Archivio del Tag ‘socialisti’
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Pritchard: così l’euro-sinistra ha svenduto i popoli all’élite
«Per un terribile rovescio del destino, la politica della sinistra europea sostiene la politica economica più reazionaria: i grandi partiti socialisti europei del dopoguerra sono rimasti intrappolati nella dinamica corrosiva dell’unione monetaria, apologeti della disoccupazione di massa e di un regime deflazionistico stile anni ‘30 che, sottilmente, favorisce gli interessi delle élite». In poche righe, Ambrose Evans-Pritchard fotografa la tragedia europea: i partiti che “inventarono” il sistema di welfare migliore del mondo sono oggi i migliori interpreti del rigore escogitato per demolire proprio quel welfare, il frutto migliore che la sinistra europea sia stata capace di creare dopo la Seconda Guerra Mondiale. Fino a cancellare la stessa idea di Europa come patria comune, traguardo civile di convivenza. E’ stato il centrosinistra europeo a far ingoiare l’amara medicina dell’oligarchia finanziaria, abusando della fiducia storicamente ottenuta dalle fasce popolari e dall’elettorato progressista.«Uno dopo l’altro, la stanno pagando tutti», scrive Pritchard sul “Telegraph”, in un’analisi ripresa da “Come Don Chisciotte”. Primo esempio, i Paesi Bassi: «Il partito laburista olandese che diede vita al “Polder Model” e amministrò l’Olanda per mezzo secolo ha perso i suoi bastioni a Amsterdam, Rotterdam e Utrecht, i suoi sostenitori sono scesi al 10% per aver timidamente approvato le politiche di austerità che hanno portato alla deflazione e ad un abbattimento del valore immobiliare tanto da arrivare a ipoteche sul 25% di patrimoni netti negativi». Le politiche recessive «sono velenose per i paesi che già hanno problemi». L’indebitamento delle famiglie olandesi è passato dal 230% al 250% del reddito disponibile dal 2008 a oggi, mentre il debito dei britannici (che si sono tenuti la sterlina) è sceso da 151% al 133% nello stesso periodo. E’ tutta colpa del rigore imposto da Bruxelles, ma il partito laburista olandese «non può fare nessuna critica coerente, perché il suo orientamento pro-Ue lo costringe quasi al silenzio».«Il Partito Socialista non ha mai creduto nell’euro e non ci crediamo nemmeno adesso: dobbiamo quindi smettere di chiedere sempre più sacrifici per mantenerlo», ha detto Dennis de Jong, il leader del partito a Strasburgo che si appella a un “Piano B” per smantellare l’unione monetaria in modo ordinato». In Grecia, il socialista Pasok che ha guidato il paese verso la democrazia dopo la dittatura dei “colonnelli”, è sceso al 5,5%: un guscio svuotato da Syriza, che ora con il 25% di voti promette di strappare Atene dalle grinfie della Troika Ue. «Il Pasok si è meritato il suo annientamento», scrive il notista del “Telepgraph”: «Ha cospirato nel colpo di stato fatto nel retrobottega a novembre 2011, ancora una volta accettando le richieste dell’Ue per rovesciare il proprio primo ministro e per annullare il referendum della Grecia sul bail-out. Rinunciò, allora, ad una prova di forza catartica e necessaria con Bruxelles, per la troppa paura di rischiare l’espulsione dall’euro. Questo referendum si farà adesso: Tsipras ha trasformato le elezioni europee di questa settimana in un verdetto sulla servitù del debito».Se si può capire la paura della sinistra nei paesi periferici, aggiunge Evans-Pritchard, «il mistero è il motivo per cui un presidente socialista francese, con una maggioranza parlamentare, debba subire passivamente le politiche che stanno fiaccando la linfa vitale dell’economia francese e che stanno distruggendo la sua presidenza». François Hollande ha vinto due anni fa puntando sulla crescita e promettendo di bocciare il Fiscal Compact. Da quando è in carica, però, la disoccupazione francese è salita dal 10,1 al 10,4%, la crescita del Pil è scesa a zero e anche nell’ultimo trimestre la Francia ha perso 23.600 posti di lavoro, dopo i 57.000 perduti nel 2013. Sicché, secondo l’ultimo sondaggio Ifop, l’indice di gradimento di Hollande è crollato sotto il 18%: il peggiore da sempre per un leader francese. «La sua retorica del New Deal non ha portato a niente». Hollande «è capitolato sul Fiscal Compact, accettando una camicia di forza che obbliga la Francia a tagliare il debito pubblico ogni anno per un importo fisso per due decenni, fino a quando non sarà scesi al 60% del Pil, a prescindere dalla demografia o dal gap che esista nel settore privato o dalle esigenze di investimento dell’economia».La sua presidenza? «E’ stata tutto uno spettacolo dell’orrore di pacchetti di austerità, uno dopo l’altro, un circolo vizioso di maggiori imposte che fanno abortire qualsiasi recupero e lo debilitano con un effetto moltiplicatore che peggiora la situazione». Inasprimento fiscale nonostante il disavanzo: è la ricetta per il suicidio, se la Bce non interviene per compensare con iniezioni di denaro. «La risposta di Hollande è stata un raddoppio del rigore per infiocchettare il pacchetto: ha ceduto alle richieste di Bruxelles per altri 50 miliardi di euro di austerità nei prossimi tre anni». Questa volta, «la scure cadrà sulla spesa pubblica, arrivata al 57% del Pil». Inoltre, «ci saranno radicali riforme del lavoro, una variante della terapia-shock Hartz IV che servì per fottere i salari tedeschi dieci anni fa». In altre parole: se il socialista Hollande ha fatto pace con le grandi imprese, «sarà l’austerità a farlo a fette».Hollande si era prodigato per una “alleanza latina” per contrastare i deflattori quando presero il potere e per costringere la Germania a mettere il veto sulle azioni della Bce. Quella momentanea dimostrazione di grinta aveva spinto Draghi verso un piano di retromarcia sul debito italiano e spagnolo nel mese di agosto 2012, aiutato molto da Washington, ma poi non è andato avanti «e la Spagna ha continuato per la sua strada, come se fosse una Prussia del Sud o una nuova Tigre latina». La Bce? «Ancora una volta ha continuato a rigirarsi i pollici, incurante della deflazione». Francoforte «ha lasciato che i vincoli negativi bloccassero il bilancio francese facendolo ridurre di 800 miliardi, mentre l’euro si è rivalutato dell’ 8% contro lo yuan e del 15% contro lo yen, in un anno». Mentre gran parte del mondo sta cercando di tener basso il cambio delle valute e la deflazione delle esportazioni, l’Europa «è rimasta l’unica e tenersi tutto il pacco sulle spalle».I francesi non possono accettare di morire per asfissia economica: «La Francia è il cuore pulsante dell’Europa, l’unico paese con una statura di civiltà capace di condurre una rivolta e di prendersi carico della macchina politica dell’Unione Monetaria. Ma per scoprire il bluff della Germania, con una minima credibilità, Hollande dovrebbe essere pronto a rovesciare tutto il progetto dalle sue fondamenta e persino a rischiare una rottura sull’euro». Ed è quello che non farà mai. «Tutta la sua vita politica, da Mitterrand a Maastricht, è stata intessuta negli affari europei». Hollande «è prigioniero dell’ideologia di questo progetto, convinto come è che un condominio franco-tedesco rimanga la leva del potere francese e che sia l’euro a tenere legati i due paesi». Lo statista francese Jean-Pierre Chevenement confronta l’acquiescenza di Hollande con il corso rovinoso dei decreti deflazionistici di Pierre Laval nel 1935 durate il Gold Standard, cioè «l’ultima volta che un leader francese pensò di dover cavare sangue dal suo paese per difendere il vezzo di un cambio fisso».E’ la verità brutale, aggiunge Evans-Pritchard: «I socialisti francesi pensavano di non avere nulla da temere dall’ascesa del Fronte Nazionale, un partito che si prepara a sfruttare la furia prorompente dalla “France Profonde”, con l’impegno di ripristinare il controllo sovrano francese su tutto ciò che conta nella nazione, e che ha messo l’euro al primo posto tra i suoi compiti». I socialisti pensavano che il Fn avrebbe tolto voti ai gollisti, dividendo la destra? Errore: Marine Le Pen «sta dilaniando, con lo stesso vigore, anche le loro proprie roccaforti della classe operaia». Hanno sottovalutato la Le Pen, ora quotata al 24%, e sono scivolati al terzo posto, travolti dal “lepenismo di sinistra”, nuovo guardiano del welfare francese. I socialisti «non hanno nessuna risposta» da opporre agli attacchi del Fn sulla “austerità insensata” e “le politiche monetarie folli della Bce”, che continuano a intaccare il nucleo industriale della Francia. La Le Pen ripete che il prgetto dell’euro coincide con la disoccupazione di massa? «E’ tutto vero», dice Evans-Pritchard, ed è per questo che Hollande non sa cosa rispondere a Marine Le Pen.Tutto cominciò con il “referendum rubato”, la fatidica decisione di approvare il Trattato di Lisbona senza farlo votare, dopo che il popolo francese aveva già respinto un testo quasi identico chiamato “Costituzione europea”. «Nella scelta di ignorare la scelta del popolo del maggio 2005 – scrive Evans-Pritchard – i leader francesi hanno anticipato tutto quello che stiamo vedendo ora in Europa», ovvero «le scosse di assestamento di quel terremoto anti-democratico in Europa», per dirla con Coralie Delaume e il suo “Gli Stati Disuniti d’Europa”. «I socialisti dicono che è un oltraggio rifiutare un referendum su Lisbona, ma quando venne il momento di votarlo in parlamento, 142 deputati e senatori si astennero, e 30 votarono a favore del Trattato e diedero al presidente Nicolas Sarkozy la maggioranza dei tre quinti», ricorda Evans-Pritchard. «Le élite pensavano di essersela cavata con le loro prestidigitazioni su Lisbona? Non se l’erano cavata affatto», ma è ormai storia lo squallore del centrosinistra europeo, senza il quale l’oligarchia neoliberista non arebbe mai potuto imporre la crisi, attraverso il progetto neo-feudale chiamato euro.«Per un terribile rovescio del destino, la politica della sinistra europea sostiene la politica economica più reazionaria: i grandi partiti socialisti europei del dopoguerra sono rimasti intrappolati nella dinamica corrosiva dell’unione monetaria, apologeti della disoccupazione di massa e di un regime deflazionistico stile anni ‘30 che, sottilmente, favorisce gli interessi delle élite». In poche righe, Ambrose Evans-Pritchard fotografa la tragedia europea: i partiti che “inventarono” il sistema di welfare migliore del mondo sono oggi i più inflessibili interpreti del rigore escogitato per demolire proprio quel welfare, il traguardo più avanzato che la sinistra europea sia stata capace di centrare dopo la Seconda Guerra Mondiale. Fino a cancellare la stessa idea di Europa come patria comune, traguardo civile di convivenza. E’ stato il centrosinistra europeo a far ingoiare l’amara medicina dell’oligarchia finanziaria, abusando della fiducia storicamente ottenuta dalle fasce popolari e dall’elettorato progressista.
