvezza nazionale, «dovrebbe avere un grande consenso sociale, la capacità di imporre sacrifici temporanei ai ceti medi e soprattutto vincoli stretti ai settori privilegiati. Dovrebbe essere autonomo dalle élite dei potenti e dall’alta finanza e avere l’appoggio di gran parte della società civile e dei sindacati». Abbiamo una sola certezza: così non si può andare avanti. «Non è possibile che le politiche economiche vengano decise a Berlino, Francoforte, Bruxelles e Washington. I governi nazionali, come quello di Matteo Renzi, agiscono sempre più sotto dettatura».Cercasi politica per uscire dall’euro. Servirebbe un premier. Ci vorrebbe un governo dalla parte degli italiani, non asservito ai poteri forti tecno-finanziari, quelli che impongono il rigore, il suicidio a rate dello Stato, la privatizzazione di tutto. Moneta sovrana, unica arma per la ricostruzione dell’economia. Domanda: si può uscire dalla trappola dell’euro e dell’Europa a guida tedesca o saremo costretti a rimanere per sempre legati alle catene dell’Eurozona, cioè dell’euro-marco che affossa l’Italia? La risposta, ammette Enrico Grazzini, è squisitamente politica: «Dopo il dollaro, l’euro è la seconda valuta di riserva per le banche centrali di tutti i paesi del mondo e la sua rottura potrebbe provocare non solo la crisi della Ue ma una crisi geopolitica internazionale». Non a caso l’euro è sostenuto, in quanto valuta internazionale non competitiva nei confronti del dollaro, anche dall’amministrazione Obama. Peccato che, per noi europei, la moneta unica della Bce sia una autentica tragedia. L’ingresso nell’euro? «Un errore enorme e grossolano».
-
Isis, corsari per la grande guerra Usa: ditelo, alla sinistra
Chi erano i corsari? Mercenari del mare, incaricati di colpire gli avversari della potenza che li aveva ingaggiati: di fatto, a loro toccava il lavoro sporco. Dunque, come definire altrimenti l’attuale Isis, armato dagli Usa attraverso l’Arabia Saudita? Già negli anni ‘80, scrive “Piotr” su “Megachip”, la Rand Corporation aveva previsto che guerre future sarebbero state combattute, sul terreno, da “entità sub-statali”. Cui prodest: «Cosa c’è di meglio per gli Usa che installare nel centro nevralgico dell’Eurasia (già oggetto degli incubi e dei desideri del “veggente” consigliere di Carter per la sicurezza, Zbigniew Brzezinski) uno Stato-non-Stato, uno Stato-zombie, un essere-non-essere, un’organizzazione territoriale che al riparo della sua bandiera nera pirata può minacciare di azioni raccapriccianti tutti gli stati vicini, a partire da Siria, Russia, Iran, Cina, repubbliche centroasiatiche e poi lungo il corridoio che tramite il Pakistan penetra in India e che attraverso lo Xinjiang Uyghur prende alle spalle la Cina? Difficile pensare a un’arma non convenzionale migliore».L’Isis è «un temibile cuneo piazzato nel bel mezzo dell’Organizzazione di Shanghai», nonché una minaccia verso l’Europa, nel caso il vecchio continente «si mostrasse troppo recalcitrante al progetto neoimperiale statunitense, con annessi e connessi tipo il rapinoso Ttip». Il momento è adesso: l’economia occidentale è in declino, mentre i Brics non hanno ancora le capacità militari per reagire. Scrupoli, da parte di Washington? Escluso: «Il regista Oliver Stone e lo storico Peter Kuznick con molto acume hanno fatto notare che con Hiroshima e Nagasaki gli Usa non solo volevano dimostrare al mondo di essere superpotenti, ma anche – cosa ancor più preoccupante – che non avrebbero avuto alcuno scrupolo nella difesa dei propri interessi: erano pronti a incenerire in massa uomini, donne e bambini». Oggi tocca a libici, siriani, iracheni. Certo, «in Occidente questa strategia rimane incomprensibile ai più», anche se già negli ‘80 alcuni studiosi avevano fatto notare «le connessioni tra crisi sistemica, reaganomics, finanziarizzazione, conflitti geopolitici e la ripresa d’iniziativa neoimperiale degli Usa dopo la sconfitta in Vietnam».All’appello manca, drammaticamente, la sinistra: quella che si era battuta contro il Vietnam, contro le guerre imperiali di Bush e contro la globalizzazione selvaggia, e ora lascia che sia il Papa a parlare di “Terza Guerra Mondiale a zone”, iniziata di fatto con l’attentato alle Torri Gemelle dell’11 Settembre. Il movimento no-global era sulla strada giusta, eppure – annota l’analista di “Megachip” – è bastata la crisi finanziaria e «l’elezione santificata» di Obama per accecare milioni di individui, divenuti «passivi o incoscienti della nuova politica imperiale». Tutto “merito” della disinformazione mediatica: Goebbels ha fatto scuola. «Il trucco c’è, si vede benissimo, ma non gliene frega niente a nessuno», sentenzia una vignetta di Altan. Tutti lo vedevano: «La “guerra al terrorismo” non sconfiggeva alcun terrorismo», ma «in compenso distruggeva stati, prima l’Afghanistan poi l’Iraq». E il terrorismo? «Entrava “in sonno” e si rifaceva vivo con alcune necessarie dimostrazioni di esistenza a Madrid e a Londra, nel cuore dell’Europa». Avvertimenti.