Archivio del Tag ‘separatismo’
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“Londra colpita perché vuole smarcarsi dal peggior potere”
Inghilterra nel mirino, e non a caso: dopo lo strappo della Brexit, Londra ha scelto di non stare più dalla parte dell’élite maggiormente reazionaria, neoliberista sul piano economico e neo-feudale a livello politico, ben rappresentata da creazioni-mostro come l’attuale Unione Europea. “Logico”, sotto questo profilo, che la Gran Bretagna sia finita sotto attacco: prima l’attentato-kamikaze di Londra e ora quello di Manchester, la cui “firma” (non certo islamica ma esoterico-massonica) sta proprio nella sua data, 22 maggio. Lo sostiene Gianfranco Carpeoro, scrittore e simbologo, autore del libro “Dalla massoneria al terrorismo”, uscito nel 2016. «I mandanti di questo neoterrorismo artificiale sono sempre gli stessi, con modalità operative che ormai si ripetono in modo regolare»: una manovalanza di matrice jihadista in realtà “coltivata” da settori dei servizi segreti, per eseguire attentati puntualmente “firmati”, in codice, come per dire: sì, siamo stati noi. «Io la chiamo sovragestione», precisa Carpeoro, alludendo a un vertice mondiale occulto, composto da superlogge reazionarie e poteri finanziari. «Stanno cercando di fabbricare una nuova classe dirigente planetaria, ma evidentemente l’Inghilterra non si è ancora allineata: per questo viene colpita».Secondo Carpeoro, in diretta streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, c’è da aspettarsi clamorose sorprese, dal Regno Unito che si è sganciato da Bruxelles: «L’Inghilterra, che è la patria storica della massoneria (che vi ha piena cittadinanza istituzionale), sta vivendo uno scontro sempre più acceso nell’establishment, dove – anche a livello massonico – emergono spinte di carattere progressista e addirittura socialista». In più, aggiunge Carpeoro, si accumulano le tensioni in vista delle elezioni per rafforzare il divorzio da Bruxelles, senza contare le pulsioni separatiste come quella della Scozia. In altre parole, l’Inghilterra è in pieno fermento e non è ancora chiaro come si ridislocherà sul piano geopolitico: è questo, insiste Carpeoro, a inquietare gli strateghi occulti della “sovragestione”, gli stessi che hanno “fabbricato” l’Isis e vorrebbero puntare tutto sul business della guerra, dopo aver trasformato il Medio Oriente in un inferno senza vie d’uscita. Londra vorrebbe smarcarsi? Gli attentati-kamikaze sono un avvertimento, «rivolto nel caso di Manchester soprattutto ai giovani, cioè al futuro della nazione: un monito esplicito ai suoi governanti».Il problema, aggiunge Carpeoro, è che non ci sono vere soluzioni in vista: «Lo scontro in Europa è tra chi vorrebbe mantenere l’impresentabile l’Ue così com’è, in perenne crisi, e chi invece vorrebbe smantellare l’Unione per tornare agli Stati nazionali. Non è ancora in campo un credibile progetto di riforma politica, sociale ed economica dell’Europa». Forse qualcosa si sta muovendo, in questo senso, proprio in Inghilterra: rimarrà nella storia lo choc per la separazione dall’oligarchia di Bruxelles. Nebbia fitta invece in Italia, paese che infatti è stato finora risparmiato dal terrorismo finto-islamico. E questo per varie ragioni, spiega sempre Carpeoro: «I nostri servizi segreti hanno disposto una rete di protezione efficiente, tale da rendere complicata l’attuazione di attentati in Italia, paese che – peraltro – grazie alla leadership politica del passato, ha sviluppato rapporti non conflittuali con il mondo arabo». Ma vale anche la geopolitica recente: «L’Italia non si è ancora impegnata, in modo diretto, militare, nelle aree dell’Isis». Forse però l’ultima ragione è la più importante: «A livello internazionale, l’Italia conta zero», sottolinea Carpeoro, che aggiunge: «Al posto di Gentiloni, ripetutamente umiliato al G7 di Taormina, io avrei sciolto il vertice e rimandato a casa Trump, la Merkel e Theresa May».Quanto alla “cabala” del numero 22, nessun mistero: lo stesso giorno (marzo 2016) i soliti “terroristi islamici” colpirono Bruxelles sia nella metropolitana che all’aeroporto, «secondo un preciso schema simbolico, “come in cielo, così in terra”, ben noto al mondo esoterico». Il cosiddetto “codice segreto” legato al numero 22, aggiunge Carpeoro, discende dall’archeologia dei Sumeri e dalla successione dei loro re. «Un sistema numerico da cui poi il mondo iniziatico ha tratto un codice per costruire, scrivere, dipingere, fare musica». Anche quella di Manchester – 22 maggio, ore 22 – è dunque una “firma” estremamente precisa, rivolta a chi può “leggerla” nel modo corretto. A partire dalla stessa Theresa May, che infatti avverte: «Ci aspettiamo altri attentati». Come dire: gli attentatori – i loro mandanti occulti – non credano di averci intimidito. «Dall’Inghilterra mi aspetto di tutto», conferma Carpeoro: «Quel paese sta cambiando i suoi assetti e non ha ancora deciso con chi schierarsi, nel grande gioco mondiale del potere, di cui questo neoterrorismo non è che uno degli strumenti, il più feroce».Inghilterra nel mirino, e non a caso: dopo lo strappo della Brexit, Londra ha scelto di non stare più dalla parte dell’élite maggiormente reazionaria, neoliberista sul piano economico e neo-feudale a livello politico, ben rappresentata da creazioni-mostro come l’attuale Unione Europea. “Logico”, sotto questo profilo, che la Gran Bretagna sia finita sotto attacco: prima l’attentato-kamikaze di Londra e ora quello di Manchester, la cui “firma” (non certo islamica ma esoterico-massonica) sta proprio nella sua data, 22 maggio. Lo sostiene Gianfranco Carpeoro, scrittore e simbologo, autore del libro “Dalla massoneria al terrorismo”, uscito nel 2016. «I mandanti di questo neoterrorismo artificiale sono sempre gli stessi, con modalità operative che ormai si ripetono in modo regolare»: una manovalanza di matrice jihadista in realtà “coltivata” da settori dei servizi segreti, per eseguire attentati puntualmente “firmati”, in codice, come per dire: sì, siamo stati noi. «Io la chiamo sovragestione», precisa Carpeoro, alludendo a un vertice mondiale occulto, composto da superlogge reazionarie e poteri finanziari. «Stanno cercando di fabbricare una nuova classe dirigente planetaria, ma evidentemente l’Inghilterra non si è ancora allineata: per questo viene colpita».
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La mafia? Creata dai massoni inglesi, per sabotare l’Italia
Spaghetti, pizza e mafia. Sicuri che l’onorata società sia interamente made in Italy? La Sicilia a Cosa Nostra, la Campania alla camorra, la Calabria alla ‘ndrangheta: «Sono accostamenti triti e ritriti, spesso impiegati per dipingere l’intera Italia come un paese mafioso, corroso dal crimine, e quindi da collocare ai margini del sistema internazionale, tra gli Stati semi-falliti». Per un analista geopolitico come Federico Dezzani, la verità è più complessa. E non solo italiana, anche se la mafia ha tratto alimento dal brigantaggio, nato nel Sud come ribellione armata alla ferocia dell’esercito piemontese all’epoca dell’Unità d’Italia. Da allora – 1861 – il paese affronta il problema mafioso: migliaia di inchieste, libri, analisi economiche e sociali. «Ma è possibile affrontare la questione in termini geopolitici?», si domanda Dezzani? La sua risposta è sì. Ed è decisamente spiazzante: «Mafia, camorra e ‘ndgrangheta sono società segrete paramassoniche, inoculate dagli inglesi all’inizio dell’Ottocento per destabilizzare il Regno delle Due Sicilie e trasmesse all’Italia post-unitaria per minare lo Stato e castrarne la politica mediterranea».Nella sua analisi sul biennio 1992-1993, che decretò il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, Dezzani smonta la tesi dominante sul quel cruciale periodo della storia italiana: «Alla base delle stragi in Sicilia e “sul continente”, non ci fu il braccio di ferro tra malavita e Stato sul 41 bis, ma un più ampio ampio ed ambizioso progetto con cui le “menti raffinatissime” vollero ridisegnare la mappa economica e politica dell’Italia, inserendola nella più vasta cornice del Nuovo Ordine Mondiale». L’omicidio dell’eurodeputato Salvo Lima? «Va collegato alla cruciale elezione del presidente della Repubblica di quell’anno». Le uccisioni di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino? «Sono analoghi ammonimenti lanciati al Parlamento, ma allo stesso tempo sono anche un avvertimento alla giustizia italiana affinché si fermi al livello “insulare” delle indagini, senza approfondire i legami tra Cosa Nostra ed i servizi segreti della Nato». E le bombe del 1993 «sono un “lubrificante” per consentire agli anglofili del Britannia di smantellare a prezzi di saldo l’Iri e l’industria pubblica».In questo contesto, scrive Dezzani nel suo blog, «la mafia è uno strumento dell’oligarchia atlantica per perseguire obiettivi addirittura in contrasto con gli interessi di Cosa Nostra: è infatti assodato che la stagione stragista debilitò gravemente Cosa Nostra, “spremuta” nella strategia della tensione del 1992-1993 fino quasi a svuotarla». E non è certo un’eccezione l’impiego del crimine organizzato da parte degli angloamericani, già nel corso della Seconda Guerra Mondiale. Dezzani esplora altri momenti cruciali del Belpaese, scovandovi lo zampino della malavita. Per esempio sul caso Moro, a partire dal sequestro, il 16 marzo 1978: «E’ ormai appurato che la ‘ndrangheta abbia partecipato al “commando12” che rapì il presidente della Dc, reo di turbare gli assetti internazionali con la sua apertura al Pci». Non solo: il capo della Nuova Camorra Organizzata, Raffaele Cutolo, ha dichiarato che «avrebbe potuto salvare Moro, se i servizi segreti non si fossero opposti». Prima ancora, la strage di piazza Fontana, 12 dicembre 1969: l’ecatombe che inaugura la strategia della tensione «è perpetrata dalla destra eversiva di Franco Freda, in stretto contatto con la ‘ndrangheta». E ancora: l’omicidio di Enrico Mattei, 1962. «E’ Cosa Nostra a sabotare, all’aeroporto di Catania Fontanarossa, il velivolo su cui trovò la morte il presidente dell’Eni, scomodo alle Sette Sorelle».Rileggendo la storia a ritroso, il binomio atlantico-mafia compare già al momento dello sbarco angloamericano in Sicilia del 1943: «E’ il mafioso Lucky Luciano a facilitare la conquista dell’isola, e papaveri di Cosa Nostra presenziano anche all’armistizio di Cassibile, che sancisce la fine delle ostilità tra l’Italia e gli Alleati». Quasi un secolo prima ci fu un altro famosissimo sbarco, quello di Garibaldi a Marsala, nel 1860, con i “picciotti” impegnari a dare «un contributo determinante alla spedizione di Mille, benedetta e protetta da Londra». Domande: cosa sono, davvero, la mafia, la camorra e la ‘ndragheta? Perché affiorano in tutti i passaggi della storia italiana a fianco di Londra e Washington? E perché sono sovente associate ad un’altra organizzazione segreta di matrice anglosassone, la massoneria speculativa? Generalmente non se parla, nei film e nei prodotti televisivi sulla mafia, e nemmeno tra le migliaia di pagine stampate. Sulla mafia, scrive Dezzani, «campano non soltanto i malavitosi, ma anche i “professionisti dell’antimafia” che pullulano nei tribunali, pennivendoli del calibro di Roberto Saviano ed il variegato mondo di preti, intellettuali e soloni che ruota attorno alla “lotta alla mafia”». Nessuno di loro, però, secondo Dezzani, ha «intuito la vera natura del crimine organizzato». Ci arrivò Falcone, quando osservò che la mafia «presenta forti analogie con le Triadi cinesi, la malavita turca e la Yakuza giapponese».Con un approccio storico e geopolitico che analizza gli interessi strategici, Dezzani arriva a concludere che mafia, camorra e ‘ndragheta sono «società segrete paramassoniche dedite al crimine, vere e proprie “sette” che rispondono alle logge inglesi ed americane, sin dalla loro origine agli inizi dell’Ottocento». Sarebbe una verità «perfettamente nota agli “addetti ai lavori”», cioè «vertici della mafia, politici, Grande Oriente d’Italia, Cia, Mi6». Una realtà «spesso intuita e talvolta accennata da onesti magistrati e seri studiosi», ancge se nessuno ha finora prodotto uno studio organico sul tema. Dezzani parte dal quesito chiave: perché le mafie si sviluppano in tre regioni meridionali quasi contemporaneamente, tra gli anni ‘10 e ‘30 dell’Ottocento? Le risposte più frequenti sono di natura socio-economica: l’arretratezza del Meridione, il retaggio della dominazione spagnola, la presenza del latifondo, le mentalità della popolazione, la diffusione di miseria e povertà. «Sono risposte fuorvianti», vosto che «il reddito pro-capite del Regno delle Due Sicilie era paragonabile a quello del resto d’Italia», e la povertà era «simile a quella di alcune zone del Piemonte e del Veneto, che non produssero crimine organizzato». Inoltre, «la dominazione spagnola aveva interessato pure la “civilissima” Lombardia» e, per