Archivio del Tag ‘sequestri’
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Giannuli: contro l’Isis, in televisione un catalogo di fesserie
Dal paragone (delirante) con le Br e il terrorismo interno degli anni di piombo alle proposte surreali per garantire la sicurezza degli italiani: da Aldo Giannuli, un catalogo delle più incredibili stupidaggini ascoltate in televisione. In questi giorni mi è capitato di partecipare a varie trasmissioni televisive sul tema Isis (ed altre ne ho viste senza parteciparvi) e, pertanto, mi è capitato di sentirne di tutti i colori, da parte di autorevoli esponenti istituzionali e pretesi esperti che hanno dato fondo a tutte le loro risorse intellettuali per fornirci un bestiario di rara ricchezza. Sarebbe un peccato disperdere tali perle di saggezza, per cui ho curato questo primo breve catalogo. I nomi degli autori li lascio perdere per una forma di caritatevole amnesia, metto fra parentesi solo data e rete in cui fu pronunciato il memorabile detto (se poi qualcuno si riconoscesse, mi dia pure querela e non avrò difficoltà a dire a chi mi riferisco in queste righe). Si badi che questo florilegio è stato composto sulla base di sole 3 trasmissioni.1 – L’isis è come le Brigate Rosse e i nostri servizi hanno una grande esperienza in materia (Rai, 23 marzo). Le Brigate Rosse furono un episodio di terrorismo interno, la cui consistenza non superò mai il migliaio di persone nello stesso tempo, quasi esclusivamente di nazionalità italiana; causarono circa un centinaio di morti, non ricorsero mai ad attentati con esplosivo e non fecero mai stragi indiscriminate; non hanno mai fatto attentati suicidi, non ebbero mai un territorio su cui esercitare una sovranità di fatto; ebbero una limitatissima conoscenza dei meccanismi della guerra psicologica; si finanziarono essenzialmente con rapine e sequestri di persona, non fecero mai operazioni finanziarie ed ebbero un bilancio complessivo probabilmente inferiore ai 2 miliardi di lire del tempo, equivalenti a meno di 20 milioni di dollari attuali; ebbero una caratterizzazione ideologica marxista.L’Isis è una organizzazione che ha compiuto attentati e, dunque, ha una rete organizzata in non meno di 13 paesi, ha circa 60.000 combattenti organizzati nel solo territorio del Califfato e almeno altri 20.000 considerando Nigeria, Libia, rete europea ecc; da circa 2 anni ha un territorio su cui esercita un potere statale per una superficie superiore a quella di qualche stato europeo, più cento morti li ha fatti in una sola azione a Parigi (13 novembre), agisce essenzialmente tramite stragi indiscriminate spesso con esplosivo usato in azioni suicide; si finanzia con traffici di petrolio e reperti archeologici, oltre che con rapine e sequestri, riscuotono tasse e, soprattutto, fanno speculazioni finanziarie, per un bilancio complessivo superiore ai 500 milioni di dollari; dimostra una grande capacità comunicativa e conoscenza dei meccanismi della guerra psicologica; ha una ideologia islamista. In cosa si somigliano?2 – I terroristi fanno sempre le stesse cose (Rai 23 marzo). Il che è una banalità o è un’affermazione radicalmente sbagliata. Ovviamente esiste una tipologia di comportamento che noi etichettiamo sotto il nome di terrorismo, la cui essenza è che c’è un soggetto non sovrano, che quindi non ha un territorio e, pertanto non dispone, normalmente, di armi pesanti, che sfida un soggetto sovrano, opponendo l’arma della clandestinità allo strapotere militare dell’avversario. In questo, dai terroristi macedoni dei primi del Novecento alle Br, dall’Ira ad Al-Qaeda. Ma, detto questo, poi il terrorismo (ma sarebbe meglio dire la guerra irregolare) è il regno della fantasia dove le forme di lotta sono le più disparate e variamente combinate. In particolare l’Isis presenta caratteri di assoluta originalità come il suo carattere “anfibio” (di cui dico meglio nel libro) fra semi stato sovrano e organismo occulto. Appiattire tutto sul dejavu è l’esatto contrario di quanto l’analista dovrebbe fare, e preclude la comprensione del nemico che occorre battere. Solo un dilettante può fare una affermazione del genere.3 – L’Isis è come la Germania nazista (Canale 5, 22 marzo). Anche qui la foga spinge a dire sciocchezze. Qui non si tratta di stabilire la gerarchia di chi è più cattivo, ma capire le caratteristiche proprie del soggetto che si vuol combattere. Le differenze ideologiche, politiche, organizzative, di status, ecc, fra Isis e Germania nazista sono tali che non è neppure il caso di elencarle, anche se entrambe hanno caratteri che possiamo sommariamente definire “totalitarie”. Il punto è che il messaggio sottinteso di questa pseudo-analogia è che occorre non ripetere gli errori fatti con la Germania nazista, ad esempio con l’accordo di Monaco del 1938 e quindi sollecitare l’intervento di terra contro l’Isis. Che il Califfato vada tolto di mezzo è fuori discussione, e che questo passi per uno scontro anche di terra è anche evidente, ma questo non significa che tocchi ad europei ed americani farlo. La situazione politico-militare è ben più complessa e richiede una manovra molto articolata.4 – L’Isis è diversa dalle Br perché quelle, pur se in modo bizzarro, avevano una loro razionalità, mentre nel caso dell’Isis prevalgono forti elementi di irrazionalismo (Rai, 23 marzo). Qui almeno ci si accorge che Br ed Isis sono cose diverse, ma solo per ripescare uno dei luoghi comuni più triti ed inservibili: il terrorista come pazzo e, perciò stesso, imprevedibile ed incomprensibile. Mettiamoci in testa che i capi dell’Isis non sono affatto irrazionali, anzi sono estremamente razionali, anche se feroci. La ragione non preserva dalla ferocia. Il guaio è che questo pregiudizio ci impedisce di capire la logica con cui Daesh si muove.5 – E’ giusto far presidiare stazioni ed aeroporti in forze ed in divisa perché la gente deve sentirsi rassicurata (Rai, 23 marzo). Qui uno sprazzo di verità. Mi spiego meglio: presidiare in divisa e con mitra in bella mostra non solo ridice l’efficacia della tutela (perché il terrorista lo vede che il posto è presidiato e studia come agire o scansare quell’obiettivo) ma, indirettamente, indica al terrorista gli obiettivi non protetti. Una legge di comportamento dice che il terrorista colpisce l’obiettivo che gli hai lasciato e, siccome è impossibile tutelare tutto, questo induce ad un attentato in zona non protetta. Al contrario, la forma anonima della protezione metterebbe il terrorista nella condizione di non sarebbe né se un posto e protetto né con quali forze e dispositivi. Ma, questo è il punto, all’autorità politica non interessa tanto che i cittadini siano effettivamente tutelati ma che pensino di esserlo. Certamente questo è molto più redditizio elettoralmente. Congratulazioni.6 – E’ corretto chiudere i siti jhiadisti per evitare che l’Isis possa fare reclutamento (Canale 5, 22 marzo, Rai, 22 marzo e 24 marzo). In verità la censura in qualsiasi forma e verso una propaganda comunque esercitata ha sempre avuto effetti minimi sul reclutamento dei gruppi terroristi; se fosse così facile ostacolare il reclutamento, non si capirebbe perché i terrorismi spesso riescono a durare anche un decennio. Al contrario, tenere aperti i siti servirebbe a ricavare informazioni sui contenuti, sulla cultura politica, sulle eventuali divisioni, sui flussi informativi, ecc, e consentirebbe anche un’azione di contrasto sullo stesso terreno. Morale: nell’ultimo anno, gruppi in genere siglati come “Anonimous” hanno identificato ed oscurato circa 5.000 siti jhiadisti. Oggi i siti ci sono e più numerosi di prima: che sia una fatica inutile?!7 – I siti jhiadisti vanno resi accessibili solo agli studiosi ed alle forze di polizia (Rai 22 marzo). Questa è la trovata più geniale: oscuriamo i siti per tutti, ma lasciamoli accessibili solo a “polizia e studiosi” che così possono studiarne i contenuti. Bellissimo! Solo che, al di là dei problemi tecnici, gli jihadisti si accorgerebbero in un attimo che il loro sito non è raggiungibile, per cui, a meno di pensare che lavorino volontariamente per polizia e “studiosi”, non si capisce perché dovrebbero continuare a scriverci su. Vorrei chiedere al fine intellettuale che ha fatto la proposta: “Ma fai spesso di queste pensate?”. Nella mia città di origine si dice: “La testa non serve a divider le orecchie”. Questa è la raccolta di sole tre trasmissioni, fatevi un po’ i conti. Vi pare realistico battere l’Isis con questi “esperti” e questi politici?(Aldo Giannuli, “Isis, catalogo delle fesserie in libertà”, dal blog di Giannuli del 24 marzo 2016).Dal paragone (delirante) con le Br e il terrorismo interno degli anni di piombo alle proposte surreali per garantire la sicurezza degli italiani: da Aldo Giannuli, un catalogo delle più incredibili stupidaggini ascoltate in televisione. In questi giorni mi è capitato di partecipare a varie trasmissioni televisive sul tema Isis (ed altre ne ho viste senza parteciparvi) e, pertanto, mi è capitato di sentirne di tutti i colori, da parte di autorevoli esponenti istituzionali e pretesi esperti che hanno dato fondo a tutte le loro risorse intellettuali per fornirci un bestiario di rara ricchezza. Sarebbe un peccato disperdere tali perle di saggezza, per cui ho curato questo primo breve catalogo. I nomi degli autori li lascio perdere per una forma di caritatevole amnesia, metto fra parentesi solo data e rete in cui fu pronunciato il memorabile detto (se poi qualcuno si riconoscesse, mi dia pure querela e non avrò difficoltà a dire a chi mi riferisco in queste righe). Si badi che questo florilegio è stato composto sulla base di sole 3 trasmissioni.
