Archivio del Tag ‘social’
-
Ho visto un Re: a piangere è Calabresi, “ferito” da Di Maio
«E sempre allegri bisogna stare», cantava Jannacci, «ché il nostro piangere fa male al Re». Fa male «al ricco e al cardinale», al punto che «diventan tristi se noi piangiam». C’è qualcosa di più insopportabile del vittimismo (grottesco) da parte del potere che “chiàgne e fotte”? Nell’arcaico pantheon medievale evocato dall’immenso cantautore milanese non c’era ancora posto, ovviamente, per il giornalista. Senza contare che allora, nel mitico 1968 – quando quel brano fu composto – erano ancora in circolazione giornalisti veri e propri. Magari non erano infallibili neppure loro, ma si chiamavano Bocca, Biagi, Montanelli. Ciascuno amato o detestato, a seconda delle platee, ma tutti rispettati: non cantavano in nessun coro e, nel caso, “sbagliavano” in proprio, senza prendere ordini dall’editore, dal partito, dall’establihment. Erano i tempi in cui sul “Corriere” scriveva Pasolini. Si era lontani anni luce dalle “carte false” che poi Giampaolo Pansa avrebbe messo alla berlina, denunciando la vocazione al servilismo che avrebbe fatalmente rovinato il giornalismo italiano, trasformandolo in docile strumento di propaganda.Giornali a fari spenti nella notte: tutti addosso ai ladri di polli di Tangentopoli, senza vedere il furto vero e colossale – sovranità, democrazia – messo a segno nel frattempo dall’élite finto-europeista. Oggi è diverso, è persino peggio: non si può più dire che i giornali sbaglino, non vedano, non capiscano. Oggi i giornali picchiano. Malmenano il nemico del padrone, ogni giorno, spudoratamente. Il primo a farlo è “Repubblica”, quotidiano fondato dall’ex fascista e poi socialista Scalfari, quindi a lungo diretto da quell’Ezio Mauro che demolì Berlusconi per i sexgate di Arcore, trasformando l’ultimo premier italiano eletto in qualcosa di cui gli anti-italiani Merkel e Sarkozy potevano ridere, proprio mentre si preparavano a spedire in Italia il loro uomo, Mario Monti, per inguaiare famiglie e aziende mettendo in ginocchio il sistema-Italia, comodamente spolpato da Germania e Francia, tra una risata e l’altra. Ridotta in macerie la politica – il populista Renzi, dopo il “sicario” Monti – oggi la ribellione di un paese scientificamente impoverito, terremotato dall’euro-crisi pilotata dai poteri che controllano la Bce, si esprime in modo grossolano per bocca di Salvini e Di Maio, il quale ha addirittura l’ardire di denunciare apertamente che il Re è nudo: tutto racconta, fuor che la verità. Apriti cielo: l’attuale direttore di “Repubblica”, Sergio Calabresi, apre il fazzoletto.Niente manganello, per una volta, ma fiumi di lacrime: i «nuovi potenti», singhiozza Calabresi, si sono accorti che – grazie al web – oggi «possono sperare di realizzare il sogno di ogni governante della storia: liberarsi dei corpi intermedi, delle critiche e delle domande scomode». Se queste parole fossero lette da archeologi fra tremila anni, e se non fosse più rintracciabile nessuna copia di “Repubblica”, nessuna prima pagina e nessun editoriale, qualcuno potrebbe persino prenderlo sul serio, Calabresi. Cosa ha detto, il mai impeccabile Di Maio? Due verità sacrosante. La prima: i giornali come “Repubblica” non fanno più informazione ma solo propaganda, spacciando “fake news”. La seconda: per fortuna, non li legge più nessuno. Esatto: vendono un terzo, un quarto delle copie che vendevano ai tempi di Biagi, Bocca e Montanelli, all’epoca in cui Ilaria Alpi faceva giornalismo d’inchiesta in Somalia, e in televisione campeggiavano Renzo Arbore e Gianni Minà. Persino i comici facevano pensare: Paolo Villaggio, Cochi e Renato diretti dallo stesso Jannacci (oggi il pubblico deve rassegnarsi a Crozza, che riesce a trasformare in eroe il sindaco di Riace, paragonandolo nientemeno che ai partigiani che “violarono la legge”, quando la legge era quella di Hitler).«Siamo “pericolosi”», dice Di Maio, perché i gialloverdi – raccontando il contrario della versione unilaterale dell’establishment – invadono (con verità insopportabili) quello che i giornali «considerano il loro territorio, la loro prateria». Per fortuna, aggiunge, «ci siamo vaccinati anni fa dalle bufale, dalle “fake news” dei giornali, e si stanno vaccinando anche tanti altri cittadini». Sarà per questo che il sistema sta aumentando le dosi di chemioterapia quotidiana con cui accecare il pubblico? Come spiegare diversamente la mostruosa tecnocrate Elsa Fornero trasformata in guru dell’economia dal valletto Floris, o l’inaudito Cottarelli – uomo del Fmi, coinvolto nella rovina della Grecia – venerato settimanalmente nel felpato salottino di Fazio? Ma il problema non è la fogna a cui è ridotto il mainstream italiano. Macchè, il problema è il minaccioso, terribile Di Maio. «Non abbiamo paura», proclama Calabresi, asciugandosi le lacrime copiosamente sparse. «Siamo preoccupati per noi e per il paese, per lo scadimento del dibattito che avvelena l’opinione pubblica». Lo scadimento di quale dibattito, please? Ai gialloverdi, il mainstream ha solo e sempre tolto il microfono dalle mani, presentandoli come appestati, folli, velleitari, cialtroni, razzisti e sessisti, violenti e scellerati, incompetenti. E’ accaduto l’impensabile, ecco il punto: oggi sono al governo, i mascalzoni. Non potendoli più ignorare, li si prende a cannonate dal mattino alla sera, a reti unificate.Non è cambiato, lo schema del regime insediato in Italia dopo la rimozione forzata, per via giudiziaria, dei politici della Prima Repubblica: ad avere l’ultima parola non sono gli elettori, ma il “vincolo esterno” in base al quale l’oligarchia europea governa l’Italia al posto del governo italiano, sorretta dall’establihment locale (politico, industriale, finanziario e, naturalmente, mediatico). L’algido Ferruccio De Bortoli lancia anatemi e auspica il ritorno alle Crociate: guai, se il governo italiano dovesse spuntarla contro Bruxelles sulla storia del deficit al 2,4%. L’opinione pubblica è strettamente sorvegliata da ex giornalisti come Lilli Gruber, in quota al Bilderberg, come ieri lo era da Monica Maggioni, presidente della Rai, oggi a capo della sezione italiana della Trilaterale. E se alla Rai gli impudenti Salvini e Di Maio riescono a piazzare un non-allineato come Foa, un giornalista indipendente, sono dolori: il mite Marcello Foa diventa, in un battibaleno, una specie di pericoloso terrorista. La sua colpa? Di tanti colleghi, ha la stessa opinione di Di Maio: venduti a un potere che ormai se ne frega, della democrazia. E se qualcosa per una volta va storto, se cioè la democrazia vince davvero, i nuovi eletti vanno abbattuti, anche per dare una lezione ai maledetti italiani che, dopo averli votati, hanno pure il coraggio di continuare a sostenerli.Non c’è bisogno di ricordare che ognuno ha il diritto di coltivare qualsiasi opinione, purché non leda l’altrui libertà. A proposito di Crociate, il conte di Tolosa – che difendeva la libertà di religione nel Midi pre-francese – protestò per la “desmisura” con cui veniva oppresso dal potere vaticano, folle di rabbia per la scelta dei tolosani di difendere i diritti religiosi dei Catari. “Desmisura”, in occitano medievale, significa questo: violare le regole, soffocare l’avversario, negargli la possibilità di esistere come soggetto pensante. Una tentazione totalitaria, che – secondo Simone Weil – in quel drammatico inizio del 1200 gettò il seme velenoso dei peggiori incubi europei dei Novecento. Soffocare le voci altrui: non un fiato, dalle testate dirette da uomini come Calabresi, s’è levato contro l’infame legge europea sul copyright, promossa dal galantuomo tedesco Günther Oettinger. Bavaglio al web: social media e motori di ricerca saranno costretti a bloccare la circolazione di idee scomode. E’ proprio lo stesso Oettinger che disse che sarebbero stati “i mercati”, i signori dello spread, a insegnare agli italiani come votare. Per questo, come cantava Jannacci, è meglio non fidarsi delle lacrime del Re: quello del lupo che si mette a piangere, travestito da agnello, è uno spettacolo esteticamente osceno, prima ancora che ipocrita sul piano politico.«E sempre allegri bisogna stare», cantava Jannacci, «ché il nostro piangere fa male al Re». Fa male «al ricco e al cardinale», al punto che «diventan tristi se noi piangiam». C’è qualcosa di più insopportabile del vittimismo (grottesco) da parte del potere che “chiàgne e fotte”? Nell’arcaico pantheon medievale evocato dall’immenso cantautore milanese non c’era ancora posto, ovviamente, per il giornalista. Senza contare che allora, nel mitico 1968 – quando quel brano fu composto – erano ancora in circolazione giornalisti veri e propri. Magari non erano infallibili neppure loro, ma si chiamavano Bocca, Biagi, Montanelli. Ciascuno amato o detestato, a seconda delle platee, ma tutti rispettati: non cantavano in nessun coro e, nel caso, “sbagliavano” in proprio, senza prendere ordini dall’editore, dal partito, dall’establihment. Erano i tempi in cui sul “Corriere” scriveva Pasolini. Si era lontani anni luce dalle “carte false” che poi Giampaolo Pansa avrebbe messo alla berlina, denunciando la vocazione al servilismo destinata a rovinare fatalmente il giornalismo italiano, trasformandolo in docile strumento di propaganda.
