Archivio del Tag ‘social media’
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Sul web la censura Ue: ma oscurare la verità non è reato?
Solo in Italia ci sono 10 milioni di account Internet che corrispondono a persone ormai abituate a informarsi sul web, per avere lumi sui retroscena che i media mainstream non svelano. Basta questo, secondo Glauco Benigni (presidente di Wac, Web Activists Community) a spiegare la crescente voglia di bavaglio che pervade palazzi, ministeri e alte cariche pubbliche. Per mascherarla, l’establishment ricorre all’ennesimo inglesismo abusivo e infestante, “fake news”. Una propaganda martellante fatta di minacce, dietro al pretesto incarnato da un altro neologismo, quello che trasforma in “hater” (odiatore) anche chi esprime indignazione verso l’abuso politico di potere. Ora siamo alla vigilia di una censura grottesca e sistemica, presentata come definitiva dal Ministero della Verità di un’istituzione tra le meno democratiche al mondo, la Commissione Europea. L’inglese Julian King, commissario alla sicurezza, avverte: saremo inondati di “fact-checkers”, almeno ventimila, incaricati di organizzare una sorta di delazione di massa per criminalizzare qualsiasi fonte difforme da quelle istituzionali. Attenzione, però: l’oscuramento della libertà d’opinione non è solo un atto odioso e antidemocratico. Non è solo pericoloso per tutti, come la storia insegna. La lesione di un diritto fondamentale non è anche un reato?Fino a quando potranno restare impuniti, i presunti “ladri di verità” che impediscono all’opinione pubblica di acquisire dati su quanto avviene ogni giorno nel mondo? E’ annosa la polemica sulla disinformazione che finisce per coprire crimini gravissimi, inclusi quelli che l’Onu definisce “contro l’umanità”. In occasione del recente bombardamento dimostrativo sulla Siria, motivato dal presunto impiego di armi chimiche da parte del governo di Damasco, Marcello Foa – in tarda serata, su RaiTre – ha accusato i colleghi di aver dato per scontata la versione ufficiale degli Usa, rifiutando di constatare l’assenza di prove: non risulta infatti che Assad abbia colpito civili con i gas (né è dimostrato che altri abbiano impiegato agenti chimici a Douma: non ci sono prove che la popolazione siriana sia stata effettivamente colpita, quel giorno). In collegamento da Washington, la corrispondente Giovanna Botteri si è difesa in modo singolare, affermando che è inevitabile il rischio di essere imprecisi nelle cronache sulla Siria, dal momento che ai reporter è vietato l’accesso al teatro bellico – diversamente da quanto accaduto, ad esempio, in Iraq. Peccato che, proprio in occasione della Guerra del Golfo, fece la sua comparsa il primo degli inglesismi poi tristemente noti, “embedded”: in Iraq, i giornalisti “impacchettati” furono costretti a vedere solo quanto stabilito dal comando del generale Norman Schwarzkopf.Fu la prima volta, nella storia del giornalismo bellico. Se ne lamentarono, i veterani premiati dal Pulitzer: la prima vittima della guerra è sempre la verità, dissero, ma in Iraq si passò il limite, giungendo alla censura preventiva apertamente dichiarata. Assistemmo così al festival delle fake news governative: dal set hollywoodiano con i poveri cormorani intrappolati nel petrolio fino alla (mai avvenuta) strage degli innocenti, la bufala dei neonati “massacrati nelle incubatrici dai soldati di Saddam” a Kuwait City. Notizie false, regolarmente “bevute” da centinaia di reporter e offerte, come amaro aperitivo, a milioni di lettori e telespettatori, mentre i missili “intelligenti” grandinavano sulla testa delle famiglie di Baghdad. E ora che il bavaglio di massa torna prepotentemente di moda, quale guerra preoccupa i censori dell’Unione Europea? Quella contro la possibile verità su un’istituzione che si professa europeista e invece lavora intensamente contro l’Europa unita, contro la concordia e la prosperità dei popoli europei? Temono le elezioni del 2019, i lobbisti privatizzatori di Bruxelles: a loro, il celebre paladino della trasparenza universale Mark Zuckerberg ha appena promesso la massima vigilanza, sulle pagine del maggior social network del mondo. Il Grande Fratello non permetterà che siano veicolate verità sgradite: saranno “bannate”, dai possessori dell’infrastruttura informatica.Il web, beninteso, non è la palestra assoluta della libertà: immenso motore economico, è strettamente controllato dai suoi dominus, dagli algoritmi di Google, da fantasiosi tecno-stregoni come quelli di Cambridge Analytica. Il web è anche una pattumiera di malcostume e violenza verbale: si è lasciato credere che chiunque, protetto dall’anonimato di un nickname, potesse arbitrariamente distribuire insolenze, insulti e minacce. Forse però varrebbe la pena di ricordare ai legislatori che non siamo nel far west: esistono leggi a tutela dei cittadini, che sanzionano reati come la diffamazione. Di colpo non bastano più? Servono normative speciali, d’emergenza? E soprattutto: sono legali, le disposizioni speciali? Così come è un reato la calunnia, perché mai non dovrebbe essere perseguita per legge anche la distorsione della verità, che rende cieco il pubblico di fronte agli eventi? Ancora più grave è il proposito di “spegnere” programmaticamente le voci libere del web, magari segnalate dagli invisibili censori (penalmente irresponsabili) dell’impunita Unione Europea. Non è reato, occultare la verità? Non sarebbe materia, questa, su cui consultare innanzitutto i più autorevoli giuristi? Come in ogni questione controversa, l’ultima parola non potrebbe spettare a un tribunale? La parte civile, in questo caso, rappresenterebbe mezzo miliardo di persone: i cittadini dell’Unione Europea.(Giorgio Cattaneo, “Sul web la censura Ue, ma oscurare la verità non è reato?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 30 aprile 2018).Solo in Italia ci sono 10 milioni di account Internet che corrispondono a persone ormai abituate a informarsi sul web, per avere lumi sui retroscena che i media mainstream non svelano. Basta questo, secondo Glauco Benigni (presidente di Wac, Web Activists Community) a spiegare la crescente voglia di bavaglio che pervade palazzi, ministeri e alte cariche pubbliche. Per mascherarla, l’establishment ricorre all’ennesimo inglesismo abusivo e infestante, “fake news”. Una propaganda martellante fatta di minacce, dietro al pretesto incarnato da un altro neologismo, quello che trasforma in “hater” (odiatore) anche chi esprime indignazione verso l’abuso politico di potere. Ora siamo alla vigilia di una censura grottesca e sistemica, presentata come definitiva dal Ministero della Verità di un’istituzione tra le meno democratiche al mondo, la Commissione Europea. L’inglese Julian King, commissario alla sicurezza, avverte: saremo inondati di “fact-checkers”, almeno ventimila, incaricati di organizzare una sorta di delazione di massa per criminalizzare qualsiasi fonte difforme da quelle istituzionali. Attenzione, però: l’oscuramento della libertà d’opinione non è solo un atto odioso e antidemocratico. Non è solo pericoloso per tutti, come la storia insegna. La lesione di un diritto fondamentale non è anche un reato?
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L’Ue minaccia il web: non avrete altra verità che la nostra
E’ da un anno e mezzo che l’Unione Europea e gli Stati Uniti preparano il terreno. E ora ci siamo: tra non molto avremo una rete di fact-checkers, naturalmente indipendenti, naturalmente rispettosi di un rigoroso codice etico e naturalmente dediti alla causa suprema: la lotta alle fake news, ovvero al mostro che agita i sonni dell’establishment. Tutto questo, in realtà, come ripeto da tempo, ha un solo scopo: legittimare l’introduzione della censura, limitare l’impatto e la diffusione di idee non mainstream, naturalmente negando che di censura si tratti. Ma così sarà: non c’è vera democrazia quando qualcuno si arroga il diritto di decidere cos’è vero e cos’è falso, e rendendo inviolabile e sacra, quella che in realtà una pericolosissima forma di strabismo, perché si addita solo una parte del problema, le fake news veicolate dai social media, e si ignora il vero scandalo, che è rappresentato dalla manipolazione delle notizie creata all’interno dei governi, il cui impatto è infinitamente superiore. Qualunque frottola sulla Siria, sull’Ucraina, sulla Grecia resta rigorosamente impunita, purché abbia origine dentro a un’istituzione; proprio quelle istituzioni che ora pretendono, per il nostro bene, di limitare i confini della libertà di espressione.L’Unione Europea ieri ha compiuto un altro fatale passo, annunciando misure “propedeutiche”, in attesa di ulteriori “messe a punto”, già annunciate per dicembre. L’impostazione è soft, per non allarmare le masse, e infatti pochi media ne hanno parlato; l’esito, però, è scontato. Non può essere altrimenti quando si annuncia, come ha fatto il commissario Ue alla sicurezza Julian King, che «la manipolazione della pubblica opinione attraverso le fake news è una minaccia reale alla stabilità e alla coesione delle nostre società europee», annunciando «la creazione prima dell’estate di una rete europea indipendente di fact-checkers e a settembre di una piattaforma europea sulla disinformazione per aiutarli nel loro lavoro. Inoltre Bruxelles lancerà un nuovo bando quest’anno per la produzione e la diffusione di informazione di qualità sull’Ue attraverso notizie fondate sui dati». Già, ma quali verifiche? Quali dati? Quelli certificati da Macron o dal Dipartimento di Stato americano che hanno deciso di bombardare la Siria senza prove, solo sulla base di notizie riportate dai media e dai social media? Quelli diramati da Ong che pur presentandosi come non governative in realtà sono finanziate dai governi occidentali, diventando uno strumento dissimulato ma molto efficace nell’ambito delle moderne guerre asimmetriche?King ha varato anche misure per i social media da Facebook e Twitter, proprio mentre Zuckerberg, al Parlamento Europeo, annunciava la creazione di un piccolo esercito di ventimila guardiani per garantire la correttezza delle “elezioni europee del 2019”, ovvero per togliere linfa e visibilità a idee e movimenti sovranisti e critici nei confronti della Ue. Dunque per limitare dall’alto la libertà d’opinione, come accade solo nei regimi autoritari. Purtroppo si conferma lo scenario che abbiamo delineato Alberto Bagnai, Vladimiro Giacché e il sottoscritto, durante l’affollatissima conferenza che si è svolta sabato scorso a Roma, organizzata da “L’intellettuale Dissidente” e dall’associazione “a/simmetrie”. Una conferenza che ha suscitato l’entusiasmo de presenti e che potete seguire grazie a “Byoblu” di Claudio Messora, che l’ha filmata. La battaglia che si profila per un’informazione davvero libera sarà dura, molto dura. E avremo bisogno, come non mai, del vostro sostegno.(Marcello Foa, “Ci siamo: la Ue crea una rete di censori. La libertà d’opinione è in pericolo!”, dal blog di Foa sul “Giornale” del 27 aprile 2018. Nel video realizzato da “ByoBlu”, la conferenza romana con Foa, Bagnai e Giacché).E’ da un anno e mezzo che l’Unione Europea e gli Stati Uniti preparano il terreno. E ora ci siamo: tra non molto avremo una rete di fact-checkers, naturalmente indipendenti, naturalmente rispettosi di un rigoroso codice etico e naturalmente dediti alla causa suprema: la lotta alle fake news, ovvero al mostro che agita i sonni dell’establishment. Tutto questo, in realtà, come ripeto da tempo, ha un solo scopo: legittimare l’introduzione della censura, limitare l’impatto e la diffusione di idee non mainstream, naturalmente negando che di censura si tratti. Ma così sarà: non c’è vera democrazia quando qualcuno si arroga il diritto di decidere cos’è vero e cos’è falso, e rendendo inviolabile e sacra, quella che in realtà una pericolosissima forma di strabismo, perché si addita solo una parte del problema, le fake news veicolate dai social media, e si ignora il vero scandalo, che è rappresentato dalla manipolazione delle notizie creata all’interno dei governi, il cui impatto è infinitamente superiore. Qualunque frottola sulla Siria, sull’Ucraina, sulla Grecia resta rigorosamente impunita, purché abbia origine dentro a un’istituzione; proprio quelle istituzioni che ora pretendono, per il nostro bene, di limitare i confini della libertà di espressione.