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La crisi europea alle urne, voto-contro e astensionismo
Matteo Salvini e Giorgia Meloni, cioè Lega Nord e Fratelli d’Italia: sono i due partiti che puntano le armi con più decisione contro l’euro-regime che ha imposto l’austery, portando l’Italia sull’orlo del collasso. Altri, come la Lista Tsipras, mirano invece a correggere il rigore di Bruxelles, senza mettere in discussione il Trattato di Maastricht, quindi l’euro, sul quale Grillo – accreditato all’estero come forza euroscettica – propone di indire un referendum, limitandosi per ora (come Tispras) a dichiarare guerra al Fiscal Compact. Tra gli opinion leader, il più acuto nel proporre un’analisi organica sulla devastante crisi europea è Paolo Barnard, che denuncia la barbarie del neo-feudalesimo di Bruxelles, storicamente organizzata dalle grandi famiglie dell’élite oligarchica franco-tedesca, ostili alla democrazia e quindi a qualsiasi economia sociale. Soluzioni politiche? Nessuna: Barnard è tra quanti considerano le elezioni europee perfettamente inutili, dato che l’Europarlamento continuerà a non avere nessun potere sul governo dell’Unione.Altri, meno pessimisti, sperano che l’establishment di Bruxelles – espressione della Bundesbank e della Bce – possano prendere buona nota degli avvertimenti che, stando ai sondaggi, il voto del 25 maggio riserverà: non tanto in Germania, quanto soprattutto in Francia e in Gran Bretagna, dove è attesa una forte affermazione di Marine Le Pen e Nigel Farage. Determinante l’eventuale successo dei no-euro in Francia: se non si tornerà alla leva fondamentale per finanziare la democrazia, cioè la sovranità monetaria, la Le Pen minaccia l’uscita della Francia dall’Ue. Insieme a Londra, Parigi sembra destinata a trainare un fronte molto vasto, che passa per l’Olanda e l’Austria: formazioni politiche generalmente definite nazional-populiste, ovviamente “di destra”, si incaricano di rappresentare il dilagante malcontento per una crisi sempre più spietata, mentre il centrosinistra europeo (Spd, socialisti francesi e Pd) restano il più solido puntello del micidiale euro-sistema, che precarizza il lavoro in ossequio al neoliberismo finanziario anglosassone e al mercantilismo tedesco.Nel frattempo, la superpotenza americana imbriglia l’Europa tra le maglie del Ttip, il Trattato Transatlantico che potrebbe metter fine agli ultimi capolsaldi del dritto costituzionale europeo in materia di ambiente, lavoro, sanità e sicurezza alimentare, mentre – dopo aver minacciato la Siria e l’Iran – ora affronta direttamente la Russia sul piano geopolitico militare, puntando soprattutto ad accerchiare la Cina con una inedita proiezione nel Pacifico. Secondo Barnard, solo il nuovo capitalismo di Pechino – fondato sulle immense riserve russe di gas e petrolio a sorreggere lo yuan come futura moneta internazionale – potrebbe innescare un benefico terremoto macro-economico in grado di mandare a monte i piani degli euro-oligarchi, che da trent’anni lavorano per metter fine alla sovranità democratica in Europa e alla nostra economia sociale. Un orizzonte sul quale, evidentemente, è impensabile che possa incidere il risultato elettorale per le europee. Che, almeno per l’Italia, sembra destinato essenzialmente al mercato politico interno, cioè il derby Renzi-Grillo. L’Italia non è mai stata male come adesso, e non c’è più neppure l’alibi del detestato Cavaliere. Quanto peserà il partito del non-voto?Matteo Salvini e Giorgia Meloni, cioè Lega Nord e Fratelli d’Italia: sono i due partiti che puntano le armi con più decisione contro l’euro-regime che ha imposto l’austery, portando l’Italia sull’orlo del collasso. Altri, come la Lista Tsipras, mirano invece a correggere il rigore di Bruxelles, senza mettere in discussione il Trattato di Maastricht, quindi l’euro, sul quale Grillo – accreditato all’estero come forza euroscettica – propone di indire un referendum, limitandosi per ora (come Tispras) a dichiarare guerra al Fiscal Compact. Tra gli opinion leader, il più acuto nel proporre un’analisi organica sulla devastante crisi europea è Paolo Barnard, che denuncia la barbarie del neo-feudalesimo di Bruxelles, storicamente organizzata dalle grandi famiglie dell’élite oligarchica franco-tedesca, ostili alla democrazia e quindi a qualsiasi economia sociale. Soluzioni politiche? Nessuna: Barnard è tra quanti considerano le elezioni europee perfettamente inutili, dato che l’Europarlamento continuerà a non avere nessun potere sul governo dell’Unione.
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Cremaschi: l’euro è stato creato per demolire la sinistra
A trenta anni dalla scomparsa di Enrico Berlinguer vorrei ricordare, tra le sue scelte scomode allora come oggi, la decisione del 1979 di rompere con i governi di unità nazionale dicendo no all’adesione dell’Italia allo Sme. Il trattato che definiva allora il cosiddetto serpente monetario era il primo passo verso la moneta unica. Il Pci decise di opporsi a quel trattato anche per uscire dalla disastrosa politica di unità nazionale con la Dc, ma le motivazioni usate contro la rigidità della moneta (e allora il liberismo veniva chiamato non a caso monetarismo) valgono ancora oggi. Nella Banca d’Italia era stata appena liquidata la gestione del governatore Baffi, che era stato arrestato insieme al direttore Sarcinelli, su mandato del giudice neofascista Aliprandi. Successivamente furono entrambi completamente scagionati e l’inchiesta su di loro si rivelò completamente falsa. Ma intanto la Banca d’Italia era stata decapitata e aveva cambiato completamente politica monetaria.Infatti la scelta distintiva del governatorato di Baffi era stata proprio la manovra sulla moneta. La lira veniva rivalutata rispetto al dollaro, in modo da rendere meno pesante la bolletta energetica, e svalutata rispetto al marco, per sostenere la produzione industriale. Baffi motivò esplicitamente queste scelte con la necessità di non svalutare i salari e fu l’unico governatore a non demonizzare la scala mobile e il sistema di protezione sociale. Lo Sme invece mise al centro della politica economica la rigidità monetaria, adottando quel liberismo che andava al governo in Gran Bretagna con Thatcher e negli Usa con Reagan. I nostri primi interpreti di quella svolta furono il governatore Ciampi e il ministro del Tesoro Andreatta. Che assieme decisero nel 1981 la separazione del Tesoro dalla Banca d’Italia, con il conseguente obbligo di vendere sul mercato i Bot per finanziare la spesa pubblica. E con l’attacco alla indicizzazione dei salari che ebbe il suo apice in quel decreto Craxi di taglio della scala mobile, contro cui Enrico Berlinguer fece la sua ultima battaglia.In sintesi l’euro e la perdita formale della sovranità monetaria a favore della Bce sono il punto di arrivo, e non la partenza, di un sistema di accordi e decisioni che avevano un obiettivo dichiarato: rendere impossibili le politiche economiche keynesiane, imporre gli interessi della globalizzazione finanziaria e dei mercati come vincoli insuperabili per gli Stati. Il pareggio di bilancio in Costituzione, votato da noi anche dalla destra oggi anti-euro, è l’ultimo atto formale di tale politica trentennale. L’effetto euro sulle economie europee é stato duplice. Da un lato la moneta unica è stata lo strumento per istituzionalizzare ovunque le politiche liberiste. La Grecia é stata distrutta con il ricatto della sua espulsione dall’euro. Da noi lo slogan “lo vuole l’Europa” ha accompagnato ogni operazione di smantellamento dei diritti del lavoro e dello Stato sociale. Dall’altro lato la moneta unica forte ha finito per mettere alla pari economie che pari non erano, facendo della zona euro non un’area di crescita comune, bensì il campo di battaglia della competizione estrema.Di questo si è avvantaggiata profondamente l’economia tedesca, che con il governo socialdemocratico Schroeder all’inizio del duemila ha colpito duramente i diritti del lavoro, aprendo così la via all’era Merkel. La depressione salariale da sola non fa competitività, ma se si somma ad un sistema industriale forte che gode di una moneta particolarmente favorevole, allora la fa eccome. Perché l’euro desse risultati economici con un minimo di equilibrio ci sarebbe voluto un boom salariale in Germania. Invece sono nati a milioni i cosiddetti mini-job, lavori precari con paghe da pochi euro l’ora, per i quali dal Belgio son partite denunce alla Corte di Giustizia Europea a causa delle delocalizzazioni che hanno lì provocato. E questa politica continua oggi in primo luogo per opera della socialdemocrazia e della complicità sindacale. La legge sul salario minimo, vantata come un successo progressista, è in realtà una formalizzazione del dumping sociale. Stabilire che nel 2017 la paga minima in Germania sarà di 8,50 euro all’ora, quando ora