«Con Obama, gli obiettivi e la strategia si sono progressivamente chiariti», sostiene “Piotr”. «Una volta riorganizzato e potenziato l’esercito corsaro, scattava la nuova offensiva che ha avuto due preludi: il discorso di Obama all’Università del Cairo nel 2009 e le “primavere arabe” iniziate l’anno seguente». Attenzione: «In entrambi i casi, la sinistra ha sfoggiato una strabiliante capacità di non capire nulla. Avendo ormai scisso completamente l’anticapitalismo dall’antimperialismo, la maggior parte del “popolo di sinistra” si faceva avviluppare dalla melassa della coppia buonismo-diritti umanitari (inutile ricordare i campioni italiani di questa pasticceria), elevando ogni bla-bla a concetto e poi a Verbo. Obama dixit. Che bello! Che differenza tra Obama e quel guerrafondaio antimusulmano di Bush! Avete sentito cosa ha detto al Cairo? Nemmeno il più pallido sospetto che l’impero stesse esponendo la nuova dottrina di alleanza con l’Islam politico (alleanza che ha il centro logistico, finanziario e organizzativo nell’Arabia Saudita, il partner più fedele e di più lunga data degli Usa in Medio Oriente)». Peggio ancora con le “primavere arabe”: «Nemmeno a bombardamenti sulla Libia già iniziati la sinistra ha avuto il buon senso di rivedere il proprio entusiasmo per quelle “rivolte”».«Disaccoppiare il capitalismo dall’imperialismo è come pretendere di dissociare l’idrogeno dall’ossigeno e avere ancora acqua», continua “Megachip”. «Si è giunti al punto che un capo di stato maggiore statunitense, il generale Wesley Clark, rivela che Libia e Siria erano già nel 2001 nella lista di obiettivi selezionati dal Pentagono». Ma niente paura: i «sedicenti marxisti» continuino ancora a credere alla fiaba delle “rivolte popolari”. E’ così che, all’alba della Terza Guerra Mondiale, la sinistra «ci arriva totalmente disattrezzata, teoricamente, politicamente e ideologicamente», ancora peggio del “popolo di destra” perché, spesso, apertamente schierata coi guerrafondai. Unico «sprazzo di sereno», nell’estate 2014, l’opposizione di M5S e Sel all’invio di armi ai curdi, per una guerra in cui – come avverte Emergency – a pagare saranno al 90% i civili. E il gioco è più sporco che mai: «Il senatore John McCain, in apparenza battitore libero ma nella realtà executive plenipotenziario della politica di caos terroristico di Obama, si è messo d’accordo sia coi leader del governo regionale curdo in Iraq sia con il Califfo dell’Isis, Abu Bakr al-Baghdadi, già Abu Du’a, già Ibrahim al-Badri, uno dei cinque terroristi più ricercati dagli Stati Uniti con una taglia di 10 milioni di dollari».«Così come Mussolini aveva bisogno di un migliaio di morti da gettare sul tavolo delle trattative di pace – conclude “Megachip” – gli Usa, l’Isis e i boss curdo-iracheni hanno bisogno di qualche migliaio di morti (civili) da gettare sul palcoscenico della tragedia mediorientale, per portare a termine la tripartizione dell’Iraq e lo scippo delle zone nordorientali della Siria (altro che Siria e Usa uniti contro i terroristi, come scrivono cialtroni superficiali e pennivendoli di regime). Il tutto a beneficio del realismo dello spettacolo». Nel lontano 1979, Brzezinski aveva capito e scritto che il futuro problema degli Stati Uniti era l’Eurasia e che quindi occorreva balcanizzarla, in particolare la Russia e la Cina. All’inizio del secolo scorso, in piena egemonia mondiale dell’impero britannico, il geografo inglese Halford Mackinder scriveva: «Chi controlla l’Est Europa comanda l’Heartland, chi controlla l’Heartland comanda l’Isola-Mondo, chi controlla l’Isola-Mondo comanda il mondo». L’indefesso girovagare di McCain tra Ucraina e Medio Oriente non è dunque un caso. Ciò che è cambiato, chiosa “Piotr”, è che «gli Usa hanno capito che non è necessario che siano le proprie truppe a fare tutto il lavoro sporco». Bastano a avanzano i nuovi corsari.Chi erano i corsari? Mercenari del mare, incaricati di colpire gli avversari della potenza che li aveva ingaggiati: di fatto, a loro toccava il lavoro sporco. Dunque, come definire altrimenti l’attuale Isis, armato dagli Usa attraverso l’Arabia Saudita? Già negli anni ‘80, scrive “Piotr” su “Megachip”, la Rand Corporation aveva previsto che guerre future sarebbero state combattute, sul terreno, da “entità sub-statali”. Cui prodest: «Cosa c’è di meglio per gli Usa che installare nel centro nevralgico dell’Eurasia (già oggetto degli incubi e dei desideri del “veggente” consigliere di Carter per la sicurezza, Zbigniew Brzezinski) uno Stato-non-Stato, uno Stato-zombie, un essere-non-essere, un’organizzazione territoriale che al riparo della sua bandiera nera pirata può minacciare di azioni raccapriccianti tutti gli stati vicini, a partire da Siria, Russia, Iran, Cina, repubbliche centroasiatiche e poi lungo il corridoio che tramite il Pakistan penetra in India e che attraverso lo Xinjiang Uyghur prende alle spalle la Cina? Difficile pensare a un’arma non convenzionale migliore».
-
Lista Tsipras: questo nome vi ricorda ancora qualcosa?