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Scie chimiche in tribunale, ma resta il silenzio sul fenomeno
Tu chiamalo, se vuoi, giornalismo. Nessuno sa o vuole spiegare come mai i cieli non sono più azzurri, ma a strisce bianche. Eppure la colpa è dei “complottisti”, non dei governi che tacciono sul fenomeno. Non fa eccezione la reporter Silvia Bencivelli, letteralmente bombardata da «un crescendo di insulti e minacce sui social (spesso a sfondo sessuale)», dopo un articolo scritto per “La Stampa” nel 2013, dal titolo: “Scie chimiche, la leggenda di una bufala”. Un assedio intimidatorio che, scrive ora su “Repubblica”, «mi ha costretto a vivere nella paura» da quando un “branco” di ostinati “cospirazionisti” l’ha presa di mira. Ora è stato condannato quello che Silvia Bencivelli definisce “il capobranco”: si tratta di Rosario Marcianò, del blog “Tanker Enemy”: otto mesi, per diffamazione a mezzo web. «La sentenza è di quelle storiche, capaci di creare un precedente», scrive Giorgia Marino sulla “Stampa”, che saluta «forse anche un cambio di rotta, in tempi in cui odio digitale ed esacerbata violenza verbale impediscono troppo spesso un pacato e civile dialogo online». Tutto nasce nel 2013, quando Bencivelli scrive un articolo che la stessa Marino definisce “di giornalismo scientifico”. «Dopo appena mezz’ora dalla pubblicazione online, sulla casella di posta elettronica della giornalista arriva una email di Marcianò: “Non ti vergogni?”. Da quel momento – scrive Giorgia Marino – comincia un vero e proprio mail-bombing da parte dei seguaci di Marcianò, a cui segue una valanga di messaggi aggressivi su Facebook, incitati dallo stesso guru delle scie chimiche».«Una bufera a cui non ero minimamente preparata», sostiene Silvia Bencivelli: «Io mi occupo di neutrini e balene, mai avrei pensato di poter suscitare un tale odio con un mio scritto». Si occupa di neutrini e balene, ma ha affrontato anche il tema delle scie chimiche. Come? Definendo il fenomeno “la leggenda di una bufala”. Sicurezza tolemaica, esibita già a partire dal sottotitolo: “Come una storia inventata da due truffatori americani nel 1997, per colpa dell’irrazionalità e dell’antiscienza, è diventata un articolo di fede”. Dunque quelle scie bianche sono rilasciate “dall’irrazionalità e dall’antiscienza”, non dagli aerei? Nell’articolo, la Bencivelli rievoca la storia di due statunitensi, Richard Finke e Larry Wayne Harris, che per reclamizzare la Lwh Consulting, società di consulenza contro gli attacchi terroristici, nel 1997 «cominciarono a spammare email in cui annunciavano l’imminenza di un attacco», con il batterio della peste bubbonica nebulizzato in atmosfera. A seguire, un “mailing” aggressivo sulla presunta irrorazione con sostanze tossiche mescolate al carburante degli aerei: «Le linee che riempiono i nostri cieli non sono scie di condensazione: vengono disperse e possono durare ore, rilasciando lentamente il flagello». La bufala cominciò così a volare, scrive Bencivelli, approdando sui media americani grazie al giornalista William Thomas, che ha lanciato “Skyder Alert”, il primo social network per appassionati di “chemtrails”: scaricato su smartphone, permette di inviare direttamente ai propri politici di riferimento le foto del cielo solcato da strisce bianche.«Sì, perché le principali prove dell’esistenza del fenomeno sono, al momento, fotografie del cielo», aggiunge Silvia Bencivelli nel suo articolo del 2013, citando “leggende” come quella degli “elicotteri neri” e “arei invisibili” che rilascerebbero veleni. Ma, a parte le dicerie sui vettori-fantasma, che dire delle scie che infestano lettaralmente il cielo da una quindicina d’anni? «Nella loro versione tradizionale», scrive la giornalista, «le scie chimiche vere e proprie sarebbero bianche e si riconoscerebbero dalle normali scie di condensazione degli aerei perché più spesse, più durature e genericamente insolite e sospette». Sarebbero? Certo: si usa il condizionale, di fronte alle scie bianche, come se chiunque non le potesse vedere. «Sarebbero anche recenti, cose degli ultimi vent’anni», aggiunge Bencivelli, «a dispetto di documenti fotografici risalenti alla guerra civile spagnola e alla seconda guerra mondiale che mostrano il cielo striato dalle tracce dei bombardieri». Qui bisogna ricorrere a Orwell: a meno di non metter mano a Photoshop, infatti – tra le foto scattate, a miliardi, sul pianeta Terra – è praticamente impossibile vedere (in tempo di pace) cieli striati di bianco, prima del Duemila. Oggi, viceversa, come chiunque può constatare – chiunque, ma non il giornalismo “scientifico” – non esiste più alcun orizzonte interamente blu, se non in giorni di forte vento: l’atmosfera è letteralmente coperta dalla griglia candida stesa in cielo ogni giorno dai “pittori” alati.Come da copione, in questi casi il mainstream si rivolge al Cicap, il think-tank fondato alla fine degli anni ‘80 su impulso di Piero Angela. L’iniziale Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sul Paranormale, proprio nel 2013 ha cambiato pelle: il suo “controllo” si è concentrato sulle Affermazioni sulle Pseudoscienze. L’uomo Cicap immancabilmente citato da Silvia Bencivelli nel suo celebre articolo sulla “Stampa” è Simone Angioni, chimico dell’università di Pavia. Lo schema è ripetitivo: Angioni si limita a parlare delle innocue scie di condensazione, quelle che “seguono” l’aereo per pochi chilometri, dissolvendosi rapidamente. Un giornalista, “scientifico” o no, a questo punto dovrebbe fare domande. Per esempio: le scie sono aumentate? Da quando sono comparse le scie “persistenti”? Sono provocate dal carburante degli aerei o da mutate condizioni atmosferiche? C’è da preoccuparsi o possiamo stare tranquilli? In altre parole: cosa sono, tutte quelle scie che ormai velano il sole e che vent’anni da non c’erano? Ma niente: non se ne parla proprio, laddove si svela “la leggenda di una bufala”. Il chimico Angioni preferisce un altro tema: la descrizione delle dicerie comuni, a cura del “complottismo”, sulla composizione delle scie. «Per qualcuno, di recente – aggiunge il tecnico del Cicap – c’è anche il sospetto di un complotto internazionale per indurre modifiche climatiche con microparticelle metalliche o cose simili, che nasce dalla confusione con esperimenti veri, e pubblici, di modifica di microcondizioni climatiche».Esperimenti veri, e pubblici, di modifica di microcondizioni climatiche? Questa sì che è una notizia, ma a quanto pare è fuori dalla portata dal nostro giornalismo “scientifico”. Il report “owning the weather” diffuso dal generale Fabio Mini, già a capo della missione Nato in Kosovo, è rimasto per lo più confinato nel recinto “cospirazionista” del web, così come le tesi sulla geoingegneria esposte a Erice dallo scienziato americano Edward Teller, il primo a parlare di “aerosol” nei cieli. «Ma in sostanza, niente di dimostrato e niente, alla fine, di veramente spaventoso», si legge nell’articolo della Bencivelli sulle scie, rassicurante solo per i ciechi. «Solo una bufala che vola», insiste, nonostante le innumerevoli interrogazioni parlamentari sul tema e il riprovevole spazio concesso alle ipotetiche “chentrails” da trasmissioni come “Voyager” e da emittenti come “Radio Deejay”. Ma attenzione: «Non è un vero business», precisa il chimico Angioni, improvvisandosi esperto di comunicazione: «Piuttosto serve ad avere l’attenzione dei media e del pubblico, fino alla prima serata in tv», quando finalmente si parlerà di cose più serie. «Nonostante tutto, la bufala delle scie chimiche continua a viaggiare indisturbata». Perché? Secondo Angioni, per una ragione umanissima: «La convinzione di essere i salvatori del mondo è appagante, soprattutto se si può diventare eroi restando comodamente seduti alla propria scrivania».Al contrario, «rivedere le proprie convinzioni significa tornare alla dura realtà», sostiene il chimico del Cicap. «Così molti preferiscono rimanere nel mondo delle cospirazioni globali». Il mondo dei complotti: «Quello in cui le bufale volano, per esempio», chiosa Silvia Bencivelli, il cui caso – le minacce, ora sanzionate dalla magistratura – torna ad alimentare la campagna di stampa contro il web. Silenzio assoluto, invece, sulle fake news che i grandi media continuano a fabbricare: solo “Pandora Tv” ha raccontato la storia di Hassan Djab, 11 anni, trasformato – in cambio di un po’ di cibo – in “comparsa” per il video girato dagli Elmetti Bianchi per simulare le conseguenze del presunto attacco chimico a Douma, servito da pretesto per il bombardamento missilistico ordinato da Trump. Giornali e televisioni? Hanno parlato dei “gas di Assad”, poi hanno voltato pagina. «I Caschi Bianchi tentano di corrompere anche il mondo dello spettacolo», denuncia Roger Waters in un concerto a Barcellona, dopo che qualcuno aveva cercato di ingaggiare l’ex Pink Floyd per la “crociata” contro la Siria. E’ vero, sui social media circola molto odio, protetto dall’anonimato dei nickname. Le menzogne veicolate dalla grande stampa, invece, fanno volare i missili. Le scie chimiche? Sembrano una piccola palestra di deformazione della realtà. Non viene in mente, al Cicap, che per dissipare le più fervide fantasie “complottistiche” basterebbe un pizzico di verità? Chi si azzarderebbe ancora a romanzare ipotesi fantasiose, se finalmente un governo si decidesse a spiegare cosa sono, quelle scie bianche che tutti (tranne il giornalismo “scientifico”) vedono invadere il cielo, da una ventina d’anni?Tu chiamalo, se vuoi, giornalismo. Nessuno sa o vuole spiegare come mai i cieli non sono più azzurri, ma a strisce bianche. Eppure la colpa è dei “complottisti”, non dei governi che tacciono sul fenomeno. Non fa eccezione la reporter Silvia Bencivelli, letteralmente bombardata da «un crescendo di insulti e minacce sui social (spesso a sfondo sessuale)», dopo un articolo scritto per “La Stampa” nel 2013, dal titolo: “Scie chimiche, la leggenda di una bufala”. Un assedio intimidatorio che, scrive ora su “Repubblica”, «mi ha costretto a vivere nella paura» da quando un “branco” di ostinati “cospirazionisti” l’ha presa di mira. Ora è stato condannato (in primo grado) quello che la Bencivelli definisce “il capobranco”: si tratta di Rosario Marcianò, del blog “Tanker Enemy”: otto mesi, per diffamazione a mezzo web. «La sentenza è di quelle storiche, capaci di creare un precedente», si compiace Giorgia Marino sulla “Stampa”, che saluta «forse anche un cambio di rotta, in tempi in cui odio digitale ed esacerbata violenza verbale impediscono troppo spesso un pacato e civile dialogo online». Tutto nasce nel 2013, quando Bencivelli scrive un articolo che la stessa Marino definisce “di giornalismo scientifico”. «Dopo appena mezz’ora dalla pubblicazione online, sulla casella di posta elettronica della giornalista arriva una email di Marcianò: “Non ti vergogni?”. Da quel momento – scrive Giorgia Marino – comincia un vero e proprio mail-bombing da parte dei seguaci di Marcianò, a cui segue una valanga di messaggi aggressivi su Facebook, incitati dallo stesso guru delle scie chimiche».