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Regeni, 007 ucciso dagli inglesi in vista della guerra in Libia
Giulio Regeni non era solo un talento, un ragazzo prodigio, ma anche uno 007 di primo livello reclutato dall’Aise, l’intelligence italiana all’estero, che utilizzava l’ateneo di Cambridge come copertura, dando cioè l’illusione di lavorare per Londra. Missione: tenere sotto pressione il regime di Al-Sisi, sul mancato rispetto dei diritti umani, raccogliendo prove. Vero obiettivo: aiutare l’Italia a “convincere” l’Egitto – anche in cambio del silenzio su quel dossier – a dare pieno appoggio a Roma nella imminente missione di guerra in Libia. Opzione temutissima soprattutto da Londra, preoccupata dalle ottime relazioni italiane con il Cairo. Da qui la contromossa dell’intelligence britannica, l’Mi6, che avrebbe infiltrato il Mukhabarat, il servizio segreto egiziano, ordinando a una sua cellula di sequestrare il giovane, torturarlo e ucciderlo, per poi farlo ritrovare orribilmente martoriato. Conseguenza evidente: una crisi diplomatica tra Roma e l’ignaro governo di Al-Sisi, altra vittima del complotto inglese, insieme all’Italia e soprattutto al povero Regeni, intrappolato in una sanguinosa spy-story.La vicenda avrebbe anche potuto avere un finale diverso: la liberazione del ragazzo, se i colleghi 007 italiani avessero a loro volta sequestrato un agente inglese, per poi organizzare lo scambio di prigionieri, come ai tempi della guerra fredda. E’ la testi esposta nei giorni scorsi da un grande giornalista come Marco Gregoretti, già inviato di “Panorama”, vincitore del Premio Saint-Vincent per i suoi servizi sulle violenze (stupri, torture) commesse nelle missioni di pace in Somalia, dove furono assassinati Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Tralasciando le ovvie smentite dei familiari di Regeni, Gregoretti si sofferma sull’anomalia assoluta della smentita ufficiale fornita dall’Aise (normalmente, i servizi segreti non “esternano”, men che meno con comunicati stampa). Soprattutto, il giornalista sottolinea il silenzio delle principali istituzioni: nessuna smentita, sul ruolo di Regeni in Egitto, né da Palazzo Chigi né dalla Farnesina, a conferma del basso profilo che sta tenendo il governo Renzi, «saggiamente orientato alla prudenza», di fronte all’inaudita gravità del complotto inglese.Dopo svariati articoli pubblicati sul suo blog, ripresi anche dal “Giornale” (non senza conseguenze: il reporter racconta di aver ricevito «esplicite minacce»), Gregoretti ha riassunto la sua posizione in un’intervista a Stefania Nicoletti per “Border Nights”, trasmissione web-radio. Premessa obbligatoria: si tratta di analisi, considerazioni e deduzioni, data l’impossibilità di esibire riscontri e rivelare fonti riservate, cui il giornalista ha evidentemente accesso. Punto di partenza, a livello geopolitico: l’insofferenza di Londra per il rapporto privilegiato tra l’Italia e Al-Sisi, come in Libia ai tempi di Gheddafi. «L’ombra efficiente del Mi6, la gloriosa intelligence britannica, si allunga sempre più sulla morte dell’agente dell’Aise, (il servizio segreto italiano che si occupa di estero) Giulio Regeni». Gregoretti cita una delle sue fonti, secondo cui «gli inglesi, in Egitto, hanno giocato sporco come in Libia, soltanto che là c’erano anche i francesi». A Londra «non vogliono che si mantenga il canale aperto tra il nostro governo e Al-Sisi, soprattutto in vista della guerra in Libia».Quel che è successo al Cairo, scrive Gregoretti, ha il ritmo e la suspense di un giallo di John Le Carré. «Regeni era un operativo della nostra intelligence, ma non nel senso degli interventi armati o di azione fisica, la sua operatività era di tipo informativo». Per la fonte di Gregoretti, il giovane friulano barbaramente assassinato in Egitto era «molto intelligente, serio e a modo». Ma, «contrariamente a quanto si potrebbe evincere dalle fotografie con il gattino, anche preparato fisicamente». Per questo avrebbe reagito alla cattura, «lottando in maniera determinata», prima di essere «sopraffatto numericamente». Che c’entra l’Mi6? «Tutto, o quasi», scrive Gregoretti. «Le università britanniche sono terreno fertile dei servizi segreti inglesi: sono una delle coperture maggiormente praticate. E a quella di Cambrige, una delle più prestigiose, era collegato Regeni. Ed è proprio da lì che il suo contatto, la professoressa Maha Abdelharam, esperta di Medio Oriente, interrogata in questi giorni dal pm Sergio Colaiocco (che ha sentito anche il professor Gennaro Gervasio, l’uomo che la sera del 25 gennaio diede l’allarme della scomparsa di Regeni), gli chiese di approfondire le informazioni sui sindacati e sui Fratelli Musulmani». Il giovane aveva anche ricevuto una precisa scaletta di notizie che doveva trasmettere all’ateneo inglese: un documento molto importante, che in questo momento dovrebbe essere nelle mani dei carabinieri del Ros.Insomma, l’ Mi6 avrebbe usato l’università di Cambrige con una doppia finalità: avere il materiale e sapere che cosa era a conoscenza dei servizi italiani: «Regeni, pensando di avvalorare la copertura, infatti, mandava una copia a Cambrige (senza sapere che in realtà era una trappola inglese) e una all’Aise». Per liquidarlo, gli agenti britannici avrebbero utilizzato una sezione del Mukhabarat, che è un servizio segreto diviso in tre tronconi che non comunicano tra loro. In più, secondo la fonte di Gregoretti, «In Egitto ci sono alcuni generali che si oppongono ad Al-Sisi». Sicché, per l’intelligence britannica, «geniale in questo tipo di operazione», il gioco è stato facile: «In un paese dove il livello di corruzione è piuttosto alto, l’Mi6 non ha avuto problemi a mettere al proprio soldo un paio di agenti del Mukhabarat e a fargli fare il lavoro sporco». Dunque, concluce Gregoretti, il presidente egiziano davvero non sapeva nulla. «Tant’è che il cadavere è stato ritrovato dopo il suo intervento. Ma il contesto era perfetto per creare un problema serio tra l’Egitto e l’Italia: c’era la visita del ministro dello sviluppo economico Federica Guidi, si stavano prendendo importanti accordi economici e, soprattutto, militari in vista della guerra».L’Mi6 teneva d’occhio Regeni da tempo, continua Gregoretti. E sapeva benissimo che era un agente segreto italiano. «D’altronde, Regeni stesso ne diede indirettamente conferma quando, l’11 dicembre, partecipando a una assemblea sindacale, disse di essersi accorto che qualcuno lo stava fotografando. Erano i giorni in cui da Cambrige gli avevano chiesto gli approfondimenti di ricerca». Quindi, ricapitolando, Regeni è stato prelevato da due persone del Mukhabarat che lo hanno torturato per avere informazioni su quanto ancora non aveva relazionato della sua ricerca (sul sindacato degli autotrasportatori, per esempio) e poi l’hanno ucciso e mutilato facendo ritrovare il cadavere il 3 febbraio, con lo scopo di creare un incidente tra il nostro paese e l’Egitto di Al-Sisi. E l’Aise? Risponde l’informatore: «L’Aise gioca, questi no: questi uccidono. Il problema è che ognuno di noi all’estero, con i servizi segreti che abbiamo, è un Regeni in pericolo». Che fare, allora? Secondo la fonte, bisognava «catturare il primo loro spione in Italia, tanto si conosce l’elenco, e far capire che non era aria. Secondo me – aggiunge il funzionario – inglesi o non inglesi, ci avrebbero restituito Regeni in un batter d’occhio. Queste sono operazioni che si sono sempre fatte sul campo. Ma oggi, sul campo chi c’è?».Giulio Regeni non era solo un talento, un ragazzo prodigio, ma anche uno 007 di primo livello reclutato dall’Aise, l’intelligence italiana all’estero, che utilizzava l’ateneo di Cambridge come copertura, dando cioè l’illusione di lavorare per Londra. Missione: tenere sotto pressione il regime di Al-Sisi, sul mancato rispetto dei diritti umani, raccogliendo prove. Vero obiettivo: aiutare l’Italia a “convincere” l’Egitto – anche in cambio del silenzio su quel dossier – a dare pieno appoggio a Roma nella imminente missione di guerra in Libia. Opzione temutissima soprattutto da Londra, preoccupata dalle ottime relazioni italiane con il Cairo. Da qui la contromossa dell’intelligence britannica, l’Mi6, che avrebbe infiltrato il Mukhabarat, il servizio segreto egiziano, ordinando a una sua cellula di sequestrare il giovane, torturarlo e ucciderlo, per poi farlo ritrovare orribilmente martoriato. Conseguenza evidente: una crisi diplomatica tra Roma e l’ignaro governo di Al-Sisi, altra vittima del complotto inglese, insieme all’Italia e soprattutto al povero Regeni, intrappolato in una sanguinosa spy-story.
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Armi e droga all’Isis, dai boss mafiosi al governo in Bulgaria
All’Isis sono finite armi di fabbricazione sovietica, per farle sembrare provenienti dalla dotazione storica dell’esercito siriano. Il fornitore occulto? La Bulgaria, paese Nato e membro dell’Ue. O meglio: la dirigenza bulgara guidata da un personaggio che è considerato un gangster. Boyko Borisov, già campione di karate, poi ministro, quindi premier. «Legato ai cartelli della droga». Per Jürgen Roth, specialista tedesco di criminalità organizzata, Borisov è «l’Al Capone bulgaro». Armi e droga, carichi proibiti e finiti prima ai jihadisti in Libia e poi all’Isis in Siria, su ordine della Cia. Una vicenda inquietante, ricostruita da Thierry Meyssan su “Rete Voltaire”, newsmagazine di geopolitica. All’origine del business, una sostanza dopante: la fenetillina, utilizzata negli ambienti sportivi e poi opportunamente tagliata con hashish. «Dei trafficanti bulgari videro in ciò un’opportunità. Dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica sino all’ingresso nell’Unione Europea, cominciarono a produrla e a esportarla illegalmente in Germania con il nome di Captagon». E qui, secondo Meyssan, entra in gioco Borisov.«Due gruppi mafiosi si fecero una forte concorrenza, Vasil Iliev Security (Vis) e Security Insurance Company (Sic), da cui dipendeva il karateka Boyko Borisov». Questo sportivo di alto livello, professore all’Accademia di polizia, creò una società di protezione delle persone altolocate. Borisov, scrive Meyssan, divenne la guardia del corpo di entrambi gli ex presidenti, sia il filosovietico Todor Zhivkov sia il filo-Usa Simeone II di Saxe-Cobourg-Gotha. Quando questi divenne primo ministro, Borisov fu nominato direttore centrale del ministero degli interni, e poi venne eletto sindaco di Sofia. Nel 2006, l’ambasciatore degli Stati Uniti in Bulgaria (e futuro ambasciatore in Russia) John Beyrle, ne fa un ritratto in un dispaccio confidenziale rivelato da Wikileaks: «Lo presenta come legato a due grandi boss mafiosi, Mladen Mihalev (detto “Madzho”) e Rumen Nikolov (detto “Il Pascià”), i fondatori della Sic». Nel 2007, “Us Congressional Quarterly” cita una compagnia svizzera, secondo la quale Borisov avrebbe «insabbiato parecchie indagini presso il ministero degli interni», trovandosi «lui stesso coinvolto in 28 delitti di mafia».Borisov, continua Meyssan, sarebbe diventato uno stretto collaboratore di John McLaughlin, il vicedirettore della Cia. «Avrebbe installato in Bulgaria una prigione segreta dell’Agenzia e avrebbe contribuito a fornire una base militare nel quadro del progetto d’attacco contro l’Iran». Divenuto lui stesso primo ministro, mentre il suo paese era già membro della Nato e dell’Ue, venne sollecitato dalla Cia affinché desse un aiuto nella guerra segreta contro Muhammar Gheddafi. «Boyko Borisov fornì il Captagon prodotto dalla Sic ai jihadisti di Al-Qaeda in Libia», scrive Meyssan. «La Cia rese questa droga sintetica più attraente e più efficiente mescolandola con una droga naturale, l’hashish, consentendo così di manipolare più facilmente i combattenti e di renderli più terrificanti». In seguito, «Borisov ha esteso il suo mercato alla Siria». Ma la cosa più importante, sempre secondo Meyssan, si è avuta «quando la Cia, utilizzando le peculiarità di un ex Stato membro del Patto di Varsavia che aveva aderito alla Nato, acquistò da esso armamenti di tipo sovietico per un valore di 500 milioni di dollari e li trasportò in Siria».Si trattava principalmente di 18.800 lanciagranate anticarro portatili e di 700 sistemi di missili anti-carro Konkurs, precisa Meyssan. Armi perfette, per sembrare “siriane”, cioè sottratte dai “ribelli” all’esercito regolare di Damasco. Non manca un giallo: la struttura segreta colpì immediatamente la milizia sciita libanese di Hezbollah, scesa in campo per difendere Assad, non appena cercò di far luce sullo strano traffico di armi. «Quando Hezbollah inviò una squadra in Bulgaria per informarsi su questo traffico, un bus di turisti israeliani fu oggetto di un attentato a Burgas, che causò 32 feriti. Immediatamente – scrive Meyssan – Benjamin Netanyahu e Boyko Borisov accusarono la resistenza libanese, mentre i media atlantisti diffusero numerose accuse contro il presunto attentatore suicida di Hezbollah. In ultima analisi, il medico legale, la dottoressa Galina Mileva, si accorse che la sua salma non corrispondeva alle descrizioni dei testimoni; un responsabile del controspionaggio, il colonnello Lubomir Dimitrov, notò che non si trattava di un attentatore suicida, ma di un semplice corriere, e che la bomba era stata attivata a distanza, probabilmente a sua insaputa; mentre la stampa accusava due arabi che avevano cittadinanza canadese e australiana, la “Sofia News Agency” citò un complice statunitense conosciuto con lo pseudonimo di David Jefferson».Così, quando l’Unione Europea «approfittò del caso per classificare Hezbollah come “organizzazione terroristica”», il ministro degli esteri in carica durante il breve periodo in cui Borisov è stato escluso dal potere esecutivo, Kristian Vigenine, ha sottolineato che, in realtà, non ci sono prove per collegare l’attacco alla resistenza libanese. Poi, a partire dalla fine del 2014, la Cia cessò di dare ordini alla Bulgaria e la sostituì con l’Arabia Saudita. L’Isis ha quindi smesso di ottenere armi di tipo sovietico, ricevendo direttamente materiale della Nato, come i missili anticarro Tow. «Ben presto, Riad fu sostenuta dagli Emirati Arabi Uniti». I due Stati del Golfo, continua Meyssan, assicurarono essi stessi la consegna degli armamenti ad Al-Qaeda e a Daesh tramite la “Saudi Arabian Cargo” e la “Etihad Cargo”, presso Tabuk lungo la frontiera saudita-giordana e anche presso la base comune degli Emirati, della Francia e degli Usa che si trova a Dhafra. Ultimo colpo della Cia, nel giugno 2014: proibire alla Bulgaria di autorizzare il transito del gasdotto russo South Stream, nel quandro delle sanzioni contro Mosca dopo la crisi in Ucraina. Un danno per le casse bulgare, un freno all’Ue. Ma anche un pretesto per sviluppare il gas di scisto in Europa orientale e «mantenere l’interesse a rovesciare la Repubblica araba siriana, possibile grande esportatore di gas».All’Isis sono finite armi di fabbricazione sovietica, per farle sembrare provenienti dalla dotazione storica dell’esercito siriano. Il fornitore occulto? La Bulgaria, paese Nato e membro dell’Ue. O meglio: la dirigenza bulgara guidata da un personaggio che è considerato un gangster. Boyko Borisov, già campione di karate, poi ministro, quindi premier. «Legato ai cartelli della droga». Per Jürgen Roth, specialista tedesco di criminalità organizzata, Borisov è «l’Al Capone bulgaro». Armi e droga, carichi proibiti e finiti prima ai jihadisti in Libia e poi all’Isis in Siria, su ordine della Cia. Una vicenda inquietante, ricostruita da Thierry Meyssan su “Rete Voltaire”, newsmagazine di geopolitica. All’origine del business, una sostanza dopante: la fenetillina, utilizzata negli ambienti sportivi e poi opportunamente tagliata con hashish. «Dei trafficanti bulgari videro in ciò un’opportunità. Dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica sino all’ingresso nell’Unione Europea, cominciarono a produrla e a esportarla illegalmente in Germania con il nome di Captagon». E qui, secondo Meyssan, entra in gioco Borisov.