in Francia è di 10, significa usare l’euro come arma di devastazione economica di massa.Ora i due partiti che guidano l’Unione Europea, la Germania e gli altri principali governi, Pse e Ppe, promettono un allentamento dei lacci delle politiche di austerità. Ma mentono sapendo di mentire perché in realtà il sistema euro, con i suoi trattati non rinegoziabili, da Maastricht al Fiscal Compact, non prevede alternative alle politiche liberiste. O salta o continua come sempre, e proprio di questa rigidità si fa forte la signora Merkel, che così ha spianato ogni debole ostacolo da parte della Spd. Tre anni fa una intervista di Giuliano Amato a Rossana Rossanda puntava sul ritorno al governo dei socialisti in Francia e Germania per farla finita con l’austerità. Non voglio infierire – certo il centrosinistra europeo è oramai una formazione social-liberale che ha ben poco della sinistra – ma la realtà è che il sistema europeo non è riformabile.Le tre misure più avanzate di cui si discute in campagna elettorale – condono di una parte del debito per i paesi del sud Europa, Eurobond, trasformazione della Bce in un istituto che dia i soldi direttamente agli Stati e non alle banche – non sono realizzabili senza cancellare, e non semplicemente aggiustare, i trattati che stanno a presidio dell’euro. E in ogni caso sarebbero impedite da qualsiasi governo tedesco. Chi sostiene queste misure dovrebbe aggiungere: o si fa questo, o salta la baracca perché così non si può andare avanti. Invece questo non viene detto, e così il sistema di potere economico finanziario che guida l’Europa capisce che non si fa sul serio. Il fondatore della Linke tedesca, Oskar Lafontaine, aveva proposto un piano europeo di smontaggio dell’euro, ma il suo stesso partito non ha avuto il coraggio di sostenerlo. E tutta la sinistra europea oggi esprime la stessa paura.È chiaro che dire no all’euro non basta se non si rimuove la politica economica liberista che ha portato alla sua costruzione, ma la fine della moneta unica è una condizione necessaria per poter ricostruire una politica economica e sociale fondata su eguaglianza e democrazia. È una condizione necessaria, ma non sufficiente; e proprio questa insufficienza avrebbe dovuto essere il campo d’azione di una vera sinistra. Come ho cercato di spiegare, l’euro non é tutto, ma è il simbolo monetario delle politiche liberiste e di austerità. La sinistra non doveva subire il ricatto psicologico di chi accusa di nazionalismo la rivendicazione della sovranità monetaria, mentre in realtà difende l’internazionalismo di banche e finanza. La sinistra non avrebbe dovuto avere il tabù dell’euro, ma anzi avrebbe dovuto fare della contestazione della moneta unica la leva per spingere in campo una critica popolare e di massa al liberismo.La sinistra doveva dire no all’euro dal suo punto di vista, e così questo punto di vista sarebbe tornato in campo nella crisi europea. Invece il campo è stato abbandonato e così il no all’euro è diventato vessillo delle destre autoritarie, xenofobe e neofasciste. Che ovviamente lo usano a loro modo e per i loro fini. Il risultato è che la politica europea è bloccata tra la continuazione delle politiche di austerità sotto le larghe intese Ppe-Pse e la contestazione degli euroscettici reazionari. E il sostegno Ue al governo ucraino infarcito di neonazisti, mostra che ci sono momenti e situazioni in cui questi due schieramenti possono trovare sintesi. Un’alternativa di sinistra a tutto questo si ricostruirà solo quando le sue forze sapranno proporre senza tabù la messa in discussione dei poteri e delle politiche dell’Europa reale, senza trastullarsi con una Europa ideale tanto ipocrita quanto inesistente.In Italia questo significa una sinistra che rompa davvero con il Pd e apra il confronto e il dialogo con il “Movimento 5 Stelle”, che avrà tanti limiti e contraddizioni, ma che finora ha anche il merito democratico di aver impedito un lepenismo di massa nel nostro paese. La prima cosa da proporre subito dopo le elezioni europee è un referendum costituzionale sui trattati e sull’euro, così come si fece già nel 1989. Lo chieda anche la sinistra che non vuol morire renziana. Aveva ragione Berlinguer a dire no allo Sme, e ha torto oggi la sinistra a non mettere in discussione quell’euro che è stato messo lì per distruggerla.(Giorgio Cremaschi, “Perché la sinistra deve dire no all’euro”, da “Micromega” del 14 maggio 2014).A trenta anni dalla scomparsa di Enrico Berlinguer vorrei ricordare, tra le sue scelte scomode allora come oggi, la decisione del 1979 di rompere con i governi di unità nazionale dicendo no all’adesione dell’Italia allo Sme. Il trattato che definiva allora il cosiddetto serpente monetario era il primo passo verso la moneta unica. Il Pci decise di opporsi a quel trattato anche per uscire dalla disastrosa politica di unità nazionale con la Dc, ma le motivazioni usate contro la rigidità della moneta (e allora il liberismo veniva chiamato non a caso monetarismo) valgono ancora oggi. Nella Banca d’Italia era stata appena liquidata la gestione del governatore Baffi, che era stato arrestato insieme al direttore Sarcinelli, su mandato del giudice neofascista Aliprandi. Successivamente furono entrambi completamente scagionati e l’inchiesta su di loro si rivelò completamente falsa. Ma intanto la Banca d’Italia era stata decapitata e aveva cambiato completamente politica monetaria.
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Parigi, Londra, Roma: un voto per scardinare il regime Ue
L’incognita del voto in Francia è sicuramente «il punto più vulnerabile della costruzione europea», in questa fase.Segue a ruota l’Inghilterra, dove si prevede un’affermazione non irrilevante dell’Ukip che, però, difficilmente supererà di molto il 25% e quasi certamente non raggiungerà il 30%. Discorso diverso: da sempre, l’europeismo inglese è piuttosto tiepido. Non a caso, infatti, «l’Inghilterra non è nell’Eurozona e, spesso, in politica estera, ha seguito più gli Usa che i partner europei». Secondo Giannuli, un forte successo dell’Ukip darebbe una spinta forse decisiva all’Inghilterra a sciogliere gli ormeggi europei. Inoltre lo United Kingdom Independence Party è particolarmente forte nel Galles, paese che potrebbe essere contagiato dal secessionismo della Scozia, che sta andando al referendum sulla separazione da Londra. «Se si profilasse un’uscita contemporanea di Scozia e Galles, entrerebbe seriamente in crisi il Regno Unito, riducendolo di fatto alla sola Inghilterra o poco più, con effetti che si riverserebbero anche sulla Ue, che si troverebbe a dover ripensare tutti i trattati istitutivi».Infine, il caso italiano: le soglie critiche sono quelle legate al derby Renzi-Grillo. Il leader del Movimento 5 Stelle «deve superare il 25% per mantenere un certo peso politico», mentre il neo-premier «è nei guai se va sotto il 30% anche di un solo voto». Soprattutto, «la distanza fra i due deve essere superiore ai tre punti dal punto di vista di Renzi e inferiore da quello di Grillo». Infatti, una differenza sotto i tre punti «renderebbe il M5S competitivo con il Pd in caso di elezioni politiche». In soldoni, conclude Giannuli, «il problema è quello della stabilità del quadro politico del massimo debitore di Europa: se il governo entra in fibrillazione e si trascina con sé le leggendarie riforme renziane, i mercati finanziari europei non possono non risentirne». Ai “mercati”, infatti, piace tanto il regime di Bruxelles: prepariamoci a vederli di nuovo all’opera, a suon di spread, se il vento di rivolta – come tutto lascia pensare – comincerà a soffiare su tutta l’Europa, con la sola ovvia eccezione della Germania, dove il consenso pro-euro è quotato attorno al 90%.Il voto francese, inglese e italiano può mettere in crisi l’Ue. Attenti a leggere bene il risultato europeo del 25 maggio: se una delle tante liste anti-austerità (o meglio, anti-Germania) dovesse ottenere un clamoroso successo in un paese, le forze di governo di quel paese si troverebbero strette fra la tenaglia del vincolo europeo e la pressione interna anti-Ue. Alcuni governi, per non essere travolti, potrebbero essere costretti ad adottare politiche meno arrendevoli verso Bruxelles. Altri, invece, potrebbero scegliere la strada opposta, col rischio di una conflittualità sociale ben più aspra del passato. In ogni caso, la crisi elettorale potrebbe spingere diversi sistemi politici al limite della rottura. Lo sostiene Aldo Giannuli, guardando al verdetto delle europee: se in Germania vincerà la linea Merkel-Spd mentre nel resto d’Europa cresceranno molto le liste euroscettiche, una “grande coalizione” a Strasburgo tra popolari e socialdemocratici rafforzerebbe ulteriormente la percezione di una “Europa tedesca”, facendo esplodere gli atteggiamenti anti-tedeschi e anti-Ue, determinando una spirale incontrollabile.