-
Salvini con Bannon e Orban? Big Business resusciterà il Pd
Il capitalismo che abbiamo sempre conosciuto, quello che viveva su un’umanità composta da un 20% di benestanti consumatori e da un 80% di schiavi che producono per loro, non esiste quasi più. E non solo. Quell’80% di schiavi si sono evoluti, e hanno cambiato nome: da poveracci neri, marron, o gialli, adesso si chiamano mercati emergenti. E non solo. Mentre prima le loro economie, al netto delle loro materie prime, valevano solo il prezzo delle loro schiene rotte dal lavoro, oggi valgono cifre inimmaginabili. Ecco un quadro. Solamente Cina e India producono insieme 33.000 miliardi di dollari di beni e servizi, contro la rallentata Ue con 21.000 miliardi e gli Usa con 19.500. I sette mercati emergenti principali, cioè Brasile, Cina, India, Indonesia, Messico, Russia e Turchia, hanno quasi raddoppiato il loro potere economico, mentre al contrario i paesi del G7 stanno calando vistosamente nelle percentuali di Pil globale. Secondo uno studio della nota consultancy PwC Uk, nelle prime 32 economie dei prossimi quindici anni ben 20 saranno mercati emergenti, con Cina e India che sorpassano gli Usa, e l’Italia fanalino di coda umiliata persino da Vietnam, Filippine, Corea del Sud, Iran e Pakistan.Oltretutto, è già stato ampiamente previsto che proprio l’odierna crisi degli “emergenti” già cova in sé l’usuale rimbalzo sia speculativo che in termini di produzione, con profitti cosmici per gli investitori. Il punto: gli uomini con le scarpe da 5.000 dollari che stanno a Manhattan, Hong Kong, Davos o a Francoforte sanno fare i loro conti coi soldi, e oggi, al contrario di solo pochi anni fa, non si possono più permettere di ‘offendere’ quelli neri, marron o gialli. L’accusa, o anche solamente il sospetto, di simpatie o contiguità con la parola razzismo è fra le ultime cose che vogliono al mondo. Basta un titolo sul “Wall Street Journal” che insinui quella vicinanza e loro ci smenano miliardi in pochi minuti. No, non deve succedere. L’implacabile sobillare del padano nella direzione dell’ipertrofico allarme migranti ha appiccicato a questo governo una colossale etichetta di razzismo-xenofobia populista agli occhi di tutto il mondo, e ora non ce la leva più nessuno. Unite i puntini e starete capendo cosa accadrà.L’Italia è un paese ancora ricco, con un notevolissimo bottino in assets privati, che ispira grandi appetiti fra gli investitori internazionali. Si pensi solo che Assogestioni, che ha il polso del risparmio delle famiglie italiane, ha registrato a metà 2016 il suo record storico di patrimonio con 1.857 miliardi, più dell’intero Pil nazionale. E’ quindi ovvio che i mercati non rinunceranno a operare in Italia. Ma fosse stato solo per gli sbraiti nazionali a tinteggiature razziste populiste di Matteo Salvini, e delle sue folle nelle piazze o sui social, è anche possibile pensare che gli investitori internazionali avrebbero solo esercitato prudenza, con Roma. In altre parole: far affari, ma con un basso profilo. Invece, come detto, tutto è cambiato per il peggio e senza rimedio dopo che Salvini si è associato inequivocabilmente, platealmente e sbracando del tutto con Steve Bannon e Viktor Orban. Un atto politico irresponsabile per il paese.I mercati pianificano il loro futuro in politica non a 8 stupidi mesi (le europee) come fa l’esaltato fan-club leghista, ma a 10 o 30 anni. Ora gli investitori internazionali, dopo l’irrimediabile svolta di cui sopra e, ricordo ancora, con ¾ di occhio puntato a tenersi buoni i mercati emergenti dei ‘neri, marron e gialli’, stanno scegliendo l’unico loro possibile interlocutore rimastogli in Italia, quello che non rischia di finire sul “Wall Steet Journal” o su “Bloomberg” come razzista populista: il centrosinistra, che peraltro fu sempre il loro favorito. Il Movimento 5 Stelle è per il momento fuori dai loro radar, perché incatenato (e sottomesso risibilmente) alla Lega. A cosa credete che stiano lavorando in quest’epoca i Romano Prodi, Mario Monti, Corrado Passera o i Giovanni Bazoli, e naturalmente Mattarella e Draghi con la loro enorme rete di contatti in finanza e nelle Powerhouse del mondo? Per essere ancor più chiari: Big Business non potrà sposarsi con un trionfo a breve termine (2019) dei razzisti Bannon, Orban, Salvini e codazzo in Ue. Starà calmo in superficie, mentre finanzierà sia la rapida caduta dei populisti che il ritorno dei soliti noti. Ancora dettagli.La storia delle spinte ai partiti da parte della lobbistica e dei mercati, con finanziamenti, appoggi trasversali, lavori di persuasione mediatica, scolastica, accademica, e in particolare di terrorismo economico sugli elettori, l’ho lungamente descritta nella parte storica de “Il Più Grande Crimine”. Ne sarà beneficiario nei prossimi 5-10 anni il centrosinistra, e tornerà a vincere. Basterebbero a questo fine anche solo le aste dei titoli con cui si finanzia il nostro Tesoro, perché sono loro a decidere chi governa o meno, e dunque se tu avrai una vita decente o invece una lunga miseria di fatiche. Quelle aste, di nuovo, le hanno totalmente in mano gli investitori internazionali di cui sopra, perché l’Italia, anche con Salvini e i suoi economisti in malafede, è incastonata nell’Eurozona senza che nessuno seriamente intenda togliervela. E’ desolante nella sua stupidità l’elettorato gradasso tinto di verde nella sua convinzione che nessuno più fermerà il populismo. Balle, loro stessi (e per primi) si squaglieranno al sole quando gli stolti populismi europei mancheranno miseramente di ‘consegnargli il concreto’ nei portafogli.Avete presente i proverbiali topi che saltano dalla nave? Saranno nulla in confronto. Sappiamo bene di cosa è capace l’italiano medio nel suo genio supremo, il trasformismo. Ho descritto quella che sarà una catastrofe a tutto tondo, e per essa dovrete solo ringraziare Matteo Salvini nella sua smisurata e miope ambizione a divenire leader dei populismi dell’Ue assieme a due appestati di fama mondiale, in quella che sarà una slabbrata avventuretta europea di pochi anni destinata agli sberleffi della storia. Ma non è tutto. Ci sono i Faang. Sono ahimè pochissimi gli italiani che assieme a me si stanno rendendo conto che qualcosa di ancor più inaudito sta avvenendo alle spalle delle già epocali manovre post-capitalismo sopra descritte. Please welcome i Faang, cioè la dilagante conquista di ogni frammento di globo da parte delle tecnologie di Facebook (F), Apple (A), Amazon (A), Netflix (N), e Google (G) – ma non ci si dimentichi di Alibaba, Tencent, Huawei, dall’altra parte del pianeta, e di migliaia di altri simili al seguito in ogni dove.Come ho già scritto in due anni di lavoro, i colossi “tech” vanno man mano acquisendo niente meno che le chiavi private della vita sul pianeta in ogni campo, dalla finanza alla medicina alle comunicazioni; dai trasporti civili e commerciali all’energia alle materie prime; dagli alloggi alla difesa al cibo stesso, e si potrebbe continuare all’infinito. Possono farlo perché sono loro, e non più il vecchio capitalismo industriale, a brevettare quasi tutto ciò che di nuovo nasce sulla Terra da almeno 20 anni a questa parte. Ma di più: il loro strapotere è balzato oltre l’atmosfera con il dilagare della loro Artificial Intelligence (Machine Learning in particolare), perché, come epicamente detto dal fondatore di Google-DeepMind Demis Hassabis, «noi vogliamo padroneggiare l’intelligenza, e poi risolvere tutto il resto». Questo fu geniale, perché davvero è solo l’intelligenza il motore dell’umanità, e chi la controllerà con le “tech” controllerà il mondo. Ma anche senza esplorare nei dettagli l’inimmaginabile nuovo potere dei Faang e soci, chiunque oggi non viva nelle catacombe vede ogni giorno come la società e l’economia di ogni centimetro quadrato della Terra stiano vestendosi sempre più di Faang.E rieccoci al punto: per motivi che ho per primo divulgato al pubblico, i nuovi padroni “tech” del pianeta stanno correndo forsennatamente verso posizioni etiche sempre più avanzate, che piazzano in primo piano in ogni loro pubblica mossa, ricerca di laboratorio e prodotto. Fa parte del Dna della loro strategia di vendita globale. Occorrerebbe un saggio enorme per dare conto con esempi di questo, ma dovrebbe essere evidente a chiunque segua anche solo distrattamente il dibattito sulle “tech”. Dunque se la parola “Ethics” è spalmata dappertutto fra i padroni del futuro, le parole “Racism” e la consociata “Populism” sono per essi letteralmente virus di peste bubbonica, e anche solo sfiorassero l’immagine aziendale di questi colossi gli farebbero perdere tali volumi d’affari da impietrire i loro Ad. Riapplicate su Faang e soci quanto già detto sopra nel caso degli investitori internazionali, e ci risiamo: con un Salvini al governo che ora puzza internazionalmente del razzismo populista di Bannon-Orban, i padroni delle chiavi orivate della vita sul pianeta in ogni campo sterzeranno molto alla larga dalla Roma gialloverde, e indovinate su chi punteranno? Vi rendete conto di che razza di spinta politica si tratta? Più che spinta, è una certezza.Concludo riprendendo il testimone da qui: il populismo italiano, prima di Salvini e dei suoi inguardabili compari, aveva il potenziale di svilupparsi in una nuova frontiera della difesa dei nostri diritti costituzionali macellati dalla Ue, alla luce del disgustoso tradimento della sinistra politically correct. Ora è un’etichetta marcia, inavvicinabile e senza futuro. La colpa è ben ferma sulle spalle di Matteo Salvini, “nella sua smisurata ambizione a divenire leader dei populismi dell’Ue assieme a due appestati di fama mondiale, in quella che sarà una slabbrata avventuretta europea di pochi anni destinata agli sberleffi della storia”. Mercati e Faang sono ora costretti a riportarci il Peggior (P) Destino (D) possibile, nella camera a gas chiamata Eurozona. Agli esagitati stupidi che “il trionfo sarà fra 8 mesi” (le europee), ricordo ancora che oggi il loro futuro è pianificato a 10 o 30 anni a partire da questo minuto da chi gli finanzia il 100% dell’ossigeno di cui vivono. E con quest’arma in mano, quelli difficilmente perdono. Che il volere del popolo sia infermabile è la più sonora balla mai raccontata ai popoli. Da chi? Dai populisti alla Salvini.(Paolo Barnard, estratto dal post “Salvini ha sbracato e ci riporterà il Pd, ecco come”, pubblicato sul blog di Barnard il 26 settembre 2018).Il capitalismo che abbiamo sempre conosciuto, quello che viveva su un’umanità composta da un 20% di benestanti consumatori e da un 80% di schiavi che producono per loro, non esiste quasi più. E non solo. Quell’80% di schiavi si sono evoluti, e hanno cambiato nome: da poveracci neri, marron, o gialli, adesso si chiamano mercati emergenti. E non solo. Mentre prima le loro economie, al netto delle loro materie prime, valevano solo il prezzo delle loro schiene rotte dal lavoro, oggi valgono cifre inimmaginabili. Ecco un quadro. Solamente Cina e India producono insieme 33.000 miliardi di dollari di beni e servizi, contro la rallentata Ue con 21.000 miliardi e gli Usa con 19.500. I sette mercati emergenti principali, cioè Brasile, Cina, India, Indonesia, Messico, Russia e Turchia, hanno quasi raddoppiato il loro potere economico, mentre al contrario i paesi del G7 stanno calando vistosamente nelle percentuali di Pil globale. Secondo uno studio della nota consultancy PwC Uk, nelle prime 32 economie dei prossimi quindici anni ben 20 saranno mercati emergenti, con Cina e India che sorpassano gli Usa, e l’Italia fanalino di coda umiliata persino da Vietnam, Filippine, Corea del Sud, Iran e Pakistan.