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L’orgia cannibale è realtà, Pasolini non doveva svelarla
Tu chiamalo, se vuoi, movente esoterico. Nasce dalla chiave di lettura “simbolica” dell’evento, quella che fa caso a dettagli in apparenza insignificanti, senza valore per la verità giudiziaria. In base a questa analisi, Pasolini sarebbe stato assassinato con le modalità del sacrificio rituale, in base alla “pena del contrappasso” enunciata da Dante Alighieri, per due ragioni sostanziali. La prima: aveva denunciato la subdola ferocia del potere mettendo alla berlina col romanzo “Petrolio” i mandanti dell’omicidio Mattei. E soprattutto, attraverso le atroci sequenze del suo ultimo film, “Salò”, ispirato al romanzo del marchese De Sade “Le 120 giornate di Sodoma”, aveva osato mettere in scena l’abominio di perversioni sessuali violente, fino alla morte delle giovani vittime, perpetrato da una super-casta annidata tra i massimi vertici. Non un incubo o una fantasia terribile, ma l’agghiacciante rappresentazione di una realtà indicibile, sostiene Stefania Nicoletti. Per questo Pasolini è stato ucciso, e in quel modo: con “Salò”, film strettamente collegato all’omicidio (le pellicole rubate), aveva denunciato una pratica selvaggia, di spaventosa brutalità, tragicamente ordinaria in alcuni ambienti insospettabili.Stefania Nicoletti collabora da anni con l’avvocato Paolo Franceschetti, già legale delle “Bestie di Satana” e indagatore dei più controversi casi di cronaca, da Cogne al Mostro di Firenze. La tesi è suffragata da osservazioni inconsuete: molti delitti di cui parlano i media sono fatti di sangue solo in apparenza inspiegabili; in realtà si tratta di veri e propri “sacrifici umani”, compiuti da esoteristi che agiscono al riparo di potentissime protezioni, anche istituzionali. Quello che viene esibito – le indagini inconcludenti, il capro espiatorio socialmente fragile – non è che un copione per depistare l’opinione pubblica. La verità, ripete Franceschetti, è che ogni anno, in Italia, spariscono centinaia di minori. «Dove finiscono? Molti loro nel gorgo del traffico di organi, e altrettanti – appunto – nella potentissima rete dei pedofili: gente che arriva a pagare cifre folli per gli “snuff movie”, i film dove la giovane vittima viene violentata e seviziata fino alla sua morte», come appunto nel film di Pasolini. Ed ecco allora l’altro movente, quello occulto, che si salda con la volontà di eliminare e “punire” una voce troppo coraggiosa, lo scrittore che in “Petrolio” (uscito postumo) accusò Eugenio Cefis per la morte di Mattei, il “padre” dell’Eni temutissimo alle Sette Sorelle in quanto filo-arabo.«Spesso il movente del delitto di un personaggio scomodo non è uno solo, ma sono più moventi insieme, che non si escludono a vicenda ma anzi sono complementari, come sono complementari gli interessi e le entità che vogliono la morte di un determinato personaggio inviso al sistema», scrive Stefania Nicoletti sul blog di Franceschetti. E’ il caso, appunto, di Pasolini, sul quale si è scritto di tutto, anche di recente. Nel 2009, ad esempio, è uscito per “Chiarelettere” il libro “Profondo nero” di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, che porta avanti la tesi Eni-Cefis-Mattei e che contiene anche un’intervista a Pino Pelosi, il “ragazzo di vita” che era con Pasolini quella tragica sera, il 2 novembre 1975, all’Idroscalo di Ostia (alla pista-Eni ha dato risalto, tra gli altri, anche il blog di Beppe Grillo). Nell’agosto 2012, continua la Nicoletti, è arrivata la sentenza della Corte d’assise di Palermo sulla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, ucciso nel 1970 perché stava indagando sulla morte di Mattei. Una sentenza, dunque, dopo 40 anni. De Mauro? Ucciso per paura che rivelasse i mandanti del sabotaggio dell’aereo di Mattei, precipitato a Bascapè sulle colline dell’Oltrepo Pavese.«La causa scatenante della decisione di procedere senza indugio al sequestro e all’uccisione di Mauro De Mauro – scrivono i giudici – fu costituita dal pericolo incombente che egli stesse per divulgare quanto aveva scoperto sulla natura dolosa delle cause dell’incidente aereo di Bascapè, violando un segreto fino ad allora rimasto impenetrabile e così mettendo a repentaglio l’impunità degli influenti personaggi che avevano ordito il complotto ai danni di Enrico Mattei, oltre a innescare una serie di effetti a catena di devastante impatto sugli equilibri politici e sull’immagine stessa delle istituzioni». Mauro De Mauro, aggiunge la Nicoletti, stava collaborando con il regista Francesco Rosi per il film “Il caso Mattei” e scomparve nel nulla poco prima dell’incontro previsto con Rosi. Cinque anni più tardi, Pier Paolo Pasolini stava indagando sulla stessa pista e aveva scoperto le stesse cose, venendo in possesso di documenti riservati su Eugenio Cefis. E fece la stessa fine di De Mauro.Nel dicembre 2013, poi, escono articoli di giornale che parlano di “svolta” nell’inchiesta per il delitto Pasolini. Dopo 38 anni, scrive Nicoletti, gli inquirenti si accorgono che forse c’è qualcosa che non va nella versione ufficiale e riaprono le indagini. La notizia è che ci sono dei sospetti sui complici di Pino Pelosi: nuovi elementi confermerebbero che a partecipare all’omicidio sarebbero state più persone. «Sono stati ascoltati 120 testimoni, di cui molti non erano mai stati sentiti in precedenza». In articoli come quelli pubblicati dal quotidiano “Il Tempo”, sottolinea la Nicoletti, viene rimarcato più volte che i testimoni sono proprio 120: numero ripetuto per ben tre volte nelle prime righe. «Quando lessi l’articolo, questo particolare mi suonò strano, perché avrebbero anche potuto scrivere “un centinaio” oppure “oltre cento testimoni”. Quel 120 così preciso – scrive la Nicoletti – mi ha ricordato il titolo “Salò o le 120 giornate di Sodoma”», il film “maledetto” che Pasolini aveva ultimato pochi giorni prima di essere ucciso. «È probabile che in questo articolo e nell’intera operazione sia celato qualche messaggio, dato che è proprio nel film in questione che si può trovare uno dei moventi dell’omicidio». In “Salò”, aggiunge Nicoletti, «Pasolini aveva raccontato ciò che accade all’interno delle organizzazioni che detengono il potere».Nello stesso articolo del “Tempo” si parla di «reperti esaminati in passato e ora recuperati dagli investigatori, per avviare nuove analisi utilizzando tecniche scientifiche che precedentemente non esistevano». Di quali reperti si tratta? «Risulta che all’epoca dei fatti venne cancellato o manomesso tutto ciò che poteva essere utile alle indagini: non venne recintato il luogo del delitto, le prove e le tracce vennero cancellate, l’auto di Pasolini venne lasciata incustodita, in modo che chiunque avrebbero potuto mettere o togliere indizi». Dunque, conclude l’analista, «non si capisce quali “reperti” siano ancora validi e possano essere analizzati scientificamente». Un anno dopo, nel dicembre 2014, si parla ancora di “svolta” nelle indagini: le analisi del Dna sugli abiti di Pasolini rilevano tracce di altre 5 persone. Dalle macchie di sangue è stato estratto il codice genetico di altri possibili sospettati, complici quindi di Pelosi. Ma due mesi dopo, nel febbraio 2015, arriva subito un’altra notizia: il test del Dna non risolve il caso, perché il materiale biologico “non è attribuibile”, né collocabile temporalmente.«I magistrati hanno consegnato al gip la richiesta di archiviazione. E dunque l’inchiesta sul delitto Pasolini, riaperta nel 2010, dopo tutti questi annunci di presunte “svolte”, viene di nuovo archiviata». Ma nel 2014, quando l’inchiesta è ancora aperta, Pino Pelosi continua a fare dichiarazioni e viene convocato dalla Procura di Roma per essere interrogato di nuovo. Queste sono alcune delle sue affermazioni: «Quella notte all’Idroscalo c’erano tre automobili, una motocicletta e almeno sei persone, ma non sono in grado di dire chi fossero. Oltre all’Alfa Gt di Pasolini, c’era una Fiat 1300 e un’altra Alfa identica a quella di Pier Paolo. Era buio pesto e ho visto arrivare sul posto due automobili e una motocicletta. C’erano almeno sei persone, e due individui hanno trascinato Pier Paolo fuori dall’abitacolo. In un primo momento sono riuscito ad allontanarmi, fuggendo. Da dove mi trovavo sentivo Pier Paolo gridare e chiedere aiuto, ma nulla di più. Sotto al tappetino dell’automobile di Pier Paolo, c’erano 3 o 4 milioni di lire. Denaro che non venne ritrovato insieme alla vettura». In più, «l’esame del radiale dell’Alfa di Pasolini, che avrebbe dovuto investirlo e schiacciarlo quando era già a terra, uccidendolo, non è stato mai effettuato».Il pm Francesco Minisci gli domanda di chiarire alcuni aspetti relativi al possesso – all’epoca dei fatti – di una Fiat 850 Coupé. Automobile che, a detta di un testimone, sarebbe stata rubata e poi fatta circolare con targhe “buone”. E Pelosi risponde: «Dovrebbero andare a bussare alla porta della cugina di Pasolini, Graziella Chiarcossi, che denunciò il furto della macchina del regista, poi ritrovata a Fiumicino, e a quella di Ninetto Davoli che, a distanza di anni dai tragici eventi, fece distruggere l’Alfa Gt del regista». In effetti l’auto di Pasolini è stata demolita da Davoli nel 1987, come risulta anche alla motorizzazione di Roma. «Queste di Pelosi sono dichiarazioni importanti, che andrebbero quantomeno approfondite», annota Nicoletti. «Ma l’inchiesta, come abbiamo già visto, è stata archiviata». Intanto, nel settembre 2014, esce il tanto atteso film “Pasolini” di Abel Ferrara, pubblicizzato come “film verità” sull’ultimo giorno di vita e sull’omicidio, con promesse di rivelazioni clamorose. Il regista americano dichiara alla stampa di conoscere la verità sul delitto Pasolini e di rivelare il vero autore dell’omicidio, con tanto di nome e cognome. «Promesse assolutamente disattese: infatti nel film non solo non viene fatto il nome del vero assassino, ma viene messa in atto una vera e propria azione di depistaggio».Nelle scene finali viene ricostruita la notte dell’omicidio, continua