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Giannuli: Hollande e Merkel complici dei nazisti di Odessa
In Ucraina, «la Ue sta facendo un gioco ignobile al servizio degli Usa, non cercando di porsi come mediatore, ma schierandosi apertamente con una delle parti in conflitto, in nome di principi inesistenti come quello dell’intangibilità delle frontiere», che in questo caso sono un puzzle interetnico, data la labilità storica dell’identità nazionale ucraina. Accusa Aldo Giannuli: «Da Merkel e da Hollande non è venuta una parola di condanna per il pogrom di Odessa, il che li rende complici morali di esso». Giannuli cita il breve, terribile documentario montato da Giulietto Chiesa su “Pandora Tv”, che dimostra che la strage di Odessa è stata pianificata: un massacro di civili inermi, alcuni bruciati vivi ma altri trucidati a colpi di pistola, o strangolati nel proprio ufficio, come accaduto a una donna incinta i cui assassini si sono vantati di aver “ucciso una russa e il piccolo russo che aveva in grembo”.«Quando ricompaiono i nazisti con le loro atrocità – scrive Giannuli nel suo blog – non è possibile alcuna neutralità e non c’è dubbio sulla parte da scegliere: contro di loro e a fianco delle vittime». Il pogrom di Odessa è illuminante: «E’ in corso in Ucraina una partita strategica mondiale che va molto oltre gli attori che occupano il palcoscenico». Premessa fondamentale: «L’Ucraina, così come la conosciamo, non è mai esistita: non c’è mai stata un’Ucraina indipendente con questa conformazione territoriale e, soprattutto, non c’è mai stata questa distribuzione etnica», che è frutto di «due secoli di dominazione russa», con imponenti migrazioni interne. La Crimea, poi, non è mai stata Ucraina; fu “regalata” da Kruscev alla maggiore repubblica dell’Urss, dopo quella russa, come parte di un pacchetto di concessioni fatte per isolare e battere la guerriglia indipendentista dei seguaci di Stephan Bandera, eponente dell’ultra-destra.Se sotto l’Urss l’Ucraina era «poco più di un’unità amministrativa, dotata di una sua fittizia autonomia politica», con la dissoluzione dell’Unione Sovietica l’Ucraina è diventata uno Stato, senza però mai riuscire a diventare una nazione. Resta «un aggregato disomogeneo di regioni poco amalgamate, con zone prevalentemente russofone, zone propriamente ucrainofone e un nucleo centrale misto con percentuali variabili da provincia a provincia». Quanto ai confini veri e propri, la Russia disastrata di Eltsin non era in condizione di ridefinirli. La contrapposizione inter-etnica? Molto enfatizzata dai media, ma la reatà è diversa: non tutti gli ucraini sono russofobi, non tutti i russofoni sono anti-ucraini, e in diverse regioni la coesistenza è perfettamente pacifica. In compenso, in questi vent’anni di indipendenza, i pessimi politici di Kiev non sono stati capaci di costruire un vero e proprio senso di appartenza nazionale. Gli anti-russi? «Più che di indipendentisti ucraini, ha senso parlare di eurofili che sognano di diventare una nuova Germania o una nuova Francia sol che si compia il miracolo dell’ammissione nella Ue».A dividere il paese, continua Giannuli, è proprio la proiezione economica verso l’Europa da parte di regioni non amalgamate tra loro, e non pronte a reggere l’impatto dell’occidentalizzazione forzata. «Tutto questo è anche il prodotto di una classe politica che è peggiore persino di quella italiana: i vari Kravchuk, Jushenko, Tymoscenko, Yanukovich, che si sono succeduti alla presidenza, sono stati personaggi assolutamente impresentabili, che, invece di costruire un’identità nazionale, hanno cavalcato le contrapposizioni, inasprendole per quanto potevano, allo scopo di mietere voti e conquistare un governo che poi non hanno saputo usare. Yanukovich – aggiunge Giannuli – è stato il più ladro e cialtrone dei governanti di quello sventurato paese: aveva promesso ai russofoni una parificazione linguistica che si è ben guardato dal realizzare, aveva accettato l’integrazione nella Ue per poi fare marcia indietro. Non stupisce che sia caduto in disgrazia presso tutti. Anche Mosca non sapeva come fare per liberarsi di lui».Nel frattempo la crisi mondiale rendeva i margini finanziari sempre più stretti: oggi l’Ucraina è un paese virtualmente fallito, con un debito enorme verso la Russia, dalla quale ha preso molto più gas di quanto potesse pagare, approfittando del passaggio del gasdotto attraverso il suo territorio. «Che si arrivasse a una mobilitazione di piazza era nell’ordine delle cose», ma le milizie neonaziste hanno preso il sopravvento «solo dopo che quell’incapace di Yanukovich ha iniziato a giocare al “dittatore cattivo”, scatenando una repressione che non era neppure in grado di reggere a lungo». Le violenze di Kiev a quel punto hanno innescato il riflesso separatista. «Le regioni orientali, in riva al Mar Nero, dove le percentuali dei russofoni sono elevate, hanno iniziato a manifestare umori separatisti, ci sono stati scontri sempre più frequenti, cui gli accordi di Ginevra hanno vanamente cercato di porre fine, perché il governo di Kiev, neppure 48 ore dopo, ne ha fatto strame, partendo con una spedizione punitiva contro le regioni orientali che, nel frattempo, organizzavano il referendum».Il pogrom di Odessa va inserito in questo quadro, conclude Giannuli, e dimostra come «governo e bande fasciste siano sulla stessa linea: terrorizzare i russofoni e provocare Mosca ad intervenire, nella speranza di un allargamento del conflitto che tiri dentro la Nato», come se l’Europa morisse dalla voglia di confrontarsi militarmente con il temibile esercito di Putin. Il vuoto spaventoso è quello della politica europea, che anziché cercare un ruolo di interposizione strategica si allinea agli estremisti più pericolosi. Neppure la Germania della Merkel ha finora assunto una posizione accettabile, autorevole e indipendente da Washington. Ma c’è chi è riuscito a fare persino peggio: «Hollande è il più spregevole in questa gara a chi è il servo più servo degli americani». L’augurio di Giannuli è che alle elezioni europee «il Ps francese sprofondi sotto il 10% e si disintegri».In Ucraina, «la Ue sta facendo un gioco ignobile al servizio degli Usa, non cercando di porsi come mediatore, ma schierandosi apertamente con una delle parti in conflitto, in nome di principi inesistenti come quello dell’intangibilità delle frontiere», che in questo caso sono un puzzle interetnico, data la labilità storica dell’identità nazionale ucraina. Accusa Aldo Giannuli: «Da Merkel e da Hollande non è venuta una parola di condanna per il pogrom di Odessa, il che li rende complici morali di esso». Giannuli cita il breve, terribile documentario montato da Giulietto Chiesa su “Pandora Tv”, che dimostra che la strage di Odessa è stata pianificata: un massacro di civili inermi, alcuni bruciati vivi ma altri trucidati a colpi di pistola, o strangolati nel proprio ufficio, come accaduto a una donna incinta i cui assassini si sono vantati di aver “ucciso una russa e il piccolo russo che aveva in grembo”.
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La sinistra europea è complice dei signori della crisi
La sinistra che doveva cambiare l’Europa mitigando l’austerity e mettendo in discussione il neoliberismo di Bruxelles ha fatto esattamente l’opposto: allineamento totale alla non-politica dei “conti in ordine”, quella cioè che rende semplicemente impossibile l’uscita dalla crisi. Rigore fiscale e centralità del mercato: uno scenario dominato da «politiche conservatrici e liberali, fedeli al credo monetarista», sottolinea Nicola Melloni. «Una risposta in tutto e per tutto simile a quella di Herbert Hoover, e della gran parte dei suoi colleghi europei, alla crisi del ’29, in un contesto istituzionale diverso ma, in realtà, comparabile: se il regime finanziario internazionale di allora era caratterizzato dal Gold Standard, quello presente, in Europa, è costituito da Bce, Commissione europea e unione monetaria». Servirebbe un piano-B, appunto: quello che la sinistra riformista europea si rifiuta categoricamente di prendere in considerazione, preferedo diversioni “creative” alla Matteo Renzi.Di fatto, assistiamo allo svuotamento delle funzioni dei Parlamenti nazionali, ai diktat dei “mercati ci chiedono”, alla centralità di debito e deficit rispetto alla disoccupazione e alla produzione, ai meccanismi automatici di riequilibrio dei disavanzi commerciali attraverso recessioni auto-indotte, scrive Melloni su “Sbilanciamoci”, in un post ripreso da “Micromega”. Non c’è più neppure l’alibi della destra al governo: in Francia c’è Hollande, in Italia Renzi. «Eppure, continua clamorosamente a mancare una risposta di sinistra, di alternativa politica ed economica al mainstream neoliberale – quella risposta keynesiana, socialista o, che più in generale mettendo al centro della politica economica la domanda, il lavoro, il salario, aveva sconfitto la Grande Crisi». Per la verità, la sinistra europea «aveva abbandonato quelle idee e programmi già da una trentina d’anni, a cominciare non da Blair e Schroeder ma da Mitterrand», correva l’anno 1983, «senza dimenticare l’austerity anticipata dei vari governi Prodi in Italia».Anche davanti ad una crisi economica di portata storica, continua Melloni, i socialisti europei si sono contraddistinti per un atteggiamento ultra-passivo rispetto alla risposta conservatrice data alla crisi: «Il rigore finanziario è stato sposato e difeso a spada tratta, un po’ sotto la pressione dello spread, un po’ per convinzione e mancanza di riferimenti economico-culturali alternativi». Se una parte del mondo accademico ha tentato di denunciare il problema, «non ha mai trovato nessun vero spazio nelle stanze dei bottoni del Pse». Socialisti e conservatori: diversi per storia, ma uniti nella prassi di oggi. «Le decisioni – senza dibattito – sulla politica economica sono state demandate a Bruxelles, mentre nell’arena politica nazionale si discute di temi importanti quali il salario minimo (la Spd in Germania) o quali tipo di tagli al welfare (nel Regno Unito) senza per questo portare ad un generale ripensamento dei cardini della politica economica».Tanto i socialdemocratici tedeschi che i laburisti inglesi «hanno fatto di tutto per accreditarsi come “responsabili”, per chiarire al di là di qualsiasi ragionevole dubbio che l’austerity non sarebbe stata toccata in caso di cambiamento della maggioranza di governo». In Francia, questo trend è stato ancora più evidente: «Hollande è stato eletto come alfiere di un’altra Europa, ma una volta all’Eliseo ha abbracciato subito il dogma dei conti in ordine». Idem in Italia: «Il Pd non è certo uscito dal paradigma liberale: ha sostenuto un governo tecnocratico come quello di Monti, ha votato Fiscal Compact e pareggio di bilancio in Costituzione e continua a predicare il rigore e il rispetto degli impegni europei. Si parla tanto di sviluppo e crescita, ma nulla o quasi è stato fatto in questo senso». Per il responsabile economico del Pd, Filippo Taddei, l’austerity è «un falso problema»: la risposta alla crisi sarebbero «le riforme, non la politica economica».Questa vulgata, continua Melloni, è aumentata esponenzialmente con l’arrivo di Renzi a Palazzo Chigi: «La politica economica è stata ignorata, con vari giri di valzer sul limite del 3% per il deficit, prima denunciato in patria e poi santificato a Berlino». E nel suo tour europeo, da Parigi a Londra, Renzi ha confermato la sua allergia alla spesa pubblica. «Le cosiddette novità di Renzi sono, appunto, nelle riforme, che nulla hanno a che fare con la scelta di paradigmi economici differenti da modelli mainstream di rigore». Ma un partito che rifiuta in via di principio politiche keynesiane, che rimane «guardiano dei conti in ordine» e che chiede al mercato – con disoccupazione e riduzione dei salari – di risolvere le proprie crisi, per Melloni «nega in fieri un ruolo centrale per il lavoro», sicché «la piena occupazione rimane tabù, mentre la stella polare rimane il mercato che si auto-regola, l’utopia del liberismo sfrenato». E, nel frattempo, «il dibattito sulla politica economica – che è forse il contenuto principale della democrazia – è stato espulso dalla dialettica politica cancellando qualsiasi possibile risposta di sinistra alla crisi».La sinistra che doveva cambiare l’Europa mitigando l’austerity e mettendo in discussione il neoliberismo di Bruxelles ha fatto esattamente l’opposto: allineamento totale alla non-politica dei “conti in ordine”, quella cioè che rende semplicemente impossibile l’uscita dalla crisi. Rigore fiscale e centralità del mercato: uno scenario dominato da «politiche conservatrici e liberali, fedeli al credo monetarista», sottolinea Nicola Melloni. «Una risposta in tutto e per tutto simile a quella di Herbert Hoover, e della gran parte dei suoi colleghi europei, alla crisi del ’29, in un contesto istituzionale diverso ma, in realtà, comparabile: se il regime finanziario internazionale di allora era caratterizzato dal Gold Standard, quello presente, in Europa, è costituito da Bce, Commissione europea e unione monetaria». Servirebbe un piano-B, appunto: quello che la sinistra riformista europea si rifiuta categoricamente di prendere in considerazione, preferedo diversioni “creative” alla Matteo Renzi.
