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Archivio del Tag ‘sogni’

  • Uccidere, ma con amore: attenti al Vangelo secondo Biglino

    Scritto il 27/9/20 • nella Categoria: idee • (1)

    Sicuri che la Bibbia dica esattamente quello che la dottrina cattolica sostiene sia esplicitato, nelle sacre scritture? L’ultima sfida culturale di Mauro Biglino, traduttore di 19 libri dell’Antico Testamento per conto delle Edizioni San Paolo, parte dall’analisi del nuovissimo volume del “Catechismo della Chiesa cattolica”, edizione aggiornata con il nuovo testo sulla pena di morte. Un’analisi a puntate, proposta nella serie di video “Catechismo alternativo in pillole”, sul nuovissimo canale YouTube “Il vero Mauro Biglino“, aperto durante il lockdown: canale che, in pochi mesi, ha già collezionato un milione e mezzo di visualizzazioni e quasi 40.000 iscritti. In Italia e non solo, Biglino è un caso editoriale: ha all’attivo ormai 14 volumi, pubblicati da UnoEditori e da Mondadori, che mettono la Bibbia (o meglio, la sua interpretazione teologica) alla prova della verità: quella offerta dalla lettura testuale dall’ebraico antico, da cui si evince che il “dio” dell’Antico Testamento – meno potente dei “colleghi” assiri, egizi e romani – non era la sola “divinità” in circolazione, né era onnisciente e tantomeno infallibile. Biglino svela che, per la Bibbia, Yahwè è soltanto l’El dei giudei, un soggetto “diverso e distinto” dagli umani, né più né meno come gli altri 20 Elohim che compaiono nel testo antico.

  • Il silenzio dell’outsider, di fronte all’apocalisse in corso

    Scritto il 07/7/20 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    A volte succede di essere stanchi. Dopo un po’, anche i megafoni si stancano. Anche i veggenti, o anche i solo i testimoni oculari. Va così: è in arrivo un cataclisma, e i pochi che lo sanno in anticipo – magari perché ne sono coinvolti, in modo diretto o indiretto – si guardano bene dal dirlo. Qualche outsider se ne accorge, o almeno sospetta che stia avvenendo qualcosa di strano, e così comincia ad annunciarlo ad alta voce. Gli allarmi dell’outsider non è detto che siano precisi e attendibili, è sempre possibile prendere cantonate. Subito, però, la platea si divide. I detentori ufficiali della verità tacciono la notizia. La maggioranza ignora l’outsider o lo considera un pazzo, un esibizionista, non immaginando che l’outsider è il primo a sperare in cuor suo di essersi sbagliato: se ha parlato, l’ha fatto d’istinto; il suo non era nemmeno altruismo, era solo un riflesso di conservazione della specie – la necessità fisiologica di condividere una certa preoccupazione per un possibile pericolo. A quel punto, quando ormai i ruoli sono definiti, i detentori della parola ufficiale cominciano a menzionarlo, l’outsider, con un atteggiamento di sufficienza irridente: a che punto siamo arrivati, se ci sono in giro squilibrati di questa fatta?

  • Dylan parla dal futuro: sconfiggeremo tutto questo orrore

    Scritto il 28/6/20 • nella Categoria: Recensioni • (Commenti disabilitati)

    “Ho attraversato il Rubicone il quattordicesimo giorno, nel mese più pericoloso dell’anno, nel momento peggiore dei giorni più brutti. E’ tutto quello che vedo qui, ho fatto un voto così posso pregare il dio greco di mandare l’alba…”. C’è un senso di pericolo imminente, di stordimento collettivo ma anche di spietata difesa del proprio passato, dell’esperienza di un’intera esistenza, in “Rough and Rowdy Ways”, nuovo album di Bob Dylan (uscito il 19 giugno). Il titolo è un warning, un avvertimento ai poveri di spirito, agli arroganti, agli artisti, politici, intellettuali che non accettano cambi di guardia: i miei modi saranno ruvidi e turbolenti. E “Crossing the Rubicon” è uno di questi passaggi, con l’immagine terribile e solenne di “un fiume dove molte ceneri fluttuano nelle correnti”. Non era facile prevedere il Dylan del suo 79° anno, perché non siamo più abituati a una visione enciclopedica, a trovare la strada, il filo d’Arianna in un mondo prossimo al crollo, più per incapacità a reagire che per difetti strutturali. Crisi economica, pandemia, razzismo non giustificano per Dylan l’abdicazione a qualsiasi principio morale: “Io posso redimere il mio tempo, tempo così sprecato che alla fine potrei durare”.
    Armatevi di pazienza, un vocabolario, uno smartphone multifunzione, soprattutto astenetevi dall’improvvisarvi esperti in cultura, animatori dei sogni altrui: in dieci canzoni rugginose e fluenti come i grandi fiumi, Dylan spiega perché sapere e studiare, questa è per i più giovani, è l’unica difesa al dilagare di corruzione, violenza, odio. Non siamo più alle battaglie per i diritti civili di sessant’anni fa, e al “New York Times” Dylan confessa tutto il suo orrore per George Floyd «torturato a morte in quel modo». Si dice «nauseato». E proprio alla sua generazione, quella che doveva arginare le derive autoritarie e di totale disprezzo per l’individuo, raccomanda uno scatto d’orgoglio perché proprio le nuove generazioni «non vivendo alcun passato, tendono a credere a qualsiasi cosa. Il punto è che fra venti, trent’anni saranno in prima linea». È il punto centrale di questo album magistrale, irripetibile anche per un Nobel alla Letteratura negli anni a venire: quanto pesa il tempo e come condividerlo con più generazioni?
    “Rough and Rowdy Ways” non è un disco da esporre in un museo e far ascoltare a un singolo individuo per volta. La cultura non è mai divisiva, al contrario è una traversata del deserto; “Dio, sono in lotta, Dio, potrei sbagliarmi, viaggio nella luce e sono lento a tornare a casa”, canta in “Mother of Muses”, è il coraggio di mostrare debolezze e furori esemplari. “Questo è il regno della potenza e della gloria”, annuncia in “Goodbye Jimmy Reed”: “Racconta la vera storia, raccontala senza fronzoli, nelle ore mistiche quando le persone sono deboli”. Dylan non pubblicava un album di inediti da otto anni, quando “Tempest” si impose come una delle sculture guerriere tipiche di un amante di arti figurative. E il presagio di un mondo più debole che sfortunato faceva allusione al Titanic piuttosto che a John Lennon. Oggi Dylan esclude che le piaghe capitali che affliggono l’umanità, senza limiti geografici, abbiano un riferimento biblico. «Vorrebbe dire che ci tocca una punizione divina», afferma Dylan. «Certo, l’arroganza più estrema può generare effetti disastrosi. Forse siamo arrivati a un’epoca di distruzione, ma rimango convinto che tutto passerà».
    Ho qualche dubbio che operatori culturali da fast food, produttori e discografici assillati da picchi di follower e febbre gialla da social riescano a comprendere il tesoro inestimabile di “Rough and Rowdy Ways”, annunciato in pieno lockdown da “Murder Most Foul”, 17 minuti di ballata sulla morte di John F. Kennedy proiettata come un drone al primo posto in classifica, e poi da “I Contain Multitudes”, titolo di una splendida poesia di Walt Whitman, quindi da “False Prophet”. Tutto on line, mentre da noi i padri della patria della canzone, per non dire dei confusi nipotini rapper, non riuscivano proprio a cantare il loro tempo. Come se il tempo non te lo debba conquistare, per il semplice fatto che sei davvero un poeta. O un cantautore. O, appunto, una voce del futuro. Ma per avere un futuro, devi sapere come stare in equilibrio. Solo così puoi scrivere “il mio cuore è come un fiume, un fiume che affonda… vedo il sorgere del sole, vedo il tramonto”. E rimanere nell’arena a batterti. Però di Bob Dylan ne esiste uno solo.
    (Renato Tortarolo, “Ruvido e impetuoso, così Bob Dylan ci rimette in riga”, dal “Secolo XIX” del 13 giugno 2020. «Di questi giorni non ci sono buone notizie», ha dichiarato Dylan al “New York Times”. «Le buone notizie nel mondo di oggi sono come un fuggiasco, trattato come un bandito e messo in fuga. Per questo dobbiamo ringraziare i media: agitano la gente con pettegolezzi e biancheria sporca. Cattive notizie che deprimono e creano orrore». Quanto alla pandemia, per Dylan è «il precursore di qualcos’altro che sta per venire», ma non necessariamente una piaga biblica: «Significherebbe che nel mondo sta arrivando un castigo divino. L’estrema arroganza che porta punizioni disastrose. Forse siamo alla vigilia della distruzione. Ci sono molti modi per pensare al virus. Io penso che occorra lasciargli fare il suo corso»).