contro, «altre regioni meridionali persino più povere (come il Molise e la Basilicata) non conobbero le mafie, che germogliarono invece in due ricche capitali come Palermo e Napoli».Per scoprire le autentiche origini del fenomeno mafioso, secondo Dezzani occorre «tuffarsi nella storia, accantonando analisi pseudo-economiche, per afferrare le forze vive e la geopolitica dell’epoca». E’ lo stesso procedimento che porta a dimostrare come l’Isis «non sia altro che uno strumento degli angloamericani per balcanizzare il Medio Oriente e dividerlo lungo faglie etniche e religiose, piuttosto che il frutto spontaneo del fondamentalismo islamico». Così, Dezzani si tuffa nella storia, partendo dagli anni a cavallo tra ‘700 e ‘800, quando il mondo è in fiamme per la guerra tra Francia rivoluzionaria e le altre monarchie europee: «La Rivoluzione Francese, in cui Londra ha giocato un ruolo determinante (si pensi agli “anglofili” come Honoré Mirabau, il marchese de La Fayette e Philippe Égalité), è sfruttata dagli inglesi per liquidare la Francia come grande potenza marittima, estendere i propri domini in India e rafforzare l’egemonia su un’area chiave del mondo: il Mar Mediterraneo, da unire in prospettiva al Mar Rosso ed all’Oceano Indiano con il canale di Suez».Il Regno di Napoli, di fronte all’avanzata delle truppe rivoluzionarie francesi, è costretto ad aprire i propri porti alla flotta inglese, «senza sapere che, così facendo, firma la sua condanna a morte: gli inglesi sbarcano infatti coll’obiettivo di rimanerci anche dopo la guerra, installandosi così nello strategico Sud Italia che presidia il Mar Mediterraneo». Per un certo periodo, continua Dezzani, gli inglesi diventano addirittura padroni del Regno: quando infatti il francese Gioacchino Murat si insedia a Napoli, il re Ferdinando IV si rifugia in Sicilia protetto dagli inglesi e Lord William Bentinck governa l’isola come un dittatore de facto. Sotto l’ombra del potere inglese, «arriviamo così alle origini di Cosa Nostra». Un grande esperto di mafia come Michele Pantaleone ricorda che nel Meridione il brigantaggio assunse una funzione “sociale” solo dopo il 1812, quando il potere feudale venne eliminato: Pantaleone scrive che lo «spirito di mafiosità» sorse in concomitanza con la formazione delle famigerate “compagnie d’armi”, create dalla baronia siciliana nel 1813 a difesa dei diritti feudali. Lo “spirito di mafiosità”, dunque, prende forma tra il 1812 e il 1850: «Il suo epicentro è nel palermitano e di qui si irradia verso la Sicilia orientale».Il 1812, anno citato in tutti i testi di storia sulla mafia, è quello in cui il “dittatore” Lord William Bentinck impone al re, esule a Palermo, l’adozione di una Costituzione sulla falsariga di quella inglese, di comune accordo con i baroni siciliani: «Gli stessi baroni che creano quelle “compagnie d’armi”», antesignane della futura mafia. «Strane davvero queste “compagnie”, “consorterie” o “sette” che iniziano a pullulare dopo il 1812: presentano singolari analogie con la massoneria speculativa che gli inglesi innestano ovunque arrivino: segretezza, statuti, rituali d’iniziazione, mutua assistenza, diversi gradi di affiliazione, livelli sconosciuti agli altri aderenti». E poi, continua Dezzani, le nuove “compagnie” accampano anche «la pretesa di non essere volgari criminali, ma “un’aristocrazia del delitto riconosciuta, accarezzata ed onorata”, proprio come i massoni si definiscono gli “aristocratici dello spirito” in contrapposizione all’antica nobiltà di sangue. “Mafia” nei rioni di Palermo significa “bello, baldanzoso ed orgoglioso”».La Restaurazione reinsedia Ferdinando IV, ora Ferdinando I delle Due Sicilie, sul trono di Napoli. Il sovrano, nel 1816, si affretta a revocare la Costituzione scritta dagli inglesi, «considerata come un’insidiosa minaccia alle sue prerogative». Ma è tardi: «I germi inoculati dagli inglesi, le misteriose sette criminali che dalla periferia di Napoli e Palermo si irradiano verso i palazzi di baroni e notabili, però crescono. Corrodono il Regno delle Due Sicilie dall’interno, emergendo come un vero Stato nello Stato: trascorreranno poco meno di cinquantanni prima che contribuiscano in maniera determinante allo sfaldamento del Regno borbonico». È tra il 1820 ed il 1830 che lo scrittore Marc Monnier (1829-1885) situa la comparsa a Napoli di una misteriosa setta paramassonica, la “bella società riformata”, dedita ad attività illecite: «E’ la futura camorra, che nel 1842 scrive il primo statuto definendo i vari gradi di affiliazione sulla falsa riga della libera muratoria, da “giovanotto onorato” a “camorrista”, passando per “picciotto di sgarro” e così via». Quasi contemporaneamente, al di là dello Stretto di Messina, la mafia è già ad uno stadio avanzato, perché nel 1828 il procuratore di Girgenti scrive dell’esistenza di un’organizzazione di oltre 100 membri di diverso rango, «riuniti in fermo giuramento di non rilevare mai menoma circostanza delle operazioni». Idem per la ‘ndrangheta in Calabria.Nel 1848, continua Dezzani, Londra incendia l’Europa usando come cinghia di trasmissione la solita massoneria speculativa: è la “Primavera dei popoli”, cui seguiranno tante altre primavere di complotti, da quella di Praga del 1968 a quella araba del 2011. Nel Mediterraneo gli inglesi si adoperano per staccare la Sicilia, avamposto strategico per ogni operazione militare e politica in quel quadrante, dal Regno Borbonico: i “baroni”, gli stessi che comandano le malfamate “compagnie d’armi”, insorgono contro Ferdinando II, proclamando decaduta la corona borbonica e affidandosi alla corona d’Inghilterra, disposta a difendere l’indipendenza dell’isola. Il contesto internazionale non è però favorevole alla secessione e Ferdinando II reprime manu militari l’insurrezione, guadagnandosi l’appellativo di “re bomba”, dipinto dalla stampa anglosassone come un despota sanguinario e illiberale. «Le carceri, che già allora sono il principale centro di propagazione delle mafie, si riempono di patrioti-liberali e “picciotti”, uniti dal comune retroterra massonico: si saldano così legami che saranno presto utili». Geopolitica, ancora: i rapporti tra Napoli e Londra sono ai minimi storici anche la contesa sullo zolfo siciliano, sicché Ferdinando II si avvicina alla Russia, allora acerrima rivale degli inglesi: sono gli anni del Grande Gioco, in cui Londra e San Pietroburgo si sfidano in Eurasia per l’egemonia mondiale.Quando nel 1853 scoppia la guerra di Crimea, prosegue Dezzani, il Regno delle Due Sicilie rimane rigorosamente neutrale: nega addirittura alle navi inglesi e francesi dirette verso Sebastopoli di attraccare nei propri porti per rifornirsi. Il primo ministro inglese, Lord Palmerston, non ha dubbi: il Regno Borbonico, nonostante la grande distanza geografica, è diventato un vassallo della Russia. Chi partecipa alla “Guerra d’Oriente” è invece il Regno di Sardegna, consentendo così al primo ministro, Camillo Benso, conte di Cavour, di acquisire un ruolo da protagonista nell’ormai imminente riassetto dell’Italia: «La storiografia certifica che Cavour, da buon reapolitiker qual è, non ha in mente “l’unità” della Penisola, bensì “l’unificazione” doganale, economica e militare di tre regni autonomi. Il Regno sabaudo allargato a tutto il Nord Italia, lo Stato pontificio ed il Regno borbonico: la soluzione, seppur caldeggiata da francesi e russi, è però osteggiata dagli inglesi, decisi a cancellare il potere temporale della Chiesa Cattolica e a sostituire gli infidi Borbone con i più sicuri Savoia, tradizionali alleati dell’Inghilterra sin dal Settecento».È infatti “l’inglese” Giuseppe Garibaldi, l’eroe dei due mondi celebrato dalla stampa angloamericana nonché 33esimo grado della massoneria, a sbarcare nel maggio del 1860 a Marsala, feudo inglese per la produzione di vino, protetto dalle due cannoniere inglesi Argus e Intrepid. «La reazione della marina militare borbonica è nulla, perché la massoneria ha ormai assunto il controllo delle forze armate e dei vertici dello Stato. Le strade e le grandi città sono invece passate sotto il controllo del crimine organizzato: “i picciotti”, che agiscono sempre in sintonia con i “baroni”, danno un aiuto determinante all’avanzata dei Mille». E così «il Regno delle Due Sicilie, svuotato da uno Stato parallelo che è cresciuto dentro lo Stato di facciata, si squaglia rapidamente: Reggio Calabria non oppone alcuna resistenza, mentre Napoli precipita nel caos, lasciando che il vuoto di potere sia colmato dalla camorra, lieta di accogliere Garibaldi e le sue truppe». Nasce in questo modo il Regno d’Italia, «che ancora oggi paga il prezzo del suo peccato originale». Ovvero: «È uno Stato strutturalmente debole, nato senza possedere il monopolio della violenza, costretto a convivere con due gemelli siamesi, le mafie e la massoneria speculativa, che non solo altro che meri strumenti in mano a chi ha davvero orchestrato l’Italia unita: l’impero britannico».Londra, sottolinea Dezzani, non è certo animata da nobili sentimenti: ha defenestrato i russofili Borbone per sostituirli con i fedeli Savoia, ha creato a Sud delle Alpi una media potenza da opporre alla Francia (si veda la Triplice Alleanza), ha partorito uno Stato sufficientemente robusto da reggersi in piedi, ma abbastanza debole da non insidiare la sua egemonia sul Mar Mediterraneo. «Le stesse mafie che hanno corroso il Regno delle Due Sicilie sono lasciate infatti in eredità allo Stato unitario: è un’eredità avvelenata, finalizzata a compiere una perdurante opera di destabilizzazione nel Meridione, cosicché non possa mai sfruttare il suo enorme potenziale geopolitico di avamposto verso Suez, il Levante ed il Nord Africa». E attenzione: «Le mafie come strumento inglese di destabilizzazione non sono una peculiarità del Sud Italia». Dezzani cita le Triadi cinesi che smerciano nel Celeste Impero Celeste quell’oppio per cui Londra ha addirittura combattuto una guerra (1839-1842): le analogie con la mafia, come notava Falcone, sono incredibili. «Tatuaggi, mutua assistenza, omertà, segretezza, riti d’iniziazione, diversi gradi di affiliazione, struttura piramidale: anche le Triadi sono sette criminali paramassoniche e, non a caso, quando i comunisti prenderanno il potere nel 1949, ripareranno nella colonia britannica di Hong Kong».Non c’è alcun dubbio che l’Italia “liberale” fondata nel 1861 sia terreno fertile per il crimine organizzato: mafia, camorra e ‘ndrangheta «si sviluppano nelle rispettive regioni come Stati paralleli a quello unitario, prosperando più che ai tempi del Regno delle Due Sicilie». Per Dezzani, «massoneria e mafie, benedette da Londra, sono i motori dell’Italia liberale, un edificio che sembra spesso vicino al crollo, totalmente ripiegato su se stesso». La mafia contribuisce a mantenere l’Italia in un perenne stato di fibrillazione, guidando ad esempio la rivolta del “sette e mezzo” che paralizza la Sicilia nel 1866, quasi l’antefatto del drammatico 1992. Il fenomeno mafioso, aggiunge Dezzani, è contenuto finché la destra storica, quella di Cavour, resta al potere. Ma poi esplode con l’avvento nel 1876 della sinistra storica: «Sotto la presidenza del Consiglio di massoni come Agostino Depretis e Francesco Crispi, è inaugurato il “Vice-Regno della mafia” che dal 1880 circa si estende fino al 1920». Lo Stato liberale «abdica a favore del baronato». E l’intera Sicilia, formalmente governata da Roma, è in realtà un feudo anglo-mafioso: «Londra non ha bisogno di staccare l’isola del governo centrale come ai tempi di Ferdinando II, perché esercita il controllo de facto con la “setta” criminale paramassonica».Secondo Dezzani, è la stessa organizzazione che negli Stati Uniti assume nomi evocativi come “Mano Nera” o “Anonimi Assassini”: «Quando nel 1909 il commissario della polizia di New York, Joseph Petrosino, sbarca a Palermo per indagare sui legami tra mafia americana e siciliana, “i picciotti” non si fanno scrupoli a sparargli in testa». Nessuno deve disturbare i rapporti tra mafia e politica: il trasformismo parlamentare dell’epoca giolittiana è terreno fertile per la malavita, «determinante per l’elezione degli onorevoli espressi dalle popolose regioni meridionali». Un cambiamento, ammette Dezzani, si registra solo dopo la marcia su Roma del 1922, con l’irruzione sulla scena di Benito Mussolini, che certo «è una vecchia conoscenza di Londra sin dalla Prima Guerra Mondiale e dalla campagna interventista del “Popolo d’Italia”», ed vero che «conquista la presidenza del Consiglio con l’appoggio determinante degli inglesi e della massoneria di piazza del Gesù», ma il duce del fascismo «tende ad emanciparsi in fretta». Secondo Dezzani, «l’omicidio Matteotti del 1924 può infatti essere considerato il primo tentativo inglese di rovesciarlo e ha certamente un certo peso sulla decisione del 1925 di abolire la libera muratoria (sebbene numerosi massoni, primo fra tutti Dino Grandi, restino al governo)».Fedele alla massima “tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato”, Mussolini non può ovviamente accettare la convivenza con istituzioni parallele al governo, come la mafia. Nell’ottobre 1925 Cesare Mori è nominato prefetto di Palermo e, in poco meno di quattro anni, infligge un duro colpo a Cosa Nostra, avvalendosi dei “poteri eccezionali” affidatigli da Mussolini: nel 1927 il tribunale di Termini Imerese condanna oltre 140 mafiosi a durissime pene. Chi, ovviamente, stigmatizza la condotta del governo italiano è l’Inghilterra. Dezzani cita l’ambasciatore Ronald Graham, che scrive al premier Chamberlain: «Il signor Mori ha certamente restaurato l’ordine. Ha eliminato numerosi mafiosi e ras ed anche numerosi innocenti con mezzi molto dubbi, comprese prove fabbricate dalla polizia e processi di massa». Al che, aggiunge Dezzani, «mafie e massoneria, sorelle inseparabili, piombano quindi “nel sonno”, in attesa di essere risvegliate al momento opportuno: proprio come ai tempi delle guerre napoleoniche, sbarcheranno in Sicilia con gli inglesi, accompagnati questa volta anche dalle forze armate statunitensi».