-
Corbyn: web di Stato, libero e trasparente, per i cittadini
Parliamoci chiaro: uno dei grandi problemi dei nostri tempi è che la politica e il diritto non riescono a stare al passo con i progressi tecnologici, specialmente a partire dall’avvento dell’era di Internet. È accaduto infatti che, mentre alcune grandi aziende informatiche si affermavano e diventavano rapidamente monopoli, i nostri parlamenti sono rimasti perlopiù inermi, sia perché vittime dell’illusione che rappresenta Internet come il regno delle libertà, il massimo terreno di realizzazione della democrazia, sia per semplice inadeguatezza e mancanza di preparazione in materia. Si è dovuta attendere la totale scomparsa della privacy, prima di porsi il problema di come tutelarla. Si son dovuti perdere miliardi di euro in tasse, a fronte degli enormi fatturati di Google, Facebook e Amazon, prima di iniziare a discutere sulla possibilità di una “tassa del web”, da rimandare però in sede europea. I ceti politici invece inizialmente non hanno compreso le potenzialità offerte dai social network, perdendo bruscamente e a causa di ciò i loro consensi in favore di quelle nuove forze che invece ne hanno intuito i vantaggi in termini di propaganda, per poi farne, tutti insieme, un uso sistematico e spregiudicato, riducendo di fatto il loro rapporto con i cittadini ad una manciata di caratteri su Twitter (basti pensare che, a dispetto di una lunga tradizione che vedeva i candidati alla presidenza americani fare il proprio annuncio in discorsi tenuti nelle università, Hillary Clinton palesò le proprie intenzioni su Twitter).Quanto al funesto impatto che un sistema così articolato di collezione dei dati personali avrebbe avuto sulla salute nostre democrazie, nessuno se ne è occupato, salvo poi indignarsi in coro di fronte non ad una questione di etica pubblica o di tutela dei cittadini, ma all’effetto che i social network hanno direttamente o indirettamente avuto: l’elezione di Donald Trump. Ma qui non si vuole discutere su come le nuove reti sociali abbiano esacerbato dei problemi più o meno latenti della civiltà occidentale, favorendo l’ascesa di nuove élite reazionarie. Si vuole piuttosto introdurre nel dibattito pubblico, dopo il totale silenzio dei media, dei partiti e in generale dei principali mezzi di informazione e formazione dell’opinione pubblica nella nostra penisola, un nuovo modo di affrontare quella che è una delle questioni più importanti del nuovo millennio. Di fronte a un tale quadro desolante infatti, una risposta sembra provenire dalla Gran Bretagna. Jeremy Corbyn, il leader del Partito Laburista, già noto per le sue proposte di nazionalizzazione dei servizi pubblici principali, in alcune sue dichiarazioni ha avanzato una strategia per far fronte alla realtà che si è solidamente affermata con Internet.E il fatto che una simile novità provenga da lui è un’indicazione circa la lucidità e lo stato di salute dei laburisti inglesi, attualmente una delle poche forze politiche di sinistra, in Europa, che potrebbero affermarsi alla guida di un paese. Partendo dal presupposto che il Regno Unito non deve sedersi e restare guardare come poche mega aziende risucchiano diritti digitali, asset e, in definitiva, i nostri soldi, Corbyn ha proposto di affiancare, alla già esistente “Bbc” (British Broadcasting Corporation), una “Bdc” (British Digital Corporation). Tale ente, rigorosamente pubblico, sarà una sorta di grande archivio culturale, centralizzato, per offrire alla popolazione un punto di accesso per le conoscenze, le informazioni e i contenuti attualmente conservati negli archivi della “Bbc”, nella British Library e nel British Museum. Un’istituzione pubblica per definizione non persegue le finalità di un’organizzazione privata. Piattaforme come Google e Facebook erogano sì gratuitamente i loro servizi agli utenti, ma lo fanno solo dopo che questi ultimi hanno acconsentito – e questa è una condizione necessaria e impossibile da contrattare – al trattamento dei loro dati personali per fini quantomeno commerciali.Nell’idea di Corbyn, esclusa la logica del profitto, occorrerebbe sfruttare i big data a fin di bene. Sì, ma come? In due modi, entrambi rivoluzionari. In primo luogo una “Bdc” potrebbe sviluppare nuove tecnologie, e utilizzare le informazioni di cui entra in possesso, per la creazione dei programmi in base all’orientamento del pubblico e perfino un social network pubblico, che garantisca la privacy degli utenti e abbia il controllo su quei dati che rendono Facebook e altri così ricchi. Il tema della nazionalizzazione di Facebook diventa sempre più incalzante, dal momento che la conoscenza così accurata di una popolazione può servire a fini tutt’altro che trasparenti: al controllo sociale, per condizionamenti di massa, a bombardamenti mediatici mirati o ad instillare l’odio, inquietudini morali e paure striscianti in grado di modificare i comportamenti, le abitudini, il modo di pensare – o di votare – dei più. Non vogliamo essere apocalittici o tendere necessariamente a scenari di orwelliana memoria, ma occorre stare all’erta: si tratta di cose già successe e che, verosimilmente, senza le opportune contromisure, riaccadranno.In seconda misura un ente pubblico digitale potrebbe aprire nuovi spazi per la democrazia diretta, a partire dalla creazione di nuove modalità di coinvolgimento, supervisione e controllo delle leve chiave della nostra economia da parte della popolazione. Tutto ciò si inquadra, nell’ottica di Corbyn, in un più ampio piano di gestione della cosa pubblica. La “Bdc” lavorerà in stretta sinergia con altre istituzioni che il prossimo governo laburista istituirà, come la National Investment Bank, il National Transformation Fund, lo Strategic Investment Board, la Regional Development Banks, fornendo così un collegamento base tra di esse ai fini di una maggiore trasparenza e democrazia. La nuova istituzione è anche un tassello chiave per il rilancio attivo del ruolo dello Stato che, su un piano di servizi e commerciale, potrebbe arrivare ad essere concorrenziale con l’estero e con i privati. Essa infatti potrebbe utilizzare tutte le nostre migliori menti, le tecnologie più recenti e le risorse pubbliche disponibili non solo per fornire informazioni e intrattenimento come quelli di Netflix e Amazon, con la possibilità di competere e vendere bene anche Oltreoceano.Le proposte del leader dei Labour, seppur ancora vaghe e poco articolate, sembrano già molto interessanti. L’articolo apparso sul Guardian[2] non ha però praticamente trovato alcuna risonanza in Italia.[3] Si spera che le forze comuniste e della sinistra popolare presenti nella penisola rispondano alle idee proveniente da Oltremanica elaborandone di nuove e più definite, studiando per esempio un sistema di controlli e garanzie per fare in modo che l’enorme mole di dati personali, non più in mani private, non finisca per essere a disposizione dei governi per spiare e monitorare i comportamenti della propria popolazione. Ovviamente questa è solo una delle tante possibilità. Compito nostro è quello di accogliere il contributo iniziale di Corbyn e formulare una proposta politica adatta a contribuire al dibattito e ad arricchirlo.(Massimiliano Romanello, “Buone notizie da Oltremanica”, dal blog della Fcgi del 2 settembre 2018).Parliamoci chiaro: uno dei grandi problemi dei nostri tempi è che la politica e il diritto non riescono a stare al passo con i progressi tecnologici, specialmente a partire dall’avvento dell’era di Internet. È accaduto infatti che, mentre alcune grandi aziende informatiche si affermavano e diventavano rapidamente monopoli, i nostri parlamenti sono rimasti perlopiù inermi, sia perché vittime dell’illusione che rappresenta Internet come il regno delle libertà, il massimo terreno di realizzazione della democrazia, sia per semplice inadeguatezza e mancanza di preparazione in materia. Si è dovuta attendere la totale scomparsa della privacy, prima di porsi il problema di come tutelarla. Si son dovuti perdere miliardi di euro in tasse, a fronte degli enormi fatturati di Google, Facebook e Amazon, prima di iniziare a discutere sulla possibilità di una “tassa del web”, da rimandare però in sede europea. I ceti politici invece inizialmente non hanno compreso le potenzialità offerte dai social network, perdendo bruscamente e a causa di ciò i loro consensi in favore di quelle nuove forze che invece ne hanno intuito i vantaggi in termini di propaganda, per poi farne, tutti insieme, un uso sistematico e spregiudicato, riducendo di fatto il loro rapporto con i cittadini ad una manciata di caratteri su Twitter (basti pensare che, a dispetto di una lunga tradizione che vedeva i candidati alla presidenza americani fare il proprio annuncio in discorsi tenuti nelle università, Hillary Clinton palesò le proprie intenzioni su Twitter).
-
Barnard: questo non è più giornalismo, io mi chiamo fuori
Il 14 agosto crolla il ponte Morandi. Il 14 settembre “Bloomberg” pubblica i dati economici sull’Irlanda, eccoli: è l’economia Ue che cresce meglio, al 9%; i consumi sono floridi a un più 4,4%; vola l’export con un più 11%. Due colossali quesiti si presentano al giornalista: cosa davvero è accaduto nella storia ingegneristica, amministrativa e politica di quel ponte? Com’è possibile che una delle nazioni più devastate dalle Austerità della Troika dell’euro, con crolli in povertà da Terzo Mondo nel periodo post crisi 2008, sia oggi un’oasi di crescita addirittura molto al di sopra della Germania o Stati Uniti? Morandi: il cronista riporta ciò che appare evidente, è crollato un ponte, morti, feriti, reazioni politiche e civili. Il reporter d’inchiesta inizia il suo lavoro con ricerca di documenti, di testimoni, di periti, possibilmente soffiate, quindi viaggia incessantemente, bivacca nelle strade del disastro, spia, attende (ripeto: attende), perché nell’immediato è ovvio che nessuno si fa avanti con nozioni cruciali. Poi mette assieme i pezzi, ma deve verificare tutto, incrociare, discuterne con la redazione, e solo dopo tutto questo scrivere o montare il pezzo finale. Passano settimane come minimo, meglio mesi.Irlanda: il cronista riporta ciò che appare evidente, dati, reazioni politiche e civili. Il reporter d’inchiesta inizia il suo lavoro, si reca sul posto, verifica presso aziende, famiglie, sindacati, Ong, tocca i maggiori settori di produzione ed impiego fin nelle campagne o porti di mare, poi sente la politica, poi i tecnocrati di almeno due parti avverse. Questo significa stare in Irlanda settimane, hotel, voli, una redazione che facilità i contatti con gli accrediti, e molto altro. Poi mette assieme i pezzi, ma deve verificare tutto, incrociare, discuterne con la redazione, e scrivere o montare il pezzo finale. Passano settimane come minimo. Questo è il giornalismo, e per essere tale esso richiede i 3 postulati che seguono, fate assoluta attenzione: A) Coraggio, intelligenza e saper attendere prima di “sparare”: B) Una segreteria di redazione “coi controcoglioni” che sappia lavorare 24/7, nel contesto di una testata almeno minimamente libera di aggredire i poteri; C) Mezzi economici a sostegno sia del reporter che dei costi di un’inchiesta, senza i quali mai e poi mai il lavoro avrà i minimi crismi di serietà.Oggi nel marasma allucinato e demenziale del “Facebook-journalism”, “Twitter-journalism” in “Google-journalism”, passati 120 minuti dal crollo di mezzogiorno del Morandi una calca impazzita di grotteschi personaggi, ragazzetti e ragazzine auto proclamatisi ‘esperti’ o commentatori, esaltati, semi-giornalisti con tanto di tessera, infarciti di Google search e ‘factoids’ avevano già pubblicato sui media online e sui Social i fatti, le indagini, le denunce, i nomi, i responsabilità e le sentenze. Centoventi minuti dopo il crollo. Idem per l’Irlanda: ecco i perché, i per come, e chi dice il vero su Austerità ed euro. Al loro seguito masse imbecilli di pubblico stolto che proclama “ecco la verità!”, parrocchie, sette, curve ultras, patetici monoteisti di verità inesistenti… Questo fa schifo, pari-pari, non ci sono altri termini, e sta al giornalismo come la pozione del Circo Barnum sta alla neurochirurgia.Io nacqui come giornalista e reporter negli anni’80, mi consolidai negli anni ’90 a “Report”, e nella mia vita ho messo assieme questo lavoro. Il pubblico mi ha giudicato in 30 anni. Fino al 2004 io beneficiai dei 3 postulati di cui sopra. Nel 2008 ripresi sui temi economici, con alle spalle almeno un team di esperti conclamati internazionali che validavano ciò che divulgavo. Dal 2016, per motivi che non sono qui pertinenti, ho perso anche quelli. In questi due anni sono stato ridotto anche io al “Google-journalism” da forze maggiori – nessuno mi pubblica o chiama più, né venivo pagato quando mi chiamavano, non ho reddito effettivo dal 2004, no redazione né rimborsi spese, zero. No, io così non ci sto più, io non nacqui “Google-Twitter-Social personaggino sbraitante”. Ero un giornalista. Ogni giorno mi sento morire davanti al pc, ma soprattutto ogni giorno sono perseguitato dall’idea che, in questo miserabile modo, anche io, Paolo Barnard con quel curriculum, finisco per ingannare chi mi legge e crede di star leggendo vero giornalismo. Non lo è.Ancora oggi vengo fermato in strada da fans che letteralmente mi osannano, per non parlare delle mail che ricevo da tutta Italia. Ogni singola volta mi sento sprofondare, vorrei gridargli che io non sono più, non posso più essere giornalista, basta attendervi ciò che non posso più darvi, mi vergogno a pubblicare in ’ste miserabili condizioni. Soprattutto, io non ho lavorato trent’anni e rischiato sia la mia pelle che di essere rovinato assieme a tutta la mia famiglia per ritrovarmi abbinato a ’sti pagliacci web oggi sgomitanti famosetti sbraitanti che si spacciano per giornalisti, che voi osannate e i cui nomi manco serve fare, visto che campeggiano 24/7 dappertutto. Basta. Io con molta lentezza continuerò a pubblicare idee, ma sia scolpito nella pietra che ciò che ogni tanto pubblicherò non è giornalismo. Tenetevi la marmaglia del ‘giornalismo’ web o Tv che sia, e la vostra demente idea di cosa sia essere informati. Io mi chiamo fuori.(Paolo Barnard, estratto dal post “Questo non è più giornalismo, io mi chiamo fuori”, pubblicato sul blog di Barnard il 15 settembre 2018).Il 14 agosto crolla il ponte Morandi. Il 14 settembre “Bloomberg” pubblica i dati economici sull’Irlanda, eccoli: è l’economia Ue che cresce meglio, al 9%; i consumi sono floridi a un più 4,4%; vola l’export con un più 11%. Due colossali quesiti si presentano al giornalista: cosa davvero è accaduto nella storia ingegneristica, amministrativa e politica di quel ponte? Com’è possibile che una delle nazioni più devastate dalle Austerità della Troika dell’euro, con crolli in povertà da Terzo Mondo nel periodo post crisi 2008, sia oggi un’oasi di crescita addirittura molto al di sopra della Germania o Stati Uniti? Morandi: il cronista riporta ciò che appare evidente, è crollato un ponte, morti, feriti, reazioni politiche e civili. Il reporter d’inchiesta inizia il suo lavoro con ricerca di documenti, di testimoni, di periti, possibilmente soffiate, quindi viaggia incessantemente, bivacca nelle strade del disastro, spia, attende (ripeto: attende), perché nell’immediato è ovvio che nessuno si fa avanti con nozioni cruciali. Poi mette assieme i pezzi, ma deve verificare tutto, incrociare, discuterne con la redazione, e solo dopo tutto questo scrivere o montare il pezzo finale. Passano settimane come minimo, meglio mesi.