    “Ho attraversato il Rubicone il quattordicesimo giorno, nel mese più pericoloso dell’anno, nel momento peggiore dei giorni più brutti. E’ tutto quello che vedo qui, ho fatto un voto così posso pregare il dio greco di mandare l’alba…”. C’è un senso di pericolo imminente, di stordimento collettivo ma anche di spietata difesa del proprio passato, dell’esperienza di un’intera esistenza, in “Rough and Rowdy Ways”, nuovo album di Bob Dylan (uscito il 19 giugno). Il titolo è un warning, un avvertimento ai poveri di spirito, agli arroganti, agli artisti, politici, intellettuali che non accettano cambi di guardia: i miei modi saranno ruvidi e turbolenti. E “Crossing the Rubicon” è uno di questi passaggi, con l’immagine terribile e solenne di “un fiume dove molte ceneri fluttuano nelle correnti”. Non era facile prevedere il Dylan del suo 79° anno, perché non siamo più abituati a una visione enciclopedica, a trovare la strada, il filo d’Arianna in un mondo prossimo al crollo, più per incapacità a reagire che per difetti strutturali. Crisi economica, pandemia, razzismo non giustificano per Dylan l’abdicazione a qualsiasi principio morale: “Io posso redimere il mio tempo, tempo così sprecato che alla fine potrei durare”.