È il 1943 e la mafia non solo facilita lo conquista dell’isola attraverso Lucky Luciano, ma addirittura «presenzia alla firma dell’armistizio di Cassibile nella persona di Vito Guarrasi, lontano parente di Enrico Cuccia (la cui famiglia è originaria del palermitano)». Finché il “continente” è occupato dai tedeschi, gli angloamericani coltivano la ricorrente idea di separare la Sicilia dal resto dell’Italia: è il momento d’oro del separatismo e del bandito Giuliano, destinato a scemare man mano che le truppe alleate risalgono la penisola. «Perché infatti accontentarsi della Sicilia se, come ai tempi d’oro dell’Italia liberale, è possibile costruire dietro lo Stato di facciata un secondo Stato, retto dalle mafie a dalla massoneria? Inizia così la lunga stagione dei “misteri italiani” dove mafia, camorra e ‘ndrangheta figureranno a fianco di servizi segreti “deviati” e logge massoniche in decine di omicidi ed attentati: dal disastro aereo di Enrico Mattei alle bombe del 1993, dal sequestro Moro al rapimento dell’assessore campano Ciro Cirillo». Inutile stupirsi, insiste Dezzani: «Il fenomeno rientra nella norma, perché sin dalle origini nella prima metà dell’Ottocento le mafie non erano altro che società segrete paramassoniche, dedite al crimine e obbedienti alle logge inglesi e americane».Un pentito, Giovanni Gullà, ha rivelato agli inquirenti i meccanismi di “Mamma Santissima”, la nuova ‘ndrangheta, che contribuirà in maniera decisiva alla strategia della tensione: «La “Santa” si spiega nella logica della “setta segreta”: si è inteso creare una struttura di potere sconosciuta agli altri per ottenere maggiori benefici». Secondo Gullà, «la “Santa”, come setta segreta, è l’esatto corrispondente della massoneria coperta rispetto a quella ufficiale». Certo, «l’appartenente alla ‘ndrangheta non può essere massone», ma questo vale solo «per la ‘ndrangheta “minore” e la massoneria pubblica». La “Santa” invece «rappresenta una struttura segreta dentro la stessa ‘ndrangheta». E quindi, «se il fine mutualistico può essere soddisfatto con l’ingresso di massoni nella struttura e viceversa, nessun ostacolo può essere frapposto». La “Santa”, conclude Dezzani, è dunque l’élite della ‘ndrangheta, «costituita negli anni ‘70 nel nome di tre personaggi storici, tutti risalenti al Risorgimento, tutti massoni, tutti ottime conoscenze di Londra: Giuseppe Garibaldi, Giuseppe Mazzini e Giuseppe La Marmora». Dalla “pax britannica” dell’ordine liberale alla “pax americana” dal 1945 a oggi. L’eventuale fine della mafia? Di ordine geopolitico: «È un sistema internazionale entrato ormai in crisi irreversibile, schiacciato dalla crisi del capitalismo anglosassone e dall’emergere di nuove potenze». Per Dezzani sarebbe il caso di sfruttare il declino dell’egemonia angloamericana «per liquidare anche quelle società segrete paramassoniche che da due secoli corrodono il Meridione e l’Italia, impedendo di sfruttarne l’enorme potenziale come ponte naturale tra Europa e Asia».Spaghetti, pizza e mafia. Sicuri che l’onorata società sia interamente made in Italy? La Sicilia a Cosa Nostra, la Campania alla camorra, la Calabria alla ‘ndrangheta: «Sono accostamenti triti e ritriti, spesso impiegati per dipingere l’intera Italia come un paese mafioso, corroso dal crimine, e quindi da collocare ai margini del sistema internazionale, tra gli Stati semi-falliti». Per un analista geopolitico come Federico Dezzani, la verità è più complessa. E ha un’origine non solo italiana, anche se la mafia ha tratto alimento dal brigantaggio, nato nel Sud come ribellione armata alla ferocia dell’esercito piemontese all’epoca dell’Unità d’Italia. Da allora – 1861 – il paese affronta il problema mafioso: migliaia di inchieste, libri, analisi economiche e sociali. «Ma è possibile affrontare la questione in termini geopolitici?», si domanda Dezzani? La sua risposta è sì. Ed è decisamente spiazzante: «Mafia, camorra e ‘ndrangheta sono società segrete paramassoniche, inoculate dagli inglesi all’inizio dell’Ottocento per destabilizzare il Regno delle Due Sicilie e trasmesse all’Italia post-unitaria per minare lo Stato e castrarne la politica mediterranea».
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Tank sul fronte russo, comincia l’ultima guerra di Obama
La notizia ha dell’incredibile, ma è vera: per la stampa tedesca, stiamo assistendo alla più grande operazione di riposizionamento dell’esercito Usa in Germania dal 1990. «Più di 2.000 carri armati, obici, jeep e automezzi stanno per essere impiegati nelle esercitazioni Nato nell’Europa dell’Est che dureranno nove mesi», scrive Johannes Stern. Lo stato maggiore della Bundeswehr conferma: colossale dislocazione di forse Usa e Nato in Polonia e negli Stati baltici, proprio mentre Obama tenta – anche con la “guerra delle spie” – di incendiare la frontiera orientale, alla vigilia dell’insediamento di Donald Trump, ostacolato in ogni modo. La situazione starebbe precipitando, dopo l’impegno della Russia per la liberazione di Aleppo, a lungo ostaggio di milizie “Isis” capeggiate da leader del Caucaso e dai combattenti di Al-Nusra, altrimenti detta “Al-Qaeda in Siria”, formazione creata, protetta e armata dall’intelligence occidentale. Persa la Siria, ora si enfatizza l’operazione “Atlantic Resolve”, spettacolare (e pericolosa) provocazione alle frontiere con la Russia, cui Obama non perdona l’aver reagito al golpe americano in Ucraina mantenendo il controllo della Crimea.A scandire le news, nei primissimi giorni del 2017, sono le fonti delle forze armate tedesche, racconta Stern in un articolo su “Wsws” ripreso da “Come Don Chisciotte”: oltre 2.500 mezzi militari Usa hanno appena raggiunto la Germania «per essere trasportati in Polonia ed in altri paesi dell’Europa Centrale e dell’Est». Il materiale deve «arrivare nel periodo compreso fra il 6 e l’8 gennaio a Bremerhaven via mare e quindi essere trasferito in Polonia per via ferroviaria e convogli militari a partire approssimativamente dal 20 gennaio», cioè il giorno in cui dovrebbe finalmente installarsi Trump alla Casa Bianca. Sempre secondo comunicati diffusi dall’esercito statunitense in Europa, continua Stern, altri 4.000 militari e 2.000 carri armati «contribuiranno a rafforzare la forza di dissuasione e difesa dell’alleanza». Il colonnello Todd Bertulis dell’Eucom, il comando Usa in Europa di stanza a Stoccarda, ha affermato che l’operazione assicurerà che «la potenza di fuoco necessaria verrà schierata in Europa nel posto giusto al momento giusto». E il generale Frederick “Ben” Hodges, comandante delle forze americane in Europa, aggiunge: «E’ una risposta all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ed alla sua illegale annessione della Crimea».Il che è palesemente falso, ricorda Johannes Stern: «In Ucraina non è la Russia l’aggressore, ma lo sono Usa e Nato», dal momento che «Washington e Berlino, in stretta collaborazione con le forze fasciste, hanno organizzato un colpo di Stato contro il presidente filorusso, Viktor Yanukovych, agli inizi del 2014, insediando a Kiev un regime nazionalista, fanaticamente antirusso». Mossa che «ha fatto esplodere la ribellione separatista da parte delle regioni russofone nella parte orientale del paese». Una rivolta che Mosca ha sostenuto, e che il governo di Kiev, sorretto dalle armi e dai soldi occidentali, ha tentato senza successo di reprimere con la forza. «Quanto successo in Ucraina è stato sfruttato dagli Usa, dall’Unione Europea e dalla Nato per imporre sanzioni economiche e diplomatiche alla Russia ed espandere drammaticamente le forze militari della Nato lungo il suo confine occidentale». E ora, «volendo giocare d’anticipo rispetto al 20 gennaio, inizio del mandato del nuovo presidente eletto Usa Donald Trump», che ha chiesto di abbassare il livello della tensione con la Russia, «forze contrarie all’interno dell’intelligence militare Usa e dell’establishment politico stanno cercando un’escalation nel confronto con Mosca».Ad aprire il fuoco è lo stesso generale Hodges, secondo cui la Russia si starebbe «preparando per la guerra», con «ministeri già mobilitati». Nulla di inevitabile, per ora, «ma Mosca si sta preparando per questa evenienza». Lo spiegamento delle truppe da combattimento Usa, osserva Stern, fa parte della preparazione della Nato per una possibile guerra contro la Russia, «il culmine di una continua espansione della Nato verso est», in aperta violazione degli storici accordi conclusi con Gorbaciov in cambio del ritiro dell’Urss dall’Est Europa. Evidente l’altra guerra, sotterranea, in corso a Washington: mentre Trump scoraggia il futuro della Nato in chiave anti-russa, il senatore John McCain (fotografato tempo fa in Siria con il “Califfo” Abu-Bark Al-Baghdadi) ha appena visitato gli Stati Baltici per rassicurarli sul fatto che il supporto degli Stati Uniti continuerà. In un’intervista alla radio dell’Estonia, McCain ha chiesto un ulteriore rafforzamento delle forze Nato contro la Russia. E ha dichiarato che ogni «membro credibile» del Congresso americano vede il presidente russo Vladimir Putin «per quello che è», ovvero «un delinquente, un prepotente e un agente del Kgb».Nella pericolosa escalation nei confronti della potenza nucleare Russia, che pone le premesse per una Terza Guerra Mondiale, la Bundeswehr ha un ruolo centrale, osserva Stern: «Senza il supporto delle forze armate tedesche non possiamo andare da nessuna parte», ha affermato il generale Hodges. E il generale Peter Bohrer, vicecapo del Joint Support Service, è d’accordo: «In passato la Germania era uno Stato di frontiera, oggi siamo una zona di transito ed uno dei compiti-chiave è fornire un comune supporto». Aggiunge Stern, con un occhio alla storia: «La Germania, che avanzò sull’Europa dell’Est nella sua guerra di sterminio 75 anni fa, si prepara a mandare truppe da combattimento nei paesi baltici». In un’intervista al giornale militare “Bundeswehr Aktuell”, il generale Volker Wieker ha confermato che la Germania ha concordato con Stati Uniti, Canada e Gran Bretagna al summit della Nato tenutosi a Varsavia di «prendere il comando con chi formasse un gruppo di battaglia». Si conta di «acquisire la cosiddetta “capacità operativa completa” per la metà dell’anno”». Un video riportato dal “Frankfurter Allgemeine Zeitung” mostra le manovre di un battaglione tedesco a Grafenwöhr, contro «un attacco nemico al confine russo-lituano». Ancora pochi giorni, per capire se Trump – qualora riuscisse a insediarsi davvero nello Studio Ovale – spegnerà rapidamente l’incendio.La notizia ha dell’incredibile, ma è vera: per la stampa tedesca, stiamo assistendo alla più grande operazione di riposizionamento dell’esercito Usa in Germania dal 1990. «Più di 2.000 carri armati, obici, jeep e automezzi stanno per essere impiegati nelle esercitazioni Nato nell’Europa dell’Est che dureranno nove mesi», scrive Johannes Stern. Lo stato maggiore della Bundeswehr conferma: colossale dislocazione di forze Usa e Nato in Polonia e negli Stati baltici, proprio mentre Obama tenta – anche con la “guerra delle spie” – di incendiare la frontiera orientale, alla vigilia dell’insediamento di Donald Trump, ostacolato in ogni modo. La situazione starebbe precipitando, dopo l’impegno della Russia per la liberazione di Aleppo, a lungo ostaggio di milizie “Isis” capeggiate da leader del Caucaso e dai combattenti di Al-Nusra, altrimenti detta “Al-Qaeda in Siria”, formazione creata, protetta e armata dall’intelligence occidentale. Persa la Siria, ora si enfatizza l’operazione “Atlantic Resolve”, spettacolare (e pericolosa) provocazione alle frontiere con la Russia, cui Obama non perdona l’aver reagito al golpe americano in Ucraina mantenendo il controllo della Crimea.