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Ciccarelli: reddito di base, il web fa miliardi col nostro lavoro
Dovrebbero pagarci per il solo fatto di esistere: ogni giorno, infatti, produciamo un’immensa mole di “lavoro”, non riconosciuto né contrattualizzato. Il reddito di base, universale e senza condizioni, oggi andrebbe sganciato dal lavoro, essendo «una delle possibili forme di remunerazione delle attività che già svolgiamo nella società e nell’economia, anche in quella digitale». Dunque «non una forma di riparazione o di assistenza contro la povertà», ma una nuova frontiera della convivenza: è la tesi che Roberto Ciccarelli, giornalista e filosofo, esprime nel saggio “Forza lavoro. Il lato oscuro della rivoluzione digitale” (DeriveApprodi). Sharing economy, gig economy, free lance, robot: l’ufficio e la fabbrica non sono più le uniche sorgenti del “plusvalore”. Un valore invisibile, come quello al quale attinge Facebook: più tempo passiamo a mettere “like” o a esprimere opinioni, più il social network ci profila, acquisisce dati, li rielabora ad uso dell’offerta pubblicitaria, che è il cuore del suo business. Come dimostra il caso di Cambridge Analytica, scrive Giacomo Russo Spena su “Micromega”, il nostro lavoro è usato per costruire “frame” interpretativi «sempre più decisivi nella produzione del consenso, attraverso sofisticate strategie di marketing elettorale nelle post-democrazie neoliberali della demagogia elettronica». Così si crea profitto: «Un enorme guadagno su quel valore che abbiamo prodotto attraverso il nostro intrattenimento digitale».Lo stesso avviene per i motori di ricerca, Google in primis. Ciccarelli lo descrive dettagliatamente nel suo libro. «I nuovi monopoli digitali che, sfruttando la retorica idiota dell’utopia web, accumulano ricchezze su ricchezze creando nuove disuguaglianze, sfruttando ogni più piccolo aspetto delle nostre vite, producendo in modo opaco nuove strutture di potere verticistiche, più che di discussione e partecipazione paritaria». E’ evidente: «Questo gigantesco apparato in cui siamo immersi non esisterebbe senza di noi. Senza la nostra forza lavoro, la nostra intelligenza, i nostri “amici” e le relazioni che costruiamo con loro». Ciccarelli ridefinisce questa realtà materiale del funzionamento dell’economia digitale ricorrendo alla definizione di “forza lavoro” data da Karl Marx: categoria con facoltà di produrre valori d’uso. «Chi oggi ha capito meglio questa definizione sono i nuovi capitalisti della Silicon Valley che, attraverso le piattaforme del Web 2.0, hanno inventato un sistema che permette di sfruttare, senza intermediari, la potenza di questa forza lavoro senza tuttavia riconoscere un centesimo – o poco più – a chi lavora per loro, pur non avendone consapevolezza».Nel saggio di Ciccarelli, i robot non sono considerati un nemico: basta rovesciare l’algoritmo che oggi impiega la macchina a discapito dell’uomo. Il reddito di base? «In sé non basta, perché altrimenti rischierebbe di essere una “mancia” data dai capitalisti ai loro schiavi». Occorre invece «una politica coraggiosa, che associ a una misura universalistica di reddito nuova disciplina fiscale, contro le diseguaglianze, una riforma del welfare». Il reddito di base, aggiunge Ciccarelli, è anche un modo per contrastare precarietà, “working poors” e dumping salariale. Una via per riaffermare la dignità dell’individuo. «Il reddito permetterebbe di respingere ogni forma di subordinazione e afferma l’autonomia dell’essere umano. Abbiamo bisogno anche di salario, diritti sociali, tutele universalistiche e un’etica dell’autodifesa digitale». Alla rivendicazione di questi aspetti – scrive – va associata una prospettiva più ampia: non basta un rapporto di lavoro ben regolato per interrompere lo sfruttamento continuo di ogni aspetto della nostra vita, «vanno trovati strumenti per dare la libertà a ciascuno di rifiutare i ricatti». E quello strumento è il reddito incondizionato. «Non è una proposta né utopistica né da scansafatiche, ma l’unico modo per arginare disuguaglianze, lavoro povero e precarietà: una proposta al passo con la trasformazione delle nostre società».La battaglia sul reddito di cittadinanza – patrimonio culturale e politico della sinistra – è passata ad essere pilastro del Movimento 5 Stelle, che l’ha inserito tra i propri punti programmatici. Di recente, sul suo blog, Beppe Grillo ha parlato di “reddito di nascita”, sganciato dalla produttività capitalistica, anche in realtà si configura come una forma di pura assistenza per i disoccupati, condizionata alla ricerca di un impiego. Il movimento Diem25, fondato dall’ex ministro delle finanze greco Yanis Varoufakis, fa un’altra proposta: attingere ai profitti delle grandi corporations invece che alla tassazione generale. La tesi: le grandi innovazioni tecnologiche si appoggiano quasi sempre su investimenti pubblici in ricerca di base, mentre le compagnie più innovative sfruttano una produzione collettiva di ricchezza, come quella dei Big Data. Ma gli immensi profitti che ne derivano vengono ripartiti esclusivamente fra un numero limitato di azionisti. Il “dividendo di base universale” di Diem25, invece, propone di allargare i benefici a tutta la collettività. Come? Riservando una piccola percentuale delle azioni di tutte le compagnie quotate in Borsa ad un fondo comune di proprietà pubblica, che li riverserebbe poi alla cittadinanza in forma di reddito di base.(Il libro: Roberto Ciccarelli, “Forza lavoro. Il lato oscuro della rivoluzione digitale”, DeriveApprodi, 219 pagine, 18 euro).Dovrebbero pagarci per il solo fatto di esistere: ogni giorno, infatti, produciamo un’immensa mole di “lavoro”, non riconosciuto né contrattualizzato. Il reddito di base, universale e senza condizioni, oggi andrebbe sganciato dal lavoro, essendo «una delle possibili forme di remunerazione delle attività che già svolgiamo nella società e nell’economia, anche in quella digitale». Dunque «non una forma di riparazione o di assistenza contro la povertà», ma una nuova frontiera della convivenza: è la tesi che Roberto Ciccarelli, giornalista e filosofo, esprime nel saggio “Forza lavoro. Il lato oscuro della rivoluzione digitale” (DeriveApprodi). Sharing economy, gig economy, free lance, robot: l’ufficio e la fabbrica non sono più le uniche sorgenti del “plusvalore”. Un valore invisibile, come quello al quale attinge Facebook: più tempo passiamo a mettere “like” o a esprimere opinioni, più il social network ci profila, acquisisce dati, li rielabora ad uso dell’offerta pubblicitaria, che è il cuore del suo business. Come dimostra il caso di Cambridge Analytica, scrive Giacomo Russo Spena su “Micromega”, il nostro lavoro è usato per costruire “frame” interpretativi «sempre più decisivi nella produzione del consenso, attraverso sofisticate strategie di marketing elettorale nelle post-democrazie neoliberali della demagogia elettronica». Così si crea profitto: «Un enorme guadagno su quel valore che abbiamo prodotto attraverso il nostro intrattenimento digitale».
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Cabras: Siria, solo bugie. Per annullare le elezioni italiane?