  • Un bell’oroscopo fai da te, in un questa Italia paranormale

    Scritto il 07/1/20 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Al prossimo che vi fa l’oroscopo minacciate di fargli la rettoscopia, con strumenti improvvisati. Così la smette. Non se ne può più di questi, e soprattutto queste, milioni di veggenti che non veggono un tubo ma si avventano sulla tua mano, sulla tua tazza di caffè, sui tuoi occhi e cercano di leggerti come sarà questo ventiventi. Ma fatevi gli astri vostri. Ti chiedono di che segno sei, se non lo sanno già, e cominciano a fare una previsione trionfale, invasiva e personalizzata, valevole per circa seicento milioni di viventi, ossia l’otto per cento dell’umanità, almeno se la dividiamo equamente per i dodici segni zodiacali. Questi oroscopi finto-personali, in realtà fondati sullo stoccaggio zodiacale, hanno la stessa affidabilità dei sorteggi. Fingono di conoscere i dettagli ma sono grossisti dell’astrologia. Cominciano a pontificare: voi leoni, voi tori e voi scorpioni… ma voi pappagalli che ne sapete? Denunciateli per razzismo, perché credono alla razza dei segni e discriminano sulla base delle etnie zodiacali. Questo non è un paese normale, ma paranormale, diffida delle leggi ma non degli oroscopi.
    Se siete esasperati da quest’ossessione degli oroscopi, in tv e sui giornali, nei salotti e nelle tavole, passate all’offensiva. In un primo tempo esibite l’articolo 231 del testo unico delle leggi di Pubblica sicurezza e recitate ai primi tentativi di veggenza: “Sotto la denominazione di mestiere di ciarlatano si comprende ogni attività diretta a speculare sull’altrui credulità o a sfruttare o alimentare l’altrui pregiudizio, come gli indovini, gli interpreti dei sogni, i cartomanti, coloro che esercitano giochi di sortilegio, incantesimi, esorcismi o millantano o affettano in pubblico grande arte… ecc.”  Poi, per non essere pedanti, cambiate strategia. Così, anziché farvi abusare dalle veggenti e subire passivamente operazioni zodiacali alle vostre spalle, bruciate sul tempo le maghette e spacciatevi voi per grandi conoscitori di astri, influssi e ascendenti. Forte della mia carnagione tropicale, io per esempio mi sono spacciato per Fidel Astro, mago affidabile, come dice il nome, e competente, come indica il cognome. Un vero lìder maximo dell’astrologia. Predite l’anno che verrà ai meravigliati astanti e alle affascinate, azzodiacate ascoltatrici a cui offrite oroscopate indimenticabili.
    Gli ingredienti per un oroscopo di successo sono facili: partite dall’autostima sconfinata delle persone, considerateli speciali, e predite un anno eccezionale, ricco di eventi e novità. Poi alludete a qualche inevitabile travaglio, qualche trauma infantile e qualche aspettativa covata dentro di loro. Andate sul sicuro. Dite poi che qualcuno gli vuole male perché tutti sono convinti che c’è qualcuno che gliela tira e se una cosa non gli riesce è perché qualcuno gufa. Persino i più sfigati si sentono vittime dell’invidia mentre fanno solo pena. Ma aggiungete che lui è protetto in alto, alludendo ai suoi cari scomparsi, così si commuoverà pensando a nonna o a papà che sorveglia dall’alto dei cieli. Alludete poi a tensioni sul lavoro, a incomprensioni in famiglia e a un superiore che ce l’ha con lui. Coglierete comunque nel segno. E poi dite che deve avere più fiducia nelle sue doti, che deve esplicitare i suoi sentimenti, e non farsi mai scavalcare nelle file dai soliti furbi perchè questo è un popolo di furbi ma vittimisti, dal capricorno al sagittario.
    Poi sfiziatevi sull’amore, i tradimenti e i nuovi incontri, perché tutti li temono o li aspettano, e promettete soldi con l’anno nuovo, tanto voi non ci rimettete niente. E vaticinate una grande svolta dopo luglio: crea momentanea attesa ma poi se la scordano. Miscelate in modo diverso questi ingredienti con varianti più lessicali che sostanziali adattando l’oroscopo alla faccia e alla mente del fesso; vi prenderanno per mago. I più fessi chiederanno dopo la predizione anche la raccomandazione astrologica; vediamo cosa posso fare. Intanto, per ingraziarsi gli astri, lasciate in questa improvvisata urna che i profani chiamano tasca, trecento euro per sacrificare un agnello, compiendo riti propiziatori… Morale della favola? Giocate con gli oroscopi, scherzate pure, non fanno male a nessuno se restano un modo frivolo per passare una mezza serata. Se vi fa bene, se vi dà sicurezza, sentirvi appartenenti a un partito zodiacale, fate pure, ma non imponete agli altri le vostre debolezze. Però poi non avete il diritto di considerare arretrati, rozzi e superstiziosi quelli che vanno da Padre Pio a chiedere i miracoli. E non avete il diritto di definirvi laici: chi non è credente così diventa credulone e pratica una religione infima, più primitiva e infantile delle antiche fedi.
    Personalmente sono pronto a riconoscere dignità alla sapienza di caldei, sciamani e di coloro che videro armonie nell’universo tra micro e macrocosmo. E sono convinto con Vico che le superstizioni, come gli oroscopi, siano estreme tracce superstiti di verità perdute nel tempo e ultimi tentativi di dare un senso al futuro. Lo dice la parola stessa superstizione. Gli oroscopi non sono menzogne ma parodie smemorate di scampoli di verità. Ma distinguete la luce dai fuochi fatui, la verità dalle sue contraffazioni, la grandezza dei sapienti dalla furbizia dei saccenti. Ci vorrebbe una sana ondata di miscredenza popolare contro la fede negli oroscopi. Un’ondata atea, iconoclasta e anticlericale verso i segni zodiacali e gli astrologi. Un mago pugliese una volta mi indovinò il passato, anziché il futuro; non so se si era prima documentato, ma fu bravo. Il suo nome d’arte è Juppiter, con due p, perché il mago conosce gli astri, ma non il latino. Gli avrei dato volentieri una mano, non per farmela leggere semmai per aiutarlo. Comunque niente contro i maghi e le megere. Se Conte è premier e Di Maio è ministro degli esteri, chiunque può passare per veggente, taumaturgo e astrivendolo.
    (Marcello Veneziani, “Consigli per un oroscopo faidate”, da “La Verità” del 2 gennaio 2020; articolo ripreso dal blog di Veneziani).

    Al prossimo che vi fa l’oroscopo minacciate di fargli la rettoscopia, con strumenti improvvisati. Così la smette. Non se ne può più di questi, e soprattutto queste, milioni di veggenti che non veggono un tubo ma si avventano sulla tua mano, sulla tua tazza di caffè, sui tuoi occhi e cercano di leggerti come sarà questo ventiventi. Ma fatevi gli astri vostri. Ti chiedono di che segno sei, se non lo sanno già, e cominciano a fare una previsione trionfale, invasiva e personalizzata, valevole per circa seicento milioni di viventi, ossia l’otto per cento dell’umanità, almeno se la dividiamo equamente per i dodici segni zodiacali. Questi oroscopi finto-personali, in realtà fondati sullo stoccaggio zodiacale, hanno la stessa affidabilità dei sorteggi. Fingono di conoscere i dettagli ma sono grossisti dell’astrologia. Cominciano a pontificare: voi leoni, voi tori e voi scorpioni… ma voi pappagalli che ne sapete? Denunciateli per razzismo, perché credono alla razza dei segni e discriminano sulla base delle etnie zodiacali. Questo non è un paese normale, ma paranormale, diffida delle leggi ma non degli oroscopi.