-
Vietato diffondere i post dei blog: il bavaglio al web dall’Ue
Il 12 settembre il Parlamento Europeo ad ampia maggioranza ha approvato la legge sul copyright. In Italia il Movimento 5 Stelle tuona il suo parere contrario per voce del leader Di Maio, mentre sui più blasonati giornali online si festeggia. Ufficialmente gli articoli 11 e 13, vero cuore della riforma, sembrano indirizzati a presevare il diritto d’autore, ma, come dice il poeta, “fatta la legge trovato l’inganno”. Lascerei perdere l’idea che il pericolo stia dietro il divieto di pubblicare immagini o spezzoni di contenuti altrui sotto forma di link (chiamati “snippet”). Se fosse davvero tutto qua ci sarebbe solo da festeggiare: basterebbe infatti evitare di richiamare le puttanate che puntulamente scrivono le testate giornalistiche mainstream e saremmo a cavallo. Anzi, messa giù così, l’agonia del giornalismo prezzolato subirebbe una forte accelerazione perchè le piattaforme più importanti del web come Google e Facebook si troverebbero nella condizione di impedire la divulgazione tramite modalità ipertestuale dei vari “Espresso”, “Repubblica”, “Corriere, “Sole 24 Ore”, “Huffington Post”, ecc. Per i blog, i canali privati di YouTube e le testate giornalistiche medio-piccole sarebbe una manna caduta dal cielo di Strasburgo.Siccome le lobby degli editori, invece, hanno fatto pressione proprio nel senso opposto a quello sopra descritto, occorre allora chiedersi che diamine nasconda questa legge. Il trucco sta tutto negli algoritmi che Facebook e Google News dovranno implementare per difendere il diritto d’autore. Con ogni probabilità, Zuckerberg e amici dovranno pagare costosissimi algoritmi allo scopo di individuare tutti quei siti e post che non pagano gli editori per avere il diritto di pubblicare un loro link nella forma evoluta dello “snippet”. In altri termini, se possiedi un sito web che divulga informazioni, alla fine dell’iter attuativo della legge, potresti trovarti bloccato da Facebook o da qualsiasi piattaforma internet. Perché? Per il semplice fatto che queste piattaforme si saranno dotate di un algoritmo che individua i siti dotati di licenza, li lascia scaricare i contenuti, e al contempo blocca tutti quelli che non hanno la licenza, cioè quelli che non si fanno pagare, come i piccoli blog o le piccole testate giornalistiche. Sembra non aver nulla a che fare col diritto d’autore, e infatti non ce l’ha; quello è solo il pretesto per fermare la libera informazione col trucchetto sorosiano della burocrazia.Lo scenario peggiore è quello per il quale le grandi case editoriali, tipo “L’Espresso”, pagano una licenza ridicola e l’algoritmo facebookiano le intercetta e le accomoda sulla piattaforma con i loro link, le immagini e tutta la compagnia cantando. Gli altri che non pagano alcuna licenza, ma che lasciano accedere gratuitamente ai contenuti da essi prodotti, potrebbero però trovarsi bloccati perchè un algoritmo così elaborato da ricercare ogni singola foto, ogni musichetta da 5 secondi, ogni citazione ipertestuale, magari da Wikipedia, richiede un processso troppo complicato e, al più, esageratamente costoso. Insomma, per semplificare e abbattere i costi, Facebook e Google potrebbero bloccare tutta l’informazione non-mainstream, cioè, e guarda caso, tutta l’informazione che ha sconfitto il clan dei Clinton in America, che ha favorito la Brexit e ha consentito l’avanzata dei sovranisti nell’Europa Continentale (Italia in primis). Anche qualora un sito web di news riuscisse a rivedere la propria produzione evitando le rassegne stampa, i link e le citazioni, basterà una foto di qualche politico o di qualche incontro pubblico, magari postato agli albori del sito, per vedersi il blocco perenne delle piattaforme internazionali.Hai voglia, dopo, con l’avvocatucolo di Vergate sul Membro, a farsi ripristinare il diritto a postare su Facebook avendo a che fare con interlocutori che hanno sede legale a Menlo Park in California… Molti attivisti ripongono fiducia sull’abilità delle piattaforme di adeguare gli algoritmi in modo da rispettare solo gli “snippet”, oppure sulla concretezza legislativa delle singole nazioni. Oppure, ancora, su un cambio di leadership al Parlamento Europeo, visto che verrà rinnovato nel 2019. Comunque vada a finire questa complicata vicenda, una cosa è già appurata: non c’è nessuno di più smaccatamente illiberale dei liberisti che hanno preso le redini di questo continente, oramai troppo vecchio e stupido per poter pensare a qualsivoglia unificazione, trincerato in battaglie di retroguardia e incapace di proporre un valido modello alternativo a quello dei satrapi orientali alla Xi Jinping o al bellafighismo hollywoodiano d’oltreoceano (ps: quello della foto sono io. Ho già cominciato a tutelarmi, e sono anche più bello di Juncker).(Massimo Bordin, “Ecco cosa di nasconde dietro la legge sul copyright”, dal blog “Micidial” del 13 settembre 2018).Il 12 settembre il Parlamento Europeo ad ampia maggioranza ha approvato la legge sul copyright. In Italia il Movimento 5 Stelle tuona il suo parere contrario per voce del leader Di Maio, mentre sui più blasonati giornali online si festeggia. Ufficialmente gli articoli 11 e 13, vero cuore della riforma, sembrano indirizzati a presevare il diritto d’autore, ma, come dice il poeta, “fatta la legge trovato l’inganno”. Lascerei perdere l’idea che il pericolo stia dietro il divieto di pubblicare immagini o spezzoni di contenuti altrui sotto forma di link (chiamati “snippet”). Se fosse davvero tutto qua ci sarebbe solo da festeggiare: basterebbe infatti evitare di richiamare le puttanate che puntulamente scrivono le testate giornalistiche mainstream e saremmo a cavallo. Anzi, messa giù così, l’agonia del giornalismo prezzolato subirebbe una forte accelerazione perchè le piattaforme più importanti del web come Google e Facebook si troverebbero nella condizione di impedire la divulgazione tramite modalità ipertestuale dei vari “Espresso”, “Repubblica”, “Corriere, “Sole 24 Ore”, “Huffington Post”, ecc. Per i blog, i canali privati di YouTube e le testate giornalistiche medio-piccole sarebbe una manna caduta dal cielo di Strasburgo.
-
Ma gli italiani stanno con Salvini: pensano di essere capiti
A chi vive da decenni tra i sindaci leghisti, nel mitico Nordest, fa sempre una certa impressione vedere gente commossa e che si spella le mani in quel di Viterbo per applaudire il leader della Lega Matteo Salvini. La scena del ministro degli interni che fatica a farsi largo tra uomini e donne che vogliono stringergli la mano è diventata virale sul “tubo”. Sia bene inteso: io vado matto per il vino “est est est” e ora come ora vorrei sguazzare tra le calde acque delle terme viterbesi piuttosto che trovarmi tra le zanzare del Prosecco, e dunque so bene che Viterbo non è il profondo sud. Ma fidatevi: le scene di giubilo in Lazio per un politico nell’Italia 2018 fanno sgranare gli occhi e alzare le orecchie. Neanche Churchill dopo aver vinto la seconda guerra mondiale era stato accolto così. Sul web le cose stanno diversamente. Tra le fila degli euroscettici e simpatizzanti del governo gialloverde ora c’è molta rabbia sui social, o almeno sarcasmo: il Def, cioè il documento che programma gli investimenti e le spese per il prossimo anno manterrà un deficit attorno al 2 per cento. Più o meno quel che faceva l’ex ministro delle finanze Padoan quando sedeva sullo scranno più alto di Via XX Settembre.Sotto il profilo degli investimenti e della redistribuzione della ricchezza, Padoan è come Tria. Conte è come Renzi. Lasciamo per carità da parte gli zero virgola: la felpa con la scritta “basta euro” di Salvini ce la ricordiamo tutti, e molti avevano trattenuto il fiato alla nascita del governo pur consapevoli che non si sarebbe fatta cadere la Ue (mancava un piano B), ma che con lo sforamento del deficit… forse, forse, qualche vantaggio per noi e una bella botta a Juncker sarebbero arrivati. E invece niente. Come mai allora Salvini viene accolto trionfante, ovunque vada? E, soprattutto, come mai il consenso ai gialloverdi non calerà affatto nei prosssimi mesi, nonostante una politica d’intervento economico piuttosto piatta? Qualche aficionado dice “perchè la strategia è di lungo respiro”, qualcun altro pensa con il cuore palpitante alla nomina tattica dell’antieuro Alberto Bagnai. Invece, i motivi del consenso sono ben altri. E che siano da lezione a tutti quelli che aspirano a prendere decisioni in questo paese, siano essi i postcomunisti alla Rizzo, Giulietto Chiesa con i filorussi, i piddini con le tette rifatte, quelli di CasaPound o i sovranisti dell’Fsi.Un paese si conquista solo se ne viene conquistato prima il cuore, il senso di appartenenza e di identità. Se la mettano in tasca gli avventisti del marxismo 3.0: Fidel Castro ha vinto la sua battaglia perchè urlava “o patria o muerte”, e non perchè aveva previsto la caduta tendenziale del saggio di profitto. Ma non lo sto dicendo in senso tattico, dispregiativo, o proccupato. Anzi: il senso di appartenenza e di indentità – i simboli – sono tra le cose più importanti della vita di un uomo. Non riesco a pensare ad una evoluzione dell’umanità senza i simboli (posta la sussistenza materiale alla base, ovviamente). Salvini sta fornendo i simboli che gli italiani cercavano. Ogni pensiero che formuliamo dentro di noi ha un aspetto cognitivo, ma anche e regolarmente un aspetto affettivo ed emotivo. Ogni idea è anche una rappresentazione. Le idee di una persona possono essere giuste o sbagliate, vere o false, confortevoli per noi oppure no, ma sono le idee di quella persona, e gli “servono” per sopravvivere. Sono i chiodi ai quali egli è attaccato, come l’alpinista in montagna quando percorre l’alta via con le corde ed i ramponi. Senza quei chiodi, cade.Certe volte, quelle idee ci danneggiano, e allora è giusto che proviamo a sradicarle con tutte le nostre forze. Come nel mito della caverna di Platone, le cose che contemplavano gli uomini erano immagini false, e giustamente il filosofo tentava di mostrare la verità contro la menzogna e le false illusioni. Però c’è anche il caso che le idee, i chiodi degli uomini, non ci danneggino affatto, che siano un dono per noi e costituiscano quella che viene chiamata tradizione. Le tradizioni non vanno sempre cancellate, ad esse vanno semmai aggiunte altre “cose” e altre “idee”, ma non vanno sempre e comunque buttate via. Le tradizioni sono, in fondo, il dono che ci hanno lasciato quelli che sono venuti prima di noi. Dunque, prima di buttare via le tradizioni (cosa senz’altro necesssaria, talvolta) occorre riflettere bene se è il caso di farlo: magari sono un’eredità ben più ricca di quanto noi stessi abbiamo saputo accumulare.Nel caso italiano, una parte interessante della tradizione che abbiamo ereditato consiste nella lingua, nella varietà impressionante di manufatti ed espressioni artistiche, cibi e architetture. Inoltre, c’è lo spirito inventivo, dato dalla fantasia. Una fantasia ed un’inventiva che gli stranieri ci hanno sempre riconosciuto e che ci invidiano. La lista sarebbe lunga. Anche la religione cattolica compare nella lista delle cose a cui gli italiani tengono, anche se atei, ed anche se non è in cima alla lista. Si può camminare per una strada di una città come Roma, o Palermo, o Venezia, o persino Gallarate, senza capire nulla di cristianità occidentale? Si che si può, ma allora non sei un italiano. Essere italiani è una condizione che esiste e che capiamo cosa significa quando usciamo al di fuori dei confini nazionali. C’è poco da fare. E’ così anche se non sappiamo spiegare che cos’è. Ma alla fin fine si tratta di simboli. Appartenenza e identità sono gli assi portanti della psiche umana.Le idee che abbiamo, noi le facciamo nostre, cioè le interiorizziamo, anche e soprattutto per appartenenza. E appartenenza significa affetto e sicurezza. Appartenenza significa famiglia; comunità. Siccome aveva ragione Aristotele, nel senso che gli uomini sono esseri per natura socievoli, appartenere a qualcosa significa restare vivi e dotati di senso. Non appartenere a nulla significa invece essere esclusi, cioè morti. Il fallimento del progetto Ue è dovuto proprio alla mancanza di questa creazione di simboli e l’assenza di tradizioni da ereditare. Che piaccia o no, Salvini (molto più di Gigetto Di Maio) questa cosa l’ha capita bene. Possono gli italiani cambiare idea per l’economia? Ma certo che si! L’ho detto prima: nell’uomo la materia non può che accompagnare lo spirito. Dobbiamo infatti sopravvivere per avere idee. Ma in economia oggi noi italiani non stiamo subendo evidenti scossoni. Qualche anno cresciamo, altri no: siamo un paese dallo zero virgola e faremo – economicamente – la fine della rana bollita. E’ troppo poco per un repentino cambio di consenso contro chi sa usare molto bene identità e appartenenza, come Matteo Salvini.(Massimo Bordin, “Salvini nella Tuscia: ecco perchè il suo consenso non calerà nonostante l’economia sia la stessa di Renzi”, dal blog “Micidial” del 6 settembre 2018).A chi vive da decenni tra i sindaci leghisti, nel mitico Nordest, fa sempre una certa impressione vedere gente commossa e che si spella le mani in quel di Viterbo per applaudire il leader della Lega Matteo Salvini. La scena del ministro degli interni che fatica a farsi largo tra uomini e donne che vogliono stringergli la mano è diventata virale sul “tubo”. Sia bene inteso: io vado matto per il vino “est est est” e ora come ora vorrei sguazzare tra le calde acque delle terme viterbesi piuttosto che trovarmi tra le zanzare del Prosecco, e dunque so bene che Viterbo non è il profondo sud. Ma fidatevi: le scene di giubilo in Lazio per un politico nell’Italia 2018 fanno sgranare gli occhi e alzare le orecchie. Neanche Churchill dopo aver vinto la seconda guerra mondiale era stato accolto così. Sul web le cose stanno diversamente. Tra le fila degli euroscettici e simpatizzanti del governo gialloverde ora c’è molta rabbia sui social, o almeno sarcasmo: il Def, cioè il documento che programma gli investimenti e le spese per il prossimo anno manterrà un deficit attorno al 2 per cento. Più o meno quel che faceva l’ex ministro delle finanze Padoan quando sedeva sullo scranno più alto di Via XX Settembre.