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Odifreddi: è stata questa sinistra a tradire i lavoratori
Fino a qualche anno fa, il primo maggio costituiva l’occasione per festeggiare le conquiste dei lavoratori: non solo il diritto al lavoro stesso, ma anche le regole e le tutele al suo proposito. Si festeggiava il fatto che, poco a poco, i lavoratori stavano cessando di essere considerati ingranaggi di un macchinario per la produzione di beni per il consumo altrui, e iniziavano a essere visti come persone con bisogni e diritti propri, oltre agli ovvi obblighi e doveri. Tutto questo oggi è finito. Vent’anni di coalizione fra berlusconismo, leghismo e fascismo, e qualche anno di crisi più o meno costruita e pilotata ad arte, hanno azzerato la condizione dei lavoratori, riportandola all’anno zero. Tutto ciò che era stato conquistato goccia a goccia, a costo di giuste rivendicazioni e dure lotte, è stato cancellato. Oggi, in una crociata al grido di “l’Europa, i mercati e le banche lo vogliono”, i lavoratori sono ridiventati semplici rotelle di un meccanismo, da usare quando servono e buttare quando non servono più.Naturalmente, questa concezione antiumanistica del lavoro ha radici lontane, anche nel passato prossimo. Risale da un lato alle controrivoluzioni liberiste di Reagan e della Thatcher, e dall’altro ai tradimenti delle sinistre di Blair e di Craxi. Ma oggi è stata portata a compimento, nel nostro paese, da un’insolita coalizione, che ha visto unite la destra intransigente di Berlusconi e Monti, con la sinistra inesistente di Napolitano e Renzi. Un presidente della Repubblica che ha da sempre lavorato, all’interno del Partito Comunista, come cavallo di Troia del capitale e del mercato, ha guidato dall’alto del Quirinale l’opera di smantellamento dei diritti dei lavoratori. Quando Berlusconi non ha più potuto agire in prima persona in questo compito, Napolitano gli si è sostituito imponendo governi al limite della costituzionalità e della democrazia, da Monti a Renzi.E oggi i giovani parvenu della politica, forti soltanto della debolezza del paese e privi di qualunque mandato elettorale, stanno completando l’opera di picconamento dei loro predecessori. Il programma è soltanto “far presto”, cambiare tutto prima che l’elettorato possa esprimersi, magari scegliendo partiti e candidati che possano contrastare i voleri e le pretese della santissima Trinità costituita appunto dall’Europa, i mercati e le banche. Con un autoritarismo mascherato da efficientismo, il governo Renzi fa il possibile per varare, il più presto possibile, riforme raffazzonate e unilaterali, con un metodo da repubblica delle Banane: “Ci confrontiamo per qualche giorno, ma poi decidiamo noi”. Per questo il primo maggio ormai non è più una festa, ma un giorno di lutto. Forse è ormai troppo tardi, ma le prossime elezioni europee sono l’ultima spiaggia: se non serviranno a rimandare a casa i traditori dei lavoratori che siedono in Quirinale e a palazzo Chigi, sarà un lutto che durerà a lungo, segnato dalle lacrime richieste dai nemici e imposte dai sedicenti amici.(Piergiorgio Odifreddi, “Un Primo Maggio di lutto”, da “Repubblica” del 1° maggio 2014, ripreso da “Micromega”).Fino a qualche anno fa, il primo maggio costituiva l’occasione per festeggiare le conquiste dei lavoratori: non solo il diritto al lavoro stesso, ma anche le regole e le tutele al suo proposito. Si festeggiava il fatto che, poco a poco, i lavoratori stavano cessando di essere considerati ingranaggi di un macchinario per la produzione di beni per il consumo altrui, e iniziavano a essere visti come persone con bisogni e diritti propri, oltre agli ovvi obblighi e doveri. Tutto questo oggi è finito. Vent’anni di coalizione fra berlusconismo, leghismo e fascismo, e qualche anno di crisi più o meno costruita e pilotata ad arte, hanno azzerato la condizione dei lavoratori, riportandola all’anno zero. Tutto ciò che era stato conquistato goccia a goccia, a costo di giuste rivendicazioni e dure lotte, è stato cancellato. Oggi, in una crociata al grido di “l’Europa, i mercati e le banche lo vogliono”, i lavoratori sono ridiventati semplici rotelle di un meccanismo, da usare quando servono e buttare quando non servono più.
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Sveglia, sinistra: i nemici dell’Europa sono l’euro e l’Ue
La sinistra vorrebbe “un’altra Europa”, completamente rifondata? Errore: prima bisogna radere al suolo «l’attuale architettura dell’Unione Europea» e, letteralmente, «demolire i presupposti alla base dell’unione monetaria». Riformare i trattati vigenti? Missione impossibile, spiega Enrico Grazzini: per modificare il Trattato di Maastricht e lo statuto della Bce occorre l’unanimità del voto di tutti i 28 paesi Ue. A bloccare tutto basterebbe l’opposizione di un solo Stato, di un solo governo. «E’ più facile ripudiare o abolire i trattati che modificarli». L’Unione Europea, semplicemente, non è riformabile. E’ un non-Stato, un mostro giuridico che «opprime i popoli». Nient’altro che «una istituzione intergovernativa diretta dalla finanza e guidata da una sola nazione, la Germania», nonché «debolmente legittimata da un Parlamento senza potere», peraltro «eletto nel 2009 solo dal 43% dei cittadini europei». Ergo: impossibile fondare “l’Europa dei popoli” partendo da questa Unione Europea.«Oggi – scrive Grazzini su “Micromega” – bisogna avere il coraggio di affrontare dei punti di frattura con il governo di questa Ue che nessun cittadino europeo ha eletto, che toglie sovranità alle nazioni e schiaccia i popoli in difficoltà». I promotori della “Lista Tsipras” hanno scelto di non fidarsi più della socialdemocrazia europea, e in Italia del Pd, «che sono tra i promotori e complici di obbrobri ultraliberisti come il Fiscal Compact – cioè il taglio selvaggio della spesa pubblica in tempi di crisi – e il pareggio in bilancio in Costituzione». Anche il governo Renzi, dopo quelli di Letta e di Monti, «si fa garante del rispetto dei crescenti vincoli europei». Grazzini non ha dubbi: «Siamo già allo stremo, ma se seguiremo la politica della Ue e di Renzi faremo la fine della Grecia». E dal centrosinistra, solo e sempre propaganda: a parole, Martin Schulz è contro la disastrosa politica europea di intransigenza liberista, ma la Spd «ha finora promosso la deregolamentazione finanziaria e la famigerata politica autoritaria europea di disoccupazione e di immiserimento della Ue».La cieca politica di austerità dettata dalla Ue e dalla Troika (Bce, Fmi, Ue) sarà sempre più intrusiva, rigida e antisociale, continua Grazzini. «La Ue impone ai governi di tagliare il costo del lavoro e il welfare in nome della competitività. La sua politica è destinata a provocare crisi economiche e democratiche dei paesi sottoposti ai suoi diktat, o anche a provocare il crollo dell’euro (e quindi della Ue stessa)». Romano Prodi, già presidente della Commissione Europea e protagonista dello sciagurato ingresso dell’Italia nell’Eurozona, oggi ha preso atto della politica egemonica tedesca e propone di costruire un’alleanza alternativa tra Italia, Francia e Spagna e gli altri paesi del Sud Europa per contrastare «la folle (ma lucida) politica della Merkel». Soluzione impraticabile, avverte l’ex ministro dell’economia Fabrizio Saccomanni, intervistato dal “Corriere della Sera”: la Francia del socialista Hollande non accetterà mai di allearsi con noi, perché ha fatto della partnership con la Germania sull’euro il suo scudo (di latta) di fronte alla speculazione internazionale.Nulla all’orizzonte che preluda a qualcosa di diverso dal disastro nel quale stiamo sprofondando: «Ormai i bilanci dei paesi Ue vengono decisi non dai parlamenti e dai governi nazionali ma in maniera preventiva a Bruxelles, Francoforte e Berlino. E chi sgarra avrà delle sanzioni e poi verrà commissariato dalla Troika». Il disinvolto Renzi? «Magari otterrà qualche contentino da Bruxelles, ma il suo governo probabilmente cadrà proprio perché sarà costretto a trasmettere le politiche impopolari dettate dalla Ue», fatte di «lavoro sempre più precario, chiusura di aziende, disoccupazione dilagante ed eliminazione dei servizi sociali». Risultato: «Così dalla crisi non usciremo mai. E la crisi, soprattutto in Italia, potrebbe diventare irreversibile. La Grecia è vicina».Per rifondare l’Europa, dice Grazzini, occorre essere euroscettici. La sinistra respinge l’euroscetticismo come marchio infamante, denunciando le destre nazionaliste, xenofoba e neofasciste, il populismo nazionalista anti-europeo, senza vedere il vero pericolo, cioè l’autoritarismo dell’Ue e che fa a pezzi la nostra libertà, la nostra democrazia. «L’euroscetticismo ci riporta alla realtà», avverte Grazzini, citando uno dei maggiori storici marxisti, Eric Hobsbawn, fa poco scomparso, pessimista sul futuro europeo: «Penso che bisognerà abbandonare la speranza di trasformare l’Unione Europea in qualcosa di più di una semplice alleanza di Stati e di una zona di libero scambio». Troppo diversi gli interessi delle diverse aree, troppo liberista l’ideologia della Ue e troppo forte l’egemonia della Germania, ciecamente convinta «dell’austerità forzata e di questa architettura deflazionista e repressiva dell’euro perché sia possibile invertire facilmente la direzione di marcia».L’Europa unita, continua Grazzini, è importante se offre cooperazione, pace, democrazia e benessere dei popoli, non se genera povertà, disoccupazione, divisione e democrazie autoritarie e magari conflitti sanguinosi. «L’unione europea va, se possibile, salvaguardata nelle sue parti migliori, ma non adorata». Sicché, «occorre lottare per democratizzare la Ue e per dare al Parlamento Europeo il potere di fare proposte di legge», potere oggi affidato alla sola Commissione. La parola chiave, per uscire dal tunnel, si chiama sovranità. «E’ indispensabile rivalutare la sovranità nazionale, e quindi anche la sovranità monetaria», perché «solo recuperando la sovranità nazionale è possibile che i popoli possano difendersi dalle rigide politiche liberiste e neocoloniali della Ue e della Germania, e sperimentare nuovi modelli di sviluppo sostenibile. Solo così i governi europei