Alexis Tsipras, chi era costui? Ah sì, il leader di “Syriza”, una sinistra vincente in Grecia. E la Lista Tsipras italiana? «Il simbolo rosso, la campagna elettorale tra culi e speranze», il risultato alle europee «tutto sommato positivo, considerato lo scontro totalizzante in corso tra Renzi, Grillo e Berlusconi che oscurava il resto». Un mezzo miracolo, la conquista della soglia-salvezza del 4%, «considerati i soldi, pochissimi», nonché «il simbolo sconosciuto ai più e il nome di un leader difficile anche solo da pronunciare». Allora, dov’è finita la Lista Tsipras? Già praticamente scomparsa. Forse perché «la sinistra ha un grande nemico da combattere: se stessa», ipotizza Matteo Pucciarelli. Prima l’affare Barbara Spinelli, «ennesima figura poco edificante di una sinistra che predica in un modo ma il giorno dopo razzola in un altro», poi la deflagrazione di Sel («nota tutto sommato non proprio negativa, visti i personaggi che se ne sono andati»). Neanche il tempo di festeggiare, ed ecco «il disastro, la rarefazione», il suicidio politico.Alla vigilia delle europee, Aldo Giannuli (già esponente di Rifondazione) fu lapidario: il voto a Tsipras è sprecato, perché quella lista non ha in sé alcun germe di futuro. Pucciarelli è stato invece “simpatizzante” della formazione promossa da Barbara Spinelli, e ad agosto ha fatto una telefonata «a chi forse poteva rispondere alla domanda iniziale: scusa, che fine ha fatto la Lista Tsipras?». La risposta, Pucciarelli la pubblica su “Micromega”. Il “personaggio” interpellato sintetizza: la lista ha centrato il 4% miracolosamente, grazie a Sel e al Prc, «e poi s’è praticamente eclissata dal dibattito politico nazionale», in cui impazza il renzismo rottamatore. Gli unici a fare opposizione, riuscendo anche a dire “qualcosa di sinistra”, sono i “grillini” e i reduci di Sel. Proprio il partito di Vendola è al centro del dibattito-fantasma in corso tra gli ex attivisti della Lista Tsipras: «La corrente più forte dice che Sel è la morte, non ci si può assolutamente mai alleare con il Pd manco sui singoli provvedimenti, neanche a livello territoriale, perché il Pd, come Sel, è la morte. Per loro, per essere brevi e schematici, allearsi con il Pd (magari sull’immigrazione) è come allearsi con la Lega Nord (sul NoTav)», scrive l’informatore di Pucciarelli.Altro capitolo depressivo, il dibattito-ombra sulla possibile candidatura della Lista Tsipras alle elezioni regionali della primavera 2015: «Non abbiamo la forza politica né mediatica per candidarci a marzo», scrive la fonte. «Se volevano candidarsi, dovevano lavorare a questo già dal 27 maggio, cosa che non è stata (scientemente?) fatta. Per ricostruire qualcosa dovevamo cominciare ieri. Per dire che siamo in ritardo, e ogni giorno che passa la lista muore di più». Il 19 luglio, gli attivisti hanno varato un coordinamento che si impegnasse almeno a promuovere qualche campagna politica in autunno (su scuola, immigrazione, reddito minimo). Problema: il coordinamento è affollato di 221 persone, «una follia». Ci sono dentro praticamente tutti: ex candidati, ex garanti, ex comitato operativo, nonché dirigenti di Sel, Prc e “Azione Civile”, e «interi comitati territoriali», che in alcune regioni hanno “cammellato” il coordinamento (per il Lazio, 35 delegati). «Tu immagina cosa può venire fuori da questo coordinamento: se ci va bene non ne viene fuori nulla, se va male – come temo – verrà fuori una guerra tra bande su ogni minima questione».Inoltre, a parte il coordinamento, la lista è ora “suddivisa” in 7 gruppi, che affrontano temi come democrazia, Costituzione, welfare, lavoro. Gruppi troppo folti, suddivisi in sotto-gruppi. Il problema? «Non si vota niente, e quindi alla fine nessuno decide nulla». E i tre europarlamentari eletti, nel nome di “Un’altra Europa”? Non pervenuti: «Sono talmente scollati dal resto della lista che ormai sono tre pianeti a sé stanti che a stento si confrontano anche tra di loro», conclude la fonte. «Purtroppo non c’è trasparenza da parte loro, né la lista riesce a imporsi in questo senso». Un report «deprimente», di cui Pucciarelli tende a fidarsi a occhi chiusi. Il giornalista di “Micromega” crede ancora nella necessità di rifondare una sinistra in Italia, nonostante questo ennesimo disastro. Per contro, nessuna delle forze che hanno promosso Tsipras – Sel, Rifondazione – ha mai neppure lontanamente accennato a criticare i fondamenti economici del regime eurocratico, la confisca della moneta sovrana per poi procedere allo smantellamento dello stato sociale col pretesto del debito pubblico. Gli eurocrati possono continuare a dormire sonni tranquilli, anche nel caso – molto improbabile – in cui la defunta Lista Tsipras dovesse un giorno resuscitare.Alexis Tsipras, chi era costui? Ah sì, il leader di “Syriza”, una sinistra vincente in Grecia. E la Lista Tsipras italiana? «Il simbolo rosso, la campagna elettorale tra culi e speranze», il risultato alle europee «tutto sommato positivo, considerato lo scontro totalizzante in corso tra Renzi, Grillo e Berlusconi che oscurava il resto». Un mezzo miracolo, la conquista della soglia-salvezza del 4%, «considerati i soldi, pochissimi», nonché «il simbolo sconosciuto ai più e il nome di un leader difficile anche solo da pronunciare». Allora, dov’è finita la Lista Tsipras? Già praticamente scomparsa. Forse perché «la sinistra ha un grande nemico da combattere: se stessa», ipotizza Matteo Pucciarelli. Prima l’affare Barbara Spinelli, «ennesima figura poco edificante di una sinistra che predica in un modo ma il giorno dopo razzola in un altro», poi la deflagrazione di Sel («nota tutto sommato non proprio negativa, visti i personaggi che se ne sono andati»). Neanche il tempo di festeggiare, ed ecco «il disastro, la rarefazione», il suicidio politico.
-
Ma Renzi rottamerà se stesso, ben prima del previsto
I recenti dati sull’economia del paese sono stati la prima doccia gelata sul governo Renzi dopo i trionfi di primavera. «La prima, ma non l’unica: altre ne verranno». All’indomani dell’imprevisto grande successo alle europee, si parlò della consacrazione definitiva di Renzi come leader. E qualcuno si spinse a parlare di inizio di un’“epoca renziana”, dopo quella berlusconiana. «Ho sempre pensato che fosse una sciocchezza», dice Aldo Giannuli: «Renzi, ne sono convinto, è destinato a durare poco». Secondo lo storico dell’università di Milano, il Rottamatore finirà per “rottamare” se stesso, alla velocità della luce: tra un fallimento e l’altro, saranno in primo luogo i suoi attuali sostenitori a farlo fuori. «Il peggior nemico di Renzi è proprio Renzi», insiste Giannuli: «Ha fatto l’errore imperdonabile di creare troppe aspettative su di sé», fin dall’inizio, e poi «ad ogni scadenza non proprio riuscita ha regolarmente rilanciato», coi suoi slogan: farò una riforma al mese, risolleverò i consumi con gli 80 euro, entro fine 2014 «superiamo le previsioni e cresciamo dell’1%».E’ un po’ come per le finanziarie “a piramide”, che attirano clienti promettendo interessi appetitosi ma poi, fallite le speculazioni, si spalanca il bluco nelle casse, per cui i soldi non bastano a pagare gli interessi