Archivio del Tag ‘sociale’
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Privatizzazioni, tariffe alle stelle. Indovina chi ci guadagna
Mentre il mantra delle privatizzazioni continua ad essere il faro delle elites politico-finanziarie che governano il paese (Legge di stabilità, Sblocca Italia, spinta sui trattati Ttip e Tisa), restano relegati in un angolo gli studi che, a 20 anni di distanza dall’avvio delle liberalizzazioni, ne dimostrano il totale flop, non solo in riferimento agli impatti sociali – la progressiva perdita di ogni funzione pubblica e sociale – bensì anche nel merito delle promesse fatte, ovvero la drastica riduzione delle tariffe come risultato del libero agire della concorrenza. Lo studio recentemente pubblicato dalla Cgia di Mestre è da questo punto di vista inequivocabile: solo i prezzi dei medicinali e delle tariffe dei servizi telefonici hanno subito una diminuzione. E si tratta di settori per i quali la diminuzione dei costi si spiega più con la continua evoluzione, per l’alto tasso d’innovazione tecnologica (telefonia) e di ricerca scientifica (farmacia) che non con motivazioni intrinsecamente legate alla “bontà” della concorrenza.
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Bergoglio, il tempo stringe: per lui o per la Chiesa di potere?
Il tempo stringe: non solo per il Papa, ma anche e soprattutto per la Chiesa, ingombra di strutture di potere finanziario e ancora dominata da una nomenklatura che vive nel lusso. Annunciando l’anno giubilare straordinario, Bergoglio ha detto di ritenere che il suo sarà un “pontificato breve”. «L’interpretazione più ovvia è che abbia in mente delle dimissioni dopo un certo periodo», premette Aldo Giannuli. «Certo, non l’automatismo degli 80 anni che porta fuori del conclave i cardinali, ma forse dimissioni entro un termine non prestabilito, ma non lontano, quando sentirà che le forze non lo assistono più». Alle soglie degli ottant’anni, il Papa argentino “sente” che il suo pontificato «non abbia probabilità di essere lungo come quello di Pio XII, o lunghissimo come quello di Giovanni Paolo II». Ma parlare di un pontificato breve, aggiunge Giannuli, fa pensare a qualcosa che durerà altri tre o quattro anni, come per Giovanni XXIII che fu Papa per 5 anni. «E allora: decisione di dimettersi? Modo per dire di aver scoperto una grave malattia?». Eppure, «c’è un’altra interpretazione possibile», e cioè «un messaggio ai suoi oppositori, sempre più numerosi nella Curia e fuori».Questo, scrive Giannuli nel suo blog, il succo del possibile messaggio di Bergoglio: «La riforma della Chiesa procederà a spron battuto, perché il Papa non ritiene (a torto o a ragione) di avere molto tempo davanti a sé». Forse, aggiunge lo storico dell’università di Milano, «la suggestione del parallelo con Giovanni XXIII porta a pensare al preannuncio di un Concilio». Tutte cose possibili, ma l’unica certa è «lo scontro in Vaticano e nella Chiesa», un conflitto «sempre più acuto e aperto», di cui si capisce il perché: «Quella di Bergoglio non è una semplice riforma della Curia o del sistema di governo della Chiesa, ma una profonda mutazione dello stesso ruolo di essa». Dal primo Medioevo sin qui, ricorda Giannuli, la Chiesa si è proposta come maestra di verità di fede e di morale. «Questo perché il “sapere socialmente necessario”, in una formazione economico-sociale a dominante religiosa quale era quella europea dal V secolo in poi, era appunto il sapere di fede e di morale, per guadagnarsi il premio della vita eterna». Infatti, «tutta la vita del fedele era orientata a questo fine e guidata dalla Chiesa, e tutta la vita quotidiana era profondamente permeata dai riti, dalle devozioni, dalle preghiere, dalle ricorrenze religiose».La produzione di sapere teologico, continua Giannuli, rispondeva in primo luogo all’esigenza di giustificare il ruolo del clero e della sua gerarchia, cui spettava in esclusiva il compito di leggere le Scritture e interpretarle. «E il magistero morale fu una forza pervasiva di controllo sociale, diventata tanto più cogente, dopo l’XI secolo, con l’istituzione della confessione auricolare». E’ ovvio che, in un simile contesto, era primario il potere della Chiesa di stabilire cosa fosse vero e cosa no, nella fede, e di stabilire i precetti morali. Un potere superiore, «a mala pena contrappesato (e non sempre con efficacia) da quello secolare», tant’è vero che «il trono era spesso in conflitto con l’altare», eppure «l’insediamento del nuovo sovrano avveniva con una cerimonia religiosa nella quale era una autorità ecclesiale ad incoronare il re». Secondo il monaco e filosofo francese Roscellino da Compiegne, vissuto nel primo secolo dopo l’anno Mille, l’unzione regale era addirittura l’ottavo sacramento. Poi, attraverso i secoli, le cose sono cambiate: «Il sapere socialmente necessario – continua Giannuli – divenne quello del sapere secolare umanistico e scientifico». Nel frattempo «si affermava il pluralismo religioso e, con esso, anche il sorgere di codici morali diversi».Parallelamente, «il potere politico si affrancava definitivamente da quello religioso», e le istituzioni sanitarie e scolastiche divennero progressivamente laiche. «Già nel XIX secolo, nella maggior parte dei paesi europei, la “presa” ecclesiale sulla società era ridotta a fatto residuale, per diventare del tutto marginale nel secolo successivo», prosegue Giannuli. «La Chiesa, nonostante tutto, ha proseguito nel suo ruolo di “mater et magistra”, senza curarsi del crescente disinteresse dei suoi stessi fedeli». Oggi non è più certo che la maggioranza dei cattolici conosca i principali dogmi (da quello trinitario al culto mariano, fino a quello della natura umana e divina di Cristo), «se non per averli orecchiati durante l’infanzia o l’adolescenza». La pratica dei sacramenti ormai «riguarda una parte del tutto minoritaria dei fedeli, soprattutto la pratica della confessione», mentre la stessa partecipazione alla messa domenicale, almeno in Europa, «riguarda molto meno di un quinto dei fedeli». Quanto alla morale, «la grande maggioranza dei cattolici si comporta esattamente come tutti gli altri, in particolare per quel che attiene alla morale sessuale e matrimoniale».Benedetto XVI, ricorda Giannuli, coltivò il disegno della “ri-evangelizzazione d’Europa” ma, a quanto pare senza il minimo risultato. «Per di più, la Chiesa ha perso molta della sua credibilità per i troppi scandali sessuali e finanziari, per l’inaudito e ingiustificabile lusso della Curia, per l’opportunistico silenzio di fronte a clamorose ingiustizie», sottolinea Giannuli. «Su questa strada, il futuro più probabile della Chiesa è quello di una setta povera di credenti ma ricchissima di denaro e potere, destinata comunque a scomparire». Ecco allora perché Francesco «sta cercando un destino diverso per la sua Chiesa, accettando anche un secco ridimensionamento del suo potere finanziario e del suo apparato». Come si è capito, Bergoglio non ha nessun particolare interesse per la teologia dogmatica. Quanto alla morale, «ha accettato implicitamente che i fedeli si regolino individualmente in un personale dialogo con Dio: “Chi sono io per giudicare un gay che cerca Dio?”».Il nuovo Papa «apre su temi come la comunione ai divorziati», e lo stesso giubileo «è indetto all’insegna del perdono e dell’accoglienza in Chiesa anche dei gay, dei divorziati e di ogni altro peccatore». Papa Francesco, spiega Giannuli, centra la sua attenzione sulla funzione pastorale della Chiesa, riprendendo il tema centrale del Concilio Vaticano II, il cui cinquantenario celebra con questo giubileo. «Ridimensionando la funzione di ministero teologico e morale, Bergoglio ripropone la Chiesa come portatrice di una particolare visione antropologica», quindi «non i dogmi stratificati in duemila anni, ma l’antropologia cristiana». Un discorso squisitamente religioso, di interesse per i fedeli ma anche per i laici, attenti all’evoluzione della principale confessione organizzata del pianeta: «Bergoglio lancia la Chiesa come principale agenzia di mediazione culturale nel mondo globalizzato». Riprenderà il tema dell’inculturazione, cardine del Vaticano II?«Questo mutamento di funzione non è indolore per la Chiesa e impone una svolta organizzativa che va verso una autonomizzazione delle Chiese locali, che hanno un loro punto di riferimento unitario nel Papa ma senza più la necessaria mediazione della Curia», che Bergoglio ha definito «l’ultima corte europea». In una struttura di questo tipo, completamente ridisegnata, «il Papa esercita un ruolo soprattutto carismatico, che non ha bisogno di un apparato elitario come la Curia». E’ comprensibile, scrive Giannuli, che i diretti interessati non siano così disposti a rinunciare al loro ruolo e ai connessi privilegi. «E si capisce anche come mai lo scontro verta soprattutto sullo Ior, che è la garanzia della sopravvivenza economica del sistema». Francesco, forse, «ha mandato a dire che i tempi sono brevi». E non solo «quelli del suo pontificato». Senza una rivoluzione “francescana”, ad avere i giorni contati è la Chiesa stessa, a cominciare dai suoi ricchissimi burocrati.Il tempo stringe: non solo per il Papa, ma anche e soprattutto per la Chiesa, ingombra di strutture di potere finanziario e ancora dominata da una nomenklatura che vive nel lusso. Annunciando l’anno giubilare straordinario, Bergoglio ha detto di ritenere che il suo sarà un “pontificato breve”. «L’interpretazione più ovvia è che abbia in mente delle dimissioni dopo un certo periodo», premette Aldo Giannuli. «Certo, non l’automatismo degli 80 anni che porta fuori del conclave i cardinali, ma forse dimissioni entro un termine non prestabilito, ma non lontano, quando sentirà che le forze non lo assistono più». Alle soglie degli ottant’anni, il Papa argentino “sente” che il suo pontificato «non abbia probabilità di essere lungo come quello di Pio XII, o lunghissimo come quello di Giovanni Paolo II». Ma parlare di un pontificato breve, aggiunge Giannuli, fa pensare a qualcosa che durerà altri tre o quattro anni, come per Giovanni XXIII che fu Papa per 5 anni. «E allora: decisione di dimettersi? Modo per dire di aver scoperto una grave malattia?». Eppure, «c’è un’altra interpretazione possibile», e cioè «un messaggio ai suoi oppositori, sempre più numerosi nella Curia e fuori».