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Può scapparci una bomba (atomica) se giochi coi terroristi
L’America fa paura: è indebolita ma resta pericolosa, senza una vera leadership. Non sta cercando di inziare una Terza Guerra Mondiale contro la Russia, ma un “incidente” con armi nucleari non è da escludere, a forza di “giocare” coi terroristi, armati e arruolati per servire Washington sotto falsa bandiera. Lo afferma Dmitry Orlov, scrittore e ingegnere russo-americano. «I vertici militari e i politici possono anche essere deliranti, megalomani e potenzialmente suicidi, ma i personaggi di medio livello che sviluppano i piani di guerra hanno di rado tendenze suicide», premette Orlov. Inoltre, nel teatro che più di ogni altro potrebbe provocare l’irreparabile – la Siria – Mosca ha «accuratamente limitato le opzioni del Pentagono». Per abbattere il governo Assad servirebbe infatti l’imposizione di una “no-fly zone”, che però è impossibile: i russi hanno dotato i siriani del sistema missilistico S-300, «che può abbattere qualunque cosa voli sui cieli di quasi tutta la Siria e parte della Turchia». Il motivo principale per iniziare una guerra, oggi? «E’ il fatto che l’esercito siriano sta vincendo la battaglia di Aleppo». Una in fuga «gli jihadisti appoggiati dagli americani», la guerra civile siriana «sarà praticamente finita e inizierà la ricostruzione».Questo risultato appare sempre più inevitabile, scrive Orlov in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”. E così, «il progetto americano di vedere una bandiera nera sventolare su Damasco è in frantumi». Ma, «siccome gli americani sono gente che non sa perdere», c’è il rischio che qualcuno possa «commettere azioni casuali e autodistruttive». Dietro alla cosiddetta “isteria anti-Putin”, comunque, Orlov vede soprattutto il riflesso della “isteria anti-Trump”: «La stampa corporativa è tutta a favore della Clinton». E la strategia della Clinton, «anche se patetica», consiste nell’affermare che Trump «è il fattorino di Putin», perciò «la strategia è demonizzare Putin e sperare che un po’ di questa demonizzazione ricada su Trump». Ma non funziona: «I recenti sondaggi di opinione negli Stati Uniti mostrano che Putin è più popolare sia della Clinton che di Trump». Eppure, «la preoccupazione che la guerra con la Russia possa scoppiare per un incidente rimane», visto anche il “talento” dimostrato dagli Stati Uniti, in passato, nel creare disastri.Gli americani, ricorda Orlov, contrastarono con successo l’Unione Sovietica in Afghanistan armando e addestrando estremisti islamici (i Mujaheddin), e questo «è solo un esempio di dove il “terrorismo americano per interposta persona” ha avuto successo». Terrorismo «inventato per l’occasione da Zbigniew Brzezinski e Jimmy Carter», fu in sostanza «un piano per distruggere l’Afghanistan allo scopo di salvarlo e, in pratica, funzionò, ma solo per la parte che riguardava la distruzione dell’Afghanistan». Da allora in poi, il piano «è fallito tutte le volte, a tutti i livelli, ma questo non ha impedito agli americani di perseverare nei tentativi di utilizzarlo». Vero: «Ci hanno provato in Cecenia, finanziando e armando i separatisti ceceni, ma lì la Russia ha avuto il sopravvento e ora la Cecenia è una parte pacifica della Federazione Russa. E naturalmente ci hanno provato in Siria, nel corso degli ultimi cinque anni, con gli stessi, scarsi risultati». Se la Siria seguirà l’esempio ceceno, continua Orlov, nel prossimo decennio «sarà una repubblica riunificata, secolare, con elezioni libere e democratiche, ricostruita con l’assistenza russa e cinese e con i grattacieli di Aleppo che rivaleggeranno con quelli della ricostruita Grozny, in Cecenia».Nel frattempo, gli Usa continueranno con i tentativi di usare altrove il loro “terrorismo per interposta persona”? «Si potrebbe pensare che, dopo il loro fallimento nel sostenere i “combattenti per la libertà” in Cecenia, gli strateghi americani abbiano imparato la semplice lezione: il “terrorismo per interposta persona” non funziona. Ma non imparano quasi mai dai loro errori», preferendo «raddoppiare la posta in gioco di questa tattica fallimentare». Infatti, «mentre usavano i terroristi per contrastare i sovietici in Afghanistan, hanno accidentalmente creato i Talebani, poi hanno invaso l’Afghanistan e hanno combattuto i Talebani per tutti gli ultimi 15 anni, ogni volta sempre con meno successo». Quando poi il “terrorismo per interposta persona” contro i propri nemici è fallito, «gli americani hanno poi deciso di usarlo contro se stessi: un attacco terroristico, presumibilmente commesso l’11 Settembre dalle stesse persone che essi avevano addestrato ad equipaggiato in Afganistan, rinominate al-Qaeda, li spinse ad attaccare l’Iraq». All’epoca non c’erano terroristi in Iraq, ma gli americani “risolsero” subito il problema: smantellarono l’esercito di Saddam creando la nuova milizia che chiamarono Nic, cioè “New Iraqi Corps”, «beatamente ignoranti del fatto che “nic”, nell’idioma locale, vuol dire “fottere”».Intanto, agli ufficiali iracheni imprigionati veniva data ampia opportunità di esasperarsi, di creare una rete di collegamenti e di confrontarsi a vicenda; sicché, «dopo il loro rilascio fondarono l’Isis, che a sua volta si prese una bella fetta di Iraq, poi di Siria». Il problema degli Usa, oggi, è l’assenza di leadership: «Né Obama, né la Clinton, né Trump contano», sostiene Orlov. Così, senza un vero piano in ambito geopolitico, «vengono cautamente confinati e contrastati da altre nazioni, le quali hanno capito che, anche nella loro senescenza e decrepitezza, gli Stati Uniti rimangono (comunque) pericolosi». C’è da temere che continuino a ricorrere al “terrorismo per interposta persona”, «anche se periodicamente si faranno male da soli», ma a un certo punto qualche scheggia impazzita «potrebbe accidentalmente scappare di mano e scatenare un conflitto maggiore». I media accreditano la sensazione di una rottura definitiva tra Mosca e Washington, per esempio sulla Siria, dove invece Usa e Russia hanno solo sospeso i negoziati bilaterali – quelli multilaterali, invece, continuano. Ma attenzione: i russi non resteranno accomodanti all’infinito, avverte Orlov.Di recente, Mosca ha reagito a muso duro dopo l’“accidentale” bombardamento delle truppe siriane a Deir-ez-Zor, chiaramente coordinato con l’Isis, che immediatamente dopo l’attacco è passato all’offensiva. Una palese violazione del cessate il fuoco, che ha indotto i russi a definire gli statunitensi “incapaci di onorare un accordo”. Peggio ancora: «Alcuni osservatori hanno fatto notare che il fiasco di Deir-ez-Zor fa capire come l’amministrazione Obama non abbia più il controllo del Pentagono». Ipotesi rafforzata quando «gli americani, o i loro terroristi mercenari, hanno bombardato un convoglio umanitario e hanno tentato di scaricare la colpa sui russi». In più, i russi hanno appena cancellato un accordo sulla riduzione dell’eccesso di plutonio, «l’unico trattato sulla riduzione delle armi che Obama era riuscito a negoziare in tutti i suoi otto anni di incarico». Motivo del dietrofront russo: gli Usa «non sono riusciti a smaltire la loro quota di plutonio». La Casa Bianca ha subito la “punizione” senza neanche un minimo accenno sulla stampa nazionale, «che probabilmente era troppo impegnata a fare l’isterica».L’America fa paura: è indebolita ma resta pericolosa, senza una vera leadership. Non sta cercando di inziare una Terza Guerra Mondiale contro la Russia, ma un “incidente” con armi nucleari non è da escludere, a forza di “giocare” coi terroristi, armati e arruolati per servire Washington sotto falsa bandiera. Lo afferma Dmitry Orlov, scrittore e ingegnere russo-americano. «I vertici militari e i politici possono anche essere deliranti, megalomani e potenzialmente suicidi, ma i personaggi di medio livello che sviluppano i piani di guerra hanno di rado tendenze suicide», premette Orlov. Inoltre, nel teatro che più di ogni altro potrebbe provocare l’irreparabile – la Siria – Mosca ha «accuratamente limitato le opzioni del Pentagono». Per abbattere il governo Assad servirebbe infatti l’imposizione di una “no-fly zone”, che però è impossibile: i russi hanno dotato i siriani del sistema missilistico S-300, «che può abbattere qualunque cosa voli sui cieli di quasi tutta la Siria e parte della Turchia». Il motivo principale per iniziare una guerra, oggi? «E’ il fatto che l’esercito siriano sta vincendo la battaglia di Aleppo». Una volta in fuga «gli jihadisti appoggiati dagli americani», la guerra civile siriana «sarà praticamente finita e inizierà la ricostruzione».
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Perso l’Isis, gli Usa puntano sui curdi per restare in Siria
Persa la possibilità di rovesciare Assad e conquistare la Siria, a causa del sostegno che Russia e Iran hanno fornito a Damasco, ora gli Usa puntano sui curdi, fino a ieri massacrati dai jihadisti dell’Isis protetti da Erdogan. Per lo Zio Sam, che ha perso il primo round ed è entrato in rotta anche con la Turchia, i combattenti del Kurdistan siriano – che hanno aiutato Assad a respingere l’Isis, assistiti dai russi – ora per Washington diventano la possibile “mossa del cavallo”, grazie alla promessa di una repubblica indipendente che Damasco non può garantire, e che getterebbe nel panico la Turchia. «Buttata la maschera, l’America minaccia militarmente Siria e Russia», avverte Maurizio Blondet: «Ammette di avere sul territorio siriano commandos e truppe americane che combattono contro il governo di Damasco a favore dei separatisti curdi; crea un “no-fly zone” di fatto sulla particella di territorio siriano che ha promesso ai curdi di rendere indipendente». Il generale Stephen Townsend, comandante delle forze Usa in Iraq e Siria, è esplicito: «Abbiamo informato i russi di cosa siamo pronti a fare: ci difenderemo se minacciati».E’ l’ennesima prova del vero volto della guerra siriana, dove l’Occidente ha sfruttato le prime proteste contro Assad, sul modello della “primavera araba”, per incunearsi in Siria – cioè a ridosso dell’Iran – con feroci milizie islamiste, finanziate e protette da Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, nonché Arabia Saudita e Qatar, con il supporto occulto di Israele e lo sfrontato appoggio logistico della Turchia. Il modello operativo: lo stesso della Libia, da cui sono stati fatti affluire molti reparti impiegati contro Gheddafi. Variante: in Siria, dopo la prima versione della guerriglia, targata “Esercito Siriano Libero”, si è passati direttamente al regime terroristico dell’Isis, fino all’impiego di armi di distruzione di massa come il gas Sarin impiegato nella strage di civili alla periferia di Damasco nel settembre 2013. Sviluppi che hanno consentito a Putin di intervenire direttamente, coi bombardieri installati sul suolo siriano. Da qui l’abbattimento del Sukhoi-24 ad opera di un F-16 turco e, pochi mesi dopo, il fallito golpe ad Ankara che ha ribaltato i giochi: oggi, infatti, lo stesso Erdogan stringe la mano a Putin e annuncia che la Turchia si farà garante dell’integrità territoriale della Siria, cioè il paese che proprio i turchi – più di ogni altro – hanno contribuito a devastare, attraverso le armate dell’Isis.Il punto-chiave della svolta, riassume Blondet, sono i combattimenti ora in corso nel nord, ad Hasakah, tra le truppe siriane e la milizia curda dell’Ypg, spalleggiata da centinaia di commandos americani. Una situazione come quella di Aleppo, ma rovesciata: l’esercito siriano occupa la città, ma è circondato dalle milizie curde. Lo Ypg ha intimato ai “regolari” di abbandonare Hasakah, dove l’esercito di Assad è il solo protettore della grossa minoranza cristiana (assira), che teme di dover subire una pulizia etnica se i curdi avessero la meglio. Secondo Blondet, Hasakah potrebbe diventare una delle città del futuro Stato curdo, secondo un programma ben collaudato: “sfratto” delle minoranze e «plebiscito per l’appartenenza allo Stato curdo prossimo venturo, garantito da Usa e Sion». La milizia curda «è assistita dagli americani con la scusa che “combatte lo Stato Islamico” – che nella zona non c’è: combatte invece l’armata legittima di Damasco». I giochi si sono fatti pericolosi quando l’aviazione siriana – intervenuta per aprire vie di rifornimento al suo esercito assediato – ha quasi colpito i militari americani che sostengono l’assedio curdo.Gli aerei di Assad, scrive Blondet, hanno bombardato le posizioni Ypg: nel corso della missione aerea – accusa il Pentagono – poco è mancato che le truppe americane venissero colpite. Reazione immediata: caccia F-22 sono stati lanciati all’inseguimento dei bombardieri siriani. «Il Pentagono ha accusato Mosca, che ha risposto di non entrarci nel bombardamento di Hasakah». Ma, invece di appianare la situazione, «gli americani si sono impegnati in una gravissima escalation, di fatto minacciando di abbattere gli aerei che sorvolano Hasakah, russi o siriani che siano». In base al diritto internazionale, continua Blondet, non c’è alcuna base legale alla presenza di forze armate Usa in Siria. «Per questo, quando l’Air Force (dice) di aver cercato di contattare le forze siriane che stavano colpendo i militari americani sul terreno, Damasco ha ignorato il richiamo – altrimenti sarebbe stato ammettere che gli Usa sono un nemico occupante. Per tutta risposta, il Pentagono – invece di sloggiare le sue truppe da Hasakah, ne ha rafforzato il contingente».L’enormità della situazione, aggiunge Blondet, è stata rilevata dal giornalista tedesco Thomas Wiegold, che ha twittato: “Come? Ora gli Usa praticano il divieto di operare alle forze di un paese sul suo territorio?”