potranno trovare delle forme efficaci di cooperazione per resistere alla speculazione finanziaria internazionale».Grazzini propone apertamente un’uscita concordata dall’euro, non-moneta palesemente insostenibile. «Bisognerebbe abolire il Trattato di Maastricht e concordare politicamente il ritorno alla sovranità monetaria degli Stati». Per prevenire la speculazione internazionale, la Ue e la Bce dovrebbero però anche creare e gestire, sulle orme di quanto proponeva Keynes a Bretton Woods, una moneta comune europea, l’Euro-Bancor, di fronte al dollaro e allo yen. «Purtroppo però gran parte (ma non tutta) della sinistra radicale ritiene che la questione della sovranità nazionale sia da demonizzare perché di destra. Eppure senza sovranità nazionale non ci può essere neppure un’ombra di democrazia».Senza moneta sovrana, resta solo questa Europa di oggi, «che schiaccia le nazioni» e le lascia in balia dello strapotere speculativo della finanza. «La sinistra – in particolare quella che si richiama al marxismo – dovrebbe ricordare le nozioni di imperialismo e di dominazione straniera, e dovrebbe sapere che le forze progressiste hanno sempre appoggiato e promosso le lotte di liberazione nazionale, in Sud America, in Africa e in tutti i paesi del mondo, di fronte all’oppressione straniera». Ora che più evolute forme di neocolonialismo economico minacciano per la prima volta anche i paesi europei, conclude Grazzini, sembra che una parte della sinistra afflitta da masochismo chieda “ancora più Europa”.La sinistra vorrebbe “un’altra Europa”, completamente rifondata? Errore: prima bisogna radere al suolo «l’attuale architettura dell’Unione Europea» e, letteralmente, «demolire i presupposti alla base dell’unione monetaria». Riformare i trattati vigenti? Missione impossibile, spiega Enrico Grazzini: per modificare il Trattato di Maastricht e lo statuto della Bce occorre l’unanimità del voto di tutti i 28 paesi Ue. A bloccare tutto basterebbe l’opposizione di un solo Stato, di un solo governo. «E’ più facile ripudiare o abolire i trattati che modificarli». L’Unione Europea, semplicemente, non è riformabile. E’ un non-Stato, un mostro giuridico che «opprime i popoli». Nient’altro che «una istituzione intergovernativa diretta dalla finanza e guidata da una sola nazione, la Germania», nonché «debolmente legittimata da un Parlamento senza potere», peraltro «eletto nel 2009 solo dal 43% dei cittadini europei». Ergo: impossibile fondare “l’Europa dei popoli” partendo da questa Unione Europea.
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Reporter senza frontiere, ora sindaco lepenista a Béziers
«Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi». Non è certo che l’infelicissima frase – sterminare l’intera popolazione di una città che ospitava 500 càtari – sia stata testualmente pronunciata dall’abate Arnaud Amaury, capo della “crociata contro gli albigesi”. Né è sicuro che i morti di quel fatidico 22 luglio 1209 siano stati davvero così tanti, 20.000 civili. Ma è invece accertato che la città di Béziers, pure circondata dalle schiaccianti milizie crociate, avesse sdegnosamente rifiutato, il giorno prima, di salvarsi consegnando ai carnefici gli eretici che ospitava: la morte, piuttosto che il tradimento della protezione accordata agli inermi “veri cristiani” del medioevo. Otto secoli dopo quella strage, che segnò l’inizio della sanguinosa Crociata Albigese, oggi la città di Béziers – ribelle e martire – ha un sindaco eletto coi voti del Front National di Marine Le Pen, la donna che sfida a viso aperto il regime di Bruxelles. Ma la notizia è un’altra: il nuovo primo cittadino è il giornalista Robert Ménard, fondatore di “Reporters Sans Frontières” e icona francese della difesa dei diritti civili.I francesi, scrive Leonardo Martinelli sul “Fatto Quotidiano”, se lo ricordano per anni a difendere con entusiasmo e determinazione «il diritto a informare e a essere informati in tutto il mondo». Protagonista di blitz sorprendenti, Ménard: nel 2008 salì di notte in cima a Notre-Dame, a Parigi, per poi sventolare una bandiera con la scritta “Freedom in China”, in occasione del passaggio della fiamma dei Giochi olimpici di Pechino nelle strade della capitale francese. «Oggi, ecco il nuovo Ménard: sindaco di Béziers, città del profondo Sud francese, una delle più degradate e povere del paese», nel cuore della regione dove nacque la lingua d’Oc. Ménard è stato un uomo simbolo, in Francia, delle tradizionali battaglie sociali della sinistra: gli stessi francesi faticano a comprenderne la “metamorfosi”, ora che si è schierato con un partito sovranista ed euroscettico, che la gauche – francese e non solo – continua a definire “sciovinista e di estrema destra”, non volendo riconoscere il “patriottismo socio-economico” invocato dalla Le Pen, per tornare alla “sovranità democratica nazionale” contro i diktat dell’Unione Europea.Classe 1953, Ménard è nato a Orano, in Algeria. «È quindi un pied-noir, figlio di coloni dell’Algeria francese, che dovette abbandonare dopo la raggiunta indipendenza», scrive Martinelli. Famiglia di origini modeste, il padre era un sindacalista comunista che poi passò all’Oas, l’organizzazione paramilitare che voleva mantenere il dominio della Francia sull’Algeria. La madre, una fervente cattolica. «Sono elementi non secondari, se si guarda alla vita che verrà del piccolo Robert». Lasciata in fretta Orano, andarono a vivere a Béziers, nel quartiere (ancora oggi) popolare della Devèze. «Negli anni Settanta il giovane Robert aderì alla Lega comunista rivoluzionaria, per poi prendere la tessera del Partito socialista nel 1979, abbandonato, a dire il vero, poco dopo l’elezione di François Mitterrand», uno dei massimi artefici dell’attuale Unione Europea. Ménard continuò negli anni Ottanta a impegnarsi animando radio libere, per poi entrare a far parte, come giornalista, della redazione locale di “Radio France”, l’emittente di Stato.A Montpellier, ancora nel Sud, fondò nel 1985 con un gruppo di amici “Reporters Sans Frontières”, «una Ong che in seguito ha assunto un ruolo importante, anche a livello internazionale, nella difesa dei giornalisti perseguitati in tutto il mondo», ricorda Martinelli. Sebbene Rsf non sia legata direttamente ad alcun partito, ha sempre avuto in Francia un’immagine di sinistra. «Ménard veniva invitato sempre più spesso in tv: diretto nell’eloquio, perfino un po’ irascibile. Ormai era diventato un personaggio pubblico». A sorpresa Ménard lasciò Rsf nel settembre 2008 per andare a Doha, in Qatar, a dirigere il “Centro per la libertà dell’informazione”, «finanziato dall’emirato, che non si può proprio definire una democrazia perfetta». Ma «fuggì anche da lì, l’anno seguente, in mezzo alle polemiche, per rientrare in Francia e ricominciare la sua carriera di giornalista, con trasmissioni alla tv e in radio». È a quel momento, continua il “Fatto”, che è emersa chiaramente la virata verso il Front National, firmando il libro “Vive Le Pen!”, uscito nel 2011. Il paladino francese della libertà d’informazione ha sempre rifiutato di iscriversi al partito. E anche a Béziers, la città della sua giovinezza, quando ha deciso di presentarsi alle comunali ha costituito una lista indipendente, con personaggi provenienti da vari orizzonti culturali, non solo quello del Fn, di cui ha chiesto solo in seguito l’appoggio esterno.In ogni caso, riguardo al discorso politico di Marine Le Pen, dice di «condividerne almeno l’80%», in modo assolutamente spiazzante: è favorevole alla linea dura sull’immigrazione mentre è contrario al maggior cavallo di battaglia del Fronte Nazionale, cioè l’uscita della Francia dall’euro. «Adesso – ha dichiarato – dico quello che penso e che prima non osavo dire o non ammettevo neanche a me stesso». Si è quindi lanciato contro il «perbenismo della sinistra», accusata di essere troppo “politicamente corretta”. «Sul matrimonio gay, ad esempio – scrive Martinelli – si è espresso in maniera critica, definendolo un “capriccio” e assicurando che, una volta eletto a Béziers, si sarebbe rifiutato di celebrarne al municipio della città». Il “Fatto” sottolinea che Ménard ha scritto quasi tutti i suoi ultimi libri assieme a Emmanuelle Duverger, sua moglie, che proviene da una famiglia cattolica di destra.Partita in sordina nell’estate scorsa, la campagna elettorale di Ménard è diventata progressivamente un caso in Francia e soprattutto a Béziers, città rivierasca del sud-ovest mediterraneo con 76.000 abitanti, di cui il 32% vive al di sotto della soglia di povertà. Béziers, che ha vissuto un lento declino economico a partire dagli anni Ottanta, esce da 19 anni ininterrotti di dominio dell’Ump, il partito conservatore, protagonista di un governo locale accusato a più riprese di corruzione. «Anche questo ha favorito la lista di Ménard, oltre al fatto che la sinistra è storicamente debole in città», conclude Martinelli. «L’ex agitatore di Rsf ha costituito una lista “con l’obiettivo di riunire elettori di sinistra e di destra”. Obiettivo decisamente centrato».«Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi». Non è certo che l’infelicissima frase – sterminare l’intera popolazione di una città che ospitava 500 càtari – sia stata testualmente pronunciata dall’abate Arnaud Amaury, capo della “crociata contro gli albigesi”. Né è sicuro che i morti di quel fatidico 22 luglio 1209 siano stati davvero così tanti, 20.000 civili. Ma è invece accertato che la città di Béziers, pure circondata dalle schiaccianti milizie crociate, avesse sdegnosamente rifiutato, il giorno prima, di salvarsi consegnando ai carnefici gli eretici che ospitava: la morte, piuttosto che il tradimento della protezione accordata agli inermi “veri cristiani” del medioevo. Otto secoli dopo quella strage, che segnò l’inizio della sanguinosa Crociata Albigese, oggi la città di Béziers – che fu ribelle e martire – ha un sindaco eletto coi voti del Front National di Marine Le Pen, la donna che sfida a viso aperto il regime di Bruxelles. Ma la notizia è un’altra: il nuovo primo cittadino è il giornalista Robert Ménard, fondatore di “Reporters Sans Frontières” e icona francese della difesa dei diritti civili.