ed è il crack. «Ora che è arrivata la prima gelata (altro che +1%, siamo in recessione con -0,2%)», il premier «la spara ancora più grossa: alla fine dei “mille giorni” l’Italia sarà paese leader in Europa», anziché “il problema” dell’Ue. «Ma lui non ha neppure mille giorni davanti a sé: realisticamente ne ha molti meno», scrive Giannuli nel suo blog. «Ben presto quel 40,8% sarà il ricordo lontano di un risultato irripetibile». Già nelle amministrative di autunno, probabilmente, sentiremo qualche scricchiolio. E in primavera, le regionali – sia pure senza Piemonte, Lombardia, Emilia e Lazio – probabilmente segneranno diversi punti indietro rispetto al risultato del 28 maggio scorso.Buon per Renzi: dopo, non ci saranno altri turni elettorali di rilievo, sino al 2017. «Ma l’effetto delusione delle troppe aspettative create e deluse già sarà iniziato da tempo: come accadde a Berlusconi nel 2003, dopo la clamorosa vittoria del 2001, o a Monti, dopo il trionfale insediamento del novembre 2011: un anno dopo era già polvere». Ovviamente, continua Giannuli, non solo l’obbiettivo del “paese leader in Europa” non sarà minimamente raggiunto («sarà servito solo a far sganasciare di risate i partner europei»), ma già mese per mese «constateremo il peggioramento della situazione». Conti in rosso: «Non è affatto improbabile che ci si debba preparare a una nuova tempesta dello spread per ottobre-novembre: i primi guai per Renzi verranno in quei mesi in cui, comunque vada – tempesta dello spread o no – lui sarà costretto dai diktat europei a fare una finanziaria ben diversa da quella di cui sta parlando».Una “sberla” potrebbe arrivare già a fine agosto, quando si deciderà chi è “mister Pesc”: se non dovesse passare la Mogherini ma un altro italiano, per Renzi sarebbe una mezza sconfitta, ma se invece il posto andasse ad un qualsiasi altro partner europeo, per il “rottamatore” «sarebbe una sconfitta piena, tanto più che cadrebbe nel bel mezzo del suo semestre, nel quale peraltro vedremo cosa sarà stato capace di combinare». Poi c’è il fronte interno, la partita del Senato e quella della legge elettorale. Finora, «il Senato ha operato sotto la botta del successo di fine maggio, per cui ben pochi hanno avuto il coraggio di dissentire». Ma alla ripresa «ci sarà un unico groviglio, che mette insieme le due riforme istituzionali, l’elezione dei giudici costituzionali e quella dei membri laici del Csm per la quale il Parlamento è già inadempiente». Secondo Giannuli il pericolo verrà dai centristi, oltre un centinaio di parlamentari fra alfaniani, casiniani e montiani: stanno già iniziando ad agitarsi, per cui «potrebbe anche scapparci una crisi di governo».Vero, in soccorso a Renzi potrebbe accorrere «il Cavaliere pregiudicato», ma anche Berlusconi «avrà i suoi problemi, fra un partito in dissoluzione e altre grane giudiziarie in arrivo». Più che altro, osserva Giannuli, il successo di Renzi è stato propiziato da due elementi: l’esasperazione della base Pd per i ripetuti fallimenti della vecchia guardia (D’Alema, Veltroni, Fassino, Franceschini, Bersani e Letta) e l’assenza di veri sfidanti. «Soprattutto la seconda cosa è stata determinante: il centro montiano era già dissolto dall’estate del 2013, Forza Italia in caduta libera e senza che nessun alleato prendesse quota, Rifondazione e Sel in decadenza». L’unico competitore era il “Movimento 5 Stelle”, «che però si misurava con i limiti strutturali del suo bacino elettorale: per cui, di fatto, le europee sono state una partita senza squadra avversaria». Questo “stato di grazia”, che vede centro e destra in caduta libera e il M5S “recintato” «durerà ancora, ma non in eterno».Per Giannuli, è realistico pensare che entro qualche tempo inizierà un processo di riaggregazione fra centro e destra: o Berlusconi fa un passo indietro e permette alla destra di radunarsi attorno a altro personaggio (anche se non è facile immaginare chi), oppure porta il suo partito a una lenta emorragia, che favorisce la nascita di un soggetto di centro ben più consistente del passato. E se Renzi si sposta più decisamente a destra per impedire la nascita di un nuovo polo di centrodestra, «rischia una scissione sulla sinistra che potrebbe aggregare anche Sel, quel che resta di Rifondazione e Verdi e, forse, socialisti e fuorusciti del M5S», cioè «un’area che potrebbe anche superare il 10%». Il M5S sta attraversando una fase travagliata, ma è possibile che il declino del governo Renzi possa tornare a gonfiarne i consensi. «Insomma, la situazione da “partita senza avversari” difficilmente durerà a lungo». Ecco perché non è saggio scommettere ancora sulla durata del governo Renzi, che di fatto è «un insieme di comparse incolori e politicamente inesistenti».Tutto si regge sull’esuberante protagonismo del presidente del Consiglio, che però «proprio con il suo iperattivismo rischia di logorarsi molto rapidamente». Anche perché «il personaggio non è di qualità eccelsa», totalmente privo com’è di «capacità di ideazione strategica e di mediazione politica». Grande comunicatore? Nemmeno: «Un grande comunicatore, mi duole dirlo, è stato Berlusconi, che è durato vent’anni», perché «ha saputo giocare su mezzi toni, lasciar sperare senza impegnarsi più di tanto», e poi «alternare muso duro e gigioneria, giocare un alleato contro l’altro». Per un bel po’ ha anche dato l’impressione di muoversi a suo agio nei vertici internazionali, e ha sempre avuto grande tempismo. Renzi, invece, «ha un unico registro espressivo: l’arroganza». E poi «è troppo scoperto nel suo ruolo di imbonitore televisivo, non è capace di mediare su niente e con nessuno, tratta gli alleati come pezze da piedi, è troppo provinciale e “non esiste” sul piano internazionale. Renzi «è frenetico ma non tempista», e non ha neppure a disposizione l’enorme apparato televisivo del Cavaliere. «Il suo stile mezzo boy scout e mezzo tamarro può funzionare per un po’, ma si esaurisce presto. E sicuramente dura molto meno di 20 anni». Domandona: nel frattempo, prima di cadere, quanti danni riuscirà a infliggere all’Italia?I recenti dati sull’economia del paese sono stati la prima doccia gelata sul governo Renzi dopo i trionfi di primavera. «La prima, ma non l’unica: altre ne verranno». All’indomani dell’imprevisto grande successo alle europee, si parlò della consacrazione definitiva di Renzi come leader. E qualcuno si spinse a parlare di inizio di un’“epoca renziana”, dopo quella berlusconiana. «Ho sempre pensato che fosse una sciocchezza», dice Aldo Giannuli: «Renzi, ne sono convinto, è destinato a durare poco». Secondo lo storico dell’università di Milano, il Rottamatore finirà per “rottamare” se stesso, alla velocità della luce: tra un fallimento e l’altro, saranno in primo luogo i suoi attuali sostenitori a farlo fuori. «Il peggior nemico di Renzi è proprio Renzi», insiste Giannuli: «Ha fatto l’errore imperdonabile di creare troppe aspettative su di sé», fin dall’inizio, e poi «ad ogni scadenza non proprio riuscita ha regolarmente rilanciato», coi suoi slogan: farò una riforma al mese, risolleverò i consumi con gli 80 euro, entro fine 2014 «superiamo le previsioni e cresciamo dell’1%».