-
Bavaglio al web in Europa: ce l’hanno fatta, ora sarà legge
Bavaglio al web: alla fine ce l’hanno fatta. Il Parlamento Europeo ha dato il via libera alla proposta di direttiva sui diritti d’autore nel mercato unico digitale. La proposta sul copyright avanzata da Axel Voss è stata adottata con 438 voti a favore, 226 contrari e 39 astensioni, modificando leggermente i contestatissimi articoli 11 e 13, che furono bersaglio – a luglio – di una rumorosa campagna a favore della libertà di Internet. L’articolo 11, ricorda il “Corriere della Sera”, è quello che coinvolge anche la stampa e introduce l’obbligo del pagamento, da parte delle piattaforme come Google e Facebook, per l’utilizzo delle notizie, anche sotto forma di “snippet”, l’anteprima formata da titolo, sommario e immagini che i motori di ricerca catturano automaticamente. «Quindi: non si tratta più di riconoscere solo i diritti dell’intero testo, ma anche della sua presentazione online, che spesso è l’unica a essere consultata dai lettori». L’articolo 13 introduce invece l’obbligo per le piattaforme di mettere dei filtri per bloccare il caricamento dei contenuti protetti. YouTube, ad esempio, sarà direttamente responsabile delle copie e degli spezzoni pirata che vengono caricati dagli utenti. Il via libera della plenaria (arrivato il 12 settembre) apre ora la strada ai negoziati con il Consiglio.«Con la scusa della riforma del copyright, il Parlamento Europeo ha di fatto legalizzato la censura preventiva. Una pagina nera per la democrazia e la libertà dei cittadini», protesta Isabella Adinolfi, europarlamentare 5 Stelle. «Il testo approvato oggi dall’aula di Strasburgo contiene l’odiosa “link tax” e filtri ai contenuti pubblicati dagli utenti. È vergognoso, ha vinto il partito del bavaglio». Purtroppo, aggiunge la Adinolfi, sono stati respinti tutti gli emendamenti che il Movimento 5 Stelle aveva presentato, «in particolare l’articolo 11, che prevede l’introduzione della cosiddetta “link tax”, e il 13, che mira a introdurre una responsabilità assoluta per le piattaforme, nonché un meccanismo di filtraggio dei contenuti caricati dagli utenti», conclude. Che tirasse brutta aria, a Strasburgo, lo si capiva dalle premesse, anticipate di prima mattina dal “Blog delle Stelle”: «L’Europa dei banchieri e dei lobbisti ha scelto la sua preda: il web libero. Anziché scardinare i paradisi fiscali e salvare in modo serio il diritto d’autore, il Parlamento Europeo rischia di usare il copyright come una mannaia dei diritti dei cittadini».Non sono in pochi a ritenere che la riforma – avanzata nel 2016 dall’allora commissario Ue alla Digital Economy Günther Oettinger – potrebbe «distruggere Internet per come lo conosciamo». Per gli europarlamentari rappresentati da Julia Reda, relatrice per il Parlamento Europeo del dossier sulla riforma del copyright e membro del Partito Pirata tedesco, «il progetto limita la libertà di espressione online e mette in difficoltà i piccoli editori e le startup innovative». Di fatto, il divieto di citare liberamente le fonti (con l’introduzione della “link tax”) equivale alla censura preventiva sul web: fine della libera circolazione di contenuti, come finora è stato nella Rete. Gioele Magaldi, massone progressista e presidente del Movimento Roosevelt, punta il dito contro lo stesso Oettinger, il tedesco secondo cui sarebbero stati “i mercati” a “insegnare agli italiani come votare”. Proprio quell’Oettinger, dice Magaldi, milita nei circuiti supermassonici reazionari che hanno trasformato l’Ue in un mostro giuridico, gestito da tecnocrati al soldo di interessi privatistici che mirano a svuotare le democrazie e privatizzare Stati non più sovrani, a cui viene impedito di investire (sotto forma di deficit) per creare occupazione.Comunque lo si legga, l’attacco al web finisce per colpire uno strumento di comunicazione potentissimo, cercando di riportarlo sotto il completo controllo dei media mainstream, spesso protagonisti di un uso pressoché criminale di autentiche “fake news”. Il voto del Parlamento Europeo è stato salutato con soddisfazione da Antonio Tajani, coinvolto – secondo il saggista Gianfranco Carpeoro – nell’operazione che ha portato (premendo su Berlusconi) a bloccare la nomina, alla presidenza della Rai, di Marcello Foa, autorevole giornalista, autore del volume “Gli stregoni della notizia”, che smaschera le tante imposture del mainstream. Secondo Carpeoro, la manovra anti-Foa è nata dalle parti dell’Eliseo: Jacques Attali (mentore di Macron ed esponente della superloggia reazionaria “Three Eyes”) si sarebbe rivolto al massone Tajani e poi allo stesso Berlusconi, dopo essersi consultato con Giorgio Napolitano, che nel libro “Massoni” lo stesso Magaldi presenta come esponente della “Three Eyes”, la medesima superloggia nella quale milita Attali, contigua al mondo supermassonico di cui fa fa parte, da molti anni, il tedesco Oettinger, vero e proprio “architetto” del bavaglio europeo imposto al web.E’ noto a tutti che le oligarchie al potere, in Europa e non solo, hanno sviluppato un’enorme diffidenza nei confronti della Rete: un network che si ritiene abbia avuto un ruolo assai rilevante in tutti i “dispiaceri” che gli elettori hanno rifilato, negli ultimi anni, all’establishment – la Brexit e il referendum di Renzi, quindi l’elezione di Trump e infine il boom dei “gialloverdi” in Italia. «Se Grillo vuole fare politica fondi un partito, se ne è capace», disse Piero Fassino, non immaginando che l’ex comico non solo ce l’avrebbe fatta, ma sarebbe finito praticamente al governo, scalzando il Pd. Il Movimento 5 Stelle è stato creato proprio via web, a partire dalle candidature. Colpire il web in Europa, proprio oggi, significa predisporre contromisure in vista delle elezioni europee 2019, in cui i grandi poteri economici e oligarchici che si nascondono dietro la tecnocrazia Ue temono l’exploit dei partiti “sovranisti” e “populisti”, o meglio democratici. Mentre le televisioni sono letteralmente “militarizzate” dall’establishment, le vendite dei giornali sono in caduta libera. Ecco dunque la necessità, per gli oligarchi, di silenziare in ogni modo il web.Bavaglio al web: alla fine ce l’hanno fatta. Il Parlamento Europeo ha dato il via libera alla proposta di direttiva sui diritti d’autore nel mercato unico digitale. La proposta sul copyright avanzata da Axel Voss è stata adottata con 438 voti a favore, 226 contrari e 39 astensioni, modificando leggermente i contestatissimi articoli 11 e 13, che furono bersaglio – a luglio – di una rumorosa campagna a favore della libertà di Internet. L’articolo 11, ricorda il “Corriere della Sera”, è quello che coinvolge anche la stampa e introduce l’obbligo del pagamento, da parte delle piattaforme come Google e Facebook, per l’utilizzo delle notizie, anche sotto forma di “snippet”, l’anteprima formata da titolo, sommario e immagini che i motori di ricerca catturano automaticamente. «Quindi: non si tratta più di riconoscere solo i diritti dell’intero testo, ma anche della sua presentazione online, che spesso è l’unica a essere consultata dai lettori». L’articolo 13 introduce invece l’obbligo per le piattaforme di mettere dei filtri per bloccare il caricamento dei contenuti protetti. YouTube, ad esempio, sarà direttamente responsabile delle copie e degli spezzoni pirata che vengono caricati dagli utenti. Il via libera della plenaria (arrivato il 12 settembre) apre ora la strada ai negoziati con il Consiglio.