  • Niccolai, il fascista “eretico” che fece votare le idee del Pci

    Scritto il 03/11/19 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    «Ricordo una sera a Pisa, in una scalcagnata 500 guidata da un militante di Cecina, Altero Matteoli, divenuto poi ministro. Nel sedile posteriore, in condizioni disumane, sedevano attorcigliati Niccolai e Tatarella; benché ragazzo, mi avevano lasciato il posto davanti, come si usa per cavalleria con le donne, i disabili e gli intellettuali». Così lo scrittore, filosofo e politologo Marcello Veneziani ricorda Giuseppe Niccolai, esponente “eretico” del Msi, di cui a Pisa – sua città natale – la sinistra e l’Anpi ha appena contestato la memoria, dopo che il Comune, a trent’anni dalla sua morte, gli ha intitolato un piazzale. Chi era Niccolai? «Un politico galantuomo, un missino eretico che sognava di ricucire la ferita storica tra fascisti e comunisti e combattere insieme contro la mafia e il potere, i potentati economici e la servitù americana». “Beppe”, lo ricorda Veneziani, «fu un limpido marziano che visse nell’era ideologica integrale, il Novecento, assorbendo le sue passioni ma non i suoi livori». Quella volta a Pisa, Veneziani lo incontrò perché era in possesso di appunti inediti di Berto Ricci, altro «fascista eretico dalla mente lucida e il cuore puro», che poi furono pubblicati con la prefazione di Indro Montanelli. Sceso da quella Cinquecento, «Niccolai maneggiava i quaderni di Ricci con religiosa devozione».
    In principio, riassume Veneziani su “La Verità”, Niccolai fu tra i fondatori del Msi nel segno di “legge e ordine”. Poi si andò spostando verso una sinistra nazionale e “spirituale”, auspicando di ricucire la frattura del ’14 coi socialisti, spingendosi persino a quella del ’21 coi comunisti. «Non condivise però la linea di Pino Rauti di sfondare a sinistra; sognava altre sintesi». Niccolai morì il 31 ottobre dell’89, «nove giorni prima che cambiasse il mondo, col Muro crollato e la caduta del comunismo, e da noi la fine della Prima Repubblica». L’anno prossimo sarà il centenario della sua nascita. «Quando morì, Niccolai lasciò un vuoto», scrive Veneziani, «ma era lo stesso vuoto che lo circondava quando era in vita». “Beppe” dissentiva da Almirante, e spesso era all’opposizione nell’opposizione, distante pure da Rauti. «L’avevano sistemato in una teca, con l’etichetta di coscienza critica, per venerarlo e accantonarlo». Conoscendolo, «era amabile e inquieto, tutt’altro che un fascistone prepotente con le certezze granitiche, in bianco e nero». Fascista, Niccolai lo era stato davvero, «ma sulla sua pelle: volontario in Africa, e poi – per fedeltà al suo fascismo, prigioniero degli americani nel “fascist criminal camp” ad Hereford, come l’artista Alberto Burri, lo scrittore Giuseppe Berto e Roberto Mieville, futuro capo dei giovani missini della prima ora».
    A Pisa, continua Veneziani, Niccolai fu l’antagonista storico di Adriano Sofri, che mobilitò Lotta Continua per impedire un suo comizio il 5 maggio del ’72. «Negli scontri con la polizia morì un anarchico, Serantini, e anche per vendicare lui pochi giorni dopo fu ucciso Calabresi. Ma Niccolai difese il “nemico” Sofri quando fu accusato d’omicidio», aggiunge Veneziani. Da parlamentare, l’amico “Beppe” «fece memorabili interventi in commissione antimafia contro le collusioni politiche, soprattutto democristiane, e fu elogiato anche da Leonardo Sciascia, allora parlamentare di sinistra». Non solo: «Denunciò le stragi e le responsabilità dei servizi segreti; e riuscì a scucire la verità ai magistrati veneziani sull’aereo Argo 16 della nostra aeronautica abbattuto dagli israeliani nel novembre del ’73 a Venezia uccidendo i militari italiani a bordo, accusati di aver salvato alcuni terroristi arabi che preparavano un attentato a un aereo di linea israeliano». Un’operazione filo-araba, condotta dall’allora ministro degli esteri Aldo Moro (cinque anni più tardi “sistemato” con l’opaca operazione terroristica affidata alle Brigate Rosse).
    A Niccolai, Veneziani era accomunato «dal gusto ardito dell’eresia e dalla rivoluzione conservatrice, da amici comuni come Giano Accame e il pisano Gino Benvenuti». Si scoprirono entrambi «figli di presidi di liceo, cresciuti con una buona biblioteca in casa». Quando Veneziani fu silurato dall’editoria di destra per le sue simpatie verso il socialismo tricolore di Craxi, Niccolai scrisse un pezzo solidale sul suo foglio, “L’Eco della Versilia”, e ribadì la sua protesta al congresso missino di Sorrento nel 1987, «dove fu la voce stonata nel congedo di Almirante dalla guida del Msi». Non era un vecchio arnese, Niccolai: «Nell’Msi fu con l’ala modernizzatrice di Mimmo Mennitti: voleva aprire il ghetto missino, dialogare col Craxi patriota e sognava di ricucire con la sinistra». Raccontava che l’ultimo Mussolini aveva raccomandato ai suoi fedelissimi: «Se crolla il fascismo, seguite Pietro Nenni». Veneziani lo ricorda come «uno spirito critico e appassionato, pensante e romantico, magari impolitico». Nel 1988 fu espulso dal Msi: aveva fatto votare alla direzione del partito un ordine del giorno contro i potentati economici. Solo più tardi si seppe che quel documento l’aveva ripreso, pari pari, da una relazione del comitato centrale del Pci. «Niccolai raccontò al “Corriere della Sera” la beffarda verità, e Fini lo cacciò perché all’epoca aveva orrore delle contaminazioni con la sinistra». Ma il suo scopo non era goliardico, assicura Veneziani: non voleva prendere in giro il suo partito, ma dimostrare che i pregiudizi ideologici impediscono convergenze su temi condivisi. «Era un marziano allora, figuratevi ora. Ad avercene…».