Usare l’intervento occidentale nella crisi siriana per giustificare in Italia un governo che annacqui i risultati del 4 marzo? «Nulla è come appare nel grande groviglio siriano», premette Pino Cabras, coordinatore del blog “Megachip” e ora neoeletto parlamentare 5 Stelle. La Siria? E’ l’ombelico di un intrico ancora più grande, che si propaga sul mondo. Primo guaio: la narrazione dei mass media dominanti. «E’ la risultante di infinite manipolazioni», al punto che «per chi la accetta passivamente è impossibile capire la realtà». Quella narrazione, poi, in Italia «si intreccia con le eterne pressioni che si scaricano da sempre sulla politica italiana». Cabras segue da molti anni la crisi siriana, che il riflesso di una crisi più vasta, in cui «certi equilibri cambiano ogni giorno, mentre certi cliché non cambiano mai». Prima notizia: il bombardamento della notte del 14 aprile tecnicamente non ha avuto nessun impatto strategico-militare reale. «Del centinaio di missili lanciati il 70% è stato abbattuto dall’antiaerea siriana che usa vecchi sistemi sovietici. Il rimanente 30% ha colpito perlopiù edifici abbandonati privi di qualsiasi interesse strategico e un laboratorio dove si producevano farmaci». Il raid missilistico avrebbe colpito una fabbrica di armi chimiche? Notizia ridicola, interamente falsa.Molti missili, spiega Cabras, sono stati lanciati contro il centro di ricerca e sviluppo di Barzah, ritenuto colpevole, secondo le dichiarazioni ufficiali, di “produrre clorina e Sarin”. Solo che il 22 novembre scorso, aggiunge, l’Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche (Opcw) aveva ispezionato proprio il centro di Barzah e aveva escluso che producesse armi chimiche. I risultati sono stati riconfermati il 23 e il 28 febbraio di quest’anno, come documentato da un report del 13 marzo. «In pochi minuti – scruve Cabras su “Megachip” – le forze armate statunitensi hanno mandato in fumo proprie dotazioni per un valore di duecento milioni di dollari e i fornitori di missili si sono sfregati le mani perché saranno loro a ricostituire le scorte. Mi pare chiaro – aggiunge – che a Washington non abbiano nemmeno lontanamente voluto sfidare la vera capacità di risposta dell’alleato di Damasco, la Russia, che disponeva sia di sistemi antimissile di trent’anni più avanzati rispetto a quelli delle forze armate siriane, sia di capacità di rappresaglia in grado di annichilire tutti i punti di lancio dei missili (navi o altro)». Questo, secondo Cabras, significa che all’interno dell’amministrazione Trump «quelli che volevano una guerra di grandi proporzioni sono stati gentilmente accompagnati a un vicolo cieco, almeno per ora».Altra deduzione: «C’erano canali di comunicazione fra le capitali occidentali e Mosca per assicurarsi che la costosissima e rischiosissima rappresentazione teatrale non generasse equivoci ed escalation». Risultato: «Alla fine tutti salvavano la faccia». Nondimeno, «fa impressione che dentro questa consapevolezza in qualche misura “collaborativa” sul limite da non oltrepassare (dove comunque i russi erano in massima allerta), la pièce dovesse comunque svolgersi con tutti i suoi sviluppi obbligati, dalle esplosioni alle indignazioni ai titoloni alle riunioni Onu. Tutto dannatamente teatrale, eppure autentico». Le armi di distruzione di massa? Fantasma evocato poche settimane prima a Londra, con il presunto “gas” impiegato contro l’ex spia in pensione Sergeij Skripal. «Vengono richiamate come un feticcio, un’allusione a un tabù storico che fa oltrepassare una “linea rossa”: laddove si allude a un gas si allude a un qualche nuovo Hitler da strapazzare. Per chi spinge alla guerra, le prove non contano più nulla: conta solo un’opinione sul gas, non importa se sia cloro, Sarin, o il misteriosissimo gas “di consistenza gelatinosa” di cui parla l’imprenditore mediatico Roberto Saviano», unitosi al coro russofobo (non si sa in basi a quali informazioni e competenze).«Si prendono per oro colato notizie inverificabili provenienti da ambienti compromessi con l’oscurantismo jihadista e le si usa per una rapida hitlerizzazione di un qualche governante da abbattere con i mezzi della guerra totale in un contesto alle soglie della guerra atomica, come se i disastri e le menzogne delle aggressioni all’Iraq e alla Libia non avessero insegnato nulla», sottolinea Cabras. «Di fronte a rischi così forti risulta essere un gravissimo errore intellettuale e politico (purché non si tratti di malafede) il sollecitare nel pubblico reazioni emotive incontrollate ed esasperate, basate su dicerie rilanciate da un circuito politico-mediatico gravato da pessimi precedenti che lo rendono inattendibile». Se non alro, aggiunge il neo-parlamentare, è confortante notare che in questo contesto difficoltoso, in cui le pressioni sono molto intransigenti, emergano prese di coscienza ragionate come quella dell’ex ambasciatore britannico in Siria, Peter Ford, che punta il dito sull’ultimo “caso gas” in Siria, da lui visto come «l’ennesima creazione della premiata ditta jihadista per giustificare il pretesto per una guerra totale». E comunque, per quanto il bombardamento del 15 aprile fosse sostanzialmente “contraffatto”, gli Stati Uniti, il Regno Unito e la Francia hanno violato in modo “vero” la legalità internazionale, eccome.«Si è trattato di un’aggressione – l’ennesima – a carico di un paese sovrano che fa parte dell’Onu, con effetti indiretti in grado di generare comunque pericolose ripercussioni». Ad esempio, aggiunge Cabras, non è la prima volta che in occasione di aggressioni dirette delle potenze occidentali a danno delle forze armate siriane, i tagliagole dell’Isis lancino delle offensive con qualche successo: anche in questa circostanza, infatti, l’esercito siriano – in vista dell’attacco annunciato – ha dovuto lasciare sguarnite certe aree contese con l’Isis, che ne ha approfittato all’istante. «Non va mai dimenticato che chi ha retto l’urto dell’Isis fino a infliggergli sconfitte decisive è stata la Siria, con l’aiuto decisivo della Russia. È imperdonabile oggi voler offrire altre chances all’Isis». Usa, Gran Bretagna e Francia sono, al tempo stesso, membri del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite con diritto di veto e membri del “club nucleare”: «In questa veste si sono ripreso ancora una volta il ruolo abusivo di potenze sciolte dal vincolo di dover sottostare a importantissime norme internazionali». Con queste azioni, «fanno valere un peso speciale che comprime le alleanze sovranazionali di cui fanno parte, soggette costantemente a subire la loro preponderanza».Nella Nato e nella Ue, questi paesi sono “animali più uguali degli altri”, per usare la metafora orwelliana. «Dispongono di mezzi diplomatici fortemente orientati a far valere questa preponderanza», e quindi «presidiano abilmente l’ordine del giorno dei principali media per stabilire l’agenda delle notizie e condizionare le mosse degli attori internazionali nonché il sentimento medio dell’opinione pubblica». E così facendo «zavorrano gli spazi di manovra delle personalità politiche nazionali con lacci e lacciuoli». In Italia, nella scorsa legislatura, la commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro «ha messo agli atti alcune importanti scoperte sulle dinamiche che hanno condizionato nel corso dei decenni la sovranità italiana per via del peso di alleati che da un lato ci sono amici, dall’altro ci investono con mille pressioni e azioni ostili e perfino golpiste», ricorda Cabras. «Non è solo materia sanguinosa di una storia passata, è ancora carne viva e dolente della politica italiana attuale: vi saremo ancora dentro finché non rinunceremo ad esercitare un ruolo nel Mediterraneo e nel Medio Oriente». Per uscirne, dovremmo smettere di «appaltare tutta la nostra politica estera a potenze straniere», e cessare di concepire le alleanze «come meri vassallaggi, anziché come partecipazioni più equilibrate».Ognuno degli attori politici attuali, aggiungeil neo-deputato Cabras, sa perfettamente di affrontare «una perenne corrente di influenze esterne profondamente radicate nel sistema», influenze «a cui non par vero di sfruttare ogni spiraglio generato da una crisi di governo difficilissima come quella di oggi». Per cuio, se “nulla è come appare”, ogni parola spesa per risolvere la crisi di governo «nasce in un contesto che non ammette semplificazioni». Il quadro degli accordi di governo possibili in Italia, ammette Cabras, «è gravemente condizionato dal fatto che pezzi significativi del sistema politico (e molti apparati) hanno un’abitudine ormai rodata a sottomettersi a coloro che dicono “fate presto”». Lo spiega bene Debora Billi su “ByoBlu”: «I media come sempre fanno la loro parte, che è poi quella del leone. Remano con forza nella direzione del governo “responsabile”, con la speranza che le leve del comando siano riconsegnate a chi le ha tenute saldamente finora, tradendo così la volontà popolare del 4 marzo. Ma anche molti media alternativi sul web – forse non volontariamente – contribuiscono allo stesso “frame”, pretendendo a gran voce dai politici più in vista dichiarazioni adamantine contro la guerra, contro la Nato, contro gli alleati, e stigmatizzando come servo e zerbino chi non ottempera all’istante».I social fanno il resto – aggiunge la Billi – alimentando tra gli stessi cittadini quella battaglia ideologica, «e chiudendo così il cerchio destinato a legare inestricabilmente il futuro governo agli eventi di questi giorni in Siria». Molti stanno inconsapevolmente lavorando, come si usa dire, per il Re di Prussia. E rischiano di far sì che si abbiano «i missili sulla Siria come movente perfetto per cancellare con un colpo di spugna la scomoda volontà popolare: sta quindi a noi non cadere nella trappola, e continuare a reclamare un governo che rispecchi ciò che è accaduto il 4 marzo e non ciò che è accaduto il 14 aprile». Per Cabras, è importante risolvere la partita del governo senza farsi vincere dalla fretta, anche in materia di politica estera. Il programma esteri con cui il Movimento 5 Stelle si è presentato alle elezioni – sostiene Cabras – offre spunti «decisivi» per costruire assieme ad altre forze parlamentari «un accordo di governo grazie al quale la Repubblica Italiana possa recuperare il proprio importante ruolo di grande mediatore del Mediterraneo, con un governo in grado di vantare un approccio profondamente iscritto nella vocazione storica dell’Italia democratica». Un approccio «molto più equilibrato rispetto a quello imposto da chi in questi anni ha usato la guerra per nuove avventure neocoloniali, tutte dannose anche per la nostra repubblica».Usare l’intervento occidentale nella crisi siriana per giustificare in Italia un governo che annacqui i risultati del 4 marzo? «Nulla è come appare nel grande groviglio siriano», premette Pino Cabras, coordinatore del blog “Megachip” e ora neoeletto parlamentare 5 Stelle. La Siria? E’ l’ombelico di un intrico ancora più grande, che si propaga sul mondo. Primo guaio: la narrazione dei mass media dominanti. «E’ la risultante di infinite manipolazioni», al punto che «per chi la accetta passivamente è impossibile capire la realtà». Quella narrazione, poi, in Italia «si intreccia con le eterne pressioni che si scaricano da sempre sulla politica italiana». Cabras segue da molti anni la crisi siriana, che il riflesso di una crisi più vasta, in cui «certi equilibri cambiano ogni giorno, mentre certi cliché non cambiano mai». Prima notizia: il bombardamento della notte del 14 aprile tecnicamente non ha avuto nessun impatto strategico-militare reale. «Del centinaio di missili lanciati il 70% è stato abbattuto dall’antiaerea siriana che usa vecchi sistemi sovietici. Il rimanente 30% ha colpito perlopiù edifici abbandonati privi di qualsiasi interesse strategico e un laboratorio dove si producevano farmaci». Il raid missilistico avrebbe colpito una fabbrica di armi chimiche? Notizia ridicola, interamente falsa.