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Io, il greco e la spagnola. Felici al macello, senza saperlo
Quello che le élites neoliberiste sono riuscite a fare é così grande che non riusciamo neanche ad accorgecene. La sinistra é morta. Morta. Sopravvive in piccole nicchie, intellettuali o no. Ma dire una goccia nell’oceano forse è dire troppo. Che cos’é il cosmopolitismo? Ognuno è cittadino del mondo. Che cos’é l’individualismo? L’individuo è al centro del mondo. Questa sera ad Atene ho avuto una discussione con una ragazza spagnola e un ragazzo greco. Lui 36 anni, di Atene. Lei molti meno, credo meno di 25. Entrambi hanno girato parecchio. Lei molto di più. Fra noi ci si parla in inglese. Tre nazioni del sud Europa per capirsi fra di loro devono parlare una lingua del nord Europa. Come fare a cambiare il mondo? Lei e lui dicono all’unisono: «Per cambiare il mondo bisogna che ognuno di noi cerchi di cambiare se stesso e le persone che gli stanno vicino». Poi il mondo cambierà.Io a lei le ho detto, mentre lui era in bagno: «Marx diceva che non è la coscienza degli uomini a creare il loro essere sociale; al contrario, è il loro essere sociale che crea la loro coscienza». Per lei non era giusto. Lui mi dice: «Se il figlio del padrone della Nike fosse un mio amico, io parlando con lui riuscirei a cambiarlo. E poi quano prenderà il posto del padre non sarà una merda come lui». E io gli rispondo: «Ma lui ha interessi diversi dai tuoi, dai miei. Davvero speri di cambiarlo?». Lui mi risponde deciso: «Sì». Lei: «Non credo nei muri e nelle frontiere». Lui: «Il cambiamento deve partire da noi stessi», e poi sparecchia al posto della cameriera. Perché dei valori buoni finiscono ad asservire gli interessi del grande capitale internazionale?Lei ha una fotocamera Canon, lui una macchina giapponese credo, non so la marca. Mi dicono che i soldi non sono niente. Io gli dico: «Allora la birra che ci stiamo bevendo é niente?». Sguardo in un altra direzione. Nel frattempo i manager dell’Hitachi stavano brindando per l’acquisto dell’Ansaldo. I soldi che faranno non saranno redistribuiti fra i lavoratori, verranno investiti in borsa in qualche titolo ad alto rendimento. La discussione é iniziata perché lui nota al mio polso un braccialetto comprato dai giamaicani in piazza Monastiraki. Loro dicono che i giamaicani sono invandenti, non rispettano il volere degli altri e assillano la gene finché non comprano un braccialetto. Io provo a dire loro che per i giamaicani immigrati è questo il lavoro che possono fare, perché la comunità giamaicana qui fa così. Poi si é passati ai pakistani che lapidano le donne. Da lì gli ho detto che dobbiamo lasciare in pace quei popoli e dare loro la possibilità di autodeterminarsi. Da lì i lavoratori sfruttati della Nike, ecc.Persone che viaggiano molto, vedono diverse culture, diverse storie poi non capiscono un cazzo di come funziona la società. Perché l’individuo sta al centro, le genti si mischiano, ecc. Ma in un mondo di genti mischiate, se noi viaggiamo, in realtà sarà come viaggiare sempre nello stesso posto. E gli individui saranno tutti così uguali che parlare diventerà come pensare fra noi stessi. Della politica non gliene frega un cazzo. Non conta, dicono. A lui gli ho detto io l’ultima proposta di legge di Varoufakis. Lei fa video girando il mondo, prendendo due soldi di qua e di là. E li spende tutti viggiando. Lui non so che lavoro fa. Ma a 36 anni se esci la sera a bere è perché non guadagni abbastanza. Quando provo a dirgli che i nostri genitori alla nostra età guadagnavano più di noi il discorso si blocca. La politica, l’economia, non contano un cazzo. Siamo tutti cittadini del mondo. Dobbiamo avere rispetto gli uni degli altri e tutte le cose andranno bene. Il mondo cambierà. Elites neoliberiste brindate. Un esercito di schiavi consapevoli della loro libertà vi sta dinnanzi. La spagnola me la sono giocata. E ci stava. Ma non riesco a fare sì con la testa.(“Il cosmopolitismo individualista”, dal blog “Vox Populi” del 6 marzo 2015).Quello che le élites neoliberiste sono riuscite a fare é così grande che non riusciamo neanche ad accorgecene. La sinistra é morta. Morta. Sopravvive in piccole nicchie, intellettuali o no. Ma dire una goccia nell’oceano forse è dire troppo. Che cos’é il cosmopolitismo? Ognuno è cittadino del mondo. Che cos’é l’individualismo? L’individuo è al centro del mondo. Questa sera ad Atene ho avuto una discussione con una ragazza spagnola e un ragazzo greco. Lui 36 anni, di Atene. Lei molti meno, credo meno di 25. Entrambi hanno girato parecchio. Lei molto di più. Fra noi ci si parla in inglese. Tre nazioni del sud Europa per capirsi fra di loro devono parlare una lingua del nord Europa. Come fare a cambiare il mondo? Lei e lui dicono all’unisono: «Per cambiare il mondo bisogna che ognuno di noi cerchi di cambiare se stesso e le persone che gli stanno vicino». Poi il mondo cambierà.
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Da Moro a Renzi, la democrazia italiana chiude i battenti
Forse qualcuno non si è ancora accorto che il diritto rappresentativo democratico, affermatosi nell’Italia repubblicana dal dopoguerra, si sta polverizzando sotto i nostri occhi, frantumato dal revisionismo costituzionale «in atto da diverso tempo, ma ora arrivato tragicamente alle ultime battute d’arresto», grazie al «golpe finanziario euroatlantico». E’ appena accaduto «qualcosa di assolutamente inedito negli ultimi 70 anni di storia repubblicana», scrive Rosanna Spadini: nella notte del 13 febbraio 2015 «un governo ha modificato la Costituzione unilateralmente». Ovvero: un gruppo di parlamentari “nominati”, «pur non avendo avuto la maggioranza alle ultime elezioni, ma avendola ottenuta solo in forza di una legge elettorale dichiarata incostituzionale», ha modificato la Costituzione «asfaltando in un solo colpo la democrazia». Il “golpe notturno” è stato eseguito «in apnea di democrazia», da un Parlamento eletto in base a una legge elettorale dichiarata incostituzionale dalla Corte. La Costituzione? Ormai «obsoleta e superflua», un intralcio al profitto dei bankster. Con Renzi, va a segno il piano antidemocratico nato trent’anni fa.Il “Porcellum”, osserva la Spadini su “Come Don Chisciotte”, è una legge ancor più devastante dei diritti di rappresentanza democratica della Legge Acerbo imposta da Mussolini. «Infatti non c’è nemmeno bisogno del 25% dei voti per ottenere il premio di maggioranza: chi arriva primo fra le varie liste e coalizioni, quale che sia la percentuale, ottiene la maggioranza di 340 seggi a Montecitorio». Di qui la tendenza alla formazione di “larghe intese”, «sottoposte al ricatto». La riforma del Senato promossa dal governo Renzi, poi, «prevede la fine del bicameralismo perfetto e l’abolizione del Senato elettivo, sostituito con una Camera composta da consiglieri regionali e sindaci e ridotta da 315 a 100 membri». Il nuovo Senato non voterà più la fiducia al governo, né gli sarà consentito di legiferare (tranne che su alcuni temi: riforme costituzionali e trattati internazionali). Di fatto, l’abolizione del Senato elettivo «sospende il diritto repubblicano e si inserisce in una fase di “anomalia legislativa”», inaugurando la transizione «da un regime rappresentativo, espressione dialettica tra i vari gruppi sociali e politici, a uno autocratico, che tende ad semplificare i metodi deliberativi, per imporre la volontà esclusiva di gruppi di potere oligarchico».La logica, sintetizza Spadini, non è più quella della collaborazione e del compromesso, di conciliazione delle diverse istanze, ma espressione della richiesta di più spedita efficienza del processo deliberativo, inteso come mera applicazione di una volontà autocratica. «Le ultime riforme previste dunque prevedono una riduzione ulteriore dei poteri democratici del Parlamento attraverso la trasformazione di un ramo delle Camere, da organo legislativo a pieno titolo a mera funzione di collegamento tra Stato ed enti locali». Questo, assieme alla nuova legge elettorale (con ampio premio di maggioranza al partito più votato), «assegnerà più potere alle maggioranze e ai governi, indebolendo invece il Parlamento e le opposizioni». Un uomo solo comando, non eletto da nessuno: Renzi, il maggiordomo dei poteri forti che «sta rottamando la democrazia», in una situazione «molto vicina al colpo di Stato». Il problema? Salvare la Costituzione, prima che gli italiani diventino definitivamente sudditi senza più diritti. «Eroe del populismo postmoderno», Renzi finora è stato «un abile impresario politico della virtualità rassicurante, un valido affabulatore della narrazione neoliberista blairiana», idolatrato da elettori raggirati e destinati «a un’esistenza di precariato professionale perpetuo».Certo, ammette Spadini, il “golpe” viene da lontano, «e fu segnato da passaggi chiave nella storia economico-politica italiana». L’assassinio di Moro, nel maggio 1978, «serviva per impedire la partecipazione dei comunisti al governo, evento traumatico per gli Usa», ma «giovò anche al progetto dell’area valutaria europea». Infatti, «nel marzo del ’79 ci fu l’incriminazione del governatore della Banca d’Italia Paolo Baffi, il quale poi, benché prosciolto da tutte le accuse, dovette dimettersi». Subito dopo, il capo del governo Giulio Andreotti ufficializzerà l’entrata dell’Italia nello Sme. «Nel 1981, con l’accordo Ciampi-Andreatta, verrà sancito il cosiddetto “divorzio” tra Banca d’Italia e Tesoro, dando inizio così all’impennata dell’aumento degli interessi sul debito pubblico». Nel ’92 poi si aprì la stagione di Mani Pulite, una “rivoluzione mediatico-giudiziaria” che avrebbe provocato la demonizzazione della classe politica dirigente della Prima Repubblica, «ovvero quella casta che, pur tra episodi di corruzione, aveva permesso la crescita economica e l’aumento dei salari». A seguire, il primo processo di liberalizzazioni e privatizzazioni. «Infine le dimissioni di Berlusconi nel 2011, pilotate dalla Bundesbank, provocarono il succedersi dei governi Monti, Letta e Renzi, non votati da nessuno, e il via libera per