Nicoletti: «Secondo Abel Ferrara, a uccidere Pasolini non è stato Pelosi – e fin qui va bene – ma un gruppo di sbandati che lo ammazzano perché è ricco e vogliono derubarlo, e perché è omosessuale. Per tutta la sua durata, il film fa credere di voler dare un’ipotesi alternativa sulla dinamica dell’omicidio e sugli esecutori, citando anche brani del romanzo “Petrolio”. Si arriva alla fine del film con tante attese e speranze… E in effetti l’ipotesi alternativa viene data, ma essa è ancora più depistante di quella ufficiale». Esiste invece un altro film, pronto già nel 2012 ma che non è mai riuscito a trovare una distribuzione. Si intitola “Pasolini, la verità nascosta” e il regista è Federico Bruno, che ha ricostruito l’ultimo anno di vita di Pasolini: la stesura del libro “Petrolio” e i capitoli mancanti sull’Eni e sul delitto Mattei, la preparazione del film “Salò” e il furto delle bobine (i negativi), le ultime interviste alla tv francese e a Furio Colombo. «Il film smentisce la tesi ufficiale, portando nuove inedite informazioni. E lo fa davvero, non come quello di Ferrara. Per questo motivo, il film di Federico Bruno è stato boicottato e non distribuito in Italia, rifiutato da tutti, anche dai parenti di Pasolini; mentre invece il film depistante di Abel Ferrara è stato finanziato dallo Stato, appoggiato dagli eredi di Pasolini, e persino presentato in concorso al 71° Festival del Cinema di Venezia».Negli ultimi mesi, continua Stefania Nicoletti, è stato annunciato un altro film, che uscirà a febbraio 2016: “La macchinazione” di David Grieco, amico e collaboratore di Pasolini, e anche autore della memoria civile al processo Pelosi. Il film racconterà gli ultimi tre mesi di vita di Pasolini. «In alcune interviste, Grieco afferma che Pasolini è stato ucciso dall’organizzazione che ha compiuto tutte le stragi italiane (che lo stesso Pasolini aveva denunciato nel suo celebre “Io so” e in altri articoli) e messo in atto la strategia della tensione, servendosi di uomini dei servizi segreti e di Gladio». Lo dichiara apertamente, Grieco, intervistato dal “Piccolo” di Trieste: «Pasolini è stato ammazzato da quelli che hanno fatto tutto quello che è stato fatto dal ’69 in poi in questo paese: le stragi, la strategia della tensione, gli omicidi politici, le bombe sui treni, la stazione di Bologna, piazza della Loggia, eccetera. L’organizzazione era molto vasta e quindi non parlo materialmente delle stesse persone. È un’organizzazione che nasce all’alba della Liberazione, quando gli americani arrivano in Italia, l’esercito tedesco è in rotta e loro già stanno pensando a come fronteggiare il nemico sovietico».«Si crea uno Stay Behind che in Italia si chiama Gladio, organizzazione clandestina ma fino a un certo punto perchè in America è pienamente nota ed è presente in tutti i rapporti della Cia al congresso americano», continua Grieco, che spiega che Gladio «serve a fare qualsiasi cosa purché il comunismo non si espanda e non prenda piede nella parte occidentale o meridionale d’Europa. Qualunque mezzo è lecito». Leggendo queste dichiarazioni, Stefania Nicoletti si domanda: «Come mai David Grieco, amico storico di Pasolini, parla pubblicamente solo adesso? Come mai non l’ha detto prima, anziché aspettare 40 anni? Forse è il segno che “qualcuno” ha deciso che certe verità devono emergere in questo momento storico». Oltre al film che sta realizzando, Grieco ha pubblicato anche un libro: “La macchinazione. Pasolini, la verità sulla morte”, uscito da poche settimane, edito da Rizzoli. Grieco fu tra i primi a raggiungere il luogo in cui fu trovato il corpo senza vita di Pasolini, insieme al medico legale Faustino Durante, anche se «risultava che sul luogo del delitto non fosse mai stato convocato un medico legale». Inoltre, Grieco è stato il compagno di Bruna Durante, figlia del medico legale.Se l’infinita odissea processuale – proprio come quelle delle stragi e dei casi di cronaca “irrisolti” – naufraga in un mare di ombre, sospetti, menzogne e depistaggi, Stefania Nicoletti si concentra sul profilo “simbolico” della vicenda, sempre trascurato. «A mio parere – scrive – nella scelta del luogo e nella modalità dell’omicidio, è stata applicata più volte la legge del contrappasso». L’Idroscalo è un aeroporto (per gli idrovolanti), e Pasolini «aveva scoperto la verità sull’omicidio di Enrico Mattei, morto in un incidente aereo». Un “contrappasso per analogia”? «Anche nella messa in scena del movente sessuale possiamo trovare un contrappasso: l’hanno ammazzato nei luoghi degradati e negli ambienti violenti che aveva sempre descritto nelle sue opere. Le borgate, i ragazzi di vita, l’omosessualità. Da un lato era un ottimo modo per avere una rapida risoluzione del caso e per poi continuare ad infangarne la memoria, dall’altro fu un omicidio per analogia: ti facciamo morire come uno dei tuoi personaggi. Stessi luoghi, stesse persone, stesse modalità».Ancora cinema: alla fine del 2013 è stata annunciata la pubblicazione di una sceneggiatura risalente al 1959 e rimasta finora inedita, “La Nebbiosa”, in cui Pasolini aveva descritto un omicidio uguale al suo. La trama: un gruppo di teppisti sequestra un omosessuale, lo conduce in uno spiazzo deserto e lo picchia a sangue fino alla morte. I giornali parlano di “visione profetica”, scrivendo che Pasolini “sapeva come sarebbe morto” e che “ha anticipato lo scenario” del suo omicidio. «In realtà, non è che sapeva come sarebbe morto, e nemmeno ha anticipato o profetizzato la sua morte», puntualizza Stefania Nicoletti. «Invece è il contrario: l’hanno ucciso come il personaggio di questa sua opera inedita ora pubblicata. E anche qui possiamo quindi trovare la legge del contrappasso». Secondo la Nicoletti, «è la stessa operazione che fecero con Rino Gaetano e la sua canzone “La ballata di Renzo”», in cui il cantante descrisse la morte di un giovane rifiutato da più ospedali e morto dissanguato nella notte, come in effetti poi accadde all’autore di “Nun te reggae più”. «Anche nel caso di Rino Gaetano si disse che aveva profetizzato la sua morte molti anni prima, quando invece fu il contrario: lo uccisero come in quella sua canzone».Sulla storia descritta ne “La Nebbiosa”, il quotidiano “Libero” scrive: «L’alba è vicina e i ragazzi caricano in macchina un omosessuale, lo portano in uno spiazzo isolato, lo spogliano e lo massacrano a sangue. Una scena che sconvolge perché ricorda molto da vicino proprio le modalità con cui Pasolini verrà ucciso nel 1975 al Lido di Ostia. Talmente da vicino che, se stessimo scrivendo un giallo e non un articolo, potremmo ipotizzare che chi ha ucciso Pasolini avesse letto il copione e avesse tutto l’interesse a farlo scomparire. Quasi che “La Nebbiosa” potesse contenere quei segreti sulla morte dello scrittore che nemmeno la magistratura è mai riuscita del tutto a chiarire». Preveggenza, appunto, o piuttosto esecuzione progettata sulla base del copione narrato dalla stessa vittima? Per questo Stefania Nicoletti si concentra su “Salò o le 120 giornate di Sodoma”, l’ultimo film di Pasolini, uscito postumo due mesi dopo la sua morte. Il regista terminò il montaggio proprio il giorno prima di essere ucciso. Film legato a doppio filo all’omicidio: non solo perché si conclude con una strage, ma perché finì direttamente nelle indagini a causa di materiale cinematografico rubato e poi utilizzato per condizionare il regista, forse addirittura per tendergli l’agguato mortale.E’ noto infatti l’episodio delle bobine di “Salò” rubate alla Technicolor: unico caso nella storia del cinema di furto di “pizze” con richiesta di riscatto (due miliardi di lire). Pasolini si rifiutò di pagare: disse al produttore che avrebbe ricavato un negativo da un positivo e che avrebbe fatto a meno degli originali. Poco dopo, continua Stefania Nicoletti, un personaggio oscuro della malavita romana – si dice che fosse un esponente della Banda della Magliana – andò dal regista Sergio Citti e gli disse di essere in possesso delle pellicole e di poterle restituire anche gratis se avesse organizzato un incontro con Pasolini. Fu lo stesso Citti, amico e collaboratore del regista, a raccontare l’episodio nel 2005, dichiarando anche di non essere mai stato chiamato a testimoniare (secondo il regista Federico Bruno, invece, Citti sarebbe stato ascoltato dagli inquirenti). Pasolini dapprima rifiutò l’incontro per la restituzione delle “pizze”, non fidandosi dell’ambiente da cui proveniva la proposta. Ma in un secondo momento accettò, convinto da Pino Pelosi, che conosceva da qualche mese. «Pelosi fece quindi da esca – consapevole o meno – alla trappola tesa per portare Pasolini a Ostia e ucciderlo».Il film “Salò” è ispirato al romanzo del marchese De Sade “Le 120 giornate di Sodoma”, ma Pasolini ne colloca l’ambientazione tra il 1944 e il 1945, nel Nord Italia occupato dai nazifascisti durante la Repubblica Sociale Italiana (da cui il titolo “Salò”). In una villa isolata, si riuniscono quattro rappresentanti del potere: il Duca, il Monsignore, l’Eccellenza (Giudice di Corte d’assise), e il Presidente (di una banca). I quattro Signori fanno rapire decine di ragazzi e ragazze, e nella villa infliggono loro ogni tipo di violenza e tortura psicologica, fisica e sessuale. Con il passare del tempo, i giovani perdono la dignità umana e si abbandonano al loro destino, consegnano il proprio corpo e la propria anima ai Signori. Giunti quasi al termine delle 120 giornate, in cerca di una violenza sempre più intensa, i Signori decidono di passare alla forma più estrema di “piacere”: quello assassino, uccidendo la maggior parte dei ragazzi. «È un film scioccante, crudele, terribile. Ma è più di un film… racconta la realtà. Una realtà che non si riferiva solo al periodo in cui è ambientato – afferma Stefania Nicoletti – ma che esisteva anche negli anni ’70 quando Pasolini ha scritto e girato il film, e che continua ad esistere anche oggi».Una realtà «fatta di abusi atroci, di torture sessuali, di delitti rituali commessi da coloro che detengono il potere, i cosiddetti “insospettabili”, professionisti e persone rispettabili, i vertici del Sistema». Ne parlò anche il blog di Franceschetti nel 2011, riportando «testimonianze di sopravvissuti a un sistema di abusi simili a quelli descritti da Pasolini». Nel film “Salò”, i quattro Signori «rappresentano i rami del potere: nobiliare, ecclesiastico, giudiziario, economico-bancario». Il vero potere. «Nel film i quattro potenti assoldano dei giovani repubblichini di leva e delle SS, e li incaricano di rapire i ragazzi e portarli alla villa. Le milizie nazifasciste rappresentano sia il potere militare (ma a livelli bassi: non sono generali o comunque ufficiali) sia quello politico, che è subordinato agli altri poteri: i quattro Signori si servono dei repubblichini per raggiungere i loro scopi». Il film è suddiviso in quattro parti, che richiamano nel titolo la geografia dantesca dell’Inferno: Antinferno, Girone delle Manie, Girone della Merda e Girone del Sangue. Chi conosce il blog di Franceschetti sa quanto siano importanti Dante e la Divina Commedia per le società segrete, sia quelle originarie (iniziatico-libertarie) che quelle più recenti e deviate: «Pasolini, che conosceva bene il sistema in cui viviamo, in questo film ha descritto proprio le organizzazioni massoniche ed esoteriche “nere” che compiono abusi e delitti rituali; e forse, con il richiamo all’Inferno, ha voluto darci un’ulteriore indicazione sulla natura di ciò che ha raccontato».Un altro particolare che Pasolini ha preso dalla realtà, continua Stefania Nicoletti, è la modalità del rapimento: «I giovani vengono scelti in base a determinate caratteristiche, e vengono strappati dalle proprie famiglie; ma talvolta sono invece i loro stessi familiari che li vendono». Inoltre prendono parte alle sevizie anche le figlie dei quattro super-potenti, trattate come schiave. Significativo anche il fatto che, secondo il regolamento della villa, “i più piccoli atti religiosi, da parte di qualunque soggetto, verranno puniti con la morte”. Nel film come nella realtà, infatti, «all’interno di queste organizzazioni occulte viene osteggiato qualunque tipo di religiosità o di spiritualità autentica, per lasciare spazio invece a quella deviata», scrive la Nicoletti. «Chi “tradisce” il regolamento viene ucciso, come la ragazza a cui nel film viene tagliata la gola davanti a un altare religioso, e il corpo viene mostrato a tutto il gruppo come monito». Molto eloquente il discorso che il Duca pronuncia quando “accoglie” le giovani vittime nella sua villa: «Deboli creature incatenate, destinate al nostro piacere, spero non vi siate illuse di trovare qui la ridicola libertà concessa dal mondo esterno. Siete fuori dai confini di ogni legalità. Nessuno sulla terra sa che voi siete qui. Per tutto quanto riguarda il mondo, voi siete già morti».Una logica che «esprime perfettamente quello che succede davvero all’interno delle organizzazioni di potenti che commettono abusi e delitti come quelli narrati». Nella sua ultima intervista televisiva, concessa a una tv francese il 31 ottobre 1975 (due giorni prima della morte), in occasione dell’uscita del film, Pasolini affermò: «Il cannibalismo? In certi ambienti è un fatto politico reale, in certi ambienti è un fatto politico metaforico». Insomma, a una lettura attenta e profonda, secondo Stefania Nicoletti «si può capire come Pasolini abbia usato l’espediente dell’ambientazione durante l’occupazione nazifascista per raccontare una realtà molto più grande e attuale». “Salò” illuminerebbe un vero e proprio inferno, retroterra di troppe sparizioni “inspiegabili”, delitti eccellenti, fatti di sangue che restano senza colpevoli. E sparizioni di centinaia di minori, in Italia e nel mondo, ogni anno. «Una realtà fatta di violenze e di abusi rituali, di delitti e di sacrifici umani. Una realtà che coinvolge i vertici del potere, ma che viene sistematicamente occultata. Qualcosa di molto pericoloso, che Pasolini non avrebbe dovuto raccontare e che ha pagato con la vita».Tu chiamalo, se vuoi, movente esoterico. Nasce dalla chiave di lettura “simbolica” dell’evento, quella che fa caso a dettagli in apparenza insignificanti, senza valore per la verità giudiziaria. In base a questa analisi, Pasolini sarebbe stato assassinato con le modalità del sacrificio rituale, in base alla “pena del contrappasso” enunciata da Dante Alighieri, per due ragioni sostanziali. La prima: aveva denunciato la subdola ferocia del potere mettendo alla berlina, col romanzo “Petrolio”, i mandanti dell’omicidio Mattei. E soprattutto, attraverso le atroci sequenze del suo ultimo film, “Salò”, ispirato al romanzo del marchese De Sade “Le 120 giornate di Sodoma”, aveva osato mettere in scena l’abominio di perversioni sessuali violente, fino alla morte delle giovani vittime, perpetrato da una super-casta annidata tra i massimi vertici. Non un incubo o una fantasia terribile, ma l’agghiacciante rappresentazione di una realtà indicibile, sostiene Stefania Nicoletti. Per questo Pasolini è stato ucciso, e in quel modo: con “Salò”, film strettamente collegato all’omicidio (le pellicole rubate), aveva denunciato una pratica selvaggia, di spaventosa brutalità, tragicamente ordinaria in alcuni ambienti insospettabili.
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Guerra infinita, Foa: non è più possibile credere a Obama
Nel libro “L’arte della guerra”, Sun Tzu «ha spiegato l’arte della dissimulazione e del sotterfugio, ma qui si sta esagerando». Giù la maschera, mister Obama: «Fu la Cia ad armare i mujaheddin e Bin Laden contro i sovietici, poi Bin Laden è diventato il nemico numero uno degli Stati Uniti. E fu Washington a sostenere Saddam contro l’Iran, poi Saddam è diventato il nuovo Hitler». Ricorda Marcello Foa: «Quando i Talebani imponevano un regime orribile in Afghanistan, l’America ignorò a lungo le loro nefandezze mostrando una benevola negligenza al punto di finanziare quel regime addirittura pochi mesi prima dell’11 Settembre, come dimostrato da una fonte insospettabile quale l’Istituto Cato. Ora tocca all’Isis e a nuovi gruppi spuntati dal nulla, vedi il Khorasan, che sembra il nome di un farmaco contro il colesterolo, ma che, come spiega il “Corriere della Sera”, è la nuova sigla del terrore, il nuovo erede di Al-Qaeda». E ora gli Usa fingono di non conoscere i loro ex amici dell’Isis, nati come costola dell’Esercito Siriano Libero per rovesciare Assad, poi divenuti Isil, quindi semplicemente Is, Islamic State, Califfato Islamico. Bersaglio perfetto, per mantenere il Medio Oriente nel mirino.L’Isis, scrive Foa nel suo blog sul “Giornale”, rappresenta l’ala più estremista dell’Islam integralista sunnita, «un’ala fanatica, pericolosa, impresentabile: gente da tenere alla larga». Dunque, «i bombardamenti avvengono in nome di una causa che pochi non condividono in Occidente, tanto più dopo le immagini delle decapitazioni». Tuttavia, «l’altra sconvolgente verità» è che l’Isis «è stato finanziato da paesi arabi come il Qatar e i sauditi e sostenuto militarmente negli Stati Uniti, fino ad alcuni mesi fa, in nome della lotta alla Siria, ben sapendo che la distinzione tra ribelli “moderati” e quelli dell’Isis anti-Assad è risibile, come emerso nelle analisi più competenti e oneste pubblicate anche dalla grande stampa anglosassone». Si trattasse di un singolo errore, concede Foa, l’indulgenza sarebbe ovvia. Analizzando invece le linee fondamentali della politica estera statunitense, «il bilancio non può che essere molto negativo, e con uno schema che tende a ripetersi».Riflessioni d’obbligo: «La guerra in Afghanistan non è stata risolutiva, quella in Iraq nemmeno: anzi, il paese sta molto peggio rispetto all’era Saddam». Il Maghreb? «Era molto più stabile quando c’erano i Mubarak, i Ben Ali e persino Gheddafi, considerato che la Libia vive in uno stato di guerra tribale permanente». Quanto alla Siria, il paese di Assad «prima era una garanzia di stabilità per la regione nonché un alleato prezioso degli stessi Stati Uniti nella lotta al terrorismo, vedi la collaborazione al programma di “rendition”». Ora invece è improvvisamente diventato «un regime diabolico, da abbattere ad ogni costo». A partire dal grande detonatore geopolitico dell’11 Settembre, «le guerre condotte negli ultimi 13 anni non hanno portato pace e nemmeno libertà e prosperità, ma crescente instabilità, morte, povertà, caos». Paradigmatico l’esempio dell’Iraq: «Saddam odiava i fondamentalisti e rifiutava qualunque collaborazione con Bin Laden». Oggi, invece, l’Iraq «è la nuova terra promessa, anzi il nuovo Califfato del peggior integralismo islamico». Le guerre americane? Hanno solo peggiorato il problema. «A cosa sono servite, davvero? E quale sarà l’effetto finale di quella appena iniziata contro l’Isis? Vedremo – conclude Foa – ma alle promesse di Obama e della sua squadra non credo più da un pezzo».Nel libro “L’arte della guerra”, Sun Tzu «ha spiegato l’arte della dissimulazione e del sotterfugio, ma qui si sta esagerando». Giù la maschera, mister Obama: «Fu la Cia ad armare i mujaheddin e Bin Laden contro i sovietici, poi Bin Laden è diventato il nemico numero uno degli Stati Uniti. E fu Washington a sostenere Saddam contro l’Iran, poi Saddam è diventato il nuovo Hitler». Ricorda Marcello Foa: «Quando i Talebani imponevano un regime orribile in Afghanistan, l’America ignorò a lungo le loro nefandezze mostrando una benevola negligenza al punto di finanziare quel regime addirittura pochi mesi prima dell’11 Settembre, come dimostrato da una fonte insospettabile quale l’Istituto Cato. Ora tocca all’Isis e a nuovi gruppi spuntati dal nulla, vedi il Khorasan, che sembra il nome di un farmaco contro il colesterolo, ma che, come spiega il “Corriere della Sera”, è la nuova sigla del terrore, il nuovo erede di Al-Qaeda». E ora gli Usa fingono di non conoscere i loro ex amici dell’Isis, nati come costola dell’Esercito Siriano Libero per rovesciare Assad, poi divenuti Isil, quindi semplicemente Is, Islamic State, Califfato Islamico. Bersaglio perfetto, per mantenere il Medio Oriente nel mirino.