    «Ricordo una sera a Pisa, in una scalcagnata 500 guidata da un militante di Cecina, Altero Matteoli, divenuto poi ministro. Nel sedile posteriore, in condizioni disumane, sedevano attorcigliati Niccolai e Tatarella; benché ragazzo, mi avevano lasciato il posto davanti, come si usa per cavalleria con le donne, i disabili e gli intellettuali». Così lo scrittore, filosofo e politologo Marcello Veneziani ricorda Giuseppe Niccolai, esponente “eretico” del Msi, di cui a Pisa – sua città natale – la sinistra e l’Anpi ha appena contestato la memoria, dopo che il Comune, a trent’anni dalla sua morte, gli ha intitolato un piazzale. Chi era Niccolai? «Un politico galantuomo, un missino eretico che sognava di ricucire la ferita storica tra fascisti e comunisti e combattere insieme contro la mafia e il potere, i potentati economici e la servitù americana». “Beppe”, lo ricorda Veneziani, «fu un limpido marziano che visse nell’era ideologica integrale, il Novecento, assorbendo le sue passioni ma non i suoi livori». Quella volta a Pisa, Veneziani lo incontrò perché era in possesso di appunti inediti di Berto Ricci, altro «fascista eretico dalla mente lucida e il cuore puro», che poi furono pubblicati con la prefazione di Indro Montanelli. Sceso da quella Cinquecento, «Niccolai maneggiava i quaderni di Ricci con religiosa devozione».

  • Greta recita: sta minacciando personalmente ognuno di noi

    Scritto il 28/9/19 • nella Categoria: idee • (5)

    Dovete consumare di meno (voialtri, non loro lassù). E dunque: rassegnatevi alla precarietà, all’esclusione sociale. E sentitevi in colpa, se avete appena cambiato il frigo e osato concedervi una vacanza. Dovete smettere, punto e basta. A chi parla, Greta Thunberg? A noi, le vittime dei suoi burattinai. Fino a ieri, la giovanissima attrice svedese si limitava a mormorare, dispensando saggezza dall’alto dei suoi 16 anni. Oggi ha cambiato passo: intima, minaccia, insolentisce. Le hanno messo a disposizione addirittura la platea della Nazioni Unite, per esibirsi nel suo nuovo spettacolo. Una viperetta tracotante, livida: ne saranno felcissimi, gli azionisti del suo business. In primis, a brindare è la filiera industriale delle energie rinnovabili, con la potente macchina di propaganda ben oliata dall’oligarca Al Gore, ex vice di Clinton, l’uomo che ha scatenato la finanza-canaglia globalizzata. Ma in generale, nel mirino della piccola fiammiferaia svedese (ovvero, dei suoi sceneggiatori) c’è suprattutto il famoso 99% dell’umanità, o meglio ancora dell’Occidente, il “primo mondo” che era benestante e che si è improvvisamente impoverito proprio mentre l’economia mondializzata ha moltiplicato in modo esponenziale il Pil finanziario dei decenni precedenti la caduta del Muro di Berlino.
    Il grande artefice del disgelo, Mikhail Gorbaciov, sognava un mondo senza più guerre. Sfrattato dal Cremlino, ha visto l’Urss smembrata e la Russia brutalmente privatizzata e saccheggiata. Ma il colpo da maestro degli strateghi del globalismo a mano armata è stato permettere alla Cina di entrare nel gioco planetario con merci prodotte sottocosto, grazie anche a condizioni schiavistiche di lavoro, senza le tutele sindacali di Europa e Usa. In pochi anni il mondo è esploso, insieme al suo fatturato, in una sorta di festa truccata: l’europeo e l’americano medio hanno perso terreno, hanno smesso di crescere in termini di benessere, hanno cominciato a intaccare i risparmi familiari e a dover mantenere i figli senza lavoro, costretti a non sposarsi o a emigrare all’estero. Devastante il fenomeno delle delocalizzazioni, la fuga delle industrie nei paesi asiatici dove l’operaio costava un dollaro al giorno. In Europa – vero laboratorio mondiale del suicidio tecnocratico della democrazia – la truffa neoliberale ha indossato la maschera austera e perbenista dell’ordoliberismo autoritario, l’ipocrita moralismo del guru austriaco Friedrich von Hayek: l’illuminato economista concepiva il welfare (ridotto a poche briciole, s’intende) solo come misura estrema e preventiva per cautelarsi dalla rivolta delle masse impoverite.
    Agli italiani, personaggi come Ciampi e Prodi avevano presentato l’Ue e l’Eurozona come il paradiso, il regno dell’età dell’oro. Dopo meno di vent’anni non restano che macerie, nazioni che si guardano in cagnesco e che si fanno le scarpe appena possono, mentre il Belpaese (depredato, secondo i piani) ha perso il 25% del suo potenziale industriale. L’Europa intera ha assistito senza muovere un dito alla macellazione senza anestesia del popolo greco: cos’avrebbe da dire, Greta Thunberg, ai sopravvissuti della Grecia che si sono visti scippare il Pireo e gli aeroporti, chiudere i bancomat, tagliare i salari, ridurre le pensioni fino alla soglia della fame? Cicale irresponsabili, quelle che hanno assistito alla morte dei neonati, nei loro ospedali, per mancanza di medicine? Spendaccioni scellerati, i greci, che oggi devono vedersela con piaghe che si credevano sepolte dalla storia, come la malnutrizione infantile? E’ sconcertante la consonanza fra le parole di Greta e quelle degli oligarchi europei che hanno messo la Grecia in ginocchio, accusandola di aver abusato del debito pubblico. La canzone – vagamente nazista – è sempre la stessa: la colpa è vostra, peggio per voi.
    La Thunberg, si sa, è una pedina importantissima della grande manipolazione mediatica sul “climate change”, ovvero la teoria – non suffragata scientificamente – secondo cui il surriscaldamento globale (peraltro appena contestato all’Onu da 500 scienziati) sarebbe di origine antropica. Sommessamente, qualche anno fa, il fisico Carlo Rubbia, Premio Nobel, ricordava che, ai tempi dell’Impero Romano, le temperature medie erano superiori a quelle di oggi. Nel solo medioevo, come gli storici sanno, si è passati dalla mini-glaciazione (che d’inverno congelava il Tamigi e la Senna, attraversabili camminando) al grande caldo del periodo basso-medievale, con colture mediterranee come l’ulivo diffuse ovunque nel Nord Italia. Ancora nom c’era neppure la macchina a vapore, figurarsi le emissioni velenose delle odierne megalopoli. L’inquinamento è tangibile e pericoloso, quello sì: negli oceani galleggiano isole di plastica vaste quanto continenti. Come è possibile che non si impieghi la tecnologia necessaria a bonificare la Terra e riconvertire ecologicamente l’industria? E soprattutto: perché – in primis – i padroni dell’universo che muovono i fili della marionetta Greta vogliono, a tutti i costi, colpevolizzare noi per quanto sta accadendo, raccontandoci addirittura che il degrado della biosfera altera il clima del pianeta?
    E’ tutto talmente surreale da sembrare comico, se non fosse per il caos sanguinoso che sfiora o assedia miliardi di esseri umani. Il cielo è vistosamente coperto dalle emissioni aeree della geoingegneria (guai a chiamarle scie chimiche), mentre l’aviazione Usa ammette, di colpo, che i piloti dei jet sono frastornati dai continui avvistamenti di Ufo. Il Medio Oriente non fa più notizia, eppure dovrebbe: non si è ancora spenta l’eco del terrore scatenato dal sedicente Stato Islamico, protetto e armatissimo da precisi settori dell’intelligence atlantica prima dell’elezione di Trump alla Casa Bianca. Gli stregoni della finanza oggi hanno paura: temono un crollo catastrofico dell’economia fittizia gonfiata dalla speculazione. Mario Draghi smentisce integralmente la sua vicenda professionale e arriva a evocare addirittura la Modern Money Theory, cioè la restituzione della sovranità monetaria agli Stati, mentre Christine Lagarde, in uscita dal Fmi e diretta alla Bce, parla apertamente degli eurobond che metterebbero fine all’incubo dello spread, consentendo all’economia europea di tornare a investire e produrre lavoro. Sono voci frammentarie di élite potentissime che oggi appaiono divise e lacerate da faglie profonde, come quella che oppone il governo Usa al cartello Rothschild, ora schierato con Silicon Valley e con la Cina, pronto a sostituire il dollaro con un’altra possibile valuta internazionale, come propone la Bank of England.
    I segnali non sono rassicuranti, c’è chi teme un collasso che potrebbe spalancare scenari di guerra. Nell’Italia che assiste alla strage indiscriminata di alberi d’alto fusto, tagliati per fare spazio al misterioso 5G (vera incognita, per la salute), i genitori si rassegnano a sottoporre i bambini a vaccinazioni improvvisamente obbligatorie, somministrate in batteria – oggi ai neonati e forse domani anche agli adulti, pena la pedita del passaporto e della patente di guida come in Argentina? Ma non importa, evidentemente, se in tanti battono le mani alla piccola strega Greta Thunberg, che recita a soggetto davanti alle Nazioni Unite puntando il dito contro tutti noi. Un’intimidazione ad personam, minacciosa e sinistra: guai a voi, branco di incoscienti. Come osate continuare a sperare di migliorare la vostra vita? Musica, per le orecchie dei tagliatori di bilanci. Nulla che possa impensierire le major, gli oligarchi, le multinazionali. Greta ce l’ha con noi, con ognuno di noi: punta a far crescere il nostro senso di colpa, quello del giovane che sogna l’auto nuova, del pensionato che fatica ad arrivare alla fine del mese. Grazie a Greta, i cialtroni dell’austerity – da Palazzo Chigi alla Commissione Ue – potranno accanirsi sul popolo bue con meno scrupoli, specie se l’economia mondiale volgerà al peggio. Nuovi sacrifici in vista? Niente paura, in soccorso ai lestofanti arriva la lezione della piccola attrice svedese: soffrire è giusto, ce lo meritiamo.