la strategia Usa di destabilizzazione del Medio Oriente, in un’ottica ostile alla Russia».Ora, continua Spadini, le famigerate e sbandierate “riforme” «transiteranno la società italiana verso un assetto sociale darwininiano, dove la distanza tra le classi si farà sempre più marcata», difendendo privilegi e «demolendo quel sistema di welfare che ha salvaguardato il benessere dei cittadini fino ad ora». Privatizzazioni, abbattimento dei diritti del lavoro, tassazione spietata sulle fasce più basse, riduzione degli ammortizzatori sociali e della pubblica amministrazione, limitazione della democrazia. «Renzi – scrive il “Daily Mirror”– è il Blair italiano non solo nelle intenzioni politiche, ma anche nelle alleanze economiche. Un esempio? La Jp Morgan». Riforma della Costituzione, del Senato, della Rai, del lavoro (Jobs Act), della pubblica amministrazione, della giustizia, della scuola, del sistema elettorale. «Così ha deciso il presidente del consiglio Matteo Renzi, su suggerimento della banca d’affari Jp Morgan, che ha arruolato proprio Blair tra i suoi consiglieri strategici», conclude Spadini. «Benvenuti nel nuovo mondo dei licantropi, che praticano quotidianamente l’equilibrio funambolesco del potere, oscillante tra virtualità rassicuranti e rovine sociali».Forse qualcuno non si è ancora accorto che il diritto rappresentativo democratico, affermatosi nell’Italia repubblicana dal dopoguerra, si sta polverizzando sotto i nostri occhi, frantumato dal revisionismo costituzionale «in atto da diverso tempo, ma ora arrivato tragicamente alle ultime battute d’arresto», grazie al «golpe finanziario euroatlantico». E’ appena accaduto «qualcosa di assolutamente inedito negli ultimi 70 anni di storia repubblicana», scrive Rosanna Spadini: nella notte del 13 febbraio 2015 «un governo ha modificato la Costituzione unilateralmente». Ovvero: un gruppo di parlamentari “nominati”, «pur non avendo avuto la maggioranza alle ultime elezioni, ma avendola ottenuta solo in forza di una legge elettorale dichiarata incostituzionale», ha modificato la Costituzione «asfaltando in un solo colpo la democrazia». Il “golpe notturno” è stato eseguito «in apnea di democrazia», da un Parlamento eletto in base a una legge elettorale dichiarata incostituzionale dalla Corte. La Costituzione? Ormai «obsoleta e superflua», un intralcio al profitto dei bankster. Con Renzi, va a segno il piano antidemocratico nato trent’anni fa.
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Chi riportò l’Afghanistan al medioevo, più di trent’anni fa
«Questa sera, per la prima volta dall’11 Settembre, la nostra missione di guerra in Afghanistan è conclusa». Queste le parole di apertura del discorso di Obama sullo Stato dell’Unione del 2015. In realtà, circa 10.000 soldati e 20.000 appaltatori militari (leggi mercenari) rimangono in Afghanistan con incarichi imprecisati. «La guerra più lunga nella storia americana sta arrivando ad una conclusione responsabile», ha detto Obama. La verità è che più civili sono stati uccisi in Afghanistan nel 2014 che in qualsiasi anno da quando l’Onu tiene il conto. La maggior parte delle uccisioni – sia civili che militari – sono avvenute durante la presidenza di Obama. La tragedia dell’Afghanistan fa a gara con il crimine epico perpetrato in Indocina. Nel suo elogiato e più volte citato libro “La grande scacchiera: il primato americano e i suoi imperativi geostrategici”, Zbigniew Brzezinski, il padrino delle politiche americane dall’Afghanistan ad oggi, scrive che se l’obiettivo dell’America è quello di controllare l’Eurasia e di dominare il mondo, non può reggere una democrazia popolare, perché «la ricerca del potere non è un obiettivo che richiede passione popolare, la democrazia è nemica dell’impegno imperiale». Ha ragione.Come hanno rivelato “Wikileaks” e Edward Snowden, uno Stato di polizia e di controllo sta infatti soppiantando la democrazia. Nel 1976, Brzezinski, allora consigliere della sicurezza nazionale della presidenza Carter, ha dimostrato il suo punto di vista comminando un colpo mortale alla prima e unica democrazia dell’Afghanistan. Ma chi la conosce questa storia fondamentale? Nel 1960, una rivoluzione popolare dilagò in Afghanistan, il paese più povero della terra, riuscendo alla lunga nell’intento di rovesciare le vestigia del regime aristocratico nel 1978. Il Pdpa, Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan, formò un governo e compilò un programma di riforme che prevedeva l’abolizione del feudalesimo, la libertà per tutte le religioni, la parità di diritti per le donne e giustizia sociale per le minoranze etniche. Più di 13.000 prigionieri politici furono liberati e gli archivi di polizia pubblicamente bruciati. Il nuovo governo introdusse cure mediche gratuite per i più poveri; la condizione di bracciante fu abolita, un programma di alfabetizzazione di massa fu varato. I progressi che ci furono per le donne erano fino ad allora impensabili.Verso la fine del 1980, la metà degli studenti universitari erano donne, e le donne rappresentavano quasi la metà dei medici in Afghanistan, un terzo dei dipendenti pubblici e la maggior parte degli insegnanti. «Ogni ragazza», ricorda Saira Noorani, chirurga, «poteva andare a scuola e all’università. Potevamo andare dove volevamo e indossare quello che ci piaceva. Di venerdì andavamo al bar o al cinema a vedere l’ultimo film indiano e ascoltavamo la musica più in voga. Tutto cominciò ad andare storto quando i mujahedin iniziarono ad imporsi. Uccidevano gli insegnanti e bruciavano le scuole. Eravamo terrorizzati. Era strano e triste pensare che queste persone erano spalleggiate dall’Occidente». Il Pdpa al governo era sostenuto dall’Unione Sovietica, anche se, come l’ex segretario di Stato Usa, Cyrus Vance, ammise poi, non vi era alcuna prova di complicità sovietica [nella rivoluzione]». Preoccupato dalla crescente fiducia dei movimenti di liberazione in tutto il mondo, Brzezinski decise che, se l’Afghanistan avesse trionfato con il Pdpa, la sua indipendenza e il suo progresso avrebbero posto «la minaccia di un esempio promettente».Il 3 luglio 1979, la Casa Bianca segretamente autorizzò lo stanziamento di 500 milioni di dollari in armi e logistica per sostenere gruppi tribali “fondamentalisti”, conosciuti come i mujahedin. L’obiettivo era quello di rovesciare il primo governo laico e riformista dell’Afghanistan. Nel mese di agosto del 1979 l’ambasciata americana a Kabul segnalò che «gli interessi degli Stati Uniti sarebbero stati asserviti meglio [dalla scomparsa del Pdpa] malgrado ciò che questo avrebbe significato per le future riforme sociali ed economiche dell’Afghanistan». I mujaheddin furono i precursori di Al-Qaeda e dello Stato Islamico. Tra questi c’era Gulbuddin Hekmatyar, che ricevette decine di milioni di dollari in contanti dalla Cia. Le specialità di Hekmatyar erano il traffico di oppio e gettare acido in faccia alle donne che si rifiutavano di indossare il velo. Fu invitato a Londra e decantato dal primo ministro, Margaret Thatcher, come «combattente per la libertà». Forse questi fanatici sarebbero rimasti nel loro mondo tribale se Brzezinski non avesse promosso un movimento internazionale per favorire il fondamentalismo islamico in Asia centrale, così minando una politica laica di liberazione e “destabilizzando” l’Unione Sovietica, per creare, come scrisse poi nella sua autobiografia, «un po’ di musulmani esagitati».Il suo grande piano coincise con le ambizioni del dittatore pakistano, il generale Zia ul-Haq, per il dominio della regione. Nel 1986, la Cia e l’Isi, l’agenzia di intelligence del Pakistan, iniziarono a reclutare persone da tutto il mondo per promuovere la jihad afghana. Il multi-miliardario saudita Osama Bin Laden era tra questi. Agenti che un domani si sarebbero uniti ai Talebani e ad Al-Qaeda furono reclutati in un college islamico di Brooklyn, New York, e a loro fu impartita una formazione paramilitare in una zona di proprietà della Cia in Virginia. Questa fu chiamata “Operazione Ciclone” e il suo successo culminò nel 1996, quando l’ultimo presidente del Pdpa afghano, Mohammed Najibullah – che si era recato al cospetto dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per implorare aiuto – fu impiccato a un lampione dai Talebani. Il risultato dell’Operazione Ciclone e dei suoi “pochi musulmani esagitati” fu l’11 settembre 2001. L’“Operazione Ciclone” divenne la “guerra al terrore”, in cui innumerevoli uomini, donne e bambini avrebbero perso la vita in tutto il mondo musulmano, dall’Afghanistan all’Iraq, allo Yemen, alla Somalia e alla Siria. Il messaggio dei cosiddetti tutori dell’ordine era e rimane: “O sei con noi o contro di noi”.(John Pilger, estratto da “Perché l’avanzata del fascismo è nuovamente il problema”, post scritto il 26 febbraio sul proprio blog e ripreso il 3 marzo 2015 da “Come Don Chisciotte”).«Questa sera, per la prima volta dall’11 Settembre, la nostra missione di guerra in Afghanistan è conclusa». Queste le parole di apertura del discorso di Obama sullo Stato dell’Unione del 2015. In realtà, circa 10.000 soldati e 20.000 appaltatori militari (leggi mercenari) rimangono in Afghanistan con incarichi imprecisati. «La guerra più lunga nella storia americana sta arrivando ad una conclusione responsabile», ha detto Obama. La verità è che più civili sono stati uccisi in Afghanistan nel 2014 che in qualsiasi anno da quando l’Onu tiene il conto. La maggior parte delle uccisioni – sia civili che militari – sono avvenute durante la presidenza di Obama. La tragedia dell’Afghanistan fa a gara con il crimine epico perpetrato in Indocina. Nel suo elogiato e più volte citato libro “La grande scacchiera: il primato americano e i suoi imperativi geostrategici”, Zbigniew Brzezinski, il padrino delle politiche americane dall’Afghanistan ad oggi, scrive che se l’obiettivo dell’America è quello di controllare l’Eurasia e di dominare il mondo, non può reggere una democrazia popolare, perché «la ricerca del potere non è un obiettivo che richiede passione popolare, la democrazia è nemica dell’impegno imperiale». Ha ragione.