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Non basta uscire da Facebook, va chiusa anche WhatsApp
Non è così facile “mollare” Facebook e la sua rete di collegamenti: per uscire dal “radar” del più vasto social network al mondo, infatti, non basta cancellare il proprio profilo. Lo spiega Paolo Magliocco sulla “Stampa”, pensando soprattutto all’esodo di massa che sarebbe in corso: molti utenti sono infatti intenzionati ad abbandonare la piattaforma digitale più diffusa sul pianeta, dopo lo scandalo Cambridge Analytica: i dati di 50 milioni di statunitensi registrati da Facebook sono stati poi utilizzati da una società privata per la campagna elettorale presidenziale del 2016 ch ha incoronato Donald Trump. L’accusa: trasferendo i Big Data, Facebook ha consentito agli uomini reclutati da Steve Bannon di conoscere in anticipo l’orientamento elettorale di milioni di americani, “leggendo” alla perfezione anche il loro profilo psicologico, le loro abitudini, le loro intenzioni e forse anche i loro pensieri più reconditi, neppure ancora espressi. Alcuni utenti di Facebook adesso «hanno scoperto che i dati conservati dal social network sono molto più ampi di quanto immaginato». Dati che infatti «comprendono il registro di telefonate e messaggi di ogni genere, da Messenger a Whatsapp e agli Sms». Il movimento “#deletefacebook” ha raccolto adesioni di persone note, come la cantante Cher, l’industriale Elon Musk (proprietario di Tesla e SpaceX) e il cofondatore di Whatsapp, Brian Acton.Il patron di Facebook, Mark Zuckerberg, ha detto al “New York Times” di non ritenere che ci sia stato un numero significativo di abbandoni di Facebook. Molti siti, aggiunge “La Stampa” hanno intanto spiegato che, in realtà, cancellare il proprio account non è sufficiente per smettere di fornire dati al social network. La canadese “Ctv News” ricorda (pubblicando il contenuto anche su Facebook) che la società di Zuckerberg ha acquisito Instagram nel 2012 e poi i sistemi di messaggistica Cros e Whatsapp, nonché la società per lo sviluppo di realtà virtuale OculusVr e lo stesso Tbh, il social network usato soprattutto dai più giovani. L’amara soerpresa? «I termini per l’uso dei dati e la privacy di queste società permettono lo scambio di dati con Fb», scrive Magliocco. «La società di Zuckerberg, quindi, continuerebbe a raccogliere informazioni sulle persone attraverso queste altre app, se non vengono anch’esse abbandonate». E non è tutto: pure utilizzare il proprio account di Facebook per risparmiare tempo quando ci si iscrive ad altre applicazioni, come Airbnb, «probabilmente mette in collegamento i dati registrati da queste app con il social network». Se si vuole sapere quali siano queste applicazioni “contagiose” si può accedere al loro elenco attraverso il menù “impostazioni”.Inoltre, come ha dimostrato proprio il caso di Cambridge Analytica, i dati possono essere raccolti anche attraverso il collegamento con gli altri, aggiunge la “Stampa”: «Per essere certi che le proprie informazioni siano al sicuro non bisognerebbe essere in contatto con altre persone attraverso applicazioni che, nelle impostazioni usate da queste persone, siano potenzialmente collegate con Facebook». Ma ci vuol altro, per scoraggiare gli utenti di Facebook – ormai 2 miliardi, in tutto il mondo. Il quotidiano torinese cita lo psicanalista Aaron Balick, autore del libro “The Psychodynamics of Social Networking”, intervistato dall’edizione britannica di “Wired”. Per Balick, il problema nel lasciare Facebook sarebbe soprattutto di ordine psicologico: la preoccupazione per la propria privacy non supererebbe ancora la comodità di mantenere rapporti attraverso il social network, perché «a questo punto Facebook è integrato nelle nostre vite di relazione». Come dire: sappiamo di essere in trappola, ma ci restiamo tranquillamente. E pazienza se ogni nostro sospiro viene schedato e tradotto in numeri, a beneficio del marketing o del controllo politico.Non è così facile “mollare” Facebook e la sua rete di collegamenti: per uscire dal “radar” del più vasto social network al mondo, infatti, non basta cancellare il proprio profilo. Lo spiega Paolo Magliocco sulla “Stampa”, pensando soprattutto all’esodo di massa che sarebbe in corso: molti utenti sono infatti intenzionati ad abbandonare la piattaforma digitale più diffusa sul pianeta, dopo lo scandalo Cambridge Analytica: i dati di 50 milioni di statunitensi registrati da Facebook sono stati poi utilizzati da una società privata per la campagna elettorale presidenziale del 2016 ch ha incoronato Donald Trump. L’accusa: trasferendo i Big Data, Facebook ha consentito agli uomini reclutati da Steve Bannon di conoscere in anticipo l’orientamento elettorale di milioni di americani, “leggendo” alla perfezione anche il loro profilo psicologico, le loro abitudini, le loro intenzioni e forse anche i loro pensieri più reconditi, neppure ancora espressi. Alcuni utenti di Facebook adesso «hanno scoperto che i dati conservati dal social network sono molto più ampi di quanto immaginato». Dati che infatti «comprendono il registro di telefonate e messaggi di ogni genere, da Messenger a Whatsapp e agli Sms». Il movimento “#deletefacebook” ha raccolto adesioni di persone note, come la cantante Cher, l’industriale Elon Musk (proprietario di Tesla e SpaceX) e il cofondatore di Whatsapp, Brian Acton.
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Giovani in fuga da Facebook, al riparo dai genitori guardoni
Siccome voglio fare l’influenzzzzer, anzi il guru, anzi il playboy, mi sono iscritto a Instagram! Sì, proprio il social che va per la maggiore tra i “ciòfani” e che agevola le pratiche onanistiche anche delle persone più anziane. «Non posso non esserci», mi sono detto. Anche se Instagram mi sembra più una Bibbia mediatica per segaioli impenitenti, così come all’inizio non mi piaceva Facebook, mi farò andare bene anche Instagram. Non possiamo sottrarci alle novità tecnologiche, fare i luddisti e spaccare le macchine con la clava. Non possiamo tirarci fuori. Ebbene, frequentando il “nuovo” social, mi sono subito accorto di una cosa: tutti i ragazzi che fino a 5 anni fa erano su Facebook, ora sono su Instagram e “fanno finta” di essere ancora presenti nel vecchio social. I loro profili Fb sono morti come Emma Bonino dopo le elezioni del 4 marzo. I loro ultimi commenti risalgono alla terza guerra punica. Su Instagram, invece, pullulano le stories (minchiate galattiche ove fano vedere video di 4 secondi dove fanno versi) e foto ritoccate all’inverosimile che farebbero sembrare figa anche Rosy Bindi. Eppure, diciamocelo chiaro: Instagram non arriva neanche ai garretti di Facebook.In Facebook si possono fare tutte le cose di Instagram e molte di più. Su Fb puoi mettere video e musica, mentre su Instagram hai pochi secondi di sintesi che ti lasciano più insoddisfatto di Donald Trump al cospetto di Putin. Su Fb puoi fare dialoghi così lunghi e articolati che metterebbero in imbarazzo Platone. Su Fb veicoli immagini di tutte le dimensioni, mentre su Instagram occorre accontentarsi dei miseri pixel offerti dagli smartphone, con relativi ritagli. Insomma, non ha alcun senso usare Instagram, bastava che Zuckerberg si adoperasse un attimo per ottimizzare meglio Fb ai telefonini 2.0 e il gioco era fatto. Invece, l’informatico di Harvard ha preferito comprarsi tutto il pacchetto di Instagram. Aveva forse intuito che i “ciòfani” sarebbero transitati in massa sul nuovo social? E comunque, perchè lo fanno? Il motivo me l’han fatto capire mia figlia dodicenne e una studentessa, che alzano il sopracciglio ad ogni mio post con aria compassionevole. E proprio mi sorprendo di non averlo capito prima. Fuggono da noi! Fuggono dagli “adulti” e dalla loro smania di sembrare giovani. Fuggono dai discorsi politici e dalle polemiche infinite dei thread. Fuggono da adulti guardoni, sempre fuori sincrono e impacciati con le nuove tecnologie, anche se fingono di saperla lunga. Fuggono dal controllo.La grande fuga è iniziata già da qualche tempo, ma nel 2018 è destinata ad aumentare in modo clamoroso. Le ragioni dunque sono social-familiari. La prima è che su Fb, o anche su Twitter, ci sono tanti genitori che “spiano”. In questi ultimi mesi, e proprio come ha fatto il sottoscritto senza averci pensato, gli adulti stanno arrivando anche su Instagram e i ragazzi non a caso hanno aperto anche dei nuovi profili Snapchat (un social ancora più “evanescente” di Instagram). Non mi stupirei affatto se, continuando così, le nuove generazioni transitassero armi e bagagli nel Deep Web, l’Internet oscuro e demoniaco dove trovi anche i kalashnikov in vendita e dove preti e puttanieri si scambiano i ruoli. La verità è che i ragazzi fanno benissimo e che noi adulti dobbiamo piantarla. Siamo decisamente più ridicoli e patetici dei nostri vecchi quando facevano la loro comparsata in discoteca alle undici di sera fingendo di bersi un bicchiere al bar. Dobbiamo invecchiare, farci crescere la barba, andare a caccia, comprarci l’Ape, fare la legna e toglierci dalle palle. Però comincate voi che mi leggete; io infatti orami sono un influenzzzer, guru, blogger e tutto il repertorio.(Massimo Bordin, “Fuga da Facebook”, dal blog “Micidial” del 12 marzo 2018).Siccome voglio fare l’influenzzzzer, anzi il guru, anzi il playboy, mi sono iscritto a Instagram! Sì, proprio il social che va per la maggiore tra i “ciòfani” e che agevola le pratiche onanistiche anche delle persone più anziane. «Non posso non esserci», mi sono detto. Anche se Instagram mi sembra più una Bibbia mediatica per segaioli impenitenti, così come all’inizio non mi piaceva Facebook, mi farò andare bene anche Instagram. Non possiamo sottrarci alle novità tecnologiche, fare i luddisti e spaccare le macchine con la clava. Non possiamo tirarci fuori. Ebbene, frequentando il “nuovo” social, mi sono subito accorto di una cosa: tutti i ragazzi che fino a 5 anni fa erano su Facebook, ora sono su Instagram e “fanno finta” di essere ancora presenti nel vecchio social. I loro profili Fb sono morti come Emma Bonino dopo le elezioni del 4 marzo. I loro ultimi commenti risalgono alla terza guerra punica. Su Instagram, invece, pullulano le stories (minchiate galattiche ove fano vedere video di 4 secondi dove fanno versi) e foto ritoccate all’inverosimile che farebbero sembrare figa anche Rosy Bindi. Eppure, diciamocelo chiaro: Instagram non arriva neanche ai garretti di Facebook.