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Ledeen, l’amico americano che tiene al guinzaglio il Pd
Se ieri le nostre piazze saltavano in aria perché l’Italia era lo scudo occidentale contro il comunismo sovietico, e si doveva impedire a tutti i costi che il Pci di Berlinguer andasse al governo con Moro, oggi la situazione dello Stivale è persino peggiorata, dato il progressivo esaurimento delle risorse fossili. Questo spiega l’instabilità sul fronte est (lo scontro tra Usa e Russia in Ucraina) e quella sul fronte sud (il massacro di Gaza, motivato anche dall’enorme giacimento di gas, il “Leviatano”, nelle acque palestinesi). «Gli interessi geopolitici del “Gruppo di Georgetown” e del Mossad, quindi, sono identici», sostiene Stefano Ali, mentre «gli interessi economici e militari della destra conservatrice e interventista Usa in Italia sono sensibilmente incrementati», come dimostra l’installazione del Muos a Niscemi o anche l’insistenza sull’acquisto dei disastrosi F-35. «Continuiamo ad essere un paese anomalo, servo della Nato e solo apparentemente democratico, ad opera degli stessi spettri del passato». Da Kissinger a Renzi, passando per Michael Ledeen, indicato come consigliere-ombra del giovane premier per la politica estera.In un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, Ali evoca una lobby come il “Gruppo di Georgetown”, capitanato da quel Kissinger che definì Napolitano «il mio comunista preferito», corretto immediatamente da Napolitano (ex comunista, prego). «E Renzi. Matteo Renzi con la sua rete di amicizie internazionali, attraverso Marco Carrai. Davide Serra (con forti interessi in Israele e che porta in dote i legami con la Morgan Stanley), Marco Bernabè (sempre con Tel Aviv con il fondo Wadi Ventures e il padre, Franco, e le sue dorsali telefoniche Italia-Israele), Yoram Gutgeld (israeliano e suo consulente economico – porta in anche dote l’esperienza McKinsey di cui era socio anziano fino al marzo 2013)». Ma sopratutto Ledeen, cioè «la figura più inquietante», che «si allunga dietro tutte le stragi, tutti i depistaggi che hanno attraversato l’Italia e non solo». L’ammiraglio Fulvio Martini, all’epoca capo del Sismi, lo definì «non gradito all’Italia». Ledeen, racconta Ali, fu «sdoganato da Berlusconi appena giunto al potere», e così «imperversò nelle sue televisioni sotto la forma di “commentatore politico internazionale”».Secondo Ali, Ledeen è stato in grado di «ordinare a Matteo Renzi» la cessione degli aeroporti toscani al magnate argentino Eduardo Eurnekian. Secondo il blogger, «Henry Kissinger, Michael Ledeen e le strutture israeliane sono di nuovo (e da sempre) i padroni della scena». C’è chi dice che il Pd è la nuova Dc? Peggio: il partito fondato da Veltroni «ha ormai da tempo tradito le origini, ma con il binomio Renzi-Napolitano è diventato l’antitesi della storia della sinistra». Secondo Stefano Ali, «è l’erede di tutto quel fronte anticomunista che si asservì e asservì l’Italia alla destra conservatrice Usa di Kissinger e Ledeen e del Mossad». Il “muro di gomma” delle stragi impunite? Frutto del blocco di potere «“garante” della subalternità e della sottomissione dello Stato italiano agli interessi del “Gruppo di Georgetown”». Linea diretta coi rottamatori? «Per le referenze su Federica Mogherini, Renzi dice: “Chiedete a John Kerry”». L’esponente Pd fu «ammessa agli incontri segreti con agenti Usa sin dal 2006», scrive Ali, che illumina il retroterra del presunto potere occulto di ieri e di oggi basandosi anche sul testimonianze come quelle del senatore Giovanni Pellegrino, fino al 2001 presidente della Commissione Stragi, autore del libro-denuncia “Segreto di Stato”.«Ciò che può sembrare intreccio di fantascienza complottistica è solo il frutto di un lavoro certosino fatto dalla Commissione Stragi», avverte Ali. «Teniamolo sempre a mente, anche quando sembra di precipitare nelle allucinazioni ansiogene». Nella sua analisi, Pellegrino parte da una premessa ancora attuale: l’Italia non è mai stata una democrazia “normale”, perché – dal Trattato di Yalta – è stata sempre considerata “marca di frontiera”, al doppio crocevia est-ovest e nord-sud. Sovranità limitata: «Una specie di portaerei Nato nel Mediterraneo». A questo, oltre alla pesante presenza del Vaticano, si aggiunga «una spaccatura verticale interna, determinata da post-fascismo e post-Resistenza», tra italiani «anticomunisti» e italiani «antifascisti». Tutta la storia del dopoguerra, secondo Pellegrino, va interpretata in quest’ottica. E’ per questo che certi fili non si spezzano: l’attuale capogruppo del Pd al Senato, Luigi Zanda, figlio dell’ex capo della polizia e allora giornalista dell’“Espresso”, secondo un report del Sisde risalente al lontano 1984 ebbe «rapporti molto stretti» con Ledeen, dopodiché fu promosso consigliere di amministrazione dell’“Editoriale L’Espresso” e ricoprì l’incarico di addetto stampa di Francesco Cossiga durante il sequestro Moro. Stefano Ali parla di connessioni sotterranee con la P2, che faceva da tramite col super-potere Usa, di cui il Mossad israeliano sarebbe stato un braccio operativo nella stagione della strategia della tensione, fra attentati e depistaggi.Se la stagione della guerra fredda aveva permesso lo sviluppo della cosiddetta “Gladio Rossa”, formata da “Lotta Continua”, “Potere Operaio” e le prime Brigate Rosse, fino cioè all’arresto di Curcio e Franceschini, «con la svolta parlamentare del Pci, l’isolamento di Secchia e soprattutto la morte di Feltrinelli», di fatto l’eversione “rossa” «si dissolse, per confluire nelle Brigate Rosse», che però finirono sotto il controllo di Mario Moretti, scampato alla retata che fruttò la cattura dei fondatori grazie a Silvano Girotto, in arte “Frate Mitra”, un classico infiltrato. Da quel momento, scrive Ali, al di là della facciata “di sinistra” delle Br di Moretti, «connotazione ideologica utilizzata solo per fomentare i militanti», i vertici delle strutture “eversive” passarono – tutti – sotto il controllo «degli ambienti della destra repubblicana Usa». Versione controversa: secondo altri analisti, rimase forte anche l’influenza dell’Urss, attraverso la Stasi, l’intelligence della Germania Est. L’Italia, in ogni caso, era un campo di battaglia. E gli attori – sulla sponda occidentale – sono ormai noti. La notizia? Un vecchio arnese come Ledeen, molto «vicino» a Zanda in quegli anni secondo il Sisde, è un super-consigliere di Renzi.«Mossad e destra repubblicana Usa – continua Ali – erano già riusciti a instaurare (in Grecia, Spagna e Portogallo) regimi fascisti». Le stragi italiane, fino al 1969 dovevano quindi servire «affinché, nel dicembre del 1969, Mariano Rumor dichiarasse lo “stato d’emergenza” che ne consentisse l’instaurazione anche in Italia». Rumor, però, non dichiarò lo stato d’emergenza. E il tentato “golpe Borghese” del 1970 fu l’ultimo tentativo, anche quello andato a vuoto. «Da notare che già dagli anni ‘60 la P2 di Gelli era molto attiva: con la sua rete di iscritti soprattutto nelle forze armate e nei servizi segreti, era nelle condizioni di garantire tutta la copertura necessaria». Secondo Ali, da vari documenti risulta che Kissinger e Ledeen «fossero iscritti alla P2 nel “Comitato di Montecarlo” (o “Superloggia”)», un “braccio” della P2 «che si occupava di traffico internazionale di armi e al quale venne fatta risalire in modo diretto l’organizzazione della strage di Bologna». Se Gelli era «solo una sorta di segretario», significa che «le “menti” stavano altrove». Il vero leader? Rimasto nell’ombra, fino ad oggi. In compenso, conclude Ali, molti nomi di allora sono rimasti al loro posto. E qualcuno, oggi, è vicinissimo al governo Renzi. Pronti a tutto, nel caso gli eventi precipitassero in Ucraina con l’offensiva Usa contro la Russia di Putin?Se ieri le nostre piazze saltavano in aria perché l’Italia era lo scudo occidentale contro il comunismo sovietico, e si doveva impedire a tutti i costi che il Pci di Berlinguer andasse al governo con Moro, oggi la situazione dello Stivale è persino peggiorata, dato il progressivo esaurimento delle risorse fossili. Questo spiega l’instabilità sul fronte est (lo scontro tra Usa e Russia in Ucraina) e quella sul fronte sud (il massacro di Gaza, motivato anche dall’enorme giacimento di gas, il “Leviatano”, nelle acque palestinesi). «Gli interessi geopolitici del “Gruppo di Georgetown” e del Mossad, quindi, sono identici», sostiene Stefano Ali, mentre «gli interessi economici e militari della destra conservatrice e interventista Usa in Italia sono sensibilmente incrementati», come dimostra l’installazione del Muos a Niscemi o anche l’insistenza sull’acquisto dei disastrosi F-35. «Continuiamo ad essere un paese anomalo, servo della Nato e solo apparentemente democratico, ad opera degli stessi spettri del passato». Da Kissinger a Renzi, passando per Michael Ledeen, indicato come consigliere-ombra del giovane premier per la politica estera.