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E Draghi getta la maschera: è il capo dei barbari europei
Qualche giorno fa, riflettendo sul caso greco, abbiamo constatato come oggettivamente alcuni figuri abbiano già di fatto abolito la democrazia in alcune nazioni d’Europa. Draghi, Schaeuble e Merkel, per esempio, sul punto sono molto chiari e diretti: «I cittadini non possono cambiare attraverso il voto l’indirizzo politico dei rispettivi governi». Anziché inviare i carri armati a reprimere nel sangue eventuali proteste, Mario Draghi può semplicemente schiavizzare un paese intero minacciando di interrompere la liquidità che tiene in piedi le barcollanti finanze elleniche. Le forme divergono, ma la sostanza non cambia: in Grecia si è instaurata una evidente dittatura. Nessuno può quindi più fare finta di non sapere che un manipolo di oligarchi, capitanati dal “venerabile maestro” Mario Draghi, promuove e realizza nel vecchio continente un golpe strisciante e continuo. Ora, la situazione di fatto appena dipinta si presta ad una lettura bivalente: da un lato la consapevolezza di essere governati da nuovi fuhrer che non possono fermati attraverso libere elezioni incute timore; dall’altro il consolidarsi di un simile equilibrio pone gli odierni torturatori in una posizione scomoda e in prospettiva decisamente pericolosa.
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Carne da macello, il libro dell’orrore del subdolo Jobs Act
Trasportava ogni giorno, per i grigi corridoi della banca, un carrello carico di oggetti di cancelleria. E lo faceva piangendo sommessamente, porgendo le penne, i quaderni, le gomme, i fogli richiesti da quelli che erano stati i suoi colleghi, almeno fino a quando la banca non aveva deciso, per “ragioni di riorganizzazione interna”, di sottrarlo ai compiti di impiegato addetto alla gestione dei flussi contabili e di assegnarlo alle nuove mansioni di riordino e consegna dei materiali e degli strumenti di lavoro, quasi un “cartolaio ambulante”. Ormai svuotato da mesi di umiliazione personale e professionale, impossibilitato a ricollocarsi sul mercato per la progressiva perdita della propria qualificazione, aveva deciso di ottenere giustizia invocando i principi dell’articolo 13 dello Statuto dei Lavoratori: nessuno può essere adibito a mansioni lavorative inferiori rispetto a quelle di assunzione, né può vedersi diminuita la retribuzione; ogni patto o accordo contrario è nullo, anche se sottoscritto con il consenso dello stesso lavoratore.Quella che alcuni anni fa era stata una vertenza a lieto fine, con il risarcimento per il “lavoratore carrellista” degli ingenti danni patrimoniali e non patrimoniali subiti e la reintegra nelle originaria mansioni, oggi è soltanto un malinconico ricordo. L’approvazione dell’articolo 55 dello “Schema di decreto legislativo recante il testo organico delle tipologie contrattuali e la revisione della disciplina delle mansioni, in attuazione della legge 183 del 10 dicembre 2014” infatti, con l’introduzione nell’articolo 2103 della possibilità di assegnare unilateralmente il lavoratore “a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore” nel vago e generico caso di “modifica degli assetti organizzativi aziendali”, addivenendo anche alla decurtazione degli “elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa”, ha ufficialmente cancellato con un tratto di penna decenni di civiltà del lavoro, riportandolo a condizioni addirittura anteriori all’approvazione del codice civile del 1942.Partiamo proprio da questo punto, per capire la “modernità regressiva” dell’ultima riforma introdotta dal Jobs Act. Addirittura nella versione originaria dell’articolo 2103, approvata nel 1942 con il codice civile (siamo dunque ancora sotto l’egida di un ormai decadente regime fascista), il legislatore prevedeva la possibilità di demansionare unilateralmente il lavoratore, subordinata tuttavia ad un doppio limite rappresentato dalla “irriducibilità della retribuzione” e dalla necessità di mantenere la “posizione sostanziale”. Ne sono derivate, nella prassi giurisprudenziale, rigide interpretazioni che hanno spesso censurato i demansionamenti unilaterali che si sostanziavano non solo in un oggettivo mutamento del contenuto professionale dell’attività lavorativa, ma anche in alterazioni soggettive del prestigio sociale, del prestigio morale e della dignità professionale del lavoratore.L’apice della civiltà del lavoro, come testè accennato, si è raggiunto con l’introduzione dell’articolo 13 da parte dello Statuto dei Lavoratori (legge 300 del 1970) che, nel novellare l’articolo 2013 imponendo il principio della irriducibilità delle mansioni e della retribuzione lavorativa, ha perseguito due fini di rilievo costituzionale: il primo, relativo allo scopo dell’attività lavorativa, che deve sostanziarsi non solo nella finalità produttiva, ma anche nell’accrescimento professionale del lavoratore, così come prescritto dall’articolo 35, 2° comma della Costituzione, secondo il cui disposto la Repubblica “cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori”. Il secondo, naturalmente connesso con il primo, inerisce alla dignità del lavoratore e della persona stessa: il lavoro infatti, oltre che strumento di affrancamento dal bisogno, è anche e soprattutto espressione e realizzazione della personalità del lavoratore, la cui realizzazione professionale ne è al contempo la sintesi ed il punto di arrivo. Naturale, dunque, il legame individuato dalla giurisprudenza tra il divieto di demansionamento dell’articolo 2103 e i diritti fondamentali garantiti dall’articolo 2 della Costituzione.La modifica contenuta nello schema di decreto approvato in via preliminare dal Consiglio dei Ministri del 20 febbraio, al contrario, proprio in ragione degli amplissimi poteri conferiti al datore di lavoro, pare trarre ispirazione da un modello imprenditoriale diffuso qualche secolo fa, agli albori della prima rivoluzione industriale o, se si vuole richiamare i “tempi moderni”, agli standard lavorativi cinesi. E’ opportuno premettere come questa norma, a differenza del contratto “a tutele crescenti”, si applichi a tutti i lavoratori, iniettando il veleno di una flessibilità liquida anche ai rapporti di lavoro in corso. Questa autentica rivoluzione del lavoro, dunque, si sostanzia – come vedremo – in una universale liquefazione del lavoro, che coinvolge tanto i nuovi quanto i vecchi assunti. L’ulteriore lettura del “nuovo” articolo 2103, tuttavia, lascia senza parole. Il meccanismo principale è esposto nel secondo comma: il datore di lavoro, adducendo una qualsivoglia “modifica degli assetti organizzativi aziendali” che “incidono sulla posizione del lavoratore”, può assegnarlo a mansioni “appartenenti al livello di inquadramento inferiore”.Via libera dunque alla possibilità di demansionare unilateralmente il lavoratore, con l’accortezza di “travestire” il provvedimento con una delle molteplici e possibili ragioni organizzative aziendali: il lavoratore, dunque, potrà anche precipitare dai vertici ai piedi della scala delle mansioni, non essendo in nessun modo reperibile nel testo della norma il riferimento ad un livello immediatamente inferiore, ma solo ad un generico “livello inferiore”. Ovviamente, se alle mansioni di precedente assegnazione erano legate delle speciali indennità (quali, ad esempio, l’indennità di maneggio del denaro o indennità relative ad altri rischi), queste saranno eliminate con le nuove mansioni inferiori: semaforo verde, dunque, anche alla riducibilità della retribuzione. Il menù predisposto per imprenditori particolarmente voraci si arricchisce di un’ulteriore scelta à la carte: la riduzione integrale della retribuzione al nuovo livello della mansione inferiore, nel caso in cui il demansionamento sia frutto di un “accordo” tra le parti, giustificato dall’ “interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione”, dall’ “acquisizione di una diversa professionalità” o dal “miglioramento delle condizioni di vita del lavoratore”.Siamo al trionfo dell’ipocrisia legale; appare sarcasticamente beffardo il riferimento all’interesse del lavoratore all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita operato dalla norma, considerando che gli accordi in questione comporterebbero in concreto una doppia perdita: di professionalità, tarpata da mansioni dequalificanti, e di retribuzione, ridotta ai nuovi inferiori livelli. Di più ed oltre, questi accordi di demansionamento lungi dall’essere frutto della “spontanea volontà delle parti”, potrebbero essere oggetto di una pressante coazione, che coinvolgerebbe soprattutto i lavoratori “a tutele crescenti” privi dello scudo dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori e sotto la spada di Damocle del licenziamento a indennizzo ridotto. Ma vi è qualcosa di ben più grave, che sembra motivato più da ragioni vendicative che da motivazioni tecnico-produttive, quasi fossero i lavoratori i colpevoli della devastante crisi economica.Si tratta del comma terzo, che è opportuno riportare per intero, al fine di comprenderne tutta la sua gravità: “Il mutamento di mansioni è accompagnato, ove necessario, dall’assolvimento dell’obbligo formativo, il cui mancato adempimento non determina comunque la nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni”. Vediamone le possibili implicazioni. La norma implicitamente dice, in modo apparentemente neutro, che in caso di mutamento unilaterale delle mansioni, il datore di lavoro può anche omettere l’obbligo di formazione del dipendente alle nuove mansioni: in questo caso, l’assegnazione alle mansioni – ad esempio – inferiori sarà comunque valida e legittima, ed il lavoratore – di conseguenza – dovrà proseguire nello svolgimento delle nuove prestazioni lavorative, anche senza la dovuta formazione. E’ l’attacco diretto – e subdolo – alla sicurezza del lavoro, al principio consolidato per cui la formazione e l’addestramento specifico del lavoratore in caso di trasferimento o cambiamento di mansioni (articolo 37, comma 4, decreto legge 81/2008, “Codice della sicurezza”) è il primo strumento di prevenzione degli infortuni sul lavoro.Le conseguenze di questa abominevole disciplina sono tanto semplici da comprendere quanto agghiaccianti: il prestatore di lavoro che venisse preposto a nuove mansioni e che, ad esempio, dovesse passare dalla scrivania all’utilizzo di un macchinario della catena di montaggio, potrà essere preposto anche senza alcuna specifica formazione all’utilizzo della macchina. L’adibizione, comunque, sarà valida, con la conseguenza che il lavoratore sarà obbligato a svolgere le nuove prestazioni lavorative e ad utilizzare il macchinario senza alcuna specifica cognizione: come dire, a suo rischio e pericolo. Con la correlativa, possibile responsabilità disciplinare e risarcitoria diretta del lavoratore per gli eventuali errori compiuti nello svolgimento della nuova prestazione lavorativa e che provocassero, ad esempio, un danno aziendale. E se il lavoratore destinatario del mutamento di mansioni dovesse essere vittima di un infortunio a causa dell’assenza di specifica formazione?E’ molto probabile che, in caso di richiesta di risarcimento dei danni da parte del lavoratore, il datore di lavoro si difenderà sostenendo la legittimità della propria condotta e rifiutando qualsivoglia responsabilità risarcitoria, confortato dal sigillo di legge per cui “il mancato adempimento non determina comunque nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni”. Interpretazione assolutamente plausibile in assenza di altre specificazioni in merito alle conseguenze sulla sicurezza lavorativa che il legislatore delegato, colpevolmente, ha omesso. Stiamo dunque parlando della clamorosa e palese violazione del principio cardine del diritto del lavoro, contenuto nel noto articolo 2087 (rubricato “tutela delle condizioni di lavoro”), secondo il cui disposto “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Il lavoratore non vale più neanche il prezzo di un costo di formazione e di addestramento: è ormai diventato solo “carne da macello”.Del resto, che la liberalizzazione di fatto delle condotte demansionanti sia il punto di arrivo del processo di “merficicazione” del lavoro e dei lavoratori è desumibile anche dalla considerazione che, con il rinnovato articolo 2103, si conferisce il formale visto di “legalità” a comportamenti che decenni di studi di sociologia del lavoro – oltre che di pronunce giurisprudenziali – hanno definito sia come espressione del cosiddetto “mobbing”, sia come generatori di danni esistenziali, biologici e professionali nella sfera dei lavoratori vittime di tali condotte. Realtà concreta e realtà normativa si allontanano definitivamente, portando al cortocircuito della giustizia. Gli apologeti della “modernità lavorativa” certamente canteranno l’inno alla flessibilità nella gestione lavorativa e all’ormai raggiunta produttività, anticamera della “crescita”; uno sguardo meno ideologico alla viva realtà del lavoro, al contrario, evidenzierebbe come alla base di questa nuova disciplina non vi possa essere nessuna esigenza economico-produttiva, poiché vanificata dalla creazione di lavoratori dequalificati, trasformati in mere “pedine”, scarnificati della propria professionalità e, dunque, tutt’altro che produttivi.Al contrario, sottese all’approvazione di questa norma – che costituisce l’autentico architrave della “riforma del lavoro” – vi sono ragioni politiche: di una politica che parla le parole della nuova Costituzione materiale (o Controcostituzione), in cui il nuovo articolo 2103 è la leva per lo scardinamento di fatto dell’articolo 1 della Costituzione, ove la dignità del lavoro è schiacciata sotto il tallone delle esigenze produttive di impresa e delle ferree ed ineluttabili leggi neoliberiste di mercato. Di fronte a questo sconfortante panorama, dinanzi alla definitiva eclissi del valore fondante e formante della Repubblica, non puo’ non tornare alla mente il severo monito del nichilismo giuridico che, con uno sguardo intriso di dolente realismo, individua nel “valore il principio sostenuto dalla volontà più forte ed efficace. Carte Costituzionali ed altre solenni dichiarazioni sempre contengono norme, poste dalla volontà umana, e quindi trasgredibili modificabili revocabili. Nulla sfugge alla distruttiva temporalità dell’uomo”. Nemmeno la laica sacralità della “Repubblica democratica fondata sul lavoro”, oseremmo aggiungere.(Domenico Tambasco, “Il Jobs Act e i lavoratori carne da macello”, da “Micromega” del 23 febbraio 2015).Trasportava ogni giorno, per i grigi corridoi della banca, un carrello carico di oggetti di cancelleria. E lo faceva piangendo sommessamente, porgendo le penne, i quaderni, le gomme, i fogli richiesti da quelli che erano stati i suoi colleghi, almeno fino a quando la banca non aveva deciso, per “ragioni di riorganizzazione interna”, di sottrarlo ai compiti di impiegato addetto alla gestione dei flussi contabili e di assegnarlo alle nuove mansioni di riordino e consegna dei materiali e degli strumenti di lavoro, quasi un “cartolaio ambulante”. Ormai svuotato da mesi di umiliazione personale e professionale, impossibilitato a ricollocarsi sul mercato per la progressiva perdita della propria qualificazione, aveva deciso di ottenere giustizia invocando i principi dell’articolo 13 dello Statuto dei Lavoratori: nessuno può essere adibito a mansioni lavorative inferiori rispetto a quelle di assunzione, né può vedersi diminuita la retribuzione; ogni patto o accordo contrario è nullo, anche se sottoscritto con il consenso dello stesso lavoratore.