. «Il punto è che il voltafaccia di Erdoğan ha messo in grave pericolo la promessa fatta da Usa e Israele ai curdi, di ritagliare per loro uno Stato indipendente (e loro satellite) nella zona tra Turchia, Siria, Iraq e Iran», osserva ancora Blondet. «Erdoğan si è recentemente pronunciato, in inaudita coordinazione con Teheran per “il mantenimento dell’integrità territoriale della Siria”, di cui quindi Turchia e Iran si fanno garanti (insieme ai russi e a Pechino): quindi nessuno smembramento della Siria per linee etniche e religiose; capendo finalmente che la Turchia, dal progetto, ha solo da perdere – un terzo del suo territorio, abitato dai curdi». Lo ha ripetuto qualche giorno fa il nuovo primo ministro turco Yildirim: «Nei prossimi sei mesi giocheremo un ruolo più attivo in Siria, voglio dire non permetteremo che la Siria sia divisa secondo linee etniche: ci assicureremo che il suo governo non sia basato su etnie».Il fatto è che l’anno scorso, i rappresentanti della regione curda (già autonoma sotto la Costituzione siriana) hanno elevato un annuncio di federalizzazione: annuncio unilaterale, non concordato e incostituzionale – su aperta istigazione statunitense. Gli Usa hanno fornito ai secessionisti «addestramento, armi, munizioni e 350 milioni di dollari “per combattere l’Isis”». La traduzione di Blondet: «Ormai è chiaro che, per i neocon che hanno occupato la politica estera Usa, i trattati internazionali sono stracci di carta: la forza è la sola “ragione”», inlcusa la pulizia etnica. «Oltretutto, i folli sentono l’urgenza frenetica di contrastare i successi di Mosca nell’area, di “far pagare un prezzo a Putin e ad Assad”; recuperare il danno inferto ai loro progetti da Erdoğan e vendicarsi di lui». A questo servirebbe la promessa fatta ai curdi, che lottano da decenni – soprattutto in Iraq e in Turchia – per il loro diritto a esistere, come popolo. Washington oggi ne impugna la causa, in modo evidentemente strumentale. E pericoloso: dietro alla Siria ci sono Mosca, Teheran e Pechino. «L’orribile attentato di Gaziantep, che ha sterminato più di cinquanta curdi partecipanti al matrimonio di un capoccia locale, capo del partito curdo rappresentato ad Ankara, si deve situare in questo quadro», conclude Blondet. «Naturalmente Erdoğan ha accusato l’Isis (ha imparato dagli americani); i curdi presenti hanno accusato Erdoğan. Non senza ragione, credo. Nella gara all’escalation irresponsabile, i neocon non sono i soli».Persa la possibilità di rovesciare Assad e conquistare la Siria, a causa del sostegno che Russia e Iran hanno fornito a Damasco, ora gli Usa puntano sui curdi, fino a ieri massacrati dai jihadisti dell’Isis protetti da Erdogan. Per lo Zio Sam, che ha perso il primo round ed è entrato in rotta anche con la Turchia, i combattenti del Kurdistan siriano – che hanno aiutato Assad a respingere l’Isis, assistiti dai russi – ora per Washington diventano la possibile “mossa del cavallo”, grazie alla promessa di una repubblica indipendente che Damasco non può garantire, e che getterebbe nel panico la Turchia. «Buttata la maschera, l’America minaccia militarmente Siria e Russia», avverte Maurizio Blondet: «Ammette di avere sul territorio siriano commandos e truppe americane che combattono contro il governo di Damasco a favore dei separatisti curdi; crea un “no-fly zone” di fatto sulla particella di territorio siriano che ha promesso ai curdi di rendere indipendente». Il generale Stephen Townsend, comandante delle forze Usa in Iraq e Siria, è esplicito: «Abbiamo informato i russi di cosa siamo pronti a fare: ci difenderemo se minacciati».
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Craig Roberts: gangster Nato e Isis, tutti uniti contro Putin
Una delle lezioni della storia militare è che, una volta che la mobilitazione bellica abbia avuto inizio, essa assume una dinamica propria e incontrollabile. Questo potrebbe essere proprio quello che si sta verificando sotto i nostri occhi, non riconosciuto. Nel suo discorso del 28 settembre per il settantesimo anniversario delle Nazioni Unite, il presidente russo Vladimir Putin ha dichiarato che la Russia non può più tollerare l’attuale situazione nel mondo. Due giorni dopo, su invito del governo siriano, la Russia ha iniziato la sua guerra contro l’Isis. La Russia ha avuto rapidamente fortuna nel distruggere i depositi d’armi dell’Isis e nell’aiutare l’esercito siriano a disfarne i successi. La Russia ha distrutto anche migliaia di autobotti, il contenuto delle quali stava finanziando l’Isis trasportando in Turchia il petrolio siriano rubato, dove viene venduto dalla famiglia dell’attuale gangster che governa la Turchia stessa.Washington è stata colta di sorpresa dalla fermezza della Russia. Temendo che il rapido successo di tale decisiva azione russa avrebbe scoraggiato i vassalli Nato di Washington dal continuare a sostenere la sua guerra contro Assad e dall’usare il suo governo fantoccio a Kiev per tenere sotto pressione la Russia, Washington ha organizzato con la Turchia l’abbattimento di un cacciabombardiere russo, nonostante l’accordo tra Russia e Nato che non ci sarebbero stati scontri aria-aria nella zona delle operazioni aeree russe in Siria.Anche se nega ogni responsabilità, Washington ha usato la bassa intensità della risposta russa all’attacco, per il quale la Turchia non si è scusata, per rassicurare l’Europa che la Russia è una tigre di carta. Le “presstitute” occidentali hanno strombazzato: la Russia è una tigre di carta.La bassa intensità nella risposta del governo russo alla provocazione è stata usata da Washington per rassicurare l’Europa che non vi è alcun rischio nel continuare la pressione sulla Russia in Medio Oriente, Ucraina, Georgia, Montenegro e altrove. L’attacco di Washington ai soldati di Assad viene utilizzato per rafforzare la convinzione che si sta inculcato nei governi europei che il comportamento responsabile della Russia per evitare la guerra è invece un segno di paura e di debolezza. Non è chiaro fino a che punto i governi russo e cinese capiscano che le loro politiche indipendenti, ribadite dai presidenti di Russia e Cina il 28 settembre, siano considerate da Washington come “minacce esistenziali” per l’egemonia statunitense. La base della politica estera degli Stati Uniti è l’impegno ad evitare il sorgere di poteri in grado di condizionare l’azione unilaterale di Washington. La capacità di Russia e Cina di fare proprio questo li rende entrambi un obbiettivo.Washington non si oppone al terrorismo. Ha creato appositamente il terrorismo per molti anni. Il terrorismo è un’arma che Washington intende utilizzare per destabilizzare la Russia e la Cina esportandolo alle popolazioni musulmane in Russia e Cina. Washington sta usando la Siria, come una volta l’Ucraina, per dimostrare l’impotenza della Russia all’Europa – e anche alla Cina, essendo una Russia impotente un alleato meno attraente per la Cina. Per la Russia, la risposta responsabile alle provocazioni è diventata una forma di passività, perché incoraggia ulteriori provocazioni. In altre parole, Washington e la sprovvedutezza dei suoi vassalli europei hanno messo l’umanità in una situazione molto pericolosa, in quanto le uniche scelte rimaste a Russia e Cina sono quelle di accettare il vassallaggio americano o di prepararsi per la guerra.Putin deve essere rispettato per aver riservato più valore alla vita umana di quanto non facciano Washington e i suoi vassalli europei, e per aver evitato risposte militari alle provocazioni. Tuttavia, la Russia deve fare qualcosa per rendere i paesi della Nato consapevoli che ci sono gravi costi nel loro essere così accomodanti verso l’aggressione di Washington contro la Russia. Ad esempio, il governo russo potrebbe decidere che non ha senso vendere energia ai paesi europei che si trovano in uno stato di guerra di fatto contro la Russia. Con l’inverno alle porte, il governo russo potrebbe annunciare che la Russia non vende energia ai paesi membri della Nato. La Russia avrebbe perso i suoi soldi, ma è più conveniente che perdere la propria sovranità o una guerra. Per porre fine al conflitto in Ucraina, o per aumentarne l’intensità oltre la volontà dell’Europa a parteciparvi, la Russia potrebbe accettare le richieste delle province separatiste di ricongiungersi con la Russia. Per Kiev, continuare il conflitto significherebbe che l’Ucraina dovrebbe attaccare la stessa Russia.Il governo russo ha fatto affidamento su risposte responsabili e non provocatorie. La Russia ha adottato un approccio diplomatico, confidando su governi europei realisti, capaci di rendersi conto che i loro interessi nazionali divergono da quelli di Washington e in grado di cessare di consentire la politica egemonica di Washington. La politica della Russia non ha avuto successo. Le risposte responsabili della Russia sono state utilizzate da Washington per dipingere la Russia come una tigre di carta che nessuno deve temere. Ci ritroviamo con il paradosso che la determinazione della Russia ad evitare la guerra ci sta portando direttamente in guerra. Che i media russi, il popolo russo e la totalità del governo russo lo capiscano o meno, questo deve essere evidente per i militari russi. Tutto ciò che i capi militari russi devono fare è guardare la composizione delle forze inviate dalla Nato per “combattere l’Isis”.Come fa notare George Abert, gli aerei americani, francesi e britannici che sono stati dispiegati sono aerei da combattimento il cui scopo è il combattimento aereo, non l’attacco al suolo. I caccia non sono stati dispiegati per attaccare l’Isis a terra, ma per minacciare i cacciabombardieri russi che stanno attaccando i bersagli dell’Isis al suolo. Non vi è dubbio che Washington stia spingendo il mondo verso l’Armageddon e l’Europa ne sia l’attivatore. I pupazzi “acquistati-e-pagati-come-marionette” di Washington in Germania, Francia e Regno Unito sono stupidi, indifferenti o impotenti a sfuggire alla morsa di Washington. A meno che la Russia non svegli l’Europa, la guerra è inevitabile. I guerrafondai neocon totalmente malvagi e stronzi hanno insegnato a Putin che la guerra è inevitabile? Guardate questo video, in cui Putin dice: «Cinquant’anni fa anni fa le strade di Leningrado mi hanno insegnato una lezione: se la lotta è inevitabile, colpisci per primo!».(Paul Craig Roberts, “La guerra è all’orizzonte: è troppo tardi per fermarla?”, intervento pubblicato sul blog di Craig Roberts, tradotto da “Spondasud” e ripreso da “Megachip” il 14 dicembre 2015. Eminente economista e analista geopolitico, Craig Roberts è stato membro del governo di Ronald Reagan).Una delle lezioni della storia militare è che, una volta che la mobilitazione bellica abbia avuto inizio, essa assume una dinamica propria e incontrollabile. Questo potrebbe essere proprio quello che si sta verificando sotto i nostri occhi, non riconosciuto. Nel suo discorso del 28 settembre per il settantesimo anniversario delle Nazioni Unite, il presidente russo Vladimir Putin ha dichiarato che la Russia non può più tollerare l’attuale situazione nel mondo. Due giorni dopo, su invito del governo siriano, la Russia ha iniziato la sua guerra contro l’Isis. La Russia ha avuto rapidamente fortuna nel distruggere i depositi d’armi dell’Isis e nell’aiutare l’esercito siriano a disfarne i successi. La Russia ha distrutto anche migliaia di autobotti, il contenuto delle quali stava finanziando l’Isis trasportando in Turchia il petrolio siriano rubato, dove viene venduto dalla famiglia dell’attuale gangster che governa la Turchia stessa.
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Chi ci porta in guerra, e perché i giornali non lo rivelano
Mille cisterne di petrolio dell’Isis, dirette in Turchia, distrutte in pochi giorni dai caccia russi. Poi l’abbattimento del Sukhoi-24, col mitragliamento di uno dei piloti mentre scendeva col paracadute. E il ministro degli esteri turco che dice al collega russo Lavrov che i militari di Ankara, quei pasticcioni, non avevano capito che l’aereo sul confine turco-siriano fosse russo. Una farsa pericolosa, su cui Obama si è limitato a dire che “la Turchia ha il diritto di difendersi”, come se il bombardiere Su-24 stesse minacciando la sicurezza turca. Conseguenze? Imprevedibili. Secondo Pepe Escobar, Mosca potrebbe chiudere i rubinetti del gas (da cui la Turchia dipende), armare segretamente i separatisti curdi dell’Anatolia e, intanto, spedire gli “Spetznaz” – i temibili reparti speciali – in missione punitiva tra le montagne dove si annidano i guerriglieri turcomanni, quelli che hanno mitragliato il paracadutista compiendo un crimine di guerra particolarmente odioso, sanzionato dalla Convenzione di Ginevra del 1977. Il “colpo alla schiena” sferrato a Putin ci spinge verso una guerra più vasta?