-
Salvini assediato, ha tutti contro: perfetto, così stravincerà
Chissà quanti popcorn si sta mangiando, Matteo Salvini, al pensiero che altrove stiano sbocciando champagne per festeggiare la sentenza del tribunale del riesame, quella per cui la Lega dovrà restituire i 49 milioni di rimborsi elettorali fittizi risalenti alla gestione Bossi-Belsito. Perché basterebbe scorrere le cronache a ritroso per capire come è dal 2013 che la Lega e Salvini si stanno preparando a questo momento. E che la strategia politica stessa del partito di Via Bellerio è figlia di questa consapevolezza: allargare la base del consenso e proiettarsi su scala nazionale per dar vita, qualora le condizioni lo richiederanno, a un nuovo movimento autonomo rispetto al passato leghista. Attenzione: non stiamo dicendo che la svolta sovranista della Lega sia esclusivamente figlia della necessità di salvare il partito dallo tsunami giudiziario. Stiamo dicendo che la strategia del leader della Lega è stata contemporaneamente di attacco a uno spazio politico da riempire, e di difesa della sopravvivenza del partito stesso e della sua sostenibilità finanziaria.A Salvini va riconosciuto di aver intuito che ci fosse una domanda di nazionalismo inevasa, che in Italia e in Europa, mentre Renzi veleggiava al 40% e Tsipras e Podemos sembravano le uniche alternative possibili, stesse iniziando a soffiare vento da destra, e dall’Est, che negli Stati Uniti di Obama e nel Regno Unito saldamente tra le mani di David Cameron vi fosse aria di rivoluzione. Nessuno ci credeva, lui sì. Un po’ per virtù, un po’ per necessità. Un po’ perché aveva capito che i voti di Berlusconi in Meridione erano in libera uscita, un po’ perché allargare la propria base elettorale al di fuori del perimetro settentrionale – con tanti saluti alla Padania e al Sole delle Alpi – gli avrebbe consentito di tentare il colpo gobbo: il sorpasso ai danni di Forza Italia e la presa di tutto il centrodestra, nel giorno del tramonto definitivo della stella di Re Silvio, attraverso la creazione di un soggetto politico nuovo. È stato un lavoro lungo e faticoso che Salvini ha intrapreso con una costanza e una tenacia da applausi. Un giorno andava a prendersi sputi e insulti a Napoli, il giorno dopo era ai cancelli dell’Ilva di Taranto, quello dopo ancora in giro sui treni regionali per la campagna elettorale in Sicilia.Nel frattempo, gli antichi feticci della Lega Nord che fu cadevano come petali di un fiore. Prima il simbolo della Padania, poi il colore verde, sostituito dal blu, quindi gli slogan, da “Prima il Nord” a “Prima gli italiani”, lui che nemmeno tifava la nazionale di calcio. Infine il nome stesso del partito, Lega, senza più alcun riferimento al settentrione. Se la strategia ha avuto successo, è perché tutti gli altri gli hanno concesso spazio e libertà per portarla avanti. Né Forza Italia, né il Movimento Cinque Stelle, né il Partito Democratico, ognuno con le proprie responsabilità, sono riusciti a togliere alla Lega e a Salvini mezzo elettore lombardo o veneto, nonostante federalismo e autonomia – al netto della burla dei referendum – siano state messe in soffitta, nonostante gli scandali bancari, nonostante i guai giudiziari. E nessuno, nel contempo, è riuscito a contrapporsi a Salvini nel centrosud, dove oggi, stando ai sondaggi, veleggia attorno al 20%, cinque punti sopra al Partito Democratico, quasi quindici più di Berlusconi.Contemporaneamente, il leader leghista le ha provate tutte per mettere al sicuro i soldi del partito. Ci ha provato col nuovo movimento “Noi con Salvini”, senza successo. E, ancora, con la mossa a sorpresa di Roberto Calderoli, che sul finire della scorsa legislatura è uscito dal gruppo della Lega Nord per fondare quello della Lega e basta. Nessuna scissione: solo la dimostrazione che quello che oggi governa è un nuovo soggetto politico, del tutto indipendente da quello che si era intascato illegalmente i rimborsi elettorali. Se oggi la Lega fosse identica a cinque anni fa sarebbe praticamente spacciata. Oggi, senza Nord, senza Padania, senza felpe e bandane verdi, non lo è. Non sappiamo cosa succederà domani. Se effettivamente la nuova Lega (senza Nord) dovrà sborsare 49 milioni sino all’ultimo centesimo, o se sarà necessario un’ulteriore allontanamento dalle radici della vecchia Lega (col Nord) attraverso la nascita di un nuovo soggetto politico unitario di centrodestra, del tutto alieno, almeno formalmente, alla vicenda giudiziaria che fu.Quel che sappiamo è che Salvini ci è arrivato nelle migliori condizioni possibili in cui ci poteva arrivare: al governo, da ministro dell’interno, con un consenso popolare stellare, con una linea politica completamente diversa da quella del Carroccio di cinque anni fa, con una marea di deputati e senatori di Forza Italia e Fratelli d’Italia che non vedono l’ora di saltare il fossato e di passare armi e bagagli sotto le insegne della Lega. E con la possibilità di guadagnarsi il centro della scena invocando un nuovo complotto, quello della magistratura ai suoi danni, e un nuovo nemico da abbattere. In altre parole, pronto a ogni evenienza. «Io non mollo e lavoro ancora più duro. Sorridente e incazzato», ha scritto sui suoi canali social. Avete capito, adesso, perché sorride?(Francesco Cancellato, “Se sperate che Salvini cada sui 49 milioni, state andando a sbattere contro a un muro”, da “Linkiesta” del 7 settembre 2018).Chissà quanti popcorn si sta mangiando, Matteo Salvini, al pensiero che altrove stiano sbocciando champagne per festeggiare la sentenza del tribunale del riesame, quella per cui la Lega dovrà restituire i 49 milioni di rimborsi elettorali fittizi risalenti alla gestione Bossi-Belsito. Perché basterebbe scorrere le cronache a ritroso per capire come è dal 2013 che la Lega e Salvini si stanno preparando a questo momento. E che la strategia politica stessa del partito di Via Bellerio è figlia di questa consapevolezza: allargare la base del consenso e proiettarsi su scala nazionale per dar vita, qualora le condizioni lo richiederanno, a un nuovo movimento autonomo rispetto al passato leghista. Attenzione: non stiamo dicendo che la svolta sovranista della Lega sia esclusivamente figlia della necessità di salvare il partito dallo tsunami giudiziario. Stiamo dicendo che la strategia del leader della Lega è stata contemporaneamente di attacco a uno spazio politico da riempire, e di difesa della sopravvivenza del partito stesso e della sua sostenibilità finanziaria.
-
Poi la sinistra, cioè il potere, stritolerà Salvini (e gli italiani)
Lo so come andrà a finire. Lo so perché conosco la storia, conosco la gente, conosco i potentati, conosco gli immigrati. Li conosco come li conoscete voi, per esperienza, precedenti, realismo e uso di mondo. Fino a ieri la scena era la seguente: non ho sentito un italiano che non fosse d’accordo con Salvini, che non giudicasse assurdo incriminare un ministro dell’interno che fa il suo dovere, oltre che il suo mandato elettorale, di salvaguardare i confini della nazione, come è previsto dalla Costituzione, e tutelare gli italiani, respingere gli arrivi clandestini e ribadire che i migranti non sbarcano in Italia ma in Europa. È assurdo che dobbiamo ricordarci dell’Europa quando si tratta di pagare i debiti o di non sfondare i bilanci. E invece dobbiamo scordarci dell’Europa quando arrivano i migranti perché allora, d’un tratto, diventiamo nazione e ce la dobbiamo sbattere noi. La nostra sovranità consiste nell’obbligo di accoglierli, anche se tutti gli altri non li vogliono. Fino a ieri non c’era una persona con cui ho parlato che in un modo o nell’altro non fosse di questa idea. Viceversa non ho sentito un tg, un programma, un commentatore, un uomo di potere o un giornale che non fosse schierato contro l’Italia, contro gli italiani, contro Salvini e dalla parte dell’Europa che se ne frega dei migranti, dalla parte dei giudici che incriminano i ministri nel nome della legge, dalla parte dei migranti che sbarcano illegalmente.Una partita secca, il popolo compatto da una parte, il potere compatto dall’altra. In compagnia di Salvini quasi nessuno, la Lega c’è ma non si vede, c’è solo lui, c’è la Meloni e poi giù il deserto. I grillini, quando non sono appesi al Fico, e dunque pendono a sinistra, fanno i furbetti come di Maio che pur di galleggiare e di restare dove sta, e giocare a fare il superministro, è pronto a rimangiarsi tutto e a scaricare l’Alleato su cui sono puntati i cannoni mediatico-giudiziari del Palazzo, dai catto-bergogliosi alla sinistra sparsa. Come volete che finisca una partita così, pensate che gli italiani tramite Salvini possano ottenere qualcosa se tutto l’Establishment è compatto ai piedi dell’Europa e in favore degli sbarchi, senza curarsi delle conseguenze, ma solo calcolando i profitti politici che ne deriveranno a loro? Salvini verrà virtualmente imprigionato, fino a che sarà neutralizzato. Non andrà in galera ma sarà emarginato, chimicamente castrato. Ed è curioso pensare che tutti coloro che hanno battuto la sinistra sono sempre stati – di riffa o di raffa – considerati criminali: Berlusconi, Salvini, la destra, perfino Cossiga quando si oppose all’establishment, Leone quando si oppose al compromesso storico e Craxi quando cercò di far valere il primato della politica e dell’Italia e si oppose al catto-comunismo.Ma è possibile che qualunque avversario della sinistra che abbia vinto in Italia col consenso popolare debba essere per definizione un delinquente, per affari e malaffari, eversione e violazione della Costituzione, per fascismo, razzismo o altre fobie ormai a voi note? Cambiano gli attori ma la partita è sempre tra sinistra e delinquenti, tra potentati e malavita. L’avversario della sinistra è tollerato solo se è perdente, se è remissivo, se non dà fastidio, fa tappezzeria e magari si piega a loro. Eppure non ho mai visto tanta eversione, tanto disprezzo degli italiani, tanta prevaricazione, abuso e mafia travestita da legge e da democrazia, d’Europa e di Modernità quanto quella di chi detiene il vero potere in Italia. Quando vincono gli outsider, il governo è una cosa, il potere è un’altra, non coincidono. Al governo magari ci mettono le guardie del sistema, i Moavero e i Tria. Ma per il resto sono circondati, il potere è una cupola che tiene in scacco chi governa e in spregio il popolo che li sostiene.Ma so anche per esperienza come finiranno quelle povere vittime appena sbarcate. La diocesi darà loro un tozzo di pane per un po’ ma saranno poi a larga maggioranza, a carico dello Stato italiano, a partire dalla sanità. Qualcuno diventerà spacciatore o verrà ingaggiato dalla criminalità locale, qualcuno commetterà violenze sessuali e abusi come se ne sente ogni giorno essendo tutti maschi, giovani, sfaccendati e con gli ormoni a mille, qualcuno delinquerà e ruberà per conto suo, qualcuno – più onesto o più sprovveduto – andrà a lavorare in campagna e la sinistra potrà dunque speculare anche sul loro sfruttamento come schiavi dei caporali (che notoriamente li ha istituiti Salvini, prima non esistevano, ai tempi di Renzi e Gentiloni e Prodi erano solo un brutto ricordo del passato). Qualcuno di loro odierà il Paese che li ha accolti, sfamati e vestiti e si darà alla violenza eversiva, talvolta inneggiando sul web, talvolta partecipando attivamente alla guerra contro di noi, fino al terrorismo dei fanatici islamici.E qualcuno, vivaddio, si inserirà nella nostra società e si integrerà. Su 170, forse diciotto, come la nave che li ha portati da noi. Uno su dieci. Per questo so come andrà a finire. Il consenso a Salvini prima o poi si sgonfierà, quando vedranno che non potrà dare i frutti sperati, che il loro Tribuno sarà isolato, le sue decisioni saranno sistematicamente smantellate dai Palazzi. Allora gli italiani si adatteranno, come sempre hanno fatto, abbozzeranno perché non vogliono mica imbarcarsi in una guerra civile. Si rifugeranno nelle tv e negli smartphone. E quello stanno aspettando gli sciacalli e le iene variamente disseminati nei media, nei tribunali, nei palazzi di potere. D’altra parte, è vero, non si può pensare di governare senza creare una classe dirigente, senza dotarsi di una strategia, ma soltanto a pelle, a orecchio, a botte di tweet, video e like. E così resterà quel divario assoluto tra la gente e il potere, ognuno troverà l’alibi per farsi i fatti suoi. E l’Italia sarà bell’e fottuta.(Marcello Veneziani, “Ecco come andrà a finire”, dal “Tempo” del 28 agosto 2018; articolo ripreso sul blog di Veneziani).Lo so come andrà a finire. Lo so perché conosco la storia, conosco la gente, conosco i potentati, conosco gli immigrati. Li conosco come li conoscete voi, per esperienza, precedenti, realismo e uso di mondo. Fino a ieri la scena era la seguente: non ho sentito un italiano che non fosse d’accordo con Salvini, che non giudicasse assurdo incriminare un ministro dell’interno che fa il suo dovere, oltre che il suo mandato elettorale, di salvaguardare i confini della nazione, come è previsto dalla Costituzione, e tutelare gli italiani, respingere gli arrivi clandestini e ribadire che i migranti non sbarcano in Italia ma in Europa. È assurdo che dobbiamo ricordarci dell’Europa quando si tratta di pagare i debiti o di non sfondare i bilanci. E invece dobbiamo scordarci dell’Europa quando arrivano i migranti perché allora, d’un tratto, diventiamo nazione e ce la dobbiamo sbattere noi. La nostra sovranità consiste nell’obbligo di accoglierli, anche se tutti gli altri non li vogliono. Fino a ieri non c’era una persona con cui ho parlato che in un modo o nell’altro non fosse di questa idea. Viceversa non ho sentito un tg, un programma, un commentatore, un uomo di potere o un giornale che non fosse schierato contro l’Italia, contro gli italiani, contro Salvini e dalla parte dell’Europa che se ne frega dei migranti, dalla parte dei giudici che incriminano i ministri nel nome della legge, dalla parte dei migranti che sbarcano illegalmente.