    Dovete consumare di meno (voialtri, non loro lassù). E dunque: rassegnatevi alla precarietà, all’esclusione sociale. E sentitevi in colpa, se avete appena comprato lo smartphone ultimo modello e avete osato concedervi una bella vacanza. Dovete smettere, punto e basta. A chi parla, Greta Thunberg? A noi, le vittime dei suoi burattinai. Fino a ieri, la giovanissima attrice svedese si limitava a mormorare, dispensando saggezza dall’alto dei suoi 16 anni. Oggi ha cambiato passo: intima, minaccia, insolentisce. Le hanno messo a disposizione addirittura la platea della Nazioni Unite, per esibirsi nel suo nuovo spettacolo. Sembra una viperetta tracotante, livida: ne saranno felicissimi, gli azionisti del suo business. In primis, a brindare è la filiera industriale delle energie rinnovabili, con la potente macchina di propaganda ben oliata dall’oligarca Al Gore, ex vice di Clinton, l’uomo che ha scatenato la finanza-canaglia globalizzata. Ma in generale, nel mirino della piccola fiammiferaia svedese (ovvero, dei suoi sceneggiatori) c’è soprattutto il famoso 99% dell’umanità, o meglio ancora dell’Occidente, il “primo mondo” che era benestante e che si è improvvisamente impoverito proprio mentre l’economia mondializzata ha moltiplicato in modo esponenziale il Pil finanziario dei decenni precedenti la caduta del Muro di Berlino.

  • Giulietto Chiesa: incombe una rivoluzione, come attuarla?