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Mosler: il Qe di Draghi toglie altri soldi all’economia reale
Superare l’odierna situazione di crisi è possibile, basterebbe semplicemente attuare una politica di espansione del deficit pubblico al fine di ridurre le tasse o di incrementare il livello degli investimenti effettuati dallo Stato nell’ambito dei servizi pubblici, oppure di promuovere un abbinamento di questi due obiettivi insieme, in modo da riuscire a ripristinare quelle condizioni di piena occupazione e di prosperità che erano già state conosciute dall’Italia in passato. Si tratta di traguardi molto facili da raggiungere, in realtà, visto che sarebbe sufficiente che il Parlamento votasse in favore di una politica fiscale espansiva. La difficoltà, però, consiste nell’arrivare alla comprensione che il passo giusto da compiere è questo, che i suoi effetti saranno quelli promessi e che tutto funzionerà come previsto. Bisogna che i politici esaminino più da vicino la Teoria della Moneta Moderna e magari s’incontrino con gli attivisti per capire come funziona l’economia, quale sia la causa reale della disoccupazione e cosa sia possibile fare per porre termine al fenomeno della disoccupazione e ripristinare la prosperità per tutti gli esseri umani.È completamente innaturale che persone che sarebbero capaci e disponibili a lavorare siano costrette ai margini della società poiché a loro è impedito di contribuire all’economia e al benessere della società. Si tratta di una situazione creata artificiosamente, per mezzo di politiche sbagliate, quindi è importante che la gente comprenda che bisogna votare per dei legislatori che capiscano che cosa fare e, in particolar modo, qual’è il passo avanti da fare onde invertire l’attuale stato di cose il prima possibile. I politici devono capire che cosa significhi il denaro – che si tratti di euro, lire, dollari, yen – come funziona la politica monetaria, che cosa succede operativamente quando lo Stato spende e quando lo Stato tassa, e quindi cosa avviene quando la spesa pubblica è più elevata rispetto al gettito fiscale, che cosa genera i depositi bancari e da dove deriva la disoccupazione. Una volta compreso tutto questo, allora è possibile intraprendere passi semplici che invertano la situazione attuale completamente.Analizzando con attenzione il piano di studi che attualmente è insegnato in tutti i gradi d’istruzione, si scopre come esso si basi integralmente sul periodo in cui vigeva il sistema aureo, ossia quando l’obiettivo principale dell’intera economia non era di ottenere prosperità per tutti, bensì consisteva nell’accumulare oro a favore dello Stato, indipendentemente dai costi sociali che gravavano sulla popolazione a causa di tale sistema. In altre parole, tutta la politica economica, a prescindere dall’onere che questa costava ai cittadini, era elaborata e giudicata in base a quanto più oro riuscisse a venire accumulato a favore dello Stato. Sebbene il sistema aureo non esista più nei fatti da quasi un centinaio di anni, i piani di studi e le politiche pensate nell’ottica di quel periodo economico continuano a sussistere. Non è ancora avvenuto, cioè, quel cambio di forma mentis necessario per comprendere come oggi l’economia possa servire a migliorare la vita delle persone e non ad accondiscendere alle richieste che gli Stati fanno, come se dovessero accumulare sempre più oro. Richieste che oggi sono completamente prive di senso, visto che attualmente non siamo più nella necessità di dover accumulare oro.Questo tipo di organizzazione non è in grado di aiutarci a superare la crisi. Anzi, io ritengo che la peggiori. E, man mano che si va avanti, la situazione peggiorerà sempre di più. Prendiamo come esempio questa politica di “quantitative easing” che serve per assicurarsi sia che gli Stati non dichiarino default e che i tassi d’interesse si mantengano bassi, l’economia rimanga stagnante e la disoccupazione resti elevata. In altre parole siamo sull’orlo di sommosse e rivolte sociali poiché gli europei vengono sospinti sempre di più verso la disperazione. Così, se in teoria Bruxelles può mostrare di aver ottenuto dei numeri positivi su un bilancio, all’atto pratico si tratta invece di un crimine contro l’umanità. Ciò che si sta perpetrando è un disastro, una catastrofe. E non vedo cambiamenti positivi. L’annuncio del “quantitative easing” di Draghi? Si tratta di un atto sedizioso, sia nel caso in cui Draghi stia deliberatamente cercando di danneggiare l’Eurozona, sia qualora egli probabilmente non si renda di fatto conto di come davvero funzioni la politica monetaria. Gli do il beneficio del dubbio. Quando una banca centrale s’impegna nell’acquisto di titoli, che siano Btp o Cct, tale acquisto è né più né meno che un deposito in euro presso questa banca centrale. Quando si acquista un Cct, ad esempio, invece che tenersi degli euro su un conto bancario commerciale si hanno degli euro su un conto presso la banca centrale chiamato Cct. Si ricevono degli interessi ed è possibile riottenere il denaro depositato come fosse un qualsiasi altro processo bancario.Quando le banche centrali acquistano i tuoi Cct, e quindi ti pagano in euro, succede che il processo appena descritto s’inverte. Invece di avere un deposito chiamato Cct presso la banca centrale, ti viene restituito il deposito che avevi originariamente. Perciò il “quantitative easing” non fa altro che trasferire degli euro da un conto bancario, che si chiama Cct, a un altro conto bancario, che si chiama semplicemente conto bancario commerciale. Non cambia alcunché. Eccezion fatta che il tasso d’interesse sui Cct, o sui Btp, che è di una certa entità, viene perso, in quanto non si riceve più. Di conseguenza questa politica di acquisto di titoli toglie il reddito da interesse dall’economia. Non molto, ma un po’ di soldi li rimuove. In più c’è anche il problema dei pagamenti degli interessi da parte degli Stati: se questi soldi potessero essere spesi altrove, allora andrebbe tutto bene. Ma invece no! Difatti si richiede che questi soldi vengano usati per abbassare il deficit pubblico. E così i pagamenti effetttuati dal settore pubblico verso il settore privato semplicemente si riducono.Si riduce la spesa totale sui beni e i servizi nell’economia, e per questo il “quantitative easing” è un’ulteriore tassa che sottrae denaro all’economia. La maggior parte delle opportunità di ottenere dei prestiti si basa sulla possibilità: tu chiedi un prestito perché hai un fatturato in espansione, perché lavori di più, perché hai nuovi prodotti e quindi perché hai più possibilità di fare utili. Possibilità significa, dunque, la possibilità di vendere qualcosa. In altre parole, l’economia moderna si basa per l’appunto sulle vendite: se le vendite aumentano ci sono più posti di lavoro e ci sono maggiori possibilità di avere accesso a prestiti e mutui. Quando invece togli denaro dall’economia, come avviene con il “quantitative easing”, le vendite non salgono, anzi rimangono stagnanti. Sicché le prospettive di investire e di conseguire maggiori vendite di beni e servizi si riducono. Perciò, sebbene i tassi d’interesse si abbassino, i fatturati che sono necessari per poter guidare le possibilità d’investimento non ci sono più. E così gli investimenti di fatto si abbassano.(Warren Mosler, dichiarazioni rilasciate a Francescho Chini per l’intervista “Progresso sociale e prosperità per tutti”, pubblicata da “Bottega Partigiana il 13 febbraio 2015).Superare l’odierna situazione di crisi è possibile, basterebbe semplicemente attuare una politica di espansione del deficit pubblico al fine di ridurre le tasse o di incrementare il livello degli investimenti effettuati dallo Stato nell’ambito dei servizi pubblici, oppure di promuovere un abbinamento di questi due obiettivi insieme, in modo da riuscire a ripristinare quelle condizioni di piena occupazione e di prosperità che erano già state conosciute dall’Italia in passato. Si tratta di traguardi molto facili da raggiungere, in realtà, visto che sarebbe sufficiente che il Parlamento votasse in favore di una politica fiscale espansiva. La difficoltà, però, consiste nell’arrivare alla comprensione che il passo giusto da compiere è questo, che i suoi effetti saranno quelli promessi e che tutto funzionerà come previsto. Bisogna che i politici esaminino più da vicino la Teoria della Moneta Moderna e magari s’incontrino con gli attivisti per capire come funziona l’economia, quale sia la causa reale della disoccupazione e cosa sia possibile fare per porre termine al fenomeno della disoccupazione e ripristinare la prosperità per tutti gli esseri umani.
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Che gioia scoprire che Obama legge le mie email (e le tue)
Qualche giorno fa ho presenziato a un incontro insolito per gli standard italiani: una conferenza pubblica con il capo dei servizi segreti svizzero Markus Seiler. A Bellinzona, senza particolari misure di sicurezza, con la consueta semplicità elvetica, introdotto dal direttore del Dipartimento delle Istituzioni, Norman Gobbi (il ministro degli interni ticinese, tradotto nel gergo italiano). Serata interessante, pacata nei toni, durante la quale Seiler ha dichiarato, testuale: «Oggi l’80% delle email fanno una rapida tappa a Washington e a Londra dove vengono copiate e archiviate. Solo le email criptate o protette da particolari misure di sicurezza sfuggono a questo gigantesco setaccio». Seiler si è ovviamente ben guardato dall’esprimere valutazioni politiche, però il tono del suo intervento era chiaro. Era come se chiedesse al pubblico presente: a voi va bene? Non sono un diplomatico ma un giornalista. E posso permettermi di rispondere. No, non va bene.Mi fa molto piacere che il presidente Obama si interessi alla mia vita privata e professionale, coinvolgendo il premier britannico Cameron, ma non è accettabile che tutti i miei messaggi, come i tuoi, caro lettore, siano copiati istantaneamente e memorizzati in un gigantesco database. In questi giorni sto rileggendo, a distanza di trent’anni, “1984” di Orwell e pagina dopo pagina rabbrividisco: alcune delle misure di controllo sociale del Grande Fratello, immaginate dal grande scrittore inglese, oggi sono realtà. Schedare tutto quel che viene scritto da un cittadino, mappare la sua rete di contatti (sanno a chi scrivo le email, sanno quali sono i miei amici su Facebook, hanno accesso alla mia agenda telefonica tramite WhatsUp) era il sogno di qualunque dittatore, da Hitler a Stalin a Mao; ora è diventata realtà per mano di una potenza che fino a ieri era il baluardo contro la dittatura e ora, con il pretesto della lotta al terrorismo, si sta trasformando in un invasivo inquisitore.E’ un gioco da ragazzi affinare la ricerca nel database e mappare fino a “targetizzare” ognuno di noi. I dati selezionati e affinati possono essere usati per fini impropri o politici da parte di un paese che non dimostra più grande considerazione per lo Stato di diritto, né in patria né fuori. Snowden, l’agente della Nsa che ha svelato la gigantesca rete di spionaggio dell’intelligence americana, ci aveva avvertiti. Ora il capo dei servizi segreti svizzero Markus Seiler conferma l’esistenza di una silenziosa, sistematica violazione della libertà e della sovranità di tutti gli Stati. Altro che Isis. La vera minaccia è altrove. Ci stanno portando via tutto, con la silenziosa compiacenza di masse che nemmeno si rendono conto del pericolo e del regresso di civiltà. State all’erta. Il Grande Fratello è proprio lì nel vostro computer. E un giorno tutto quel che scrivete potrà essere usato contro di voi. Rilancio la domanda: va bene così?(Marcello Foa, “Che gioia sapere che Obama spia le mie email, e anche le tue”, dal blog di Foa su “Il Giornale” del 22 febbraio 2015).Qualche giorno fa ho presenziato a un incontro insolito per gli standard italiani: una conferenza pubblica con il capo dei servizi segreti svizzero Markus Seiler. A Bellinzona, senza particolari misure di sicurezza, con la consueta semplicità elvetica, introdotto dal direttore del Dipartimento delle Istituzioni, Norman Gobbi (il ministro degli interni ticinese, tradotto nel gergo italiano). Serata interessante, pacata nei toni, durante la quale Seiler ha dichiarato, testuale: «Oggi l’80% delle email fanno una rapida tappa a Washington e a Londra dove vengono copiate e archiviate. Solo le email criptate o protette da particolari misure di sicurezza sfuggono a questo gigantesco setaccio». Seiler si è ovviamente ben guardato dall’esprimere valutazioni politiche, però il tono del suo intervento era chiaro. Era come se chiedesse al pubblico presente: a voi va bene? Non sono un diplomatico ma un giornalista. E posso permettermi di rispondere. No, non va bene.