-
Noi, disprezzati dall’élite ladra: ecco il ponte che è crollato
Fissavo l’immagine terribile del ponte spezzato sui palazzi evacuati del Polcevera e pensavo all’indecente scannatoio divampato tra i palazzi della politica, i social e i media. Ripensavo a quel ponte durante i funerali di Stato – funerali anch’essi dimezzati come il ponte, perché molti famigliari hanno rifiutato le pubbliche esequie. I simboli sono segni del destino e ci dicono la verità più dei ragionamenti. Un ponte si è spezzato nella nostra società e ormai è irrimediabile e vistosa la frattura. Cosa è successo? Si è rotto il patto sociale su cui reggeva l’Italia. Si è rotto il patto tra governati e governanti, tra cittadini e istituzioni, tra forze politiche, sociali ed economiche in campo, tra Stato e popolo italiano, tra ideologia dominante e comune sentire. Ognuno va per conto suo e si sente in diritto di dire e fare quel che vuole, perché ormai non deve dar conto a nessuno. Il patto sociale era l’accordo sotterraneo che ancora sorreggeva, fino a qualche tempo fa, la nostra democrazia. Fortemente logorato da svariate crisi, passaggi traumatici di governi e di repubblica, reggeva ancora a malapena, evitando che il dissenso, le divergenze, i linguaggi ostili, le posizioni arrivassero alle loro estreme conseguenze e schizzassero come i tiranti del ponte Morandi.Il patto sociale reggeva su un residuo interesse reciproco a tenerlo in piedi, sovraccarico di critiche ma senza romperlo. Già con la Seconda Repubblica la società si era rivoltata contro la politica, ed era nato il berlusconismo; ora si rivolta e inveisce anche contro l’economia, contro tutti i potentati, contro l’intera classe dirigente. Così il ponte è saltato. Cosa frenava la rottura del patto sociale? Un residuo interesse comune, nazionale, generale, reciproco, tra governati e governanti; la sensazione di essere comunque sulla stessa barca, e persino il sottinteso che se la classe dirigente s’arricchiva, sia pure in modi illeciti, i benefici poi si estendevano a cascata un po’ su tutti i cittadini. Poi il flusso clientelare si è interrotto, il Welfare è finito, non solo a causa dell’Europa e della crisi economica. Ma insieme al venir meno di tutto questo, negli ultimi anni, è avvenuto qualcosa di traumatico di cui non si è ancora capita la portata micidiale: il sentire comune, il noi quotidiano, l’alfabeto elementare su cui reggeva la nostra società è stato sconvolto, mortificato, perfino criminalizzato.Nel giro di poco tempo abbiamo appreso che tutto quello in cui credevamo, le parole che usavamo, le cose a cui tenevamo erano infami, segni di arretratezza e di razzismo, di sessismo e di familismo, di xenofobia e di fascismo, perfino. Ogni volta che si poneva l’Italia davanti all’Europa si doveva essere dalla parte dell’Europa e non dell’Italia, altrimenti si era retrivi, isolazionisti e sciovinisti. Ogni volta che si opponeva l’assetto contabile della Finanza alla vita reale dei popoli si doveva dar la precedenza al primo. Ogni volta che sorgevano contrasti tra gli italiani e i migranti clandestini o i rom si doveva parteggiare per i migranti clandestini o per i rom. Ogni volta che si opponevano delinquenti che ti entrano in casa a derubati bisognava preoccuparsi di garantire i ladri, non i derubati. Ogni volta che si ponevano le famiglie naturali e tradizionali, composte da padri, madri e figli, rispetto alle unioni omosessuali, ai transgender, agli uteri in affitto, si doveva parteggiare per questi, e far sparire anche nel lessico i riferimenti “trogloditi” alla famiglia e alla nascita. Ogni volta che si esponevano i simboli religiosi che ci accompagnano da sempre – il crocifisso, il rosario, il presepe, i canti di Natale e i riti di Pasqua – bisognava provare ribrezzo o almeno imbarazzo nel nome dell’ateismo come esperanto universale o delle religioni altrui.Provate a stressare in questo modo e su ogni piano un popolo e insieme a fargli avvertire tutto il disprezzo verso una plebe bollata come razzista, sessista e dentro di sé fascista, fino a produrre una forma di razzismo rovesciato, di apartheid che separa la minoranza dirigente dalla “trascurabile maggioranza degli italiani” e vedete se alla fine non si spezza il ponte. Quando poi a tutto questo aggiungi i privilegi e le scorrerie del capitalismo nostrano che viaggia sotto scorta politico-mediatica della sinistra e si mangia o svende quel che faticosamente ha messo insieme lo Stato italiano, allora la rabbia schiuma e si fa scomposta. Quando senti, per esempio che il presidente dell’Iri sotto cui avvenne, col governo di centro-sinistra guidato da Prodi, la cessione delle autostrade ad Altantia (cioè al gruppo Benetton & C.), diventa poi presidente della stessa società Atlantia (sto parlando di Gros-Pietro, attualmente presidente d’Intesa-San Paolo) beh, allora capisci che il patto sociale è saltato non solo perché si è imbarbarita la società e l’antipolitica che l’esprime, ma anche e soprattutto, perché un ceto dominante, tra potentati e partiti, ha abusato del potere, della società e della gente e l’ha pure disprezzata.I grillini, i populisti, non sono il rimedio al crollo del patto sociale ma non sono nemmeno la causa, piuttosto sono il sintomo e l’effetto. La causa principale è in quei potentati, nelle oligarchie di sinistra, nei poteri giudiziari, nei giornali e tv di servizio. Rispetto a questo blocco, il centrodestra berlusconiano (e finiano) è stato inefficace, consenziente e da ultimo anche connivente. Con quella classe dominante, la società è cresciuta per conto suo, si è inselvatichita, si è imbastardita. Ora tutto questo non ci porta a soffiare sul fuoco della guerra civile e incivile e ad armare il risentimento, né ci porta a elogiare l’ignoranza e l’arroganza delle masse come rimedio all’abuso di potere. Ma ci porta a sognare disperatamente che passata la furia e il dolore del momento, il trauma del crollo, venga fuori un maturo senso dello Stato con un’adeguata classe dirigente e si ricomponga un decente patto sociale. Altrimenti non solo il ponte crollerà, ma anche la terra che sta sotto.(Marcello Veneziani, “Si è rotto il patto sociale”, dal “Tempo” del 19 agosto 2018; articolo ripreso sul blog di Veneziani).Fissavo l’immagine terribile del ponte spezzato sui palazzi evacuati del Polcevera e pensavo all’indecente scannatoio divampato tra i palazzi della politica, i social e i media. Ripensavo a quel ponte durante i funerali di Stato – funerali anch’essi dimezzati come il ponte, perché molti famigliari hanno rifiutato le pubbliche esequie. I simboli sono segni del destino e ci dicono la verità più dei ragionamenti. Un ponte si è spezzato nella nostra società e ormai è irrimediabile e vistosa la frattura. Cosa è successo? Si è rotto il patto sociale su cui reggeva l’Italia. Si è rotto il patto tra governati e governanti, tra cittadini e istituzioni, tra forze politiche, sociali ed economiche in campo, tra Stato e popolo italiano, tra ideologia dominante e comune sentire. Ognuno va per conto suo e si sente in diritto di dire e fare quel che vuole, perché ormai non deve dar conto a nessuno. Il patto sociale era l’accordo sotterraneo che ancora sorreggeva, fino a qualche tempo fa, la nostra democrazia. Fortemente logorato da svariate crisi, passaggi traumatici di governi e di repubblica, reggeva ancora a malapena, evitando che il dissenso, le divergenze, i linguaggi ostili, le posizioni arrivassero alle loro estreme conseguenze e schizzassero come i tiranti del ponte Morandi.
-
#MattonellaDimettiti, lesa maestà e fake news istituzionali
Cultori sfegatati del nuovo genere letterario di giornaloni, quello delle fake news sulle fake news, leggiamo e collezioniamo tutto. Non ci perderemmo una puntata per nessuna ragione al mondo. Lo spettacolo dell’establishment che prende scoppole in tutto il mondo perché sta sulle palle ai cittadini e, anziché guardarsi allo specchio, cerca in Russia la spiegazione dei suoi continui fiaschi, è semplicemente impagabile. L’establishment ordina agli inglesi di votare no alla Brexit e quelli votano sì? Dev’essere un complotto dei russi a suon di fake news. L’establishment intima agli americani di votare Hillary Clinton contro Trump e quelli eleggono Trump? Sarà per le fake news diffuse da Putin. L’establishment raccomanda agli italiani di votare sì al referendum costituzionale e quelli votano no? Ci dev’essere sotto la congiura delle fake news moscovite. L’establishment diffida gli italiani dal premiare il populismo sovranista 5Stelle e la Lega e quelli corrono a votare 5Stelle e Lega? Le solite fake news della propaganda moscovita. L’establishment beatifica Mattarella che rifiuta il governo Conte con dentro Savona e subito Facebook e (molto meno) Twitter pullulano di messaggi contro Mattarella e pro Conte&Savona? La solita regìa dei troll russi, provenienti stavolta da San Pietroburgo.Il bello è che i fabbricanti di complotti un tanto al chilo sono gli stessi che accusano i populisti sovranisti di complottismo. Dopodiché anche i loro complotti, alla prova dei fatti, si rivelano quello che sono: balle, bufale, patacche, fake news (al cubo). Memorabile il caso di “Beatrice Di Maio”, il nickname di Fb additato dalla “Stampa” come il Grande Vecchio grillin-casaleggiano delle fake news contro Renzi, Boschi, Lotti & C.: peccato fosse la moglie di Brunetta. Una storia da manuale del boomerang, che fa il paio con le accuse di razzismo lanciate dal Pd al governo Conte perché un gruppo di giovinastri aveva lanciato un uovo a un’atleta di colore, poi frettolosamente ritirate dopo la scoperta che un lanciatore era il figlio di un consigliere comunale Pd. Ora ci risiamo. I giornaloni non riescono proprio a digerire che il 27 maggio, quando Mattarella rispedì a casa Conte per via di Savona, molti italiani si siano incazzati da soli: se i social tracimavano di commenti critici o insultanti, non era perché chi aveva appena votato M5S e Lega si sentisse defraudato e invocasse le dimissioni del capo dello Stato; ma perché c’era dietro Putin con la sua fabbrica di troll a San Pietroburgo. Infatti, per un’intera settimana, ci hanno ammorbati con una cascata di articoloni e titoloni.Tutti ispirati dal Colle (bastava leggere le firme: quelle dei quirinalisti), finché il pool Antiterrorismo della Procura di Roma (non è uno scherzo: è tutto vero), la Dia, la Polizia Postale, i servizi segreti e il Copasir non hanno aperto inchieste per vilipendio al capo dello Stato e attentato alla sua libertà. Roba da 20 anni di galera, come minimo. Poi i servizi hanno subito detto che non c’è una sola prova sui famosi troll russi. E chi aveva titolato “L’attacco al Colle via Twitter. Alcune ‘firme’ del Russiagate dietro i messaggi contro il capo dello Stato”, “Le manovre dei russi sul web e l’attacco coordinato a Mattarella”, “Interventi sulla politica italiana dai troll russi che spinsero Trump”, (“Corriere”), “La questione russa in Italia. Interferenze cyber”, “Interferenze russe sul voto del 4 marzo” (“La Stampa”), “Dalla propaganda di Putin 1500 tweet per Lega e 5Stelle”, “Una pioggia sui social in arrivo da San Pietroburgo”, “Il Pd nel mirino dei troll russi” (“Repubblica”), che ha fatto? Ha chiesto scusa per tutte le balle raccontate e lasciato perdere? Macché: fischiettando con grande nonchalance, ha infilato un paio di righette qua e là negli articoli – non più nei titoli – per dire che i russi non c’entrano nulla, o non c’è alcuna prova che c’entrino. Cioè: le critiche al presidente italiano erano tutte italiane. Dunque su chi si indaga, e per quale reato? Sui cittadini che, tutelati dall’articolo 21 della Costituzione, postano sui social il loro legittimo dissenso sulla massima carica, manco fossimo nella Russia di Putin?Mentre il boomerang volteggia all’indietro su chi l’aveva lanciato – cioè il Quirinale sempre più simile al Cremlino – i quirinalisti ispirati dall’alto tentano di intercettarlo in tempo con le nude mani: «Si cerca – scrive ieri il “Corriere” – di far passare Mattarella come un uomo permaloso che, credendosi un semidio, vorrebbe rianimare almeno il reato di lesa maestà». Già, l’impressione è proprio questa. «Manca solo che accusino il Quirinale di istigare i magistrati a recuperare la cultura greca del delitto di hybris» per «veder marcire in galera chiunque si pronunci criticamente su di lui». Già, la sensazione è proprio questa. Invece no: Egli, «nella sua imperturbabilità zen» e immensa bontà, adora chi lo critica, ma solo «in una dialettica accettabile in democrazia, ciò che esclude insulti e minacce». Resta da capire dove siano insulti e minacce nell’hashtag #MattarellaDimettiti dei tweet sotto inchiesta, prima made in Russia e ora rientrati nella cinta daziaria (lo “snodo di Milano”). Ma tutto è bene quel che finisce bene, o quasi.