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Volevano suicidare la Russia, odiano Putin che l’ha salvata
Quando la Russia era amica degli Stati Uniti, Pavel Grachev era ministro della difesa, dal 1992 al 1996. Erano gli anni della transizione post sovietica. Il presidente Yeltsin e i suoi giovani riformatori traghettavano un paese lacero e miserabile verso un futuro di libertà stracciona, di occidentalismo predatorio, di privatizzazione da Far West. Una Russia società aperta, che danzava ubriaca sulla fune sopra il baratro. E senza rete di salvataggio. Era, quella, la Russia degli americani. In nessun periodo storico fu Mosca più vezzeggiata, lusingata e accarezzata dall’affabile alleato transatlantico. Nel momento in cui rinunciò a qualunque politica estera, a qualunque sfera di influenza, all’interesse nazionale e alla geopolitica, i sorrisi della politica americana si sprecarono per anni, promettendo ai russi integrazione, sviluppo, benessere. E consegnando invece, tutt’al più, una copia vintage e involgarita delle luci di New York sulle cupole zariste e i condomini khruscioviani lungo la Moscova. Pochi russi ammassavano fortune d’altri tempi sulle ceneri di una superpotenza in saldo. Una generazione di giovani vedeva scomparire l’istruzione, la sanità, la sicurezza di uno stipendio povero ma in grado di assicurare la spesa quotidiana e un tetto.Milioni di ragazze scoprivano che i loro corpi avevano un mercato, per le strade di Mosca invase dai turisti o nelle città d’Europa finalmente accessibili per una schiavitù diversa dalla solita, e più brutale. Gli orfanotrofi traboccavano di creature malnutrite rifiutate da famiglie scomparse e abbandonate da uno Stato in bancarotta. La droga, il collasso dei servizi pubblici e l’anomia sociale mietevano un numero incalcolabile di giovani vittime ai quattro angoli di un impero arrugginito, venduto pezzo per pezzo come metallo di scarto sui mercati mondiali della corruzione e del malaffare. Mosca e San Pietroburgo, di notte, facevano paura. Crimine fuori controllo, omicidi spiccioli ed esecuzioni mafiose in grande stile terrorizzavano città senza più legge, dove la polizia sopravviveva grazie alle mazzette e all’estorsione e i malviventi regnavano come mai i Corleone e i Riina avrebbero potuto sognare nella loro terra. La Russia di Yeltsin non era più orso. Era semmai un elefante mutilato e sanguinante, cui bracconieri indigeni e stranieri somministravano stupefacenti per tenerlo in vita, mentre gli rubavano avorio, organi, e anima.E poi c’era l’esercito. L’istituzione che aveva, sin dalla rivoluzione d’ottobre, rappresentato la gloria e la potenza, il vanto e l’orgoglio, il blasone e il sigillo della leadership mondiale della Russia dei Soviet. Non più Armata Rossa ma Russa, l’esercito era allora sotto la guida di Grachev. Una figura dimenticata ma preziosa, per capire la storia. Non la storia dei summit e delle dichiarazioni diplomatiche, no. La storia di uomini e donne, di carne e di sangue, di vita e di morte. La storia dei russi, contro la storia dei think tank e delle accademie e dei fondi monetari. Era il dicembre 1994 e Grachev aveva dichiarato con boria mediatica che l’esercito russo avrebbe potuto conquistare Grozny in 24 ore con un solo reggimento di paracadutisti. Perché oltre che dissanguata, derelitta e derubata, la Russia di Yeltsin era anche a un passo dalla disintegrazione. Regioni ribelli guidate da delinquenti e corrotti premevano per la secessione da un potere centrale che non aveva più potere, né centralità. E se il corpo rischiava la metastasi, il cancro da cui questo minacciava di diffondersi era la Cecenia.Dicono i pettegolezzi, che sono un po’ anche cronaca, che Grachev avesse dato l’ordine di invadere Grozny di notte, ubriaco. E così la mattina di capodanno del 1995 la capitale caucasica fu svegliata dalle bombe e dai carri armati. Era la prima volta che l’Armata Russa combatteva. E fu un disastro che nemmeno gli analisti più cinici avrebbero previsto. Lungi dall’impiegare un solo battaglione di paracadutisti, Grachev riversò su Grozny tutto quello che aveva. Tank, artiglieria, aviazione. E lungi dall’ottenere la rapida vittoria che aveva promesso, si risvegliò dalla supposta sbronza con le notizie di una catastrofe nazionale. L’Armata Rossa non solo aveva cambiato nome. Non esisteva neanche più. C’era, al suo posto, l’esercito di Yeltsin. Della nuova Russia occidentale, prediletta discepola degli amici d’America. Un’armata brancaleone di ragazzini adolescenti strappati alle famiglie e scaraventati al fronte. Mezzi antiquati e colonne sbandate. Strategie militari da prima guerra mondiale. Se un simbolo della rovina materiale, morale e umana in cui la transizione benedetta dall’America aveva gettato la Russia esiste, questo e’ senz’altro la campagna cecena di Pavel Grachev. D’altronde, l’Armata Russa era la stessa di cui filtravano notizie di soldati ridotti alla fame nelle basi dell’estremo Oriente, o venduti a San Pietroburgo come prostituti a ora per clienti facoltosi, o massacrati nei riti d’iniziazione sfuggiti a qualunque regola e disciplina, o suicidi in massa per sfuggire a violenze e soprusi impuniti.E così in Cecenia, dopo un bilancio di migliaia di soldati uccisi e fatti prigionieri, di una città rasa al suolo e di civili sterminati, il cancro non era stato nemmeno estirpato. E un anno dopo, i ribelli l’avrebbero riconquistata. Grachev perse la faccia. E la Russia con lui. Mentre le madri dei piccoli soldati usati come carne da cannone iniziarono le loro coraggiose manifestazioni pubbliche davanti ai lugubri ministeri moscoviti, che tanto le facevano assomigliare alle danze solitarie delle madri dei desaparecidos sudamericani. E sarebbe stata una ricerca disperata, straziante e inutile, perché dei figli soldati della Russia non v’erano notizie, né sepoltura, né nomi. Scomparsi nel nulla, saltati in aria nei carri sgangherati di Grachev, torturati nelle prigioni improvvisate dei mujaheddin ceceni. Inghiottiti dal drago di un paese allo sfacelo. Che però, allora, era il darling della Casa Bianca. Per questo, oggi, non capiamo Putin. Perché ci rifiutiamo di vedere la storia degli uomini e ci soffermiamo invece sui paper delle accademie. Quelli che ci dicono che Putin è un fascista che sta distruggendo la Russia. Quelli che ci parlano di un paese prigioniero di una nuova tirannia. Quelli che dipingono la Crimea come una nuova Cecoslovacchia e l’Ucraina come la Polonia di Hitler. Quelli che sono, oggi, la copia speculare di ciò che condannano: propaganda.Perché la Russia non è più stracciona, e Putin lentamente l’ha cambiata. Ha ricostruito lo Stato. Non è un modello di democrazia di Westminster, no di certo. Ma esiste, e fa qualcosa. Ha recuperato, legalmente e illegalmente, parte di quell’eredità che l’oligarchia mafiosa aveva comprato alla fiera dell’est, per due soldi. Ha curato i focolai tumorali che minacciavano la sopravvivenza della Federazione. Ha riparato i carri armati, e li ha svuotati degli adolescenti di leva, riempiendoli di soldati professionisti. Ha licenziato la leadership alcolista, e investito in ricerca e sviluppo. Ha riaperto le fabbriche del complesso militare industriale che non è certo la chiave del futuro, ma che è tutto ciò che la Russia aveva e da cui poteva ripartire. E quando il paese ha smesso di presentarsi ai summit internazionali scalzo e rattoppato per supplicare l’America e le sue istituzioni finanziarie di elargire un altro prestito ipotecando in cambio l’interesse nazionale, la Russia di Putin ne ha ripreso in mano il dossier. E ne ha rilette, una dopo l’altra, le pagine dimenticate.La sorpresa della Crimea, per questo motivo, è tale solo per gli ipocriti, gli smemorati, e gli ingenui. La Crimea fu uno degli scogli più insidiosi su cui la transizione post sovietica rischio’ di naufragare, già negli anni ‘90, quando per poco non scatenò una guerra. In Crimea c’erano Sebastopoli e la flotta del Mar Nero. L’intera geopolitica zarista e poi sovietica aveva da sempre cercato lo sbocco verso il Mediterraneo, lo sanno anche i bambini delle medie. Non è certo un’invenzione di Putin. La Crimea è stata sempre la colonna portante dell’interesse nazionale russo. Non è Putin che ha stravolto la storia rivendicandola e riconquistandola. Era stata la debolezza e la disperazione degli anni di Yeltsin a far accettare obtorto collo a Mosca la rinuncia a una penisola che è insieme strategia e letteratura e icona e identità. La perdita della Crimea fu per i russi una dolorosa circostanza storica, mai una scelta coraggiosa.L’aspro confronto tra Obama e Putin è tutto qui. L’elefante tramortito è ritornato orso. E rifiuta le sbarre della gabbia che la Nato nell’ultimo decennio gli ha costruito addosso, a dispetto delle dichiarazioni di amicizia e di rispetto. Il livore di Obama ha così dipinto la Crimea come la prova della cattiveria di Putin, e l’Europa sbadata gli ha creduto. E ora che la Russia interviene su uno scacchiere mediorientale da cui mancava da vent’anni, la Casa Bianca si agita scomposta. Ma vent’anni di egemonia statunitense in Medio Oriente e Nord Africa cosa hanno prodotto? La farsa dell’Iraq e la sua tragedia umana. Lo Stato Islamico e il suo regno di barbarie. Il collasso della Siria e i milioni di profughi e la sua guerra senza sbocco. La fine della Libia. Ed è solo l’inizio di un terremoto che l’America stessa ha scatenato, ma che le è ormai sfuggito di mano. Persino i paesi della regione lo sanno. E oggi iniziano a guardare a Putin più che a Obama, cui rimane la retorica da guerra fredda, l’uso spregiudicato delle sanzioni con la scusa dei diritti umani, e la scelta sconsiderata di perdere la Russia.Putin è un personaggio complesso, ma non è il diavolo. Ha il merito di avere mantenuto la Russia nella storia, in un momento in cui era tutt’altro che scontato. Il giovane ignoto che si insediò sullo scranno degli Zar quando Yeltsin barcollò via con un ultimo brindisi, non verrà giudicato dalla storia per i pettegolezzi su come abbia passato il compleanno e sul costo dell’orologio che porta al polso, temi oggi prediletti da riviste un tempo autorevoli come “Foreign Policy”. Il verdetto è già scritto. E’ nelle immagini che lo mostrano assieme al ministro della difesa Shoigu nelle stanze dei bottoni del suo esercito, da cui la campagna siriana viene coordinata. Sono passati solo due decenni, ma sembrano anni luce dalle gaffe di Yeltsin, e dalla disfatta cecena di Grachev. Se Obama non gradisce, non è per i diritti umani dei russi. Washington ha approfittato della penosa transizione russa per arraffare quanto più spazio geopolitico ha potuto, in Europa, in Medio Oriente, nel Pacifico. E adesso che al Cremlino non siede più un ubriacone cardiopatico, e l’esercito non è più il soldatino di latta di Grachev, l’America, di colpo, ha deposto le lusinghe. E ha perso il sorriso. E minaccia di trascinarci, tutti, in uno scontro frontale con la Russia. Per i suoi interessi, e contro i nostri. Che sono quelli di un’Europa che non si fermi di colpo alla frontiera bielorussa.(Mario Rimini, “Perché l’Occidente non capisce più la Russia. Una lettura critica”, da “Il Foglio” del 9 ottobre 2015).Quando la Russia era amica degli Stati Uniti, Pavel Grachev era ministro della difesa, dal 1992 al 1996. Erano gli anni della transizione post sovietica. Il presidente Yeltsin e i suoi giovani riformatori traghettavano un paese lacero e miserabile verso un futuro di libertà stracciona, di occidentalismo predatorio, di privatizzazione da Far West. Una Russia società aperta, che danzava ubriaca sulla fune sopra il baratro. E senza rete di salvataggio. Era, quella, la Russia degli americani. In nessun periodo storico fu Mosca più vezzeggiata, lusingata e accarezzata dall’affabile alleato transatlantico. Nel momento in cui rinunciò a qualunque politica estera, a qualunque sfera di influenza, all’interesse nazionale e alla geopolitica, i sorrisi della politica americana si sprecarono per anni, promettendo ai russi integrazione, sviluppo, benessere. E consegnando invece, tutt’al più, una copia vintage e involgarita delle luci di New York sulle cupole zariste e i condomini khruscioviani lungo la Moscova. Pochi russi ammassavano fortune d’altri tempi sulle ceneri di una superpotenza in saldo. Una generazione di giovani vedeva scomparire l’istruzione, la sanità, la sicurezza di uno stipendio povero ma in grado di assicurare la spesa quotidiana e un tetto.