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Totem e tabù della sinistra che ha rinnegato il socialismo
Il socialismo ha rappresentato l’ideologia umanista per eccellenza, anche se oggi sembra essersi trasformata in un carrozzone, un libro di buoni propositi, certo non realizzabili dalle due sinistre ancora in campo: quella borghese e disincantata, «che ha subordinato l’ideologia progressista e illuminista al pensiero liberista e ad una astratta morale liquida», e la sinistra “popolare”, radicata in una narrazione «fuori dal tempo», che risponde al liberismo in modo “reazionario” e “arrabbiato”, sfoderando «una morale da internazionale para-religiosa». Una peggio dell’altra: di sicuro, secondo Stefano Pica, non hanno più nulla a che fare con il socialismo «se non su un piano velleitario e di facciata». Quello che sopravvive, in loro, «è il cerimoniale liturgico di slogan, parole d’ordine e riferimenti estetici, che assomigliano più a dei totem sinistri che non ad un reale progetto politico». Sono «totem senz’anima, a cui viene sacrificato il pensiero critico», e che «nascondono insidiosi e inconfessabili tabù». Ovvero: ormai entrambe le sinistre «hanno come riferimento ideologico l’economia di mercato, verso cui assumono atteggiamenti ambivalenti, sottomessi o reazionari». Il progressismo di oggi (con la ‘p’ minuscola) teorizza «un progresso che mira al ripudio della tradizione, dell’appartenenza, di ogni differenza culturale e sociale, con l’unico scopo di neutralizzare l’individualità e la cultura locale».Si tratta quindi di «un progressismo sinistro, che mira ad un livellamento verso il basso della società, minando i confini antropologico-culturali di un paese a vantaggio di una società liquida e amorfa», scrive Pica sul blog del Movimento Roosevelt. Siamo in una società liquida «fondata su un internazionalismo di valori e diritti che in realtà finiscono con l’essere solo dei simulacri di carta», lontani dalla realtà quotidiana dei cittadini. Simulacri «carichi di retorica», che di fatto «nascondono il tabù di un silente desiderio di dominio sulle masse», cui forse la sinistra aspira da sempre, dietro al tabù della «religione del progresso», che si orienta «verso un irraggiungibile futuro migliore», lungo un internazionalismo dei diritti spesso insostenibile, all’interno di una morale condivisa. «In nome del diritto e di una ambigua morale internazional-umanitaria – scrive Pica – viene creato il pretesto per annullare le differenze tra le persone e le culture, offrendo in cambio la democrazia digitale del wi-fi o più genericamente del consumismo», l’unico luogo dove ormai si realizzerebbe una vera uguaglianza. La “causa del popolo” è spesso iper-urbana, sradica la cultura identitaria con la propaganda del multiculturalismo e un utilizzo spregiudicato di un fenomeno migratorio.Il totem del diritto al lavoro nasconde il tabù di un impiego precario, «sottomesso alle regole del mercato», senza una reale analisi sull’effettivo servizio offerto alla comunità, né sul peso umano del lavoratore. «Secondo l’etica di un socialismo postmoderno – agiunge Pica – il lavoro non deve essere più un diritto garantito». Oggi, infatti, «sta avanzando l’idea di un lavoratore asservito al suo lavoro come un moderno “servo della gleba”». Altro totem, l’accoglienza umanitaria senza regole: «Nasconde il tabù di una deportazione di nuovi schiavi da sfruttare», e si parla di «persone con culture e tradizioni spesso incompatibili con quelle del paese ospitante». Il fenomeno «rischia di innescare una dittatura delle minoranze, in virtù di un rispetto della diversità che puzza tanto di un razzismo al contrario». Naturalmente, «se l’obiettivo è il dominio», secondo Pica «torna utile avere un mobbing migratorio impiegato come un grimaldello demografico». E il totem dell’integrazione, specie a vantaggio della cultura islamista (l’Islam politico) cela un altro tabù: il rilancio di «una nuova Internazionale para-religiosa, come rivincita rispetto ad una vocazione internazional-rivoluzionaria mai del tutto realizzata».C’è un processo asimmetrico di stampo post-coloniale, prosegue Pica: «Spetta al “grande e benevolo uomo bianco” educare il “povero nero” o il “diverso”». Tutto questo «innesca una nauseabonda retorica che non ha alcun fondamento logico e analitico per noi italiani (noi stessi culturalmente disomogenei) che non riusciamo a integrare neanche le nostre risorse e perdiamo ogni anno circa 3.000 laureati». Persino ovvio: «Sarebbe logico cominciare ad integrare le nostre risorse», innanzitutto. E invece subiamo anche il totem dei “diritti per tutti”, «che nasconde il tabù di una “socializzazione della miseria” che alla fine tutela solo alcuni a danno di altri». In virtù del diritto, a sinistra, si tollerano spesso comportamenti criminosi, il cui costo è sulle spalle degli italiani più tartassati. «Quando la sinistra è divenuta progressista – scrive Pica – ha iniziato il suo lento declino, diventando la gran sacerdotessa della religione del progresso (che è intrinsecamente legata al liberismo)». Diventando progressista, la sinistra «si è condannata a confluire nel campo liberista, con la conseguente fine dell’opera socialista», insieme a cui «si è interrotto quel processo che ha fornito alle categorie popolari un prezioso linguaggio politico e una certa consapevolezza sul mondo che avevano davanti». Davanti al Totem di un “progressismo sinistro” è stata schiacciata anche la morale condivisa, che è il sale di una sana democrazia. Come diceva Durkheim: «E’ morale tutto ciò che è fonte di solidarietà, tutto ciò che costringe l’uomo a tenere conto dell’altro, a regolare i propri movimenti su qualcosa di diverso dagli impulsi del proprio egoismo».Il socialismo ha rappresentato l’ideologia umanista per eccellenza, anche se oggi sembra essersi trasformata in un carrozzone, un libro di buoni propositi, certo non realizzabili dalle due sinistre ancora in campo: quella borghese e disincantata, «che ha subordinato l’ideologia progressista e illuminista al pensiero liberista e ad una astratta morale liquida», e la sinistra “popolare”, radicata in una narrazione «fuori dal tempo», che risponde al liberismo in modo “reazionario” e “arrabbiato”, sfoderando «una morale da internazionale para-religiosa». Una peggio dell’altra: di sicuro, secondo Stefano Pica, non hanno più nulla a che fare con il socialismo «se non su un piano velleitario e di facciata». Quello che sopravvive, in loro, «è il cerimoniale liturgico di slogan, parole d’ordine e riferimenti estetici, che assomigliano più a dei totem sinistri che non ad un reale progetto politico». Sono «totem senz’anima, a cui viene sacrificato il pensiero critico», e che «nascondono insidiosi e inconfessabili tabù». Ovvero: ormai entrambe le sinistre «hanno come riferimento ideologico l’economia di mercato, verso cui assumono atteggiamenti ambivalenti, sottomessi o reazionari». Il progressismo di oggi (con la ‘p’ minuscola) teorizza «un progresso che mira al ripudio della tradizione, dell’appartenenza, di ogni differenza culturale e sociale, con l’unico scopo di neutralizzare l’individualità e la cultura locale».
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Facebook scheda la nostra mente, senza il nostro consenso
«La stampa italiana sta cercando di “troncare e sopire” quanto è stato fatto da Cambridge Analytica, in una maniera che personalmente trovo indegna: la stanno facendo passare per un furto di dati privati, ovvero per qualche cosa che ha funzionato carpendo dati scritti sul social network». Lo afferma “Böse Büro”, in un post su “Keinpfusch.net” ripreso da “Come Don Chisciotte”. Giornali e televisioni hanno ridotto cioè la cosa ad un fenomeno di privacy, che potrebbe apparentemente essere risolto decidendo cosa scrivere o meno, di sé, su Facebook. «Ma le cose non stanno così: su Facebook non si vedono solo le cose che scrivete, ma anche quelle che non scrivete. Siete trasparenti». Da recenti analisi emerge che i social media sono in grado di classificare con estrema precisione gli orientamenti degli utenti, anche in modo indiretto, grazie ai “like” espressi. Significa che Facebook può rilevare «anche quello che non ci avete scritto su di voi». Cambridge Analytics, sostiene “Büro”, è stato capace di applicare l’algoritmo alla politica. Esempio: quando Trump ha chiesto 200.000 elettori pronti a sostenerlo nel caso si fosse dichiarato “amico di Israele”, il sistema non ha fornito un semplice profilo (“il tuo elettore tipo è bianco, disoccupato, poco scolarizzato”) ma «ha risposto con una serie di nomi e cognomi», nonché «luoghi di residenza pescati su Facebook». Così, «a Trump non è rimasto altro che mandar loro una lettera a casa», lasciando perdere in partenza gli elettori critici con Israele.