-
Elezioni ad personam, Renzi e Silvio ladri di democrazia
Nell’accordo piduista Renzi-Berlusconi, benedetto da Napolitano, c’è molto di peggio che non il Senato dei nominati (il Senato andava semplicemente abolito e contemporaneamente il numero dei deputati portato a cento). Il vero elemento golpista del patto piduista del Nazareno è costituito invece dalla legge elettorale, che consentirà a una forza di minoranza un controllo totale non solo del legislativo ma anche delle istituzioni di garanzia: presidenza della Repubblica e Corte Costituzionale. Nell’ambito di questa legge elettorale super-truffaldina e micidiale per la democrazia, l’elemento più grave è dato dalla vera e propria istigazione a delinquere rappresentata dall’incentivo alla presentazione di liste locali di clientelismo mafioso e liste nazionali di indecenza corporativa. Sarà infatti vantaggioso presentare liste che non hanno alcuna possibilità di eleggere un deputato ma che concorreranno alla somma dei voti con cui la coalizione potrà ottenere i premi di maggioranza truffaldini.Liste improbabili e impensabili in paesi civili, ma che nelle prossime elezioni saranno presenti davvero, tipo la lista “Forza Dudù”, che Berlusconi ha già fatto sottoporre a test dalla sua sondaggista di fiducia, con raccapriccianti esiti positivi. E altrettanto vantaggioso sarà presentare in ogni circoscrizione liste di mozzaorecchi locali coalizzate con i partiti principali dell’uno o dell’altro schieramento, liste che sul piano nazionale conteranno per lo zero virgola qualcosa ma su quello locale possono anche raggiungere consensi a due cifre. Basterà perciò avere una lista di clientelismo locale affaristico e/o mafioso in ogni circoscrizione e l’incremento nazionale per una coalizione potrebbe toccare il 10 per cento! Di questo sconcio che fomenterà una vera e propria metastasi letale per la democrazia, i gettonatissimi politologi di establishment alla D’Alimonte & Co. nulla dicono, vuoi perché nella loro insipienza non se ne sono neppure accorti, vuoi perché lo sanno ma establishment oblige.Eliminare la possibilità che questi due tipi di lista possano concorrere alla somma dei voti delle coalizioni è imprescindibile se non si vuole portare a dismisura lo sfregio alla democrazia che comunque questa legge elettorale realizzerà. Dovrebbe perciò essere obiettivo primario delle opposizioni, e innanzitutto del M5S che resta l’unica attuale opposizione effettiva all’establishment (Lega e Sel ne fanno sontuosamente parte), imporre un emendamento che stabilisca la soglia minima di voti (due o tre per cento a livello nazionale, meglio ancora il quattro o la soglia che verrà stabilita per avere deputati) al di sotto della quale una lista non concorre alla determinazione della somma di una coalizione. È una battaglia di elementare civiltà, ma è anche una battaglia che può essere vincente, perché sarà difficile perfino per i pasdaran dell’inciucio Berlusconi-Renzi difendere una norma di così sfacciata valenza clientelar-affaristico-mafiosa.E tale battaglia avrà l’ulteriore effetto virtuoso, se condotta con l’intransigenza doverosa e anche con il sacrosanto can-can dell’ostruzionismo parlamentare più chiassoso e mediaticamente pagante, di sbattere in faccia agli italiani che ancora si illudono del carattere riformista del governo Renzi e magari imputano al M5S di saper dire solo dei “no”, come il “fare” del governo sia sempre più spesso la prosecuzione, perfino allargata, delle “porcate” dell’epoca berlusconiana (altro che rottamazione!) e come l’opposizione sappia invece essere propositiva e radicale: unica forza davvero riformista. Infine, è incomprensibile come una tale battaglia non l’abbiano già lanciata “dissidenti” del Pd come Casson e Mucchetti, che pure hanno alzato le barricate per ignominie assai meno ignominiose.(Paolo Flores d’Arcais, “Contro l’inciucio Renzi-Berlusconi c’è una battaglia che si può vincere subito”, da “Micromega” del 4 agosto 2014).Nell’accordo piduista Renzi-Berlusconi, benedetto da Napolitano, c’è molto di peggio che non il Senato dei nominati (il Senato andava semplicemente abolito e contemporaneamente il numero dei deputati portato a cento). Il vero elemento golpista del patto piduista del Nazareno è costituito invece dalla legge elettorale, che consentirà a una forza di minoranza un controllo totale non solo del legislativo ma anche delle istituzioni di garanzia: presidenza della Repubblica e Corte Costituzionale. Nell’ambito di questa legge elettorale super-truffaldina e micidiale per la democrazia, l’elemento più grave è dato dalla vera e propria istigazione a delinquere rappresentata dall’incentivo alla presentazione di liste locali di clientelismo mafioso e liste nazionali di indecenza corporativa. Sarà infatti vantaggioso presentare liste che non hanno alcuna possibilità di eleggere un deputato ma che concorreranno alla somma dei voti con cui la coalizione potrà ottenere i premi di maggioranza truffaldini.