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Mafia ad alta velocità, in val Susa l’indagine del Ros
«Via la mafia dalla val Susa», gridarono in coro i No-Tav asserragliati a Chiomonte il 27 giugno 2011, quando scorsero la ruspa dell’Italcoge di Ferdinando Lazzaro sfondare le barricate degli attivisti per consentire ai duemila agenti di sgomberare la “Libera Repubblica della Maddalena” e avviare il mini-tunnel geognostico, primo e unico cantiere finora aperto per la linea Tav Torino-Lione, considerata la grande opera più costosa della storia italiana nonché la più inutile d’Europa, visto il crollo del traffico Italia-Francia e la presenza in valle di Susa della ferrovia internazionale Torino-Modane ormai deserta, nonostante l’ammodernamento del traforo del Fréjus. Oggi, a tre anni di distanza, i No-Tav accolgono con sollievo la retata di arresti e denunce operata dai carabinieri del Ros su ordine della direzione distrettuale antimafia del Piemonte, tesa a stroncare l’infiltrazione della ‘ndrangheta nella maxi-torta dell’alta velocità. «Quella dei No-Tav è anche una lotta antimafia», ha ricordato Marco Revelli al maxi-processo torinese contro gli attivisti della valle di Susa, indagati anche per terrorismo dalla procura torinese guidata da Caselli, prima che la Cassazione stabilisse l’insussistenza di quel gravissimo reato.Contro gli inquirenti di Torino in questi mesi si erano levate voci molto autorevoli, tra cui quelle di alti magistrati a riposo, come Taselli, Pepino e Palombarini. «Contro di noi anche la folle accusa di terrorismo – hanno protestato i No-Tav – mentre nessuno indaga sull’ombra della ‘ndrangheta che incombe sul cantiere di Chiomonte». Errore: qualcuno indagava. E ha intercettato alcune aziende incaricate del movimento terra: «Prendiamo tutto noi», gongolavano i titolari delle imprese. Tra questi Giovanni Toro, secondo gli inquirenti esponente di spicco della ‘ndrina di San Giovanni Marchesato (Crotone), che proprio grazie a Lazzaro – la cui azienda oggi si chiama Italcostruzioni – avrebbe lavorato a Chiomonte aggirando le norme che impedivano l’accesso ai camion privi delle necessarie autorizzazioni. «Lo faccio attraverso la Prefettura, gli dico che dobbiamo asfaltare, è urgente», dice Lazzaro, intercettato dai Ros.Uno dei punti sotto esame riguarda l’asfaltatura delle piste destinate al pattugliamento della polizia, all’interno dell’area militarizzata del cantiere. «Il fatto che emerge, e che dovrebbe far riflettere sulla sicurezza del cantiere – scrive “L’Espresso” – è che gli investigatori non hanno trovato traccia di contratti registrati tra Toro, Italcostruzioni o Ltf», la società Lyon-Turin Ferroviaire che ha in appalto la costruzione dell’arteria. Il che vuol dire, secondo gli inquirenti, che l’azienda di Toro «ha lavorato sotto gli occhi dei militari che presidiavano il sito senza un pezzo di carta che certificasse la sua presenza». Sempre sull’“Espresso”, Giovanni Tizian ricostruisce le vicende alla base dell’indagine: «Inizialmente, la ditta di Lazzaro si chiama Italcoge. Con questa ottiene la commessa. Poi però Italcoge fallisce». Ma Lazzaro «continuava di fatto a occuparsi del cantiere avvalendosi proprio di Toro», scrive il giudice delle indagini preliminari che ha firmato le 900 pagine dell’ordinanza.L’imprenditore in pratica ha creato una nuova società, la Italcostruzioni, proseguendo senza problemi i lavori a Chiomonte: «Italcostruzioni acquisiva i mezzi, le autorizzazioni di legge nonché il subentro nel Consorzio Valsusa», che raccoglie gran parte delle aziende impegnate nel grande appalto pubblico. Ma c’è di più, aggiunge Tizian: Lazzaro negli atti è indicato come uno degli interlocutori principali di Rfi, Rete ferroviaria italiana, e Ltf. «Alcune conversazioni intercettate dimostravano sia l’influenza esercitata da Lazzaro in seno al Consorzio Valsusa, che di fatto considerava di sua proprietà, sia il ruolo di unico interlocutore della committente Ltf», scrivono i magistrati. «Prendiamo tutto noi, Nando», si sente in una delle intercettazioni. E Lazzaro conferma: «Prendiamo tutto noi». Tra gennaio e marzo 2012 poi il titolare di Italcostruzioni – per ora indagato per smaltimento illecito dei rifiuti di cantiere – cerca «di fare entrare Toro all’interno del Consorzio Valsusa». L’imprenditore calabrese che ha asfaltato le piste a Chiomonte, ora in carcere insieme a una ventina di persone, è invece indagato per concorso esterno con il clan crotonese.Ferdinando Lazzaro, dicono ora gli attivisti valsusini, è andato ripetutamente in televisione ad accusare i No-Tav degli incendi divampati presso aziende coinvolte nel cantiere: tesi avallata dai media, nonostante i roghi di tanti presidi No-Tav (i punti d’incontro del movimento, regolarmente dati alle fiamme). In prima fila, a incolpare i valsusini, i politici dell’establishment, dal senatore Pd Stefano Esposito al ministro Maurizio Lupi. Mai un accenno al problema-mafia in valle di Susa neppure dal ministro Alfano, recatosi in visita al cantiere di Chiomonte come l’ex sindaco torinese Sergio Chiamparino, ora presidente della Regione Piemonte, fattosi fotografare in campagna elettorale nel sito di cantiere che secondo gli inquirenti sarebbe stato realizzato con il contributo dell’imprenditoria mafiosa. «Le grandi opere come il Tav fanno gola alla mafia», avvertì il giallista Massimo Carlotto al “Valsusa FilmFest”, «perché sono un’occasione d’oro per riciclare denaro sporco». Nel suo “Libro nero dell’alta velocità”, Ferdinando Imposimato ricorda che buona parte della rete Tav italiana è stata costruita dalla mafia, grazie al sistema dei subappalti a cascata che rende incontrollabile la lievitazione dei prezzi.Di mafia in valle di Susa in realtà si parla da sempre, visto che il comprensorio turistico è dotato di importanti impianti invernali e ha ospitato grandi eventi, dai Mondiali di sci alle Olimpiadi. Storie di appalti sospetti, intimidazioni e sindacalisti minacciati fanno parte della letteratura giudiziaria della valle di Susa, fin dalle prime segnalazioni della Commissione Antimafia. A metà degli anni ‘90, su iniziativa della nuova magistratura antimafia creata dopo la morte di Falcone e Borsellino, fu disciolto per infiltrazioni mafiose il Consiglio comunale di Bardonecchia – primo caso, nel nord Italia. Sempre negli anni ‘90, affiorarono legami tra Susa e la ‘ndrangheta attraverso uno strano traffico di armi, centinaia di pistole cedute illegamente dalla locale armeria a una cosca calabrese “sotto gli occhi di settori dell’intelligence”, secondo gli inquirenti. Di mafia si è occupato a lungo il nuovo procuratore capo di Torino, Armando Spataro, succeduto a Gian Carlo Caselli, protagonista della dura repressione contro il movimento No-Tav, con un migliaio di cittadini denunciati, oltre 50 imputati al maxiprocesso celebrato nell’aula-bunker del carcere torinese delle Vallette e persino il rivio a giudizio dello scrittore Erri De Luca, “reo” di aver difeso lo strumento del “sabotaggio” come forma di resistenza civile contro la grande opera, che devasterebbe il territorio fino a renderlo inabitabile, mettendo in pericolo anche la salute data la presenza di amianto e uranio nel materiale di scavo.Spataro, che nel giorno del suo insediamento ha dichiarato di non gradire i giudici-superstar, si è occupato anche di terrorismo, denunciando l’opacità dei legami con alcuni settori dello Stato. Dopo aver condotto l’indagine sul rapimento illegale del mullah Abu Omar, sequestrato in Italia dal Sismi per ordine della Cia, il giudice è stato premiato per il saggio “Ne valeva la pena. Storie di terrorismi e mafie, di segreti di Stato e di giustizia offesa” (Laterza, 2010). Nucleo centrale della narrazione, è proprio la vicenda della “extraordinary rendition” del leader islamico catturato e poi torturato. L’opposizione del segreto di Stato, da parte dei governi Prodi e Berlusconi, è stata per Spataro «l’occasione per riflettere sui rapporti tra politica e magistratura e sulla violazione dei diritti umani con il pretesto della sicurezza». E’ ora l’ex magistrato di Mani Pulite a coordinare una procura, quella di Torino, impegnata nella repressione di centinaia di attivisti No-Tav, decisi a contrastare un’opera inutile, per la quale l’Europa ha appena dimezzato il già scarso contributo previsto, mentre la Francia riprenderà eventualmente in considerazione il progetto Torino-Lione solo dopo il 2013. Un’opera costosissima e ora anche inquinata dall’ombra della mafia, come anticipato dai documenti sequestrati ai No-Tav. «Bollati come terroristi che accumulavano materiale chissà per quale scopo criminale», chiosa Tizian su “L’Espresso”. «Oggi invece la storia sembra un po’ diversa: facevano lavoro di controinformazione».«Via la mafia dalla val Susa», gridarono in coro i No-Tav asserragliati a Chiomonte il 27 giugno 2011, quando scorsero la ruspa dell’Italcoge di Ferdinando Lazzaro sfondare le barricate degli attivisti per consentire ai duemila agenti di sgomberare la “Libera Repubblica della Maddalena” e avviare il mini-tunnel geognostico, primo e unico cantiere finora aperto per la linea Tav Torino-Lione, considerata la grande opera più costosa della storia italiana nonché la più inutile d’Europa, visto il crollo del traffico Italia-Francia e la presenza in valle di Susa della ferrovia internazionale Torino-Modane ormai deserta, nonostante l’ammodernamento del traforo del Fréjus. Oggi, a tre anni di distanza, i No-Tav accolgono con sollievo la retata di arresti e denunce operata dai carabinieri del Ros su ordine della direzione distrettuale antimafia del Piemonte, tesa a stroncare l’infiltrazione della ‘ndrangheta nella maxi-torta dell’alta velocità. «Quella dei No-Tav è anche una lotta antimafia», ha ricordato Marco Revelli al maxi-processo torinese contro gli attivisti della valle di Susa, indagati anche per terrorismo dalla procura torinese guidata da Caselli, prima che la Cassazione stabilisse l’insussistenza di quel gravissimo reato.
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Hitler a spasso in Argentina, non muore la leggenda nera
Fantasia o realtà? Per ora, solo un mistero. Ma la stampa inglese rimette in discussione questo tema, sulla base dell’archivio riguardante la sorte di Adolf Hitler, desecretato dall’Fbi nel giugno 1998: il genocida nazista e la moglie Eva Braun non sarebbero morti nel loro bunker a Berlino il 30 aprile 1945, dando esecuzione al loro patto suicida, ma sarebbero scappati con un sottomarino verso l’Argentina. Secondo i documenti dell’Fbi, sui quali si basano le informazioni dei quotidiani “Daily Express” e “Sunday Express”, questa pista sarebbe stata indicata a un agente nordamericano da un cittadino argentino residente a Los Angeles, California, che nel settembre del 1945 gli avrebbe riferito che Hitler sarebbe sbarcato sulle coste della Patagonia, più precisamente presso il Golfo San Matias, nel mese di maggio dello stesso anno, un paio di settimane dopo la caduta di Berlino.Secondo tale testimonianza, due sottomarini lo avrebbero portato alla località nota come Caleta de los Loros, situata nel Golfo di San Matias, sulla costa atlantica argentina. Le due imbarcazioni sarebbero state affondate a circa 800 metri dalla costa e avvistate per anni dagli abitanti della zona nei periodi di bassa marea, nei quali erano visibili le sagome parzialmente coperte dalla sabbia; questo secondo la testimonianza di un pilota civile, Mario Chironi, che era solito sorvolare la zona negli anni Cinquanta, pubblicata dal quotidiano “La Nación” di Buenos Aires il 6 luglio 1998. Gli archivi dell’Fbi, una volta segreti, riferiscono che, dopo una notte passata in un hotel della città di San Antonio Oeste (piccola città la cui economia all’epoca dipendeva dalla fabbrica tedesca Sassenberg & Cia), Hitler e quelli che erano con lui furono trasferiti verso la Cordigliera delle Ande, stabilendosi per molto tempo nella proprietà di una famiglia tedesca residente a San Carlos de Bariloche, la Hacienda San Ramon.A partire da quel periodo, i dati sono diventati imprecisi e confusi. Un informatore afferma di aver visto Hitler che camminava per una via di Charlottesville, Virginia (Usa), il 18 luglio 1946. Un altro luogo dove il Führer sarebbe stato avvistato il 16 luglio 1947 è un casinò «tra Buenos Aires e Rio de Janeiro», città distanti 2.000 km l’una dall’altra, presumibilmente a “Rio Grande del Sur”, che non è una città, bensì uno Stato di più di 280.000 kmq. I rapporti di intelligence presentati al capo dell’Fbi, J. Edgar Hoover (1895-1972), raffigurano Hitler come un turista che passeggia tra il Sudamerica e gli Stati Uniti. Quelli che credono alla versione secondo cui il gerarca tedesco non morì a Berlino, sostengono che egli riuscì a scappare con l’aiuto degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, prima che l’Unione Sovietica prendesse il controllo della capitale tedesca, in cambio di denaro e trasferimento di tecnologie.Le opinioni divergono, però, sul luogo e sulla data della sua morte: taluni affermano che sarebbe morto in Paraguay nel febbraio 1971, altri a Cordoba (Argentina) nel 1962, altri ancora a Nossa Senhora do Livramento (Brasile) nel 1984, stando alla pubblicazione, da parte di “O Globo”, con acclusa una foto di un Hitler abbracciato alla sua amante mora! Se è accertato che l’individuazione di Adolf Eichmann nella zona suburbana di Buenos Aires nel maggio 1960 e il suo sequestro da parte del Mossad sono stati resi possibili dalla soffiata di un vicino, mentre le precedenti operazioni di spionaggio erano fallite, sembra invece poco credibile che, se Hitler si muoveva veramente con tanta libertà su e giù per il continente americano, non venisse individuato dai servizi di intelligence israeliani per catturarlo e condurlo davanti alla corte marziale. Tuttavia, anche i corpi trovati nel bunker di Berlino, parzialmente calcinati, non poterono mai esser veramente identificati, secondo quanto riferito da Stalin a Churchill.Gli archivi segreti dell’Fbi che danno spazio a tutte queste congetture furono declassificati nel 1998. Ma cosa c’è di nuovo? Abel Basti, giornalista argentino residente dal 1978 a Bariloche, che ha anche lavorato come guarda forestale nella zona dove si dice che Hitler abbia vissuto almeno tra il 1945 e il 1955, ha finito di pubblicare la sua ricerca sulle tracce del Führer in Argentina (“Tras los pasos de Hitler”, Editorial Planeta, 2014), quinto libro di una saga iniziata con “Bariloche Nazi” (2004), “Hitler en la Argentina” (2006), “El exilio de Hitler” (2010) e “Los secretos de Hitler” (2011). Basti mette direttamente in relazione l’arrivo di Hitler in Argentina con l’esistenza dei due sottomarini affondati nel Golfo di San Matias, alla cui ricerca ha partecipato. Finora i tentativi di recupero delle due imbarcazioni non hanno avuto successo, anche perché, secondo il giornalista, la mancanza di coordinate esatte rende difficoltosa la loro individuazione; comunque, la ricerca continua ancora oggi mediante l’impiego di magnetografi.Basti sostiene che questi due sottomarini facevano parte di una dozzina di “U-Boote” che salparono dall’Europa alla fine della seconda guerra mondiale per portare in salvo ufficiali, beni, denaro e documentazione nazista, parte dell’operazione Paper Clip patteggiata tra tedeschi e alleati, e che gli altri due sottomarini che si recarono il 17 agosto 1945 a Mar del Plata (Argentina) facevano parte della stessa flotta che aveva condotto Hitler in Patagonia. Nel suo ultimo libro, Basti afferma che Hitler si mosse in totale libertà in diversi paesi del Sudamerica sotto false identità, come Adolf Schütelmayor o Kurt Bruno Kirchner (sì, Kirchner!), raccogliendo le supposte testimonianze della sua assaggiatrice di cibi, Eloisa Lujan, e della nipote della sua cuoca, Carmen Torrentegui, che sarebbero state sempre vicine al genocida tedesco.L’opera di Basti è contestata, accusata di plagio. Si dice sul web che sia una brutta copia di precedenti titoli (“Gestapo Chief” di Gregory Douglas, “Hitler’s escape” di Ron. T. Hansic, “Escape from the bunker” di Harry Cooper e “El escape de Hitler” de Patrick Burnside), tutti libri carenti di rigore storico e documentale. A sua volta, Basti ha accusato di plagio Simon Dunstan e Gerrard Williams, autori di “The Grey Wolf: The escape of Adolf”, con i quali afferma di aver firmato un contratto per la pubblicazione del suo libro in Inghilterra e ricavarne anche un film. Gli inglesi sono però spariti, per poi pubblicare il suo libro presso la casa editrice Sterling Publishing, anch’essa querelata da Basti. Misteri ancora irrisolti, dati da confermare e accuse incrociate continuano ad aleggiare sopra di noi, proiettando l’ombra del demone nazista.(Horacio Morel, “Hitler a spasso in Argentina: cosa c’è di vero nella leggenda nera?”, da “Il Sussidiario” del 3 maggio 2014).Fantasia o realtà? Per ora, solo un mistero. Ma la stampa inglese rimette in discussione questo tema, sulla base dell’archivio riguardante la sorte di Adolf Hitler, desecretato dall’Fbi nel giugno 1998: il genocida nazista e la moglie Eva Braun non sarebbero morti nel loro bunker a Berlino il 30 aprile 1945, dando esecuzione al loro patto suicida, ma sarebbero scappati con un sottomarino verso l’Argentina. Secondo i documenti dell’Fbi, sui quali si basano le informazioni dei quotidiani “Daily Express” e “Sunday Express”, questa pista sarebbe stata indicata a un agente nordamericano da un cittadino argentino residente a Los Angeles, California, che nel settembre del 1945 gli avrebbe riferito che Hitler sarebbe sbarcato sulle coste della Patagonia, più precisamente presso il Golfo San Matias, nel mese di maggio dello stesso anno, un paio di settimane dopo la caduta di Berlino.