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Giannuli: punita la sinistra, complice dell’euro-dittatura
Il crollo dei socialisti e la parallela affermazione del Fn di Marine Le Pen non hanno sorpreso nessuno, ma l’entità degli spostamento è andata al di là delle previsioni. Il Ps paga l’impopolarità di Hollande, dovuta alle sue scelte di governo, ma, più in generale paga la sua posizione scomodissima di gestore della crisi. La sinistra “riformista” non ha e non può avere spazio nell’ordinamento liberista, perché la sua ragion d’essere sta nella mediazione fra capitale e lavoro, mentre il neoliberismo non cerca alcuna mediazione, perché postula semplicemente il dominio capitalistico e la totale subalternità del lavoro. C’è un errore di fondo: pensare che il liberismo sia la faccia economica del pensiero liberale. Sbagliato: il liberismo è indifferente alla qualità del regime politico e, nella sua variante neoliberista, ha un’anima essenzialmente totalitaria che sopporta la democrazia liberale (debitamente svuotata di senso e con istituzioni rappresentative prive di reale potere decisionale) solo perché teme che un regime autoritario potrebbe ridestare il fantasma del primato della politica.Dunque, non ha bisogno di sindacati e Parlamento, che devono sopravvivere solo come feticci, mentre lo stato sociale deve semplicemente sparire e la stessa Costituzione diventa un inutile intralcio. Ma la sinistra riformista senza Parlamento, sindacati e stato sociale, semplicemente non esiste. E tanto più nel tempo della crisi, quando il capitalismo tende a fuoriuscire dalla democrazia in favore dello stato d’eccezione. La sinistra moderata, che si candida a gestire una forma temperata di dittatura neoliberista, può reggere con difficoltà questa posizione sin quando non precipiti la crisi; dopo, se conquista il governo è costretta solo a fare il lavoro sporco. Quello che rende debole la posizione della sinistra “riformista” è la sua incapacità di immaginare un “altro” rispetto all’ordinamento esistente. Costitutivamente, la sinistra moderata accetta la dittatura dell’esistente e ritiene che il suo compito sia quello di temperare le ingiustizie del capitalismo, con una serie di conquiste parziali e creando “nicchie” di giustizia sociale.Quando poi, con la crisi, il capitalismo travolge irresistibilmente conquiste parziali e nicchie di equità, la sinistra moderata in un primo momento cerca di resistere, poi si appiattisce, in attesa di tempi migliori. Ma, così facendo, perde il contatto con la sua base e inizia fatalmente a declinare, mentre la protesta sociale contro la repressione capitalistica prende altre strade. A volte assai sbagliate o pericolose. Ora, come in altre circostanze storiche simili, la sinistra moderata diventa la sinistra dell’impotenza, perché non comprende che, lungi dal ridurre il tiro e abbassare i toni, queste situazioni esigono un confronto radicale sul modello di società: se il capitalismo tende a fuoriuscire dalla democrazia, alla sinistra spetta fuoriuscire dall’ordinamento esistente in direzione opposta. Nelle circostanze storicamente presenti – qui ed ora – la questione che si pone è quella dell’ordinamento neoliberista dell’Europa, costruito intorno alla Ue ed all’euro: c’è da decidere se cercare di mantenere in piedi tutta la baracca o buttarla giù a spallate.Su questo sta montando una fortissima protesta popolare, di cui il risultato francese è uno dei sintomi, ma non l’unico e non il più pesante. Quello che si capisce, senza troppa difficoltà, è che vasti settori di ceti popolari (che ormai sfiorano il 25%-30% del corpo elettorale, senza tener conto degli astenuti) attribuiscono all’euro e alle politiche di mantenimento di esso (come il Fiscal Compact) la responsabilità dell’inasprirsi della crisi e, conseguentemente, chiedono il superamento della moneta unica. E si badi che la protesta viene sia da chi guarda dal punto di vista dei paesi debitori (come Italia e Grecia), ma anche dio paesi creditori (come la Germania, l’Olanda o la Finlandia), che chiedono di tornare alla moneta nazionale o del Nord Europa, perché si ritengono danneggiati dalla condivisione della moneta con i “peccatori del debito”. Le elezioni francesi, in questo senso, sono solo il vento che annuncia la tempesta di fine maggio.Di fronte a questo, chi si schiera più risolutamente in difesa dell’attuale ordinamento europeo è proprio la sinistra moderala del Pd, Ps francese e spagnolo, Spd. E persino la “Sinistra Europea”- Gue (accusata di essere euroscettica perché osa mettere in discussione il Fiscal Compact) pur vagheggiano una vaga ed improbabile “altra Europa”, non osa mettere in discussione l’attuale assetto istituzionale europeo. A testimoniare dell’incredibile ottusità dei socialisti francesi, viene l’appello alla “solidaritè repubblicaine” verso la destra gaullista. Geniale: c’è una protesta che monta sulla base del fatto che la gente ritiene uguali sinistra e destra moderate ed i socialisti che fanno? Propongono il blocco elettorale comune fra loro e i gaullisti! Con maggiore intelligenza, la destra ha lasciato subito cadere la proposta e si predispone ad avere le mani libere nel rintuzzare l’assalto lepenista. Adesso, magari capite perché è una fortuna che in Italia ci sia il M5s, senza del quale rischieremmo che il malessere si incanali verso la Lega o magari Forza Nuova.Il crollo dei socialisti e la parallela affermazione del Fn di Marine Le Pen non hanno sorpreso nessuno, ma l’entità degli spostamento è andata al di là delle previsioni. Il Ps paga l’impopolarità di Hollande, dovuta alle sue scelte di governo, ma, più in generale paga la sua posizione scomodissima di gestore della crisi. La sinistra “riformista” non ha e non può avere spazio nell’ordinamento liberista, perché la sua ragion d’essere sta nella mediazione fra capitale e lavoro, mentre il neoliberismo non cerca alcuna mediazione, perché postula semplicemente il dominio capitalistico e la totale subalternità del lavoro. C’è un errore di fondo: pensare che il liberismo sia la faccia economica del pensiero liberale. Sbagliato: il liberismo è indifferente alla qualità del regime politico e, nella sua variante neoliberista, ha un’anima essenzialmente totalitaria che sopporta la democrazia liberale (debitamente svuotata di senso e con istituzioni rappresentative prive di reale potere decisionale) solo perché teme che un regime autoritario potrebbe ridestare il fantasma del primato della politica.