-
Strage Moby Prince, mistero Nato con troppe navi-fantasma
Non “adrift”, alla deriva, ma “Agrippa”, nome proprio di una nave. Che, in teoria, non esisteva. Eppure era al largo di Livorno la sera del 10 aprile 1991, nelle acque in cui il traghetto Moby Prince diretto in Sardegna si scontrò con la Agip Abruzzo, petroliera dell’Eni. Il più grande disastro marittimo italiano: 140 morti, un solo sopravvissuto. E, dopo 23 anni, ancora troppi misteri. Per esempio, troppe navi – anche militari, Nato – la cui presenza non chiara autorizza i peggiori sospetti, come quello del traffico di armi verso la Somalia denunciato da Ilaria Alpi, poi assassinata tre anni dopo alla periferia di Modagiscio. Un incidente causato da accidentali interferenze elettroniche di origine militare? Soccorsi tardivi, e depistaggi radio, per dare tempo a una nave-fantasma di dileguarsi? Sono molti gli interrogativi che il “Fatto Quotidiano” rilancia, destinati alla commissione parlamentare d’inchiesta voluta da Movimento 5 Stelle insieme a Sel e Pd per far luce, finalmente, sulla tragedia navale della Moby Prince.Navi-fantasma: il riascolto incrociato delle tracce radio, sostiene Francesco Sanna nel suo reportage, realizzato col contributo dello studio di ingegneria forense Bardazza di Milano, rivela la presenza di almeno tre natanti inzialmente non identificati, sfuggiti alle prime indagini sul disastro. Il nome del primo vascello-fantasma, l’Agrippa, viene fatto – via radio – dalla nave militarizzata americana Cape Breton, che incrocia a un miglio dall’Agip Abruzzo. Alla Cape Breton si sono rivolti i piloti di Livorno per ricostruire l’accaduto e organizzare i soccorsi. La nave Usa, carica di armamenti destinati alla base di Camp Darby tra Livorno e Pisa, rivela che “Agrippa” è a fuoco, ma l’incendio è sotto controllo. Nella prima inchiesta giudiziaria, la parola “Agrippa” viene male intepretata e tradotta in “adrift”, alla deriva. Nell’inchiesta-bis, aperta nel 2006 e chiusa con l’archiviazione nel 2010, i periti della Procura di Livorno distinguono invece nettamente il nome “Agrippa”. Problema: «Nell’area del porto di Livorno, quella sera del 10 aprile 1991, non c’è nessuna imbarcazione con quel nome», osserva Sanna. «Per giunta l’unica nave interessata da un incendio, oltre al Moby Prince avvolto dal greggio incendiato ma che nessuno vede per ore, è l’Agip Abruzzo».Quella notte, continua il giornalista del “Fatto”, un’altra nave-fantasma girava per il porto di Livorno: si chiamava Theresa e si mise in comunicazione radio con un terzo natante non identificato, “ship one”. Chi era Teresa, e chi era la “nave uno”? Secondo gli ingegneri dello studio Bardazza di Milano, che sta lavorando su mandato dei familiari delle vittime, «si trattava della Gallant II, un’altra nave militarizzata americana all’ancora quella sera davanti a Livorno». Benché il quesito cardine alla riapertura dell’inchiesta nel 2006 fosse proprio la tesi del presunto traffico illecito di armi che avrebbe coinvolto gli Stati Uniti, i pm di Livorno «non decisero alcun approfondimento su quell’Agrippa», precisa Sanna. Oggi, a distanza di 23 anni dalla strage, si può ipotizzare che “Agrippa” fosse la Agip Abruzzo, ma non si capisce come mai – parlando con la capitaneria di porto – la nave americana Cape Breton non menzionò la Moby Prince né l’incendio a bordo del traghetto.«Di navi fantasma la vicenda della tragedia del Moby Prince ha fatto la collezione», riassume Sanna, menzionando «un peschereccio bianco che qualche testimone ha visto allontanarsi dal punto della collisione», quella sera, subito dopo l’impatto. Per contro, c’è la sicurezza che il natante, “21 Oktobar II” (secondo Ilaria Alpi coinvolto in traffici di armi) era «ormeggiato e inservibile a una banchina del porto». Oltre a Theresa, «l’imbarcazione che usa dei nomi in codice per allontanarsi dalle navi incendiate», c’è quindi l’americana Cape Breton che, mentre parla con la capitaneria, chiama col nome in codice “Agrippa” una nave incendiata, quasi certamente la petroliera dell’Agip. «Ma basta scorrere con attenzione i nastri dei canali radio attivi, e registrati per un caso e senza che quasi nessuno lo sapesse – continua Sanna – per trovare almeno altre due imbarcazioni “fantasma” che quella sera erano nella rada del porto di Livorno». “Fantasma”, ovvero non registrate dall’Avvisatore Marittimo e mai identificate nelle inchieste giudiziarie. «Navi che hanno nome e carta d’identità tutt’altro che irrilevanti per le indagini ricostruttive: la fonte è certa e a portata degli inquirenti, benché trascurata finora da tutte le inchieste».Le comunicazioni finora “sfuggite” alle inchieste sono tutte in codice Nato. Una di queste proviene dalla Ntv Alliance, «una nave militare da ricerca, principalmente di tipo sottomarino», tuttora in forza alla Nato in acque italiane. «Cosa ci faceva questa nave nella rada di Livorno a mezz’ora dalla collisione tra Moby Prince e Agip Abruzzo?», si domanda Sanna. «E soprattutto: era ancora in prossimità del luogo dell’evento durante le operazioni di soccorso? Se così fosse, decadrebbe definitivamente il “pilastro” dell’irreperibilità del Moby Prince fino ad un’ora dopo l’incidente». Interrogativi inquietanti: «Può forse una nave come la Alliance perdere di vista per tutto quel tempo il secondo natante in una collisione?». Ma non è finita, perché quella notte «nella rada del porto toscano c’era anche almeno un’altra imbarcazione “fantasma”. Si chiama Amer Ved, nave cargo battente bandiera americana, le cui dimensioni (13.000 tonnellate di stazza lorda) suggerirebbero uno stazionamento in rada». La prova è la registrazione di una comunicazione radio. Ma neppure la Amer Ved era stata regolarmente registrata dall’Avvisatore Marittimo, né è mai stata presa in considerazione dalle inchieste.Eppure, aggiunge il “Fatto”, un collegamento con la scena della collisione la Amer Ved l’avrebbe anche: alle 22.50 del 10 aprile 1991 compare sul canale 16 una chiamata della nave militarizzata americana Gallant 2. «Siamo a 25 minuti dalla collisione (avvenuta alle 22.25 circa) e nessuno ha ancora identificato la nave che ha speronato l’Agip Abruzzo». Il comandante della Gallant, Theodossiou, «chiede l’attenzione di “America Cargo” – quindi non segnala un nome preciso ma una qualità dell’imbarcazione – e da “America Cargo” gli rispondono in un inglese masticato chiedendo “dov’è la posizione della nave”, senza specificare quale essa sia». Theodossiou chiuderà con un lapidario: «Me ne sto andando, abbi tu cura della cosa». La conversazione è alquanto enigmatica, sottolinea Sanna. Tuttavia emerge inequivocabilmente la presenza in rada di questa “America Cargo” e il suo domandare circa la posizione di un’altra nave. “America Cargo” potrebbe essere la Amer Ved? «Se sì, cosa stava facendo nella rada di Livorno e perché non è stata identificata durante le indagini? E di cosa si doveva curare, come consigliato dal capitano greco della Gallant 2 che ha tanta premura di “andarsene”?».Non “adrift”, alla deriva, ma “Agrippa”, nome proprio di una nave. Che, in teoria, non esisteva. Eppure era al largo di Livorno la sera del 10 aprile 1991, nelle acque in cui il traghetto Moby Prince diretto in Sardegna si scontrò con la Agip Abruzzo, petroliera dell’Eni. Il più grande disastro marittimo italiano: 140 morti, un solo sopravvissuto. E, dopo 23 anni, ancora troppi misteri. Per esempio, troppe navi – anche militari, Nato – la cui presenza non chiara autorizza i peggiori sospetti, come quello del traffico di armi verso la Somalia denunciato da Ilaria Alpi, poi assassinata tre anni dopo alla periferia di Modagiscio. Un incidente causato da accidentali interferenze elettroniche di origine militare? Soccorsi tardivi, e depistaggi radio, per dare tempo a una nave-fantasma di dileguarsi? Sono molti gli interrogativi che il “Fatto Quotidiano” rilancia, destinati alla commissione parlamentare d’inchiesta voluta da Movimento 5 Stelle insieme a Sel e Pd per far luce, finalmente, sulla tragedia navale della Moby Prince.