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L’Ucraina come la Siria. Obiettivo Nato: assediare Mosca
La vera posta in gioco della rivolta a Kiev è l’entrata dell’Ucraina nella Nato, cosa che costituirebbe una minaccia diretta alla sicurezza nazionale della Russia. E attenzione: al netto delle spinte filo-occidentali di una parte dell’opinione pubblica, la cui maggioranza resta però filo-russa, a condurre il gioco sono le stesse manipolazioni di intelligence che in Siria hanno trasformato la iniziale protesta democratica in una guerra civile, fino al punto da usare i gas tossici come il Sarin facendo strage di civili per poi incolpare il regime. «In Ucraina si stanno mettendo in atto gli schemi già visti in Libia e Siria, che poi sono quelli elaborati da famigerati enti, come l’Einstein Institution, tanto amati dalla nostra sinistra buonista», sostiene “Megachip”. «La variante è dovuta al contesto: i tagliagole di Al-Qa’ida e Al-Nusra che gli Usa e loro alleati hanno scagliato contro la Siria, in Ucraina hanno come degno corrispettivo i neonazisti di Svoboda», pronti anche a usare le armi.«Non è vero che questo partito sia marginale nella rivolta e solo molto attivo e vociferante, come alcuni vogliono far credere», scrive “Piotr” in un’analisi su “Megachip”. Due anni fa, alle politiche, Svoboda ottenne il 10,45% dei voti, conquistando 38 seggi in Parlamento. Oggi proprio Svoboda «forma il nerbo delle manifestazioni, la parte più decisa, quella che conduce gli scontri, ammazza i poliziotti, li rapisce e li tortura». Da giorni, aggiunge “Piotr”, i suoi militanti ricercavano lo scontro sanguinoso con le forze di polizia. E alla fine ci sono riusciti. «Ai neonazisti si è accodato a quanto sembra Anatoli Gritsenko», già ministro della difesa dell’oligarca Julia Timoshenko, che «ha avuto la splendida idea di incitare i manifestanti ad armarsi», precisando con delinquenziale ipocrisia che l’appello era rivolto «solo a quelli che hanno il porto d’armi».Restano per ora soltanto comprimari i gruppi fondamentalisti dei Tatari della Crimea, in particolare «gruppi di soldati di ventura che hanno appena finito di combattere in Siria», e che certamente non condividono con gli ultra-nazionalisti di Svoboda le aspirazioni indipendentiste della penisola sul Mar Nero. Tutte queste componenti sono comunque coinvolte nella vertenza per chiedere l’ingresso dell’Ucraina nell’Ue, da cui Kiev spera di ottenere denaro: il prestito di 15-20 miliardi di dollari promesso dalla Russia all’Ucraina lo potrebbe rimborsare la Ue, sempre che le vada, aggiungendo anche il prezzo pieno (quasi dimezzato da Putin nell’accordo di pochi giorni fa) del gas russo comprato dall’Ucraina. Poi, però, «dopo un probabile periodo di attesa per stabilizzare la situazione e non disgustare subito gli ucraini», su quel paese si abbatterebbe «la scure dell’austerity europea». Ma il vero obiettivo, «il boccone grosso e proibito», è l’ingresso dell’Ucraina nella Nato.«Con l’Ucraina, la Nato finirebbe a ridosso di Mosca», osserva “Megachip”, in aperta violazione dei trattati di Parigi e di Helsinki, ovvero «gli accordi di garanzia della sicurezza europea che sono seguiti alla caduta della cortina di ferro». In altre parole, «Ucraina nella Nato e riarmo sono sinonimi». Molto dipenderà ora dagli altri leader dell’opposizione: se dimostreranno buon senso, «l’Ucraina potrebbe uscire dalla crisi con un nuovo governo che potrebbe sfruttare al meglio i rapporti sia con la Ue (standosene fuori) sia con la Russia (che la premierebbe per star fuori dalla Nato)». Una scelta simile «farebbe molto bene all’Europa dei popoli», aggiunge “Piotr”, ma il guaio è che alla Nato e alla Ue non sembra interessare una soluzione pacifica. Al contrario, «stanno facendo di tutto per obbligare ad una scelta secca: o noi o la Russia». Nessuna sorpresa se un giorno si scoprirà che in Ucraina stanno già arrivando fiumi di dollari.La vera posta in gioco della rivolta a Kiev è l’entrata dell’Ucraina nella Nato, cosa che costituirebbe una minaccia diretta alla sicurezza nazionale della Russia. E attenzione: al netto delle spinte filo-occidentali di una parte dell’opinione pubblica, la cui maggioranza resta però filo-russa, a condurre il gioco sono le stesse manipolazioni di intelligence che in Siria hanno trasformato la iniziale protesta democratica in una guerra civile, fino al punto da usare i gas tossici come il Sarin facendo strage di civili per poi incolpare il regime. «In Ucraina si stanno mettendo in atto gli schemi già visti in Libia e Siria, che poi sono quelli elaborati da famigerati enti, come l’Einstein Institution, tanto amati dalla nostra sinistra buonista», sostiene “Megachip”. «La variante è dovuta al contesto: i tagliagole di Al-Qa’ida e Al-Nusra che gli Usa e loro alleati hanno scagliato contro la Siria, in Ucraina hanno come degno corrispettivo i neonazisti di Svoboda», pronti anche a usare le armi.
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Whitney: gli Usa sono la più grande piaga del mondo
Gli Stati Uniti sono la più grande piaga del mondo. Non importa dove vivi o cosa fai, gli Stati Uniti troveranno sempre qualche scusa per ficcare il naso negli affari tuoi e per renderti la vita infelice. Ecco perché gli Stati Uniti hanno tanti nemici, perché si mettono sempre in mezzo, in qualsiasi impiccio che capiti, in qualsiasi parte del mondo. Quelli di Washington proprio non riescono a sopportare l’idea che ci sia qualcuno, non importa dove, che potrebbe vivere una vita normale e felice senza doversi aspettare di essere bombardato per un attacco di “drone” o di essere sbattuto dentro qualche buco nero, dove la Cia può strapparti le unghie o farti diventare nero e blu. Questo è tutto quello che ha prodotto questa guerra globale al terrorismo – solo questo.
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Craig Roberts: colpo di Stato, Obama ha tradito l’America
Gli americani hanno subito un colpo di Stato, anche se esitano ad ammetterlo. Il regime di Washington manca di legittimità costituzionale e giuridica. Gli americani sono attualmente governati da usurpatori secondo i quali l’esecutivo è al di sopra della legge e la Costituzione americana è né più né meno che carta straccia. Un governo non costituzionale è un governo illegittimo. I giuramenti di fedeltà comprendono la difesa della Costituzione “contro ogni nemico, straniero e interno”. Come vollero ben sottolineare i Padri Fondatori, il principale nemico è il governo stesso. Al potere non piacciono vincoli e restrizioni, e fa di tutto, sempre, per liberarsi da questi “lacci”. Alla base del regime di Washington c’è usurpazione di potere. Il Regime Obama, come quello passato Bush-Cheney, non è legittimo. Gli americani sono governati da un potere che comanda non in forza del diritto e della Costituzione, ma con le menzogne e la forza bruta. Quelli che oggi sono al potere considerano la Costituzione solo “una catena che gli tiene le mani legate”.
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Datagate: i falchi della cyber-guerra con Obama dal 2008
Quattro anni e mezzo dopo la sua prima, trionfale elezione, Barack Obama è nella burrasca: i suoi piani di cyber-guerra sono stati smascherati dall’ex analista della Cia e dell’Nsa, Edward Snowden, per catturare il quale la Casa Bianca è giunta a “sequestrare” l’aereo presidenziale di Evo Morales, imponendo ai paesi satelliti – Italia compresa – di negare il diritto di sorvolo al presidente della Bolivia, “atto di guerra” senza precedenti nella storia, in tempo di pace. Rilette oggi, assumono tutt’altro sapore le tempestive cautele che Paolo Barnard espresse già nel novembre del lontano 2008, all’indomani dell’avvento di Obama: «Una delle regole più note del giornalismo anglosassone è “follow the money”». Cioè: “segui i soldi”, se vuoi capire la vera ragione delle cose. Era già tutto scritto, nell’elenco dei sostenitori del “primo presidente nero”: tra i suoi massimi sponsor, figurava il complesso militare-industriale incaricato di fronteggiare l’ascesa della Cina ricorrendo all’arma decisiva della “guerra informatica”, quella che ora il dissidente Snowden ha messo in piazza così clamorosamente.