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Mai più sudditi: dal Veneto alla Le Pen, monito all’Ue
La crisi innescata dall’adesione all’euro ha “bruciato” vent’anni di crescita, riportando il Veneto ai valori del 1995. Una catastrofe: la regione ha perso il 13,8% di Pil. Secondo la Cna, i settori più colpiti sono l’edilizia (-30%) e l’industria (-20%), seguiti da agricoltura e servizi. Ed ecco spiegato il clamore suscitato dal referendum popolare sull’indipendenza del Veneto, che secondo i promotori – i movimenti autonomisti – si è rivelato un plebiscito, consacrato da due milioni di elettori, proprio mentre Marine Le Pen spaventa l’Unione Europea col successo del Front National alle amministrative francesi. Su “Repubblica”, Ilvo Diamanti invita a prendere sul serio la consultazione veneta, perché la tendenza espressa è confermata da un sondaggio Demos: il 55% del campione chiede che il Veneto diventi “una repubblica indipendente e sovrana”. L’idea piace soprattutto al cuore sociale dell’economia veneta: imprenditori e operai, lavoratori dipendenti e autonomi della piccola impresa. “Traditi”, dopo gli anni del boom, dalla super-tassazione imposta da Bruxelles, dalla crisi del credito e dalle delocalizzazioni imposte dalla globalizzazione selvaggia.Il Pil veneto, rileva il newsmagazine “L’indipendenza”, nel 2013 è precipitato a 26.000 euro per abitante: «In altre parole, la crisi ha “bruciato” 18 anni di crescita economica». Lo rivela l’ultima analisi del centro studi Cna di Mestre: il quadro che ne emerge «è la triste conferma di quanto imprese, lavoratori e famiglie sanno già e vivono sulla propria pelle quotidianamente». La flessione del Pil si è inevitabilmente riversata sulla competitività del sistema economico regionale. Lo conferma uno studio della Commissione Europea: il Veneto ha perso 20 posizioni nella classifica delle regioni europee. Colpa delle manovre finanziarie varate dall’estate 2010: per il 2013, i veneti verseranno allo Stato 1,4 miliardi di euro, ben 387 milioni in più rispetto all’anno precedente. Per il 2014 si supererà il miliardo e mezzo di euro, anche per «un ulteriore inasprimento del Patto di Stabilità», che dovrebbe tradursi in una nuova stretta alla spesa pubblica, pari a 75 milioni di euro.«La rivendicazione autonomista appare fondata e largamente maggioritaria», riconosce Diamanti, che vi legge una assoluta trasversalità nell’elettorato. Indipendenza, precisa l’analista, non significa necessariamente secessione: la popolazione vuole autonomia, autogoverno, politici migliori. Certo, il test ha incuriosito la stampa internazionale, nei giorni in cui tiene banco la secessione della Crimea: la protesta del Veneto richiama quella della Catalogna contro Madrid, della Scozia contro Londra. E’ il sintomo di un’Europa smarrita, che ripudia i governi nazionali ormai chiaramente percepiti come succubi di Bruxelles e delle politiche di rigore dell’asse Ue-Bce. Piaga comune: i tagli alla spesa pubblica, che rimbalzano sul settore privato. Il ritorno immediato alla moneta sovrana è il principale cavallo di battaglia di Marine Le Pen, il cui braccio destro Steeve Briois è appena diventato sindaco di Hénin-Beaumont, una località di 26 mila abitanti. E a Marsiglia, la seconda città francese, il Fn ha superato i socialisti, con un risultato superiore al 20%.In una grande città del Sud come Perpignan, segnala il blog di Gad Lerner, i lepenisti sono arrivati in prima posizione superando il sindaco uscente dell’Ump col 34%. Un risultato che potrebbe portarli anche ad una clamorosa vittoria: per la prima volta, è a portata di mano la conquista di una città con più di centomila abitanti. «In molte altre località popolose il Fn ha superato il 30%, così confermando il ruolo di terza forza del sistema politico francese, in modo ormai strutturato. Un successo concentrato in particolare al Sud, ma che non si è limitato alle solite roccaforti della formazione lepenista». Come rimarca “Le Monde”, a questo tornata amministrativa il Fn ha scontato la sua debolezza organizzativa, con un basso reclutamento che però non nasconde la forte avanzata nelle comunali dove erano presenti liste lepeniste. Le amministrative sono state caratterizzate da un livello record di astensione (un francese su tre non ha votato) e dalla débacle dei socialisti al governo. L’Ump, nonostante le sue lotte interne, ha superato nettamente la gauche nel voto locale, tanto che “Le Monde” parla di una disfatta per Hollande.E mentre l’establishment italiano condanna il Fn bollandolo come “estrema destra xenofoba”, Napolitano si ostina a difendere l’europeismo dell’Ue – cioè la fonte della “guerra civile economica” in corso – come storica frontiera di pace. Stavolta se ne distacca persino Vendola: il successo della Le Pen, dice il leader di Sel, è tutto “merito” di politici come Hollande, cioè della sinistra che ha fatto solo e sempre politiche di destra. E’ la storia degli ultimi vent’anni: un filo diretto collega i socialisti francesi al New Labour di Blair, fino alla Spd delle larghe intese con la Merkel e naturalmente al Pd, che semmai – con Renzi e il suo ultra-liberista Jobs Act, tutto flessibilità e niente più diritti – ora sembra “scavalcare a destra” persino Forza Italia, senza più neppure tentare di apparire una forza politica di sinistra. Il Veneto, a quanto pare, non gradisce. E probabilmente sforna un antipasto delle imminenti europee. Il copione non cambia: anche nel 2013 il mainstream tentò di sbarrare la strada a Grillo, criminalizzandolo come “populista”, per poi subire – sbigottito – il trionfo del Movimento 5 Stelle.La crisi innescata dall’adesione all’euro ha “bruciato” vent’anni di crescita, riportando il Veneto ai valori del 1995. Una catastrofe: la regione ha perso il 13,8% di Pil. Secondo la Cna, i settori più colpiti sono l’edilizia (-30%) e l’industria (-20%), seguiti da agricoltura e servizi. Ed ecco spiegato il clamore suscitato dal referendum popolare sull’indipendenza del Veneto, che secondo i promotori – i movimenti autonomisti – si è rivelato un plebiscito, consacrato da due milioni di elettori, proprio mentre Marine Le Pen spaventa l’Unione Europea col successo del Front National alle amministrative francesi. Su “Repubblica”, Ilvo Diamanti invita a prendere sul serio la consultazione veneta, perché la tendenza espressa è confermata da un sondaggio Demos: il 55% del campione chiede che il Veneto diventi “una repubblica indipendente e sovrana”. L’idea piace soprattutto al cuore sociale dell’economia veneta: imprenditori e operai, lavoratori dipendenti e autonomi della piccola impresa. “Traditi”, dopo gli anni del boom, dalla super-tassazione imposta da Bruxelles, dalla crisi del credito e dalle delocalizzazioni imposte dalla globalizzazione selvaggia.
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Spinelli: per cambiare l’Europa bisogna rompere col Pd
Barbara Spinelli, come gli altri promotori della lista Tsipras, spera davvero che bastino le prossime elezioni europee ad abbattere il regime del rigore che sta letteralmente devastando il Sud Europa: in caso di successo delle forze anti-austerity, un Parlamento Europeo “costituente” potrebbe cioè mettere fine all’attuale dittatura finanziaria della Troika, trasformando l’euro in moneta sovrana e la Bce in “prestatrice di ultima istanza”. Più prudente un economista come Emiliano Brancaccio, secondo cui è improbabile riuscire a strappare concessioni all’asse Berlino-Bruxelles senza prima mettere sul tavolo della vertenza argomenti decisivi e convincenti, come ad esempio l’uscita dell’Italia dal mercato comune europeo, a danno dell’export tedesco. Un’idea che ricorda la posizione bellicosa di Marine Le Pen: più che proporre un cambio di linea, il Front National – primo partito francese, secondo i sondaggi – minaccia addirittura l’uscita della Francia dall’Ue, cosa che metterebbe fine all’unione stessa.Sul “Manifesto”, la Spinelli prende nota degli auspici formulati da Stefano Fassina, che si augura un’inversione radicale di rotta sulla politica europea, ma poi non osa rompere col Pd, cioè il partito che ha sorretto il governo Monti, varato la riforma Fornero e votato il Fiscal Compact con l’inserimento (“consigliato”, ma non obbligatorio) del pareggio di bilancio in Costituzione – inserimento evitato dalla stessa Francia di Hollande. Il Pd – nel quale Fassina ancora milita – punta sul tedesco Martin Schulz per la presidenza della Commissione Europea? Male: Schulz si è appiattito sulle idee della Merkel e ha rifiutato gli eurobond per una politica europea più solidale. «Se c’è una certezza che anima oggi Schulz è la seguente: è da una Grande Coalizione social-conservatrice che dipende la sua aspirazione a essere eletto presidente dell’esecutivo europeo, o anche solo commissario». Inoltre, Fassina (e Civati) restano nel Pd di Renzi, un politico che si ispira apertamente a Tony Blair, cioè l’uomo che più di ogni altro ha «polverizzato» i valori identitari della sinistra, cioè l’uguaglianza e il bene pubblico.«Sostiene Stefano Fassina, e con ottime ragioni, che l’Eurozona è sulla rotta del Titanic: l’iceberg è sempre più vicino, l’Unione già è fratturata in più punti. Ma non nascondiamoci che a costruire una nave così malfatta, e a imboccare una rotta così rovinosa, c’è purtroppo la sinistra classica europea, e in prima fila il Pd», scrive Barbara Spinelli. «A partire dalla metà degli anni ‘90, la loro rotta è stata precisamente quella che ci ha portato a sbattere contro l’iceberg». Se dall’epoca Blair ha sinistra ha tradito i suoi elettori, «è all’elettorato in rivolta contro quest’involuzione che si rivolge la Lista Tsipras, oltre che a tutti gli europeisti insubordinati che – lo dicono i sondaggi – sono in Italia una grande maggioranza, presente in varie formazioni politiche, in iniziative e comitati cittadini, in gran parte dell’astensionismo». Con Renzi, «l’involuzione del Pd non subisce battute d’arresto». Che senso ha, dunque, restare in quel partito? Barbara Spinelli vede una possibile alleanza trasversale, a Strasburgo, tra sinistra radicale, Verdi, socialisti «contrari al patto con la destra», eurodeputati grillini e persino liberaldemocratici come Guy Verhofstadt.Fino a quando i Fassina resteranno nel partito renziano, sostiene Spinelli, sarà difficile sperare che dalle parole si possa passare ai fatti, specie «nel momento in cui assistiamo all’ennesimo fratricidio avvenuto dentro il Pd», ovvero «un fratricidio che ci riconsegna la formula delle Grande Intese, e un semplice cambio di maschera al vertice (la maschera di Renzi al posto di quella di Letta)». Conclusione: «Se da questo sconquasso e da questi sotterranei tradimenti nascerà a Strasburgo un accordo sulle linee prospettate da Fassina, sarà una di quelle “divine sorprese” di cui prenderemo atto, senza smettere di vigilare sulla coerenza tra parole e azioni». Per contro, Spinelli sembra davvero credere che basterà il nuovo Parlamento Europeo ad imporre la democratizzazione dell’Unione Europea. Scelte essenziali: la conversione dell’euro in moneta sovrana, la Bce costretta a fare da prestatrice agli Stati, la fine delle politiche di austerità, l’abbandono del Fiscal Compact e dello strapotere della Troika costituita da Commissione, Bce e Fmi. «No all’Europa delle Costituzioni violate e dei cittadini inascoltati, sì a un bilancio europeo in crescita, da utilizzare per piani di comuni investimenti in una ripresa economica ecosostenibile». Non ultimo, il no al Ttip, il Trattato Transatlantico in via di elaborazione, se in nome dell’interesse delle multinazionali Usa dovesse scavalcare «le norme e gli standard di qualità che l’Europa impone al commercio di prodotti nocivi alla salute e al clima, e la cura di servizi pubblici come acqua o energia».Barbara Spinelli, come gli altri promotori della lista Tsipras, spera davvero che bastino le prossime elezioni europee ad abbattere il regime del rigore che sta letteralmente devastando il Sud Europa: in caso di successo delle forze anti-austerity, un Parlamento Europeo “costituente” potrebbe cioè mettere fine all’attuale dittatura finanziaria della Troika, trasformando l’euro in moneta sovrana e la Bce in “prestatrice di ultima istanza”. Più prudente un economista come Emiliano Brancaccio, secondo cui è improbabile riuscire a strappare concessioni all’asse Berlino-Bruxelles senza prima mettere sul tavolo della vertenza argomenti decisivi e convincenti, come ad esempio l’uscita dell’Italia dal mercato comune europeo, a danno dell’export tedesco. Un’idea che ricorda la posizione bellicosa di Marine Le Pen: più che proporre un cambio di linea, il Front National – primo partito francese, secondo i sondaggi – minaccia addirittura l’uscita della Francia dall’Ue, cosa che metterebbe fine all’unione stessa.