    Scritto il 06/9/19 • nella Categoria: idee • (20)

    Da tempo ho capito che quello che si sogna è quello che si spera, ma che in politica non si deve sognare. Siamo di fronte a un popolo confuso e inquieto, da troppo tempo sballottato e insultato, che ha perduto anche le sue speranze. Un popolo che non ha gli strumenti per capire, senza guida. Nemmeno quella della propria coscienza, perché anche la sua coscienza è stata corrotta. Perché – come ha scritto Antonio Scurati nel suo davvero memorabile “M” – sono troppi i nostri contemporanei ad essere «sopraffatti da un’esistenza che non capiscono». Dunque occorre prudenza per giudicare un popolo, grande di numero, e per proporsi di aiutarlo a discernere il bene dal male. È vero, verissimo, che non c’è una guida, un partito, un movimento che lo guidi e lo difenda, questo nostro popolo. Ma la constatazione porta con sé la domanda: come si fa a creare questa guida? E l’altra domanda: è ancora possibile? Questo è il punto. La mia risposta, personale, è che sia ancora possibile. Ma richiede quella che Antonio Gramsci individuava come una necessità imprescindibile: una profonda «riforma intellettuale e morale» del nostro paese. È un compito da far tremare le vene ai polsi, perché richiede uomini nuovi, intrepidi, competenti e saggi, che non vedo all’orizzonte.
    Quindi il primo compito, per chi ragiona come me, è quello di individuarli, censirli, convincerli a camminare insieme: perché solo in questo modo si potrà creare una massa critica sufficiente a rovesciare il corso delle cose. Queste donne e uomini ci sono; non sono numerosissimi, ma ci sono. Sono in gran parte isolati e fuori dalla politica (e sono tali proprio perché la politica attuale li esclude e li isola, temendoli). Il fatto più serio, tuttavia, è che non c’è ormai quasi nulla che possa unirli. Non c’è una visione comune della crisi epocale in cui viviamo. Che non è “italiana”, né “europea” soltanto. È mondiale, è globale, è universale. Per essere compresa richiede nuovi paradigmi, visto che quelli vecchi sono ormai inutilizzabili. Il mondo brucia e il tempo stringe. Dunque quello che manca è una comune interpretazione della crisi, che è crisi dell’Uomo e della sua collocazione nell’Universo. È questo quello che manca e che, a mio avviso dev’essere costruito. Non ri-costruito, ma proprio costruito. Senza questo passaggio non ci può essere alcun movimento o partito capace di avviare la trasformazione. Si resterà divisi, ciascuno a contemplare il proprio tassello di sapere. Che, in quanto tale, sarà inutile.
    È una rivoluzione quella che incombe. Senza una teoria, non sarà possibile compierla. Altrimenti essa non sarà certamente guidata dall’Uomo, perché sarà immensamente più vasta e potente di lui. All’uomo resterà il compito di comprenderla, se ne sarà capace, e di adattarvisi, se vuole sopravvivere. Ecco perché ci vuole adesso molta pazienza e umiltà, per cominciare a costruire quello che manca. La politica farà il suo corso miope e superficiale, ma non potrà affrontare quello che incombe. Ecco perché non credo alla fretta, alle fughe in avanti, alle speranze senza fondamento, a una palingenesi rapida e indolore. Penso che l’impatto con forze enormi, che l’Uomo ha evocato irresponsabilmente, provocherà dolori immensi e aiuterà a temprare gli spiriti molli che questa società umana ha lasciato putrefare. Il che significa rimboccarsi le maniche e mettere ordine nelle nostre idee, prima di tutto. Solo dall’ordine, dalla saggezza e dalla solidarietà tra sapienti e popolo può venire il riscatto.
    (Giulietto Chiesa, estratto del post “E’ una rivoluzione quella che incombe. Senza una teoria, non sarà possibile compierla”, pubblicato su “Megachip” il 1° settembre 2019. Il testo integrale, in risposta a una lettera di Enrico Sanna, si apre con una citazione biblica dal Libro dei Re: “Concedi al tuo servo un cuore prudente, capace di giudicare il tuo popolo innumerevole e discernere il bene dal male”).

    Da tempo ho capito che quello che si sogna è quello che si spera, ma che in politica non si deve sognare. Siamo di fronte a un popolo confuso e inquieto, da troppo tempo sballottato e insultato, che ha perduto anche le sue speranze. Un popolo che non ha gli strumenti per capire, senza guida. Nemmeno quella della propria coscienza, perché anche la sua coscienza è stata corrotta. Perché – come ha scritto Antonio Scurati nel suo davvero memorabile “M” – sono troppi i nostri contemporanei ad essere «sopraffatti da un’esistenza che non capiscono». Dunque occorre prudenza per giudicare un popolo, grande di numero, e per proporsi di aiutarlo a discernere il bene dal male. È vero, verissimo, che non c’è una guida, un partito, un movimento che lo guidi e lo difenda, questo nostro popolo. Ma la constatazione porta con sé la domanda: come si fa a creare questa guida? E l’altra domanda: è ancora possibile? Questo è il punto. La mia risposta, personale, è che sia ancora possibile. Ma richiede quella che Antonio Gramsci individuava come una necessità imprescindibile: una profonda «riforma intellettuale e morale» del nostro paese. È un compito da far tremare le vene ai polsi, perché richiede uomini nuovi, intrepidi, competenti e saggi, che non vedo all’orizzonte.

  • Nasce il Psai: basta rigore, la rivoluzione che serve all’Italia

    Scritto il 13/7/19 • nella Categoria: segnalazioni • (12)