-
Addio democrazia, Renzi e Silvio i manovali del piano
Le chiamano “riforme”, come fossero sinonimo di “migliorie”, secondo la vulgata mainstream accettata dai media come verità di fede. Ma sono soltanto le “indicazioni” – leggasi: diktat – che l’oligarchia euroatlantica da anni reitera all’Italia, a colpi di spread (Mario Monti) oppure confidando nell’appeal demiurgico di Renzi, che attraverso il ministro Padoan (Ocse) e con la collaborazione dell’immancabile “uomo di sinistra”, il ministro Poletti, propone la stessa cura-Monti spacciandola per innovazione entusiasmante. Tutto molto semplice: smantellare i punti cardine della Costituzione antifascista, quella che Jamie Dimon (Jp Morgan) ritiene obsoleta, perché tutela l’interesse pubblico di cittadini e lavoratori contro la legge del business. Quella che – con l’applicazione del Ttip, il Trattato Transatlantico voluto dai padroni di Obama e imposto a Renzi – farà sparire in tutta Europa le ultime garanzie di tutela su ambiente, salute, lavoro e sicurezza alimentare, liquidando la qualità del made in Italy. Logica traduzione: sbaraccare lo Stato di diritto e il “rischio” che possa essere governato dai cittadini tramite politici onesti e responsabili.Marco Travaglio lo chiama “il patto Renzi-Berlusconi”, individuandone la declinazione italiana di oggi, i suoi manovali. Ma è un “patto” che viene da lontano, a metà strada tra Wall Street, Bruxelles e Berlino. «Unendo i puntini delle varie riforme vaganti tra governo e Parlamento, costituzionali e ordinarie, ma anche di certe prassi quotidiane passate sotto silenzio per trasformarsi subito in precedenti pericolosi, come le continue interferenze del Quirinale nell’autonomia del Parlamento, della magistratura e della stampa, viene fuori un disegno che inquieta», scrive Travaglio sul “Fatto Quotidiano”. «Una democrazia verticale, cioè ben poco democratica: sconosciuta, anzi opposta ai principi ispiratori della Costituzione, fondata invece su un assetto orizzontale in ossequio alla separazione e all’equilibrio dei poteri». Svolta autoritaria: «All’insaputa del popolo italiano, mai consultato sulla riscrittura della Costituzione, e fors’anche di molti parlamentari ignoranti o distratti, il combinato disposto di leggi, decreti e prassi – di per sé all’apparenza innocue – rischia di costruire un sistema illiberale e piduista fondato sullo strapotere del più forte e sul depotenziamento degli organi di controllo e garanzia».Il pericolo, sintetizza Travaglio, è una «dittatura della maggioranza». Una “democratura”, come direbbe Giovanni Sartori, «a disposizione del primo “uomo solo al comando” che se ne impossessa, diventando intoccabile, incontrollabile, non contendibile, dunque invincibile». Unendo l’ultimo dei “puntini” – il più importante, anche se Travaglio lo sfuma, forse dandolo per scontato – si scopre che il cervello della manovra per liquidare la residua democrazia italiana non risiede a Roma, ad Arcore o a Firenze, ma nei centri di potere economico-finanziari e tecnocratici che negli ultimi trent’anni hanno logorato senza sosta i gangli vitali della fragile e sgangherata democrazia italiana, per assoggettarla a regole scritte altrove, nei santuari del neoliberismo: fine della sovranità nazionale, debito pubblico ostaggio della speculazione finanziaria, demonizzazione del deficit, taglio della spesa pubblica e del welfare, attacco ai salari, flessibilità e precarizzazione del lavoro (Jobs Act), massacro delle pensioni (riforma Fornero). Tutto questo è avvenuto grazie all’alibi del debito, in realtà esploso dopo il divorzio tra Bankitalia e Tesoro nel 1981, che privò di colpo il paese della possibilità di finanziare il deficit – cioè l’investimento pubblico – a costo zero.Da allora, tutti i “tecnici” al potere (in prima linea e nelle retrovie: Draghi, Ciampi, Amato, Andreatta, Prodi, Dini, Padoa Schioppa, Visco, Treu, Bassanini, Monti) hanno proseguito la missione: dire agli italiani che “bisogna” suicidare lo Stato, cioè spillare più soldi – in tasse – di quanti lo Stato non sia disposto a spendere per i cittadini. “Lo vuole l’Europa”, naturalmente, ovvero la Germania, interessata a sbarazzarsi della concorrenza industriale italiana, e lo vuole – da sempre – l’élite economica euroatlantica, insofferente alla relativa autonomia di paesi come l’Italia, capaci di sviluppare benessere diffuso (nonostante la casta corrotta dei politici) proprio grazie alla spesa pubblica strategica dello Stato, che finisce per fare concorrenza al “mercato”, ovvero ai signori delle multinazionali. Sono loro, i “padroni dell’universo”, gli unici a comandare oggi – a fare le leggi che contano – grazie alle lobby insediate a Bruxelles e a organismi sovranazionali pressoché onnipotenti, dal Wto alla Banca Mondiale, dal Fmi alla Bce, dal Bilderberg alla Banca dei Regolamenti Internazionali. Tutto il potere che conta è verticalizzato, nel sistema neo-feudale dell’euro, in mano a poche “menti raffinatissime” che vogliono la morte per fame dello Stato democratico e la impongono mediante rigore e austerity, Fiscal Compact, unione bancaria europea, pareggio di bilancio.Nella sua lunga analisi, Travaglio osserva la traduzione italiana del piano, affidato a Renzi e Berlusconi con la regia di Napolitano sin dai tempi di Monti (Goldman Sachs, Commissione Trilaterale) e Letta (Aspen, Bilderberg). Il fondatore