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Il Grande Fratello sa tutto di noi, soprattutto grazie a noi
Facebook avrebbe “passato” a Cambridge Analytica 51 milioni di profili. Destinazione, la campagna pro-Brexit e quella pro-Trump, consentendo ai persuasori di mirare con precisione, fino a centrare in modo selettivo il target desiderato: appelli politici per convincere utenti già “schedati” dal social network, presentati (a loro insaputa) come “clienti” teoricamente disponibili, in base alle loro preferenze: idee espresse nei commenti, tipologia dei consumi dichiarati. Da qui la mappatura virtuale del “cliente”: se so cosa ti piace oggi, il mio sistema deduce al volo ciò che ti piacerà domani. Si grida allo scandalo: Steve Bannon, l’ex guru di Trump, è uno stregone della manipolazione. «Non lo faremo più», promette Zuckerberg. Scandalo? Bannon fa il suo mestiere: portare voti ai politici per cui lavora. Anche Zuckerberg fa il suo mestiere: vendere al marketing i profili degli utenti, che sono ormai 2 miliardi di persone, in tutto il mondo. Rivelazioni: il potente algoritmo messo in campo da Cambridge Analytica permette di “scannerizzare” all’istante, incrociando dati, anche le intenzioni degli ignari utenti, scoprendo in anticipo chi voterà per chi. Ma né Bannon né Zuckerberg hanno mai estorto alcunché: la fornitura dei dati-chiave è volontaria, da parte degli utenti.Gli utenti di Facebook, poi, sanno benissimo (o dovrebbero sapere) che non sono proprietari dei contenuti delle loro “pagine”: dal punto di vista legale, in base al diritto editoriale, tutto ciò che viene pubblicato – parole e pensieri, immagini e video – non appartiene in nessun caso a loro, ma solo a Facebook. In quanto editore unico e senza vincoli, il social network è liberissimo di rimovere i contenuti quando vuole, senza neppure l’obbligo di lasciarne una copia, privata, a disposizione dell’utente. Quasi un terzo dell’umanità ormai utilizza Facebook, affidando alla piattaforma social la rappresentazione pubblica – più o meno realistica – della propria identità personale. Facebook offre una vasta gamma di servizi – a costo zero per l’utente, ma remunerati in altro modo: è ovvio che faccia gola, al marketing, la più grande banca dati del pianeta. Perché stupirsene? Se si fa una qualsiasi richiesta a Google, il motore di ricerca la registra, classificando subito l’utente e proponendogli – sotto forma di proposta pubblicitaria – merce analoga a quella già cercata. Anche Google “sa” chi siamo e cosa ci piace. Anche Google svolge un servizio gratuito per l’utente. Un servizio prezioso, ormai imprescindibile, e remunerato altrimenti, cioè mettendo il profilo psicologico del potenziale cliente a disposizione del mercato.Con l’avvento degli smartphone, oggi il sistema sa anche – sempre – dove siamo. Attraverso i social, le chat, le email, il sistema sa cosa pensiamo, dove andiamo, chi incontriamo. Anni fa, fece scalpore la rivelazione – esternata dal solo Marcello Foa – del capo dei servizi segreti svizzeri: spiegò che ogni parola in uscita dai nostri computer finisce in due immensi archivi, dislocati a Londra e a Washington. Il Grande Fratello è in ascolto, certo: ma qualcuno può davvero stupirsene? Smentendo il vittimismo complottistico, un osservatore atipico come Paolo Franceschetti (avvocato, autore si studi scomodi sui misteri italiani) offre la seguente riflessione: perché ci illudiamo che in passato la situazione del “popolo” fosse migliore? Fino a ieri non ci voleva molto per rischiare il carcere, bastava mancare di rispetto al sovrano (e l’altro ieri peggio ancora, si finiva sul rogo per il solo fatto di aver manifestato idee difformi dal dogma vigente). Oggi, al contrario, si assiste a una diffusione di opinioni quale mai s’era vista, in migliaia di anni. Circolazione istantanea di idee, libera e planetaria. Osservata e spiata? Vietato meravigliarsene.Quanto a Facebook, parla da sola la sua data di nascita. Serviva un sistema per raccogliere dati e schedare milioni di persone, in modo da trarre d’impaccio l’intelligence Usa, in enorme imbarazzo dopo la storica débacle dell’11 Settembre. Zuckerberg ha offerto la soluzione più brillante, a costo zero per lo Stato: sarebbero stati direttamente i cittadini a raccontare tutto di sé – chi sono, dove vivono, in cosa credono, che amici hanno. Facebook ha raccolto milioni di confidenze, che oggi sono diventate miliardi. Ma non le ha carpite: gli sono state offerte spontaneamente. Il sistema ha solo creato uno spazio (pubblico) per esprimerle e condividerle. Uno spazio che prima non esisteva, e di cui gli Zuckerberg del pianeta avevano intuito il bisogno, la necessità percepita. Parlare, raccontarsi: prima dell’avvento dell’email (non secoli fa: si parla della vigilia del Duemila) le persone avevano smesso di scriversi lettere. Hanno ricominciato a scrivere proprio grazie alla posta elettronica. Milioni di persone hanno ristabilito contatti epistolari frequenti, recuperando anche il gusto della scrittura. Facebook e gli altri social media completano l’offerta, realizzando un diario digitale personale ma condivisibile, arricchito da segnalazioni e link, veicolando in questo modo l’altra grande fonte recente di idee e informazioni: i blog.Nella sua ricostruzione della storia del Cristianesimo, formulata da un punto di vista ruvidamente anticlericale, un’autrice come Laura Fezia sostiene che il “format” cristiano sia stato inoculato come un virus nell’imperialismo romano, per corroderlo dall’interno fino a farlo crollare. Tradotto: se non riesci a battere il nemico in campo aperto, ti conviene infiltrarlo. E’ nemico, oggi, il web? E’ sicuramente padrone: compra, vende, orienta, controlla, manipola. Non è un amico disinteressato: se l’ha fatto credere, bluffava. Ma spesso (quasi sempre) è un alleato di cui non si può fare a meno. E’ un orizzonte sistemico, nel quale vivere, e in cui – come in ogni altra cosa – convivono due modi di intendere e volere. Il bene e il male? Dipende sempre dal punto di vista: il male della gazzella coincide con il bene dei cuccioli della leonessa. Sarà anche una savana, il web, ma non è senza padroni: è anzi un giardino zoologico severamente protetto e custodito dai grandi proprietari dell’infrastruttura strategica, da cui ormai dipende il pianeta, che è diventato infinitamente e istantaneamente manipolabile. Sono infatti tramontate le fiabe ingenue sull’innocenza della Rete, utilizzate anche in Italia a fini politici. Ma la Rete resta, e – con i suoi limiti – è ancora disposizione: per ospitare idee, magari, oltre che immagini delle vacanze e piatti “stellati”, fotografati al ristorante.Facebook avrebbe “passato” a Cambridge Analytica 51 milioni di profili. Destinazione, la campagna pro-Brexit e quella pro-Trump, consentendo ai persuasori di mirare con precisione, fino a centrare in modo selettivo il target desiderato: appelli politici per convincere utenti già “schedati” dal social network, presentati (a loro insaputa) come “clienti” teoricamente disponibili, in base alle loro preferenze: idee espresse nei commenti, tipologia dei consumi dichiarati. Da qui la mappatura virtuale del “cliente”: se so cosa ti piace oggi, il mio sistema deduce al volo ciò che ti piacerà domani. Si grida allo scandalo: Steve Bannon, l’ex guru di Trump, è uno stregone della manipolazione. «Non lo faremo più», promette Zuckerberg. Scandalo? Bannon fa il suo mestiere: portare voti ai politici per cui lavora. Anche Zuckerberg fa il suo mestiere: vendere al marketing i profili degli utenti, che sono ormai 2 miliardi di persone, in tutto il mondo. Rivelazioni: il potente algoritmo messo in campo da Cambridge Analytica permette di “scannerizzare” all’istante, incrociando dati, anche le intenzioni degli ignari utenti, scoprendo in anticipo chi voterà per chi. Ma né Bannon né Zuckerberg hanno mai estorto alcunché: la fornitura dei dati-chiave è volontaria, da parte degli utenti.