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Giovani al lavoro gratis per l’Expo dei ladri e degli ipocriti
Per quale ragione in una Expo appaltata alle grandi multinazionali del cibo, nella quale affari edilizi, speculazione e corruzione hanno prosperato e che viene ancora presentata come un possibile volano per l’economia del paese, perché in un evento ove tutto è misurato in termini di profitti a breve o differiti, gli unici gratis devono essere i lavoratori? Con un accordo del luglio 2013, un mese che dovrebbe essere abolito dal calendario sindacale visti i disastri che in esso si son concepiti, l’ente Expo, le imprese e tutte le istituzioni hanno concordato con Cigil, Cisl e Uil che gran parte di coloro che faranno funzionare la fiera lo faranno gratuitamente. Per l’esattezza circa 800 persone lavoreranno con contratti a termine, di apprendistato, da stagista, che garantiranno una lauta retribuzione dai 400 ai 500 euro mensili. Siccome i contratti e la stessa legge Fornero sul mercato del lavoro avrebbero previsto condizioni più favorevoli per i lavoratori, si è applicato quel principio della deroga normativa, contro il quale la Cgil si era spesso pronunciata.Ma questi 800 lavoratori sottopagati sono comunque una élite rispetto a tutti gli altri. Che avranno un orario giornaliero obbligatorio e turni, pare bisettimanali, di lavoro, ma che lo faranno senza alcuna retribuzione. Essi saranno considerati volontari e come tali riceveranno solamente dei buoni pasto quotidiani, per non smentire il significato alimentare dell’evento. Nelle previsioni iniziali questi fortunati avrebbero dovuto essere 18.500, da qui il peana subito scattato sui 20.000 posti di lavoro creati dalla magia dell’Expo. Ora invece pare che siano meno della metà, per la semplice ragione che lavorare all’Expo non solo non paga, ma costa. Immaginiamo un pendolare che debba accollarsi i costosissimi costi quotidiani del sistema ferroviario lombardo. O addirittura un giovane di un’altra regione che volesse fare questa esperienza a Milano. Per lavorare gratis bisogna godere di un buon reddito e non tutti ce l’hanno.Eppure a tutto questo ci sarebbe stata una alternativa semplice semplice. Visto che l’Expo per sua natura è un evento a termine, coloro che lo faranno funzionare avrebbero potuto essere assunti con il tradizionale contratto a termine. Lavori sei mesi? Sei pagato per quelli. Sono solo due settimane? Riceverai la tua quindicina. Perché non si è fatto così? Semplice. Perché in questo modo si sarebbe dovuto spendere molto di più in salari e questo non era compatibile con gli alti costi della fiera. C’era da pagare una montagna di mazzette, non si potevano retribuire anche gli addetti agli stand. Capisco che questo modo di ragionare possa essere considerato troppo rigido e ancorato a vecchi tabù. C’è un lavoro e si pretende anche un salario, allora si vogliono difendere vecchi privilegi, direbbero gli araldi del lavoro flessibile. Quando l’accordo sul lavoro gratis è stato sottoscritto, l’allora presidente del Consiglio Enrico Letta disse, facendo eco al presidente della Confindustria Squinzi, che esso era un modello per il paese. La rottamazione renziana sempre rivolta alle nuove generazioni ha lasciato quella intesa intatta, così come hanno fatto Cgil, Cisl e Uil, nonostante le critiche a quel “#jobsact” che l’accordo Expo già anticipava.Tutte le forze politiche rappresentate in parlamento, escluso il Movimento 5 Stelle, sono consenzienti. Così l’Expo finirà per essere una vetrina di tutto ciò che non dovrebbe, ma che invece continua a dominare le scelte economiche e sociali del paese. L’Expo sarà la migliore rappresentazione dell’ipocrisia e del gattopardismo che governano la nostra crisi. Sotto lo slogan “Nutrire il pianeta” si lascerà alla Nestlè il compito di spiegare che l’acqua va gestita in ragione di mercato. Si farà l’apologia delle grandi opere senza riuscire neppure a nascondere la speculazione – e non solo quella illegale, ma quella ancor più scandalosa sulle aree, che è perfettamente consentita. Si lanceranno proclami sui giovani capaci di operare nella globalizzazione, rimuovendo il fatto che lo faranno solo in cambio di una medaglietta che non varrà nemmeno come accreditamento per altri lavori precari. E ancora una volta tutto, ma proprio tutto, sarà a carico del lavoro. In una fiera che si presenta come l’ultimo Ballo Excelsior di una globalizzazione in piena crisi, l’Italia che guarda al passato cianciando di futuro troverà la sua vetrina. Che dovrebbe essere accesa proprio il Primo Maggio, trasformando così la festa dell’emancipazione del lavoro nella celebrazione del suo ritorno allo stato servile. Ci sono movimenti e forze sindacali che dicono no a tutto questo e che già dalle prossime settimane si faranno sentire, per poi provare a restituire alla Festa del Lavoro il suo antico valore. Fanno benissimo.(Giorgio Cremaschi, “L’Expo della precarierà”, da “Micromega” del 5 febbraio 2015).Per quale ragione in una Expo appaltata alle grandi multinazionali del cibo, nella quale affari edilizi, speculazione e corruzione hanno prosperato e che viene ancora presentata come un possibile volano per l’economia del paese, perché in un evento ove tutto è misurato in termini di profitti a breve o differiti, gli unici gratis devono essere i lavoratori? Con un accordo del luglio 2013, un mese che dovrebbe essere abolito dal calendario sindacale visti i disastri che in esso si son concepiti, l’ente Expo, le imprese e tutte le istituzioni hanno concordato con Cigil, Cisl e Uil che gran parte di coloro che faranno funzionare la fiera lo faranno gratuitamente. Per l’esattezza circa 800 persone lavoreranno con contratti a termine, di apprendistato, da stagista, che garantiranno una lauta retribuzione dai 400 ai 500 euro mensili. Siccome i contratti e la stessa legge Fornero sul mercato del lavoro avrebbero previsto condizioni più favorevoli per i lavoratori, si è applicato quel principio della deroga normativa, contro il quale la Cgil si era spesso pronunciata.
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Delocalizzazioni e bugie: e gli americani han perso il lavoro
In America il saccheggio non si basa sull’indebitamento perché il dollaro è la valuta di riserva e gli Stati Uniti possono stampare tutto il denaro necessario per pagare i conti e riscattare il debito: in America il depredamento è stato fatto attraverso l’offshoring, cioè la delocalizzazione del lavoro. Grandi aziende americane hanno scoperto − e se non l’avessero fatto sarebbero state invitate da Wall Street a trasferire fuori i conti o a essere rilevate − che avrebbero potuto aumentare i profitti spostando all’estero le loro attività di produzione. Il minor costo del lavoro ha determinato maggiori profitti, valori delle azioni più elevati, enormi bonus manageriali basati su “prestazioni”, guadagni in conto capitale per gli azionisti. Negli Stati Uniti l’offshoring ha notevolmente aumentato la disparità nel reddito e nella ricchezza: il capitale è riuscito a depredare il lavoro. Laddove fossero in grado di trovare lavori sostitutivi, i ben pagati operai manifatturieri che hanno perso il posto lavorerebbero part-time a salario minimo da Walmart e Home Depot.Economisti − ammesso che siano degni di essere chiamati così − come Michael Porter e Matthew Slaughter hanno promesso agli americani che l’immaginaria “new economy” avrebbe prodotto posti di lavoro migliori, con stipendi più alti e più puliti dei lavori dalle “unghie sporche” che fortunatamente le nostre aziende stavano delocalizzando. Come ho definitivamente dimostrato, dopo anni non vi è alcuna traccia di questi posti di lavoro “new economy”. Ciò che abbiamo è invece un forte calo del tasso di partecipazione della forza lavoro, come i disoccupati che non riescono a ricollocarsi. Gli impieghi sostitutivi dei posti in fabbrica sono principalmente lavori part-time per servizi domestici, e la gente deve mantenere due o tre di questi lavori per sbarcare il lunario. Ora che questo fatto − che i polemici ci credano o no − si è dimostrato del tutto vero, gli stessi prezzolati portavoce di chi ha rubato il lavoro e di chi ha distrutto i sindacati sostengono, senza uno straccio di prova, che i posti di lavoro delocalizzati stanno tornando a casa.Secondo questi propagandisti, ora abbiamo quello che viene chiamato “reshoring”, rimpatrio della produzione. Un propagandista del rimpatrio della produzione dichiara che la crescita di “reshoring” nel corso degli ultimi quattro anni è del 1.775%, un aumento pari a 18 volte. Non vi è alcuna traccia di questi presunti posti di lavoro rimpatriati nelle statistiche mensili Bls (“Bank Lending Survey”, indagine sul credito bancario) sugli impieghi regolarmente retribuiti. Il “reshoring” è solo propaganda per compensare la constatazione tardiva che gli accordi di “libero scambio” e delocalizzazione del lavoro non erano vantaggiosi per l’economia americana né per la sua forza lavoro, ma lo erano solo per i super-ricchi. Come è capitato alle persone nel corso della storia, gli americani sono diventati servi e schiavi perché gli sciocchi credono alle bugie che gli si dà in pasto. Si siedono davanti a “Fox News”, “Cnn” e roba del genere, leggono il “New York Times”. Se volete imparare come gli americani sono serviti male dai cosiddetti mezzi d’informazione, leggete “Storia del popolo americano dal 1492 ad oggi” (1980, 2003) dello storico Howard Zinn e guardate la serie di documentari “The Untold History of the United States” (2012) di Oliver Stone e Peter Kuznick.I media aiutano il governo, e gli interessi privati che traggono profitto controllando il governo controllano il lavaggio pubblico del cervello. Dobbiamo invadere l’Afghanistan perché una fazione che lotta per il controllo politico del paese protegge Osama bin Laden, che gli Stati Uniti accusano senza alcuna prova di infastidire i potenti Stati Uniti con l’attacco dell’11 Settembre. Dobbiamo invadere l’Iraq perché Saddam ha “armi di distruzione di massa”, che ha sicuramente nonostante le relazioni contrarie da parte degli ispettori dell’Onu. Dobbiamo rovesciare Gheddafi a causa di una lista di menzogne che è meglio dimenticare. Dobbiamo rovesciare Assad perché ha usato armi chimiche, anche se tutte le prove dicono il contrario. È la Russia la responsabile dei problemi in Ucraina: non perché gli Stati Uniti hanno rovesciato il governo democraticamente eletto ma perché la Russia ha accettato il 97,6% dei voti del referendum per il ricongiungimento della Crimea alla Russia, della quale era stata provincia per centinaia d’anni prima che un leader sovietico ucraino Krusciov unisse la Crimea all’Ucraina, allora parte dell’Urss insieme alla Russia.Guerra, guerra, guerra: questo è tutto ciò che Washington vuole. Arricchisce il connubio esercito/sicurezza, la voce più importante del Pil americano e il maggior contribuente, insieme con Wall Street e la lobby israeliana, delle campagne politiche Usa. Chiunque o qualsiasi organizzazione che opponga la verità alle menzogne è demonizzato. La settimana scorsa il nuovo capo della “Broadcasting Board of Governors” (Bbg, l’agenzia governativa indipendente responsabile per tutti i mezzi di comunicazione non militari), Andrew Lack, ha indicato il servizio Internet-Tv russo “Russia Today” come l’equivalente di Boko Haram e dei gruppi terroristici dell’Isis. Quest’accusa assurda è un preludio alla chiusura di “Rt” negli Stati Uniti proprio mentre il governo britannico, fantoccio di Washington, ha chiuso la rete televisiva iraniana “Press Tv”. In altre parole, gli anglo-americani non consentono notizie diverse da quelle che sono state loro servite dai “loro” governi. Questo è lo stato della “libertà” oggi in Occidente.(Paul Craig Roberts, estratto da “Libertà dove sei? Non in America né in Europa”, pubblicato da “Global Research” e ripreso da “Megachip” il 30 gennaio 2015).In America il saccheggio non si basa sull’indebitamento perché il dollaro è la valuta di riserva e gli Stati Uniti possono stampare tutto il denaro necessario per pagare i conti e riscattare il debito: in America il depredamento è stato fatto attraverso l’offshoring, cioè la delocalizzazione del lavoro. Grandi aziende americane hanno scoperto − e se non l’avessero fatto sarebbero state invitate da Wall Street a trasferire fuori i conti o a essere rilevate − che avrebbero potuto aumentare i profitti spostando all’estero le loro attività di produzione. Il minor costo del lavoro ha determinato maggiori profitti, valori delle azioni più elevati, enormi bonus manageriali basati su “prestazioni”, guadagni in conto capitale per gli azionisti. Negli Stati Uniti l’offshoring ha notevolmente aumentato la disparità nel reddito e nella ricchezza: il capitale è riuscito a depredare il lavoro. Laddove fossero in grado di trovare lavori sostitutivi, i ben pagati operai manifatturieri che hanno perso il posto lavorerebbero part-time a salario minimo da Walmart e Home Depot.