    La Commissione Europea? Abolita. E allora chi governa l’Europa? Un esecutivo finalmente normale, votato dal Parlamento Europeo, democraticamente eletto. E la Bce? Deve cambiare il suo mandato: dovrà creare lavoro, sotto la direzione della politica, e non badare più soltanto alla stabilità dei prezzi per contenere l’inflazione. E il pareggio di bilancio imposto da Monti? Va eliminato subito dalla Costituzione italiana. Di più: bisogna creare la piena occupazione, grazie a un’agenzia speciale per il lavoro, in ogni caso limitato a 35 ore settimanali e remunerato con salari dignitosi. E ancora: ci spetta un reddito universale (per tutti, anche per chi un lavoro ce l’ha già). Cos’è, uno scherzo? No: è la bozza programmatica del Psai, cioè il “Partito che serve all’Italia”. L’aggettivo “rivoluzionario” suona persino eufemistico. Siamo di fronte all’eresia pura, all’utopia. Letteralmente: non esiste, oggi, un posto così. Sarebbe un paradiso. E noi siamo ormai abituati all’inferno ordinario nel quale siamo stati sprofondati poco alla volta, a colpi di austerity e neoliberismo selvaggio spacciato per legge divina (“ce lo chiede l’Europa”, quella del “pilota automatico” che privilegia i soliti super-poteri finanziari, che usano i loro burattini all’Ue per trasformare in legge il loro business privato).
    Cos’è, allora, questa specie di Rivoluzione della Felicità? Un diversivo letterario? Ma no, dicono i fautori del Psai: si può fare. “The impossible, made possible”. Parola di Nino Galloni, uno dei cervelli dell’esperimento. Cos’è mancato, finora? Una sola qualità, fondamentale: il coraggio politico. Ecco perché nasce, il Psai. Riassunto delle puntate precedenti: fino all’altro ieri (Berlusconi & Prodi, poi Monti e il pallido Letta, quindi l’illusione Renzi e l’avatar Gentiloni) sarebbe stato “lunare” mettere in discussione il predominio della finanza speculativa, mascherato dietro l’oligarchia Ue. Le ostilità le hanno aperte un anno fa i gialloverdi, i 5 Stelle e soprattutto la Lega. Poi però il governo Conte – frenato da Mattarella, Bankitalia e tutto l’eterno establishment italiano telecomandato dall’estero – ha ridotto l’esecutivo alla caricatura di se stesso, almeno stando alle promesse della vigilia. In mano a Di Maio (e Tria), lo sbandierato “reddito di cittadinanza” è diventato una barzelletta, mentre Salvini si costringe ad alzare la voce contro la “capitana” di turno, nella speranza di far dimenticare la pietosa figura rimediata a Bruxelles: prima il “niet” all’espansione del deficit, poi la minaccia della procedura d’infrazione per far ingoiare all’Italia la sua ennesima esclusione dal bunker-Europa, presidiato da Merkel e Macron e ora affidato alle due maschere di turno del Trattato di Aquisgrana, la francese Christine Lagarde e la tedesca Ursula Von del Leyen.
    Passi avanti, da parte dell’Italia? Uno: la consapevolezza, ormai acquisita, che questa Unione Europea – fatta così – è un clamoroso imbroglio. Non si spiega altrimenti, alle elezioni e nei sondaggi, il successo della Lega: un voto sulla fiducia, nella speranza che un giorno possa fare davvero qualcosa, per il paese, l’unico partito che ha avuto il fegato di spedire in Parlamento Bagnai e Borghi, e a Strasburgo Antonio Maria Rinaldi. In altre parole: s’è capito che è ora di sfrattare Friedman, von Hajek e gli altri cantori del totalitarismo neoliberista, recuperando la lezione di Keynes. O lo Stato torna a investire a deficit, o dell’Italia – senza soldi – non resterà più nulla. Parola d’ordine: inversione radicale della rotta, cestinando quarant’anni di falsi dogmi – il peggiore, la famosa “austerity  espansiva” coniata a Harvard (più tagli, più cresci), ha fatto ridere il mondo: i conti di Kenneth Rogoff, sommo sacerdote del rigore, erano vergognosamente errati, sbagliatissimi. E’ vero il contrario: più spendi, più cresci. Si chiama: moltiplicatore della spesa pubblica. Se spendi 100 in termini di deficit strategico, puoi arrivare a produrre anche 300, in termini di Pil. Lo sanno tutti, da Draghi alla Commissione Ue, ma fingono di non saperlo. E obbligano l’Italia a restare in una situazione tragica di “avanzo primario”, ovvero: da decenni, lo Stato incassa (con le tasse) più di quanto spenda per i cittadini. Il che equivale al suicidio dell’economia nazionale.
    Lo sa anche Salvini, naturalmente, così come Borghi, Bagnai e Rinaldi. Il problema? Finora la Lega ha abbaiato, ma senza mordere. Attenuanti? Svariate: appena i leghisti si muovono, qualche magistrato li blocca. E Armando Siri, l’ideologo della Flat Tax, è stato rottamato per via giudiziaria (pur essendo solo indagato) col benservito dei 5 Stelle, ormai nel panico per aver disatteso qualsiasi promessa elettorale. E dunque, che fare? Elementare: un nuovo partito. Un altro? Ebbene sì, ma diverso: generato dal basso, da gruppi e associazioni. Il primo e unico partito capace di sviluppare una piattaforma democratica di tipo rivoluzionario, in grado di rovesciare – in modo strutturale – tutte le premesse (bugiarde) su cui si fonda il rigore europeo. Galloni, coraggioso economista post-keynesiano, è fra i cervelli dell’operazione. Era consulente del governo quando l’Italia tentava di limitare i danni dell’imminente Trattato di Maastricht, prima che Mani Pulite spazzasse via Craxi e Andreotti. Il cancelliere Kohl arrivò a reclamarne l’allontanamento. Che c’entrava, la Germania? Aveva preteso lo scalpo industriale dell’Italia, sua maggiore concorrente, in cambio della rinuncia al marco, richiesta dalla Francia come viatico per il via libera di Parigi alla riunificazione tedesca. Da allora, l’inevitabile: crisi su crisi. Ma ora basta, dice Galloni, insieme agli altri promotori del Psai (assemblea costituente a Roma il 14 luglio: data non casuale, anniversario della Rivoluzione Francese).
    E la rivoluzione del “Partito che serve all’Italia”? Altrettanto eversiva: si tratta di abbattere il nuovo Ancien Régime fondato a Bruxelles, che ha instaurato l’attuale “nuovo feudalesimo”, col risultato di deprimere più di mezza Europa, Grecia e Italia in testa. Il traguardo numero uno dei nuovi aspiranti rivoluzionari? Ovvio: abbattere l’austerity europea per salvare l’Italia dalla crisi (e ridare dignità all’Europa, su base finalmente democratica). Centrali i temi economici. Prima bomba: creare una banca interamente pubblica, per introdurre «una moneta parallela sovrana e non a debito, non convertibile fino al 3% del Pil, con l’obiettivo di rilanciare l’economia senza generare debito». Proprio grazie alla leva monetaria, sostiene