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Tutti contro tutti, come nel Grande Gioco tra ‘800 e ‘900
«Stenta ad affermarsi un nuovo ordine mondiale inteso come equilibrio stabile fra le potenze: siamo a metà fra un ordinamento monopolare ed uno policentrico». Certo, «c’è ancora una sola superpotenza in grado di intervenire militarmente in ogni parte del mondo», ma in compenso ci sono almeno altre quattro grandi potenze – Russia, Brasile, India e Cina – in grado di «controllare le rispettive zone sub-continentali e di respingere attacchi esterni, anche americani». Ovviamente, gli Usa continuano a lavorare a un progetto monopolare, mentre gli altri, e soprattutto Pechino, puntano ad un progetto multipolare basato su grandi aree continentali controllate ciascuna da una grande potenza. «Qualcosa che somiglia allo scontro fra la supremazia inglese e la sfida tedesca a cavallo fra XIX e XX secolo», secondo Aldo Giannuli, che osserva come il “grande gioco” della geopolitica sia continuamente riscritto, dando luogo a un’attualità tutt’altro che stabile. Da oltre mezzo secolo, peraltro, non si sono più visti scontri aperti tra grandi blocchi, «pena un conflitto nucleare reciprocamente distruttivo». Si ripiega allora sulla “strategia totale”, cioè politica, economica, diplomatica e militare.Il concetto di strategia, scrive Giannuli nel suo blog, è diventato sempre più onnicomprensivo, inghiottendo l’economia, la ricerca scientifica, il sistema satellitare, la finanza, la propaganda politica, le reti telematiche. Le guerre? Sempre meno “aperte”, a carattere militare, e sempre più commerciali, valutarie, finanziarie. «La dimensione militare deve essere coperta: come reagirebbe un paese se il suo confinante rivendicasse un attacco alle sue reti informatiche o un attentato batteriologico? La strada sarebbe aperta verso la guerra dichiarata». Il conflitto “coperto” può anche essere condotto in modo che l’aggredito non sappia con certezza da dove gli viene il colpo e, pertanto, diriga le sue ritorsioni o misure cautelari verso più antagonisti. «E con questo l’aggressore registra già un successo, moltiplicando le situazioni di conflitto dell’aggredito». Conseguenza: la possibilità che il conflitto di interessi riguardi due paesi legati da una alleanza politico-militare ma divisi da rivalità commerciali o da ragioni valutarie. E dunque, il sistema di relazioni internazionali doventerà “a geometria variabile”. «Questo è tanto più probabile che accada in un sistema policentrico e in una situazione in cui non ci sia pericolo di scontro militare imminente».Per Giannuli, la situazione attuale è esattamente questa: il pericolo di un conflitto militare aperto e generalizzato fra grandi potenze non sembra imminente, mentre si moltiplicano i motivi di contrapposizione fra esse. Sul piano valutario, gli Usa e la Cina sono apertamente in conflitto, i paesi esportatori di materie prime (Russia, India, Brasile) sono esposti al rischio di una guerra monetaria e alle difficoltà di esportare; la Russia è sotto pressione per il blocco commerciale seguito alla crisi ucraina; e Ue e Giappone sono stritolati fra le opposte manovre di Cina ed Usa. Pechino e Washington, a loro volta, sono in piena guerra commerciale: conflitto che «sta assumendo anche una dimensione di deterrenza militare da parte degli Usa che, a novembre 2011, hanno realizzato una sorta di accerchiamento aeronavale della Cina per indebolire i suoi rapporti commerciali nel Pacifico e ostacolare il rifornimento di materie prime». Manovra poi «ripetuta in forme meno evidenti nel 2014», mentre ora, come risposta, «si prospettano manovre navali congiunte russo-cinesi nello stesso spazio marittimo».Sul piano militare, continua Giannuli, esiste ancora l’alleanza fra gli Usa e molti paesi europei, ma la solidarietà atlantica è avvertita in gradi molto diversi da ciascuno e lo scandalo ricorrente delle intercettazioni americane di telefoni dei leader europei turba periodicamente i rapporti fra le due sponde dell’Atlantico. «Non esistono altre alleanze politico-militari del genere, ma c’è l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai». Si tratta di «qualcosa di più di un semplice accordo economico fra Cina e Russia, ma meno di una organica alleanza militare». In pratica, «una sorta di “entente cordiale” per preservare uno comune spazio strategico da intromissioni esterne». Sul piano dell’accaparramento di materie prime, poi, si manifesta un conflitto di “tutti contro tutti” nel caso della politica di “land grabbing” in Africa, «dove Usa, Francia, Russia, Cina, Corea del Sud, Arabia Saudita ed Emirati arabi si contendono le terre fertili d’Africa». Soprattutto, «è riemersa una antica “logica di potenza” per la quale, di fronte a una potenza che cerca di imporre la propria egemonia, le altre si coalizzano per bloccare il tentativo».E questo, in fondo, è il senso dell’intesa dei Brics, mentre Giappone e Ue «restano in una posizione ambigua, ma tendenzialmente vassalla degli Usa». Pertanto, il “nuovo ordine mondiale” anelato dall’élite statunitense stenta ad affermarsi. «Il blocco asiatico, peraltro, è tutt’altro che compatto: fra Cina e Giappone e fra Cina e India le fasi di disgelo e quelle di tensione sono continue». Soprattutto i rapporti sino-indiani sono per più versi problematici, precisa Giannuli. In primo luogo, la sfida fra i due colossi è per il controllo dell’Oceano Indiano, che l’India considera di sua esclusiva pertinenza, contrariando la Cina. A sua volta, Pechino ha recentemente varato la sua prima portaerei (di classe Varyag), ma l’India ne ha già tre con una flotta di 170 unità, fra cui diversi sommergibili nucleari. «E, più ancora, i due paesi risentono della linea di faglia che corre fra India e Pakistan, entrambe potenze nucleari che hanno già combattuto tre guerre (1948, 1965 e 1971) oltre a due conflitti limitati (Siachen 1984 e Kargil 1999)». Inoltre, l’India ha ripetutamente accusato il Pakistan di essere dietro agli attentati dei terroristi kashmiri come la strage di Mumbai (novembre 2008).Giannuli ricorda inoltre che il Pakistan è, insieme alla Corea del Nord, l’unico alleato della Cina che, dunque, corre il rischio di essere risucchiata in un eventuale conflitto indo-pakistano. Inoltre, l’India accusa la Cina di fomentare la guerriglia nell’Andra Pradesh, e Pechino accusa l’India di aizzare il separatismo del Tibet. «Dunque, una situazione complessa e instabile, nella quale anche i disegni di alleanze non durano molto, e spesso non riescono neppure ad assumere forma: nel 2006 parve che India e Cina superassero i loro contenziosi per trovare una forte convergenza economica, si parlò addirittura di “Cindia”, il nuovo grandissimo attore della scena mondiale, ma l’intesa durò meno di un anno. Nel 2009 sembrò affermarsi un nuovo bipolarismo fra Cina e Usa, si parlò di G2 e di “Chimerica”, ma, appunto, fu una chimera durata meno di quattro mesi». Peraltro, il “grande gioco” è ulteriormente complicato dalle inedite dinamiche fra protagonismi nazionali e scenario globalizzato, con strategie, alleanze, ipotesi commerciali e orientamenti militari e politici diversi fa loro. I rispettivi disegni «si incrociano e condizionano a vicenda in continuazione, rendendo il quadro sempre più fitto di dinamiche interdipendenti». Infatti, «ogni potenza agisce come un magnete sulle componenti delle altre, ma inevitabilmente subisce la stessa forza di attrazione».«Stenta ad affermarsi un nuovo ordine mondiale inteso come equilibrio stabile fra le potenze: siamo a metà fra un ordinamento monopolare ed uno policentrico». Certo, «c’è ancora una sola superpotenza in grado di intervenire militarmente in ogni parte del mondo», ma in compenso ci sono almeno altre quattro grandi potenze – Russia, Brasile, India e Cina – in grado di «controllare le rispettive zone sub-continentali e di respingere attacchi esterni, anche americani». Ovviamente, gli Usa continuano a lavorare a un progetto monopolare, mentre gli altri, e soprattutto Pechino, puntano ad un progetto multipolare basato su grandi aree continentali controllate ciascuna da una grande potenza. «Qualcosa che somiglia allo scontro fra la supremazia inglese e la sfida tedesca a cavallo fra XIX e XX secolo», secondo Aldo Giannuli, che osserva come il “grande gioco” della geopolitica sia continuamente riscritto, dando luogo a un’attualità tutt’altro che stabile. Da oltre mezzo secolo, peraltro, non si sono più visti scontri aperti tra grandi blocchi, «pena un conflitto nucleare reciprocamente distruttivo». Si ripiega allora sulla “strategia totale”, cioè politica, economica, diplomatica e militare.
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Guerra e bugie: rapinare la Jugoslavia, tutto cominciò lì
Guai se la denuncia del nazifascismo, risuonata nel 70° anniversario della liberazione di Auschwitz, serve a depistare l’opinione pubblica dall’altro fascismo, il “nostro”, fondato sulla menzogna che giustifica le peggiori, sistematiche aggressioni. Per esempio la Libia di Gheddafi, travolta dopo la decisione di costituire una banca africana e una moneta alternativa al dollaro. E la Jugoslavia, rasa al suolo dopo la decisione della Germania di riconoscere i separatisti: inaccettabile, per la nascente Eurozona, la sopravvivenza di un grande Stato multientico con l’economia interamente in mani pubbliche. E avanti così, dalla Siria all’Ucraina, fino alle contorsioni terrificanti del cosiddetto Isis, fondato sulle unità di guerriglia addestrate dall’Occidente in Libia contro Gheddafi, poi smistate in Siria contro Assad e quindi dirottate in Iraq. Possiamo chiamarlo come vogliamo, dice John Pilger, ma è sempre fascismo. E’ il “nostro” fascismo quotidiano. «Iniziare una guerra di aggressione», dissero nel 1946 i giudici del tribunale di Norimberga, «non è soltanto un crimine internazionale, ma è il crimine internazionale supremo». Se i nazisti non avessero invaso l’Europa, Auschwitz e l’Olocausto non sarebbero accaduti.«Se gli Stati Uniti e i loro vassalli non avessero iniziato la loro guerra di aggressione in Iraq nel 2003, quasi un milione di persone oggi sarebbero vive, e lo Stato islamico, o Isis, non ci avrebbe in balìa delle sue atrocità», scrive Pilger in una riflessione ripresa da “Come Don Chisciotte”. I nuovi “mostri” sono «la progenie del fascismo moderno, svezzato dalle bombe, dai bagni di sangue e dalle menzogne, che sono il teatro surreale conosciuto col nome di “informazione”». Infatti, «come durante il fascismo degli anni ‘30 e ‘40, le grandi menzogne vengono trasmesse con la precisione di un metronomo grazie agli onnipresenti, ripetitivi media e la loro velenosa censura per omissione». In Libia, nel 2011 la Nato ha effettuato 9.700 attacchi, più di un terzo dei quali mirato ad obiettivi civili, con strage di bambini. Bombe all’uranio impoverito, Misurata e Sirte bombardate a tappeto. L’omicidio di Gheddafi «è stato giustificato con la solita grande menzogna: stava progettando il “genocidio” del suo popolo». Se gli Usa avessero esitato, disse Obama, la città di Bengasi «avrebbe potuto subire un massacro che avrebbe macchiato la coscienza del mondo». Peccato che Bengasi non sia mai stata minacciata da nessuno: «Era un’invenzione delle milizie islamiche che stavano per essere sconfitte dalle forze governative libiche».Le milizie, scrive Pilger, dissero alla “Reuters” che ci sarebbe stato «un vero e proprio bagno di sangue, un massacro come quello accaduto in Ruanda». La menzogna, segnalata il 14 marzo 2011, ha fornito la prima scintilla all’inferno della Nato, definito da David Cameron come «intervento umanitario». Molti dei “ribelli”, segretamente armati e addestrati dalle Sas britanniche, sarebbero poi diventati Isis, decapitatori di “infedeli”. «Per Obama, Cameron e Hollande – scrive Pilger – il vero crimine di Gheddafi era l’indipendenza economica della Libia e la sua dichiarata intenzione di smettere di vendere in dollari Usa le più grandi riserve di petrolio dell’Africa», minacciando così il petrodollaro, che è «un pilastro del potere imperiale americano». Gheddafi aveva tentato con audacia di introdurre una moneta comune in Africa, basata sull’oro, e voleva creare una banca tutta africana per promuovere l’unione economica tra i paesi poveri ma dotati di risorse pregiate. «Era l’idea stessa ad essere intollerabile per gli Stati Uniti, che si preparavano ad “entrare” in Africa corrompendo i governi africani con offerte di collaborazione militare». Così, “liberata” la Libia, Obama «ha confiscato 30 miliardi di dollari dalla banca centrale libica, che Gheddafi aveva stanziato per la creazione di una banca centrale africana e per il dinaro africano, valuta basata sull’oro».La “guerra umanitaria” contro la Libia aveva un modello vicino ai cuori liberali occidentali, soprattutto nei media, continua Pilger, ricordando che, nel 1999, Bill Clinton e Tony Blair inviarono la Nato a bombardare la Serbia, «perché, mentirono, i serbi stavano commettendo un “genocidio” contro l’etnia albanese della provincia secessionista del Kosovo». L’ambasciatore americano David Scheffer affermò che «circa 225.000 uomini di etnia albanese di età compresa tra i 14 e i 59 anni potrebbero già essere stati uccisi». Sia Clinton che Blair evocarono l’Olocausto e «lo spirito della Seconda Guerra Mondiale». L’eroico alleato dell’Occidente era l’Uck, Esercito di Liberazione del Kosovo, «dei cui crimini non si parlava». Finiti i bombardamenti della Nato, con gran parte delle infrastrutture della Serbia in rovina – insieme a scuole, ospedali, monasteri e la televisione nazionale – le squadre internazionali di polizia scientifica scesero sul Kosovo per riesumare le prove del cosiddetto “olocausto”. L’Fbi non riuscì a trovare una singola fossa comune e tornò a casa. Il team spagnolo fece lo stesso, e chi li guidava dichiarò con rabbia che ci fu «una piroetta semantica delle macchine di propaganda di guerra». Un anno dopo, un tribunale delle Nazioni Unite sulla Jugoslavia svelò il conteggio finale dei morti: 2.788, cioè i combattenti su entrambi i lati, nonché i serbi e i rom uccisi dallUck. «Non c’era stato alcun genocidio. L’“olocausto” era una menzogna».L’attacco Nato era stato fraudolento, insiste Pilger, spiegando che «dietro la menzogna, c’era una seria motivazione: la Jugoslavia era un’indipendente federazione multietnica, unica nel suo genere, che fungeva da ponte politico ed economico durante la guerra fredda». Attenzione: «La maggior parte dei suoi servizi e della sua grande produzione era di proprietà pubblica. Questo non era accettabile in una Comunità Europea in piena espansione, in particolare per la nuova Germania unita, che aveva iniziato a spingersi ad est per accaparrarsi il suo “mercato naturale” nelle province jugoslave di Croazia e Slovenia». Sicché, «prima che gli europei si riunissero a Maastricht nel 1991 a presentare i loro piani per la disastrosa Eurozona, un accordo segreto era stato approvato: la Germania avrebbe riconosciuto la Croazia». Quindi, «il destino della Jugoslavia era segnato». La solita macchina stritolatrice: «A Washington, gli Stati Uniti si assicurarono che alla sofferente economia jugoslava fossero negati prestiti dalla Banca Mondiale, mentre la Nato, allora una quasi defunta reliquia della guerra fredda, fu reinventata come tutore dell’ordine imperiale».Nel 1999, durante una conferenza sulla “pace” in Kosovo a Rambouillet, in Francia, i serbi furono sottoposti alle tattiche ipocrite dei sopracitati tutori. «L’accordo di Rambouillet comprendeva un allegato B segreto, che la delegazione statunitense inserì all’ultimo momento». La clausola esigeva che tutta la Jugoslavia – un paese con ricordi amari dell’occupazione nazista – fosse messa sotto occupazione militare, e che fosse attuata una “economia di libero mercato” con la privatizzazione di tutti i beni appartenenti al governo. «Nessuno Stato sovrano avrebbe potuto firmare una cosa del genere», osserva Pilger. «La punizione fu rapida; le bombe della Nato caddero su di un paese indifeso. La pietra miliare delle catastrofi era stata posata. Seguirono le catastrofi dell’Afghanistan, poi dell’Iraq, della Libia, della Siria, e adesso dell’Ucraina. Dal 1945, più di un terzo dei membri delle Nazioni Unite – 69 paesi – hanno subito alcune o tutte le seguenti situazioni per mano del moderno fascismo americano. Sono stati invasi, i loro governi rovesciati, i loro movimenti popolari soppressi, i risultati delle elezioni sovvertiti, la loro gente bombardata e le loro economie spogliate di ogni protezione, le loro società sottoposte a un assedio paralizzante noto come “sanzioni”. Lo storico britannico Mark Curtis stima il numero di morti in milioni. «Come giustificazione, in ogni singolo caso una grande menzogna è stata raccontata».Guai se la denuncia del nazifascismo, risuonata nel 70° anniversario della liberazione di Auschwitz, serve a depistare l’opinione pubblica dall’altro fascismo, il “nostro”, fondato sulla menzogna che giustifica le peggiori, sistematiche aggressioni. Per esempio la Libia di Gheddafi, travolta dopo la decisione di costituire una banca africana e una moneta alternativa al dollaro. E la Jugoslavia, rasa al suolo dopo la decisione della Germania di riconoscere i separatisti: inaccettabile, per la nascente Eurozona, la sopravvivenza di un grande Stato multientico con l’economia interamente in mani pubbliche. E avanti così, dalla Siria all’Ucraina, fino alle contorsioni terrificanti del cosiddetto Isis, fondato sulle unità di guerriglia addestrate dall’Occidente in Libia contro Gheddafi, poi smistate in Siria contro Assad e quindi dirottate in Iraq. Possiamo chiamarlo come vogliamo, dice John Pilger, ma è sempre fascismo. E’ il “nostro” fascismo quotidiano. «Iniziare una guerra di aggressione», dissero nel 1946 i giudici del tribunale di Norimberga, «non è soltanto un crimine internazionale, ma è il crimine internazionale supremo». Se i nazisti non avessero invaso l’Europa, Auschwitz e l’Olocausto non sarebbero accaduti.
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Gli Usa puntano sulla guerra, non potendo sfidare la Cina
E’ necessario dire la verità sull’Ucraina. Vi è una usurpazione di potere. Chi governa non è stato eletto in elezioni presidenziali, ma dall’ambasciatore americano e dai servizi speciali. Tutto quello che succede in Ucraina è nell’illegalità. Il referendum in Crimea per la riunificazione con la Russia si è svolto nei termini della legalità internazionale e della legge dello stato di Crimea. I referendum in Donbass sono assolutamente legali in termini di sovranità e indipendenza. Al contrario, in Ucraina lo Stato è occupato, è sotto il controllo dei servizi speciali americani. Il potere a Kiev è esercitato dall’esterno. Pertanto, gli accordi di cessate il fuoco e la difesa dei civili non funzionano. La dirigenza ucraina li viola sistematicamente. Ogni giorno a Donetsk soffrono bombardamenti, e la gente muore. I paesi della Nato lo supportano, e la propaganda nazista mistifica gli eventi nel paese. Ora abbiamo lo stesso copione geopolitico. Gli americani avranno bisogno di vincere una guerra per preservare l’egemonia nel mondo, dal momento che non hanno alcuna possibilità di competere con la Cina.L’élite che domina in America cerca una crescente tensione politica e ha ora messo gli occhi su una guerra in Europa, che permetterebbe agli Stati Uniti di diventare un super-Stato. Le due guerre mondiali hanno creato flussi di capitale, di tecnologia e di mentalità tali da conformare l’Europa agli auspici americani. Il continente europeo si è trasformato in forza trainante per il capitalismo americano. Proseguendo il percorso tradizionale, gli americani hanno finanziato bande naziste in Ucraina e formato il regime terrorista anti-russo in Ucraina. L’Ucraina, come parte del mondo russo, non può seriamente essere percepita da noi come un nemico. A questo proposito non si può applicare una soluzione militare dura. Il compito degli americani è stato quello di organizzare il genocidio della popolazione russa, provocare operazioni militari di risposta, che costringerebbero a misure anche contro gli alleati in Europa della Nato. L’obiettivo dichiarato è quello di utilizzare i nazisti ucraini come ariete contro il sistema statale russo, fare una serie di “rivoluzioni arancioni” nel nostro territorio, smembrare e stabilire il controllo sulla Russia e sull’Asia Centrale. La guerra è necessaria per l’oligarchia americana. Per mantenere il dominio del mondo, cerca di scatenare una guerra in Europa.Noi siamo in grado di costruire una coalizione globale contro la guerra, che impedrà agli americani di isolarci. Usano il principio del “divide et impera” per alienare le nostre relazioni con gli Stati vicini. Se siamo in grado di mantenere l’unità strategica con la Cina, l’India, e creare nuovi centri di influenza politica nel blocco Brics, che copre più della metà dell’umanità, concentrandolo intorno ai nostri partner e amici nello spazio post-sovietico, i piani americani di una nuova guerra mondiale sono condannati alla sconfitta. La verità è che siamo già in guerra, una guerra che hanno scatenato gli Stati Uniti. È una guerra ibrida. Nessun mezzo come carri armati o armi di distruzione di massa. Il conflitto si basa su una vasta gamma di altri metodi disponibili: informativi, finanziari. La guerra finanziaria contro di noi viene svolta seriamente. Stiamo già chiedendo sostegno a fonti esterne di credito. Sono state approvate sanzioni che sono una grave violazione del diritto internazionale civile, commerciale e finanziario. Vi è anche la guerra contro di noi nel Donbass, non dovremmo dubitare di questo. Per trascinare il conflitto verso l’Europa, l’amministrazione americana che decide a Kiev ha demolito l’aereo malese. L’Ucraina è ormai un Stato quasi terrorista”.(Sergey Glazev, dichiarazioni rilasciate a Tatiana Medvedev per un’intervista ripresa da “L’Antidiplomatico” il 29 dicembre 2014. Economista e consulente vicino al presidente Putin, Glazev ha pubblicato il libro “L’incidente ucraino, dall’aggressione americana alla guerra mondiale?”).E’ necessario dire la verità sull’Ucraina. Vi è una usurpazione di potere. Chi governa non è stato eletto in elezioni presidenziali, ma dall’ambasciatore americano e dai servizi speciali. Tutto quello che succede in Ucraina è nell’illegalità. Il referendum in Crimea per la riunificazione con la Russia si è svolto nei termini della legalità internazionale e della legge dello stato di Crimea. I referendum in Donbass sono assolutamente legali in termini di sovranità e indipendenza. Al contrario, in Ucraina lo Stato è occupato, è sotto il controllo dei servizi speciali americani. Il potere a Kiev è esercitato dall’esterno. Pertanto, gli accordi di cessate il fuoco e la difesa dei civili non funzionano. La dirigenza ucraina li viola sistematicamente. Ogni giorno a Donetsk soffrono bombardamenti, e la gente muore. I paesi della Nato lo supportano, e la propaganda nazista mistifica gli eventi nel paese. Ora abbiamo lo stesso copione geopolitico. Gli americani avranno bisogno di vincere una guerra per preservare l’egemonia nel mondo, dal momento che non hanno alcuna possibilità di competere con la Cina.
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L’arsenale della democrazia fabbrica guerre senza fine
Ormai comunemente si osserva che l’arsenale della democrazia continua a intervenire con le sue guerre, coinvolgendo i suoi alleati subalterni, per buttare giù soggetti politici che esso stesso aveva messo su, armandoli e finanziandoli. Pensiamo ai Talebani, a Saddam Hussein, a Osama Bin Laden, ai miliziani dell’Isis. Queste odierne operazioni in due fasi, costruzione e demolizione, sono la continuazione di ciò che l’arsenale della democrazia aveva fatto col nazismo, sostenendolo finanziariamente persino in tempo di guerra attraverso partecipazioni societarie, e combattendolo nella seconda fase con grande dispendio di mezzi, in larga parte addebitati agli alleati. È stato infatti grazie all’indebitamento abissale degli alleati e poi delle potenze sconfitte nella Seconda Guerra Mondiale, che l’arsenale della democrazia ha assunto l’egemonia di gran parte del pianeta, facendosi suo fornitore di credito e, con Bretton Woods, di moneta di riserva.In Ucraina avviene oggi qualcosa di simile: l’arsenale della democrazia dapprima sostiene una sorta di colpo di stato contro un regime eletto, poi incoraggia una deriva anti-russi a Kiev, usa ogni mezzo per fare della Russia un nemico e una minaccia militari per l’Europa occidentale, imponendoci di adottare contro Mosca sanzioni autolesionistiche per noi, che però ci rendono più dipendenti dall’arsenale della democrazia per le forniture energetiche, quindi arricchiscono l’arsenale della democrazia in termini di profitti ed egemonia; al contempo, annuncia che potrà in futuro contribuire alle spese della Nato in misura ridotta, quindi gli alleati europei dovranno metterci più soldi, ossia dovranno comprare più armamenti dall’arsenale della democrazia, il quale è di gran lunga il principale produttore di armamenti, con una larga quota del Pil e dell’occupazione dipendente dalla produzione e… dal consumo di questi articoli; così contribuiranno alla prosperità della sua industria bellica a spese dei propri cittadini contribuenti.L’arsenale della democrazia ha una necessità oggettiva e strutturale di agire così, per rimanere egemone e per assicurare grandi profitti al suo complesso finanziario e industriale-militare, e salario ai suoi addetti. E per continuare a imporre la sua ultra-inflazionata valuta come valuta internazionale di riserva e pagamenti soprattutto delle materie prime, con cui comperare tutto, nel mondo, continuando a stampare carta. Ha necessità di essere fabbrica di guerre, tiranni e terrori. La sua fisiologia richiede una continua domanda di armamenti, quindi continue guerre, tensioni, conflitti nel mondo. I suoi governi assicurano e producono queste condizioni. Nel corso della sua storia, l’arsenale della democrazia è quasi sempre stato impegnato in qualche guerra. Il Papa non parla mai di questa causa di guerre e violenza. È una necessità oggettiva, che non ha implicazioni morali. Nessuno va condannato. Finché resterà l’arsenale della democrazia, avremo guerre senza fine. Dopo, chissà.(Marco Della Luna, “Arsenale della democrazia e fabbrica delle guerre”, dal blog di Della Luna del 23 settembre 2014).Ormai comunemente si osserva che l’arsenale della democrazia continua a intervenire con le sue guerre, coinvolgendo i suoi alleati subalterni, per buttare giù soggetti politici che esso stesso aveva messo su, armandoli e finanziandoli. Pensiamo ai Talebani, a Saddam Hussein, a Osama Bin Laden, ai miliziani dell’Isis. Queste odierne operazioni in due fasi, costruzione e demolizione, sono la continuazione di ciò che l’arsenale della democrazia aveva fatto col nazismo, sostenendolo finanziariamente persino in tempo di guerra attraverso partecipazioni societarie, e combattendolo nella seconda fase con grande dispendio di mezzi, in larga parte addebitati agli alleati. È stato infatti grazie all’indebitamento abissale degli alleati e poi delle potenze sconfitte nella Seconda Guerra Mondiale, che l’arsenale della democrazia ha assunto l’egemonia di gran parte del pianeta, facendosi suo fornitore di credito e, con Bretton Woods, di moneta di riserva.