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I nostri Tsipras alle vongole e gli orrori del centrosinistra
Se il nuovo governo greco comincerà subito a tenere fede al suo programma elettorale stabilendo il salario minimo a 750 euro mensili, la Germania del governo Merkel-Spd chiuderà la porta ad ogni trattativa sul debito. Infatti con le “riforme” tedesche che han fatto da modello a tutto il continente, i milioni di lavoratori precari impegnati nei minijobs prenderebbero di meno di un lavoratore greco. È vero che ci sono le integrazioni dello stato sociale, ma è altrettanto vero che la coerenza del nuovo governo greco aprirebbe un fronte con una Germania anche sui tagli al welfare. Insomma la coerenza di Tsipras sarebbe insostenibile per una classe dirigente tedesca che da anni impone terribili sacrifici al proprio mondo del lavoro spiegando che gli altri stanno tutti peggio. Gli operai tedeschi, che hanno subìto una delle peggiori compressioni salariali d’Europa, si chiederebbero a che pro, visto che le cicale greche ricominciano a frinire. È per il timore del contagio sociale, della ripresa, magari persino conflittuale, dei salari e della richiesta di welfare che si dirà no alla Grecia e non per la questione debito.Il debito pubblico della Grecia ruota attorno a 350 miliardi di euro, quello interno alla Ue dovrebbe essere circa attorno ai due terzi di quella cifra. Abbuonarne la metà significherebbe per la Ue rinunciare a poco più di 100 miliardi. È una cifra enorme naturalmente, ma dal 2008 governi europei, Bce e sistema finanziario hanno speso 3000 miliardi per sostenere le banche. E altri 1.000 verranno spesi nel Quantitative Easing, presentato come un sostegno agli Stati che in realtà finanzia ancora gli istituti bancari acquirenti di titoli di Stato. Cosa sono allora 100 miliardi di abbuono del debito ad una Grecia che comunque non potrebbe pagarli, di fronte ai 4.000 miliardi concessi al sistema bancario e finanziario? Niente sul piano delle dimensioni della cifra, tutto sul piano del suo significato. Come dicono accreditate indiscrezioni, una dilazione dei pagamenti più che trentennale sarebbe già stata concessa dalla Troika nel novembre scorso, ma naturalmente in cambio della impegno a continuare le politiche liberiste di questi anni. Il problema dunque è la continuità o la rottura con quelle politiche, e qui “Syriza” e la Troika si scontreranno.Quello che sta succedendo in Grecia e in Spagna è qualcosa di diverso dalla storia europee delle sinistre. La politica dell’austerità sta portando tutta l’Europa meridionale verso quello che una volta si chiamava terzo mondo. Le prime risposte vere son quindi legate a questa nuova terribile realtà. Le socialdemocrazie si sono immolate sull’altare del rigore e le sinistre comuniste son troppo piccole e divise per contare. Si apre così lo spazio per forze alternative diverse da quelle del passato. In fondo il successo del M5S aveva inizialmente questo segno, anche se sinora a quel movimento è mancata una vera spinta sociale e la sua politica è rimasta ancorata al terreno della cosiddetta lotta per l’onestà. Invece “Syriza” e “Podemos” somigliano sempre di più alle formazioni populiste di sinistra che governano gran parte dell’America Latina e con questa impronta affrontano la crisi europea e il Fiscal Compact, vedremo. Quel che è certo è che le cose stanno cambiando, ma non da noi. Siamo stati facili profeti ad anticipare il salto sul cavallo greco di tutto il mondo politico italiano, oramai campione di trasformismo in Europa.C’è ovviamente anche un calcolo parassitario non solo elettorale. Se la Grecia ottiene qualcosa, si spera che qualcosa tocchi anche a noi. Così tutti a fare gli Tsipras con le vongole, dimenticando ovviamente la sostanza del programma del nuovo governo greco. Che tradotto in Italiano significherebbe misure immediate come la cancellazione del Jobs Act, della legge Fornero sulle pensioni, del pareggio di bilancio costituzionalizzato. E a seguire la fine delle privatizzazioni, dei tagli alla sanità e alla scuola pubblica, del Patto di Stabilità per gli enti locali. Attenzione, questi non dovrebbero essere gli obiettivi strategici di un governo che promette tanto, ma le azioni dei famosi primi cento giorni. Poi dovrebbe seguire la messa in discussione della politica dei debiti e del debito stesso, che da quando nel 2011 Giorgio Napolitano indicò come vincolo per le politiche di austerità è passato da 1.900 a 2.150 miliardi. Si tratta di rompere con tutte le politiche seguite non solo dalla destra, ma dal centrosinistra in questi anni. Come si fa allora a stare con la Grecia mentre ci si allea con il Pd di Renzi in tutte le regioni più importanti?Mi fermo qui perché è assolutamente ovvio che, se non si rompe con i partiti dell’austerità, il sostegno alla Grecia non c’è. Anche sul piano sindacale son tutti felici per le elezioni greche. Ricordo però le tante volte che in Cgil si è usata la Grecia come esempio di una resistenza vana. 14 scioperi generali e in quel paese non è cambiato nulla, si diceva quando si lasciavano passare la pensione a 68 anni e le altre riforme di Monti. E in nome della flessibilità, Cgil, Cisl e Uil son arrivate a concordare il lavoro gratuito per migliaia di giovani precari che dovranno far funzionare l’Expo. È quindi inutile usare il marchio greco per coprire politiche e gruppi dirigenti responsabili o complici del nostro disastro sociale. La sola cosa seria che si deve fare in casa nostra per sostenere la Grecia contro la Troika è praticare la stessa rottura. Non son in grado di sapere se Tsipras sarà coerente, ma per aiutare lui ad esserlo bisogna fare in modo che non sia solo “Bella Ciao” l’unico legame utile all’Italia.(Giorgio Cremaschi, “La coerenza di Tsipras e quella nostra”, da “Micromega” del 29 gennaio 2015).Se il nuovo governo greco comincerà subito a tenere fede al suo programma elettorale stabilendo il salario minimo a 750 euro mensili, la Germania del governo Merkel-Spd chiuderà la porta ad ogni trattativa sul debito. Infatti con le “riforme” tedesche che han fatto da modello a tutto il continente, i milioni di lavoratori precari impegnati nei minijobs prenderebbero di meno di un lavoratore greco. È vero che ci sono le integrazioni dello stato sociale, ma è altrettanto vero che la coerenza del nuovo governo greco aprirebbe un fronte con una Germania anche sui tagli al welfare. Insomma la coerenza di Tsipras sarebbe insostenibile per una classe dirigente tedesca che da anni impone terribili sacrifici al proprio mondo del lavoro spiegando che gli altri stanno tutti peggio. Gli operai tedeschi, che hanno subìto una delle peggiori compressioni salariali d’Europa, si chiederebbero a che pro, visto che le cicale greche ricominciano a frinire. È per il timore del contagio sociale, della ripresa, magari persino conflittuale, dei salari e della richiesta di welfare che si dirà no alla Grecia e non per la questione debito.