“Repubblica”, mentre autosmentisce una settimana di titoli sulla Russia con una sola frasina («gli account utilizzati per le campagne di influenza dei russi della Internet Research Agency di San Pietroburgo hanno cessato di operare nell’autunno scorso», dunque solo «mani italiane»), monta un’intera pagina su una notizia sensazionale: in Italia i siti dei 5Stelle rilanciano i messaggi di Di Maio e degli altri 5Stelle. Roba forte. Non solo: le critiche a Mattarella furono «un assalto squadrista» (tipo quelli di “Repubblica” a Leone e Cossiga) finalizzato nientepopodimenoché a «eccitare la coscienza del paese». Accipicchia. E chi è stato? «Consolidati network di condivisione di contenuti para-giornalistici di segno sovranista, piuttosto che populisti». Mecojoni. E non è mica finita: «Sono evidenti le stimmate e la regia politica». Perbacco: le pagine Fb di «quelli che si dicono 5S» chiedevano l’impeachment di Mattarella. Chi l’avrebbe mai detto? Una addirittura postava una domanda dal chiaro contenuto eversivo: «Siete d’accordo con Di Maio che invoca la messa in stato d’accusa di Mattarella?». E qualcuno osò financo rispondere, non so se mi spiego. Seguono i nomi dei putribondi mandanti: «Tale Piergiorgio, alias ‘Pierre’ Cantagallo», «Grande Cocomero classic» (il nostro preferito), «tale Francesco Camillo Soro» da Las Palmas. E ho detto tutto. Che si aspetta ad arrestarli, fustigarli, convertirli in appositi campi di rieducazione? L’Antiterrorismo non ponga altro tempo in mezzo.E, già che c’è, non trascuri le indagini sulla leggendaria «fabbrica delle fake news» e sull’inquietante «fiume di denaro che porta a Londra, a Mosca, in Albania», smascherati mesi fa dai segugi di “Repubblica”, che ne inseguirono le tracce fino al covo operativo: «Una fabbrica di manufatti in alluminio a Terni». Lì, «in una sera gelida di novembre, durante una pausa di cambio turno, Leonardo, un metalmeccanico di 34 anni, ex punk, la terza media in tasca e i soldi per comprare il primo modem non più di sei anni fa, apre le porte del Sistema». Roba grossa, di cui però non si seppe più nulla. Se non che – fu sempre “Repubblica” a rivelarlo, con grave sprezzo del pericolo – «Leonardo di cognome fa Piastrella», ma quando diventa un «cavaliere nero dell’intossicazione online», si fa chiamare “Ermes Maiolica”, molto ricercato dai «broker pubblicitari». Perché voi non ci crederete, ma «più traffico hai, più soldi prendi dalla pubblicità». Strano, eh? Infatti «in Rete ha cominciato a fare capolino un certo Vincenzo Ceramica. Provate a indovinare chi sia». Sono mesi che tratteniamo il fiato, in attesa che qualcuno sveli l’arcano – se non “Repubblica”, che abbandonò la pista proprio sul più bello, almeno l’Antiterrorismo. Se il sor Piastrella c’entra col sor Maiolica, c’entrerà anche col sor Ceramica? E non è che l’hashtag eversivo #MattarellaDimettiti era un messaggio in codice per il sor Mattonella?(Marco Travaglio, “#MattonellaDimettiti”, dal “Fatto Quotidiano” del 9 agosto 2018, ripreso da “Il bene comune newsletter”).Cultori sfegatati del nuovo genere letterario di giornaloni, quello delle fake news sulle fake news, leggiamo e collezioniamo tutto. Non ci perderemmo una puntata per nessuna ragione al mondo. Lo spettacolo dell’establishment che prende scoppole in tutto il mondo perché sta sulle palle ai cittadini e, anziché guardarsi allo specchio, cerca in Russia la spiegazione dei suoi continui fiaschi, è semplicemente impagabile. L’establishment ordina agli inglesi di votare no alla Brexit e quelli votano sì? Dev’essere un complotto dei russi a suon di fake news. L’establishment intima agli americani di votare Hillary Clinton contro Trump e quelli eleggono Trump? Sarà per le fake news diffuse da Putin. L’establishment raccomanda agli italiani di votare sì al referendum costituzionale e quelli votano no? Ci dev’essere sotto la congiura delle fake news moscovite. L’establishment diffida gli italiani dal premiare il populismo sovranista 5Stelle e la Lega e quelli corrono a votare 5Stelle e Lega? Le solite fake news della propaganda moscovita. L’establishment beatifica Mattarella che rifiuta il governo Conte con dentro Savona e subito Facebook e (molto meno) Twitter pullulano di messaggi contro Mattarella e pro Conte&Savona? La solita regìa dei troll russi, provenienti stavolta da San Pietroburgo.
-
Belano contro Salvini e tacciono sul martirio degli italiani
La parola “intellettuale” deriva dal latino intus-legere, e in quanto tale dovrebbe essere riferita ad un individuo in grado di “leggere dentro” e di non accontentarsi della sola parte emersa di una informazione. L’intellettuale, stando al senso etimologico, dovrebbe essere dunque l’opposto del superficiale – colui che approfondisce, appunto. Invece, gli intellettuali con cui abbiamo a che fare sui media tradizionali e sui social, in linea di massima tendono ad aggregarsi come una classe sociale qualunque. Esistono dunque gli operai, i lavoratori autonomi, gli imprenditori, i colletti bianchi e… gli intellettuali. Sono divenuti una professione, e come tale autoreferenziali e inclini a salvaguardare i propri interessi di casta. Manca solo che ne venga istituito l’ordine professionale e il quadro si completa. Ecco allora che gli intellettuali di oggi si smarcano completamente dalla funzione tradizionalmente loro attribuita di dotti perennemente curiosi che esercitano il dubbio, per abbracciare l’appartenenza ad una élite culturale. Caso emblematico, quello della rivista “Rolling Stone” che ha appena lanciato un manifesto contro il ministro dell’interno Salvini, in cui compaiono le adesioni di oltre 50 artisti e personaggi del mondo dello spettacolo.Il messaggio, prontamente copiaincollato sui social da tutti i “Napalm51” del web, ha come sfondo una copertina arcobaleno con scritto: “Noi non stiamo con Salvini. Da adesso chi tace è complice”. E’ del tutto evidente che il politico di punta oggi in Italia, il leader della Lega, possa portarci alla rovina e che le sue politiche possano legittimamente essere considerate sbagliate. Quello che però dovrebbe destare non poca preoccupazione è il format che sta dietro (e davanti) alla protesta: un format visto mille volte e che, francamente, ha stufato anche i santi. La bandiera arcobaleno ancora una volta diventa un brand per tutte le stagioni e rinuncia a selezionare davvero opinioni e analisi: ci mettiamo dentro i pacifisti (bandiere esposte sui balconi ai tempi della guerra in Iraq), ci mettiamo dentro partiti politici (la sinistra radicale o pseudotale), ci mettiamo dentro anche i gay. Ora, a questo varipinto calderone si aggiunge anche l’individuazione dell’uomo nero, un nemico, che, come tutta la storia della propaganda insegna, è il modo migliore per raggiungere obiettivi identitari. Per dirla senza tanti giri i parole: con questa operazione, rivolta contro un singolo uomo, si prova a riunificare la sinistra, ma identificandola con la categoria degli intellettuali. Non con i lavoratori, non con gli operai, non con la classe media, non con gli impiegati, ma con i maître à penser.Quante volte abbiamo visto in moto questo meccanismo? Come fenomeno sarebbe anche divertente da analizzare, visto che le prime aggregazioni degli intellettuali italiani sotto l’ombrellone multicolore arcobaleno proponevano temi alquanto “salviniani”. Li ricordate i no-global di inizio millenio? Per non parlare delle battaglie degli artisti come Jovanotti contro il debito pubblico dei paesi in via di sviluppo. “Cancella il debito”, urlava il Jova a squarciagola dal palco, per poi scordarsi sbadatamente di tutto quanto predicato fino ad ora contro il debito, quando a soffrire dell’inganno finanziario sul debito sono i suoi connazionali. La serie degli appelli ai “valori” è così diventata sempre più lunga. Si tratta però di riferimenti – come i diritti umani o i diritti civili – che non potrebbero nemmeno essere concettualmente compresi se per paradosso non esistesse, a renderli credibili, ciò che essi stessi aspramente criticano, e cioè gli Stati ed i confini. Il vero guaio non sta nel legittimo e sacrosanto dissenso, ma nel fatto che, così formulati, portano l’intellettuale alla definitiva abdicazione al suo ruolo.In un’indimenticabile intervista, il filosofo torinese Costanzo Preve riassumeva il problema degli intellettuali superficiali con questo duro giudizio: «Mentre ai tempi di Hegel e Schopenhauer, ma anche ai tempi di Adorno, gli intellettuali erano generalmente più intelligenti delle persone comuni, oggi ci troviamo in una situazione nuova: gli intellettuali sono nella stragrande maggioranza più stupidi delle persone comuni. E’ una novità degli ultimi 50 anni e lo vediamo quando vengono interpellati nei talk show televisivi, perchè dicono una quantità di stupidaggini molto maggiore di quelle che si sentono pronunciare dai tassisti, dai baristi o dalle casalinghe al mercato. Adorno, Marcuse e Sartre, ad esempio, si possono contestare, io ad esempio non sono d’accordo con loro – concludeva Preve – ma senza dubbio dicevano cose intelligenti, che fanno riflettere. Oggi questo non accade più e dobbiamo aspettarci solo scemenze». La constatazione di Preve, che risale al 2011, è oggi più attuale che mai. Resta da chiedersi: perchè accade ciò? Secondo Preve questa situazione è da ascrivere alla sudditanza di filosofia, letteratura, arte, ecc. all’economia, la scienza triste che si è presa tutti gli spazi del sapere. A questo dato di fatto, aggiungerei però anche la modalità di selezione della classe dirigente, in Italia determinata da circoli ristretti e salotti, impenetrabili a tutti coloro i quali non si lasciano omologare. Nell’ultimo demenziale appello ad una civiltà nemmeno pensabile senza lo Stato di diritto e la sovranità questi circoli chiusi sono tornati a belare.(Massimo Bordin, “Gli intellettuali di oggi sono stupidi”, dal blog “Micidial” del 6 luglio 2018).La parola “intellettuale” deriva dal latino intus-legere, e in quanto tale dovrebbe essere riferita ad un individuo in grado di “leggere dentro” e di non accontentarsi della sola parte emersa di una informazione. L’intellettuale, stando al senso etimologico, dovrebbe essere dunque l’opposto del superficiale – colui che approfondisce, appunto. Invece, gli intellettuali con cui abbiamo a che fare sui media tradizionali e sui social, in linea di massima tendono ad aggregarsi come una classe sociale qualunque. Esistono dunque gli operai, i lavoratori autonomi, gli imprenditori, i colletti bianchi e… gli intellettuali. Sono divenuti una professione, e come tale autoreferenziali e inclini a salvaguardare i propri interessi di casta. Manca solo che ne venga istituito l’ordine professionale e il quadro si completa. Ecco allora che gli intellettuali di oggi si smarcano completamente dalla funzione tradizionalmente loro attribuita di dotti perennemente curiosi che esercitano il dubbio, per abbracciare l’appartenenza ad una élite culturale. Caso emblematico, quello della rivista “Rolling Stone” che ha appena lanciato un manifesto contro il ministro dell’interno Salvini, in cui compaiono le adesioni di oltre 50 artisti e personaggi del mondo dello spettacolo.