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Cambridge Analytica e Facebook: vittime 50 milioni di utenti
Una macchina devastante: manipolazione di massa, via Facebook, a scopo politico. Dietro allo scandalo Cambridge Analytica che sta facendo crollare in Borsa il social network di Mark Zuckerberg (2 miliardi di utenti, quasi 9 miliardi di dollari in pubblicità nel 2017) emerge una squadra formata da personaggi capaci di mettere insieme tecnologia, finanza e politica. Sono il “genietto pentito” Christopher Wylie, lo stratega trumpiano Steve Bannon, il miliardario Robert Mercer affascinato dall’intelligenza artificiale, il “manipolatore della psiche” Aleksandr Kogan e il manager Alexander Nix. «Una storia di profili rubati, manipolazioni, forse anche di tangenti e di corruzione», scrive Giuseppe Sarcina sul “Corriere della Sera”. Due gli obiettivi: spingere la Gran Bretagna fuori dall’Europa e Donald Trump verso la Casa Bianca. Un racconto reso possibile da una straordinaria inchiesta giornalistica del “Guardian”, firmata da Carole Cadwalladr. La reporter ha scavato per un anno sui retroscena della Brexit, fino a convincere Wylie a svelare i misteri della Cambridge Analytica. Il suo lavoro si è poi sommato all’indagine del “New York Times”. Tutto nasce nel 2013, quando sbarca a Londra un giovanotto canadese di 24 anni, Wylie, specialista in tendenze della moda, con un’idea sovversiva: rivoluzionare il marketing politico grazie a una specie di “porta a porta” digitale. «Si raccolgono i profili delle persone, si analizzano e poi si confeziona un messaggio su misura».Wylie prepara così il contenitore da cui nascerà Cambridge Analytica, la società di analisi da lui stesso fondata. Nel 2014 l’incontro con Steve Bannon, a cui offre «gli strumenti per la sua guerra psicologica». Per convincere il direttore di “Breibart”, la voce online della destra radicale americana, il «gay-vegano-canadese» Christopher usa la metafora dei sandali Crocs: «Non si può dire che siano belli, eppure tutti li vogliono». Si trattava solo di mettere la Brexit (e poi Trump) al posto dei sandali, scrive Sarcina. E i soldi per l’operazione? Bannon chiede l’appoggio di Robert Mercer, 71 anni, informatico tra i primi ad applicarsi all’intelligenza artificiale (poi approdato al misterioso e quasi “mistico” hedge fund Renaissance Technologies). Con un portafoglio di oltre 25 miliardi di dollari, Robert Mercer e la figlia Rebekah «sono finanziatori generosi delle varianti più conservatrici della politica americana e non solo», ricorda il “Corriere”. Hanno comprato quote in “Breitbart” e si sono appresati a sostenere Cambridge Analytica. Dove e come procurarsi i profili dei navigatori? Ci ha pensato Aleksandr Kogan, 31 anni, nato in Moldavia e cresciuto a Mosca fino all’età di 7 anni, quando la famiglia emigrò negli Stati Uniti.Kogan ha studiato psicologia a Berkeley e ha conseguito un Phd (dottorato di ricerca) all’università di Hong Kong. Nel 2012 è diventato assistente alla cattedra di psicologia a Cambridge, in Gran Bretagna. Ha condotto ricerche sofisticate, ma per la Analytica ha creato la app “Thisisyourdigitallife”, che offre «un esame della personalità compiuto da un team di psicologi». Kogan l’ha collocata sulla piattaforma Facebook, “catturando” subito 270 mila utenti. In realtà, scrive Sarcina, quell’applicazione «è una specie di sifone usato per risucchiare i dati sensibili dei sottoscrittori e dei loro amici». Un’enormità: «In totale 51 milioni di profili sottratti senza il consenso degli interessati: materiale prezioso per gli intrugli di Bannon». A gestire – come manager – il meccanismo è stato Alexander Nix, 42 anni, di Londra, reduce da studi all’Eton College (la scuola dell’establishment britannico), con laurea all’università di Manchester. Nel 2003, Nix ha lasciato la finanza per occuparsi di «comportamento e comunicazione politica». Ha diretto lo Strategic Communication Laboratories Group, fino a quando Bannon e Mercer l’hanno scelto come amministratore delegato di Cambridge Analytica (ora sospeso dalla società, per un video trasmesso da “Channel 4 News” in cui «si vede il distinto manager offrire “belle ragazze dell’Ucraina” per discreditare l’avversario politico di un suo cliente nello Sri Lanka».Una macchina devastante: manipolazione di massa, via Facebook, a scopo politico. Dietro allo scandalo Cambridge Analytica che sta facendo crollare in Borsa il social network di Mark Zuckerberg (2 miliardi di utenti, quasi 9 miliardi di dollari in pubblicità nel 2017) emerge una squadra formata da personaggi capaci di mettere insieme tecnologia, finanza e politica. Sono il “genietto pentito” Christopher Wylie, lo stratega trumpiano Steve Bannon, il miliardario Robert Mercer affascinato dall’intelligenza artificiale, il “manipolatore della psiche” Aleksandr Kogan e il manager Alexander Nix. «Una storia di profili rubati, manipolazioni, forse anche di tangenti e di corruzione», scrive Giuseppe Sarcina sul “Corriere della Sera”. Due gli obiettivi: spingere la Gran Bretagna fuori dall’Europa e Donald Trump verso la Casa Bianca. Un racconto reso possibile da una straordinaria inchiesta giornalistica del “Guardian”, firmata da Carole Cadwalladr. La reporter ha scavato per un anno sui retroscena della Brexit, fino a convincere Wylie a svelare i misteri della Cambridge Analytica. Il suo lavoro si è poi sommato all’indagine del “New York Times”. Tutto nasce nel 2013, quando sbarca a Londra un giovanotto canadese di 24 anni, Wylie, specialista in tendenze della moda, con un’idea sovversiva: rivoluzionare il marketing politico grazie a una specie di “porta a porta” digitale. «Si raccolgono i profili delle persone, si analizzano e poi si confeziona un messaggio su misura».
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Dal Lago: voto inutile, partiti immaginari e crisi cronica Ue
I 5 Stelle? Un gruppo di “puri” destinato a fallire. Renzi? La sintesi perfetta di Berlusconi e Grillo. Per Alessandro Dal Lago, filosofo e sociologo, i partiti hanno orientamenti “immaginari”, Berlusconi e Renzi sono perfettamente intercambiabili, i grillini non sono il partito della protesta ma del rifiuto della società e del ritiro nel privato. Intellettuale di sinistra, autore di saggi come “Populismo digitale”, Dal Lago vede nel paese un aumento radicale della diseguaglianza: «Chi resta indietro non avrà speranze». Il voto del 4 marzo?«Ininfluente, perché la riforma elettorale ha introdotto un proporzionale corretto che non permette a nessuna forza di avere il vantaggio che serve per governare». Ci governa l’Unione Europea, «sostenuta da dinamiche economiche di tipo ordoliberista i cui centri decisionali hanno imbrigliato il continente in una serie di vincoli determinati dai trattati». Detto in modo brutale: «Anche se l’Italia avesse rappresentanti massicciamente contrari all’Unione, non potrebbe fare nulla: l’esempio più lampante viene proprio dal Regno Unito, che non sa come uscirne». Pessimismo cosmico: «L’evoluzione di queste dinamiche economico-politiche potrebbe durare anche una trentina d’anni. E potrebbe alimentarsi di una o più crisi di cui non conosciamo la portata».Intervistato da Federico Ferraù per “Il Sussidiario”, Dal Lago vede un’Italia politica che guida a fari spenti nella notte. «In campo ci sono tre grandi soggetti, di cui due in crisi di legittimazione, Pd ed M5S, e il terzo, il centrodestra, già delegittimato 5-6 anni fa, rinato come un’araba fenice ma pronto a dividersi dopo la probabile vittoria». Partiti che «ritraggono orientamenti in larga parte immaginari». Ovvero: «A destra c’è una sorta di Democrazia Cristiana fuori tempo, ma senza essere un partito di massa: Forza Italia, da sempre virtuale, ha avuto in passato il 30 per cento dei voti, oggi è al 17. Si è alleata con un partito ex “catalano”, oggi di destra, e con un partitino di ex fascisti». Poi viene il Pd: «E’ il partito di un uomo solo al comando, che mira a una formazione piccola ma di cui controlla tutte le leve». Infine, il Movimento 5 Stelle: «Un ircocervo né di destra né di sinistra, che fa finta di essere democratico quando è gestito da una società di consulenza aziendale e che oltretutto si sta annacquando giorno dopo giorno».Orientamenti “immaginari”, appunto, «perché il centrosinistra non ha fatto più spesa pubblica e cacciato meno immigrati di quando avrebbe potuto fare il centrodestra al governo. Sono differenze più immaginarie e simboliche che non legate a interessi o politiche materiali». I sondaggisti dicono che l’astensione è intorno al 34% per cento. Un giovane su due potrebbe disertare le urne. Non è una novità: a Ostia (80.000 persone) è andato a votare solo il 33%. «Siamo in una fase di transizione», sostiene Alessandro Dal Lago. «I modelli politici tradizionali sono morti, quelli nuovi ancora non ci sono ma si affacciano nuove dimensioni: la politica non passa più per la televisione e i comizi ma per i social media». Proprio sui social si registra «un distacco crescente dalle azioni e dalle scelte condivise». Vale a dire: «I soggetti interagiscono con l’ambito pubblico rimanendo confinati in una sfera totalmente privata, quella del loro schermo. Fare politica si è ridotto ad assistere alle polemiche su Twitter e Facebook». La politica frana, ovunque: «Negli Stati Uniti c’è un presidente che si vanta di avere il bottone nucleare più grande di quello degli altri. In Francia non c’è più il partito che per quarant’anni si è alternato con la destra alla guida del paese. In tutta Europa crescono i partiti xenofobi. In Italia i giovani del Sud sono destinati a rimanere esclusi o ai margini dei processi produttivi».Si sta scivolando pericolosamente verso un aumento disastroso delle diseguaglianze: «C’è un distacco sempre più netto tra la società digitale post-industriale e quelli che restano indietro, e che non hanno speranze. Un 60enne che faceva l’operaio e perde il lavoro dove va? A lavorare in un call center? Da questo punto di vista il Jobs Act è stato fatto apposta per espellere le persone dal mercato del lavoro. Si dà loro qualche indennità e stop». Processi complicati: troppo, per partiti “immaginari”. «Il centrodestra italiano ha un senso solo nella società degli integrati, di quelli che non vogliono perdere il loro status. Il Pd è ancorato a un sistema di notabilato e di gestione degli interessi radicato in due-tre Regioni, senza le quali non esisterebbe. Il monopolio del voto meridionale da parte del centrodestra non c’è più». Saranno i 5 Stelle a fare il pieno al Sud, ma non sarà un voto di protesta bensì “di distacco”: «Segnala la nuova estraneità al mondo politico. Nelle regioni del Sud gli elettori vedono – a torto – il M5S come l’alternativa elettorale, legale, a una società che non amano, a un sistema di potere che rifiutano».I 5 Stelle? Un gruppo di “puri” destinato a fallire. Renzi? La sintesi perfetta di Berlusconi e Grillo. Per Alessandro Dal Lago, filosofo e sociologo, i partiti hanno orientamenti “immaginari”, Berlusconi e Renzi sono perfettamente intercambiabili, i grillini non sono il partito della protesta ma del rifiuto della società e del ritiro nel privato. Intellettuale di sinistra, autore di saggi come “Populismo digitale”, Dal Lago vede nel paese un aumento radicale della diseguaglianza: «Chi resta indietro non avrà speranze». Il voto del 4 marzo? «Ininfluente, perché la riforma elettorale ha introdotto un proporzionale corretto che non permette a nessuna forza di avere il vantaggio che serve per governare». Ci governa l’Unione Europea, «sostenuta da dinamiche economiche di tipo ordoliberista i cui centri decisionali hanno imbrigliato il continente in una serie di vincoli determinati dai trattati». Detto in modo brutale: «Anche se l’Italia avesse rappresentanti massicciamente contrari all’Unione, non potrebbe fare nulla: l’esempio più lampante viene proprio dal Regno Unito, che non sa come uscirne». Pessimismo cosmico: «L’evoluzione di queste dinamiche economico-politiche potrebbe durare anche una trentina d’anni. E potrebbe alimentarsi di una o più crisi di cui non conosciamo la portata».