del “Fatto” individua i punti-chiave della definitiva archiviazione della macchina democratica così come l’abbiamo conosciuta finora. La spaventosa legge elettorale, battezzata “Italicum”, che impedirebbe ai cittadini di eleggere i loro candidati. Il Senato, ridotto a comparsa della democrazia. La fine dell’opposizione, con l’emarginazione dei parlamentari scomodi nelle commissioni (il caso Mineo) e una riforma costituzionale che «disarma le minoranze, istituzionalizzando la “ghigliottina” calata dalla presidente Laura Boldrini contro il M5S che tentava di impedire la conversione in legge del decreto-regalo alle banche». E mentre vengono falciati i poteri di controllo, il capo dello Stato abdica al suo storico ruolo di garanzia per ripiegare su una «funzione gregaria del governo», se per eleggerlo basteranno 33 senatori, dopo che il premier – con la legge-truffa per le elezioni – disporrà «del 55% dei deputati da lui nominati».Chi andrà al governo con l’Italicum, continua Travaglio, controllerà anche la Corte Costituzionale, il Csm, i procuratori della Repubblica: un’ingerenza mai vista prima del potere esecutivo, che – con le nuove regole – metterà al guinzaglio il potere giudiziario, proprio come sognava di fare Licio Gelli. Su tutto, resta ovviamente in piedi l’immunità parlamentare anche per i neo-senatori “nominati”, cioè sindaci e consiglieri regionali: «Basterà che un consiglio regionale li nomini senatori, e nel tragitto dalla loro città a Roma verranno coperti dallo scudo impunitario, che impedirà ai magistrati di arrestarli, intercettarli e perquisirli senza l’ok di Palazzo Madama». Tutto questo proviene dal giovane Renzi: interessato a “rottamare” la democrazia, si guarda bene dal toccare le due leggi-vergogna sull’informazione, la Gasparri sulla televisione e la Frattini sul conflitto d’interessi, mentre i grandi giornali italiani restano in mano a editori impuri come «imprenditori, finanzieri, banchieri, palazzinari (per non parlare di veri o finti partiti, con milioni di fondi pubblici), perlopiù titolari di aziende assistite e/o in crisi e dunque ricattabili dal governo, anche per la continua necessità di sostegni pubblici». Non è strano, quindi, che non raccontino ciò che sta davvero accadendo.Addio, cittadini italiani: «Espropriati del diritto di scegliersi i parlamentari, scippati della sovranità nazionale (delegata a misteriose e imperscrutabili autorità europee), i cittadini non ancora rassegnati a godersi lo spettacolo di una destra e di una sinistra sempre più simili e complici, che fingono di combattersi solo in campagna elettorale, possono rifugiarsi in movimenti anti-sistema ancora troppo acerbi per proporsi come alternativa di governo (come il M5S); o inabissarsi nel non-voto (che sfiora ormai il 50%)». In teoria, la Costituzione prevede alcuni strumenti di democrazia diretta, come i referendum abrogativi: «Che però, prevedibilmente, saranno sempre più spesso bocciati dalla Consulta normalizzata». Restano le leggi d’iniziativa popolare, peraltro quasi mai discusse dal Parlamento, ma i “padri ricostituenti” hanno pensato anche a queste, «quintuplicando la soglia delle firme necessarie, da 50 a 250 mila. Casomai qualcuno s’illudesse ancora di vivere in una democrazia».Nella peggiore delle ipotesi, l’allarme di Travaglio sarà costretto a impallidire se il Trattato Transatlantico che avanza a porte chiuse fosse davvero approvato, come vogliono Obama e Renzi, entro la fine del 2015: i giudici italiani non avrebbero più nessun potere contro le pretese delle multinazionali, pronte a chiedere maxi-risarcimenti a Stati e governi che oseranno opporre leggi a tutela del territorio, dei lavoratori, delle persone. E se a qualcuno il “nuovo ordine” non starà bene, l’Unione Europea – ora guidata dall’impresentabile oligarca Juncker – sta già addestrando in gran segreto l’Eurogendfor, polizia militare antisommossa e multinazionale, incaricata di reprimere le proteste: a caricare i cortei italiani potranno essere agenti francesi e olandesi, poliziotti spagnoli e portoghesi. Entro due o tre anni, secondo i critici più pessimisti, la Costituzione italiana sarà ricordata soltanto sui libri di storia.Le chiamano “riforme”, come fossero sinonimo di “migliorie”, secondo la vulgata mainstream accettata dai media come verità di fede. Ma sono soltanto le “indicazioni” – leggasi: diktat – che l’oligarchia euroatlantica da anni reitera all’Italia, a colpi di spread (Mario Monti) oppure confidando nell’appeal demiurgico di Renzi, che attraverso il ministro Padoan (Ocse) e con la collaborazione dell’immancabile “uomo di sinistra”, il ministro Poletti (Lega Coop), propone la stessa cura-Monti spacciandola per innovazione entusiasmante. Tutto molto semplice: smantellare i punti cardine della Costituzione antifascista, quella che Jamie Dimon (Jp Morgan) ritiene obsoleta, perché tutela l’interesse pubblico di cittadini e lavoratori contro la legge del business. Quella che – con l’applicazione del Ttip, il Trattato Transatlantico voluto dai padroni di Obama e imposto a Renzi – farà sparire in tutta Europa le ultime garanzie di tutela su ambiente, salute, lavoro e sicurezza alimentare, liquidando la qualità del made in Italy. Logica traduzione: sbaraccare lo Stato di diritto e il “rischio” che possa essere governato dai cittadini tramite politici onesti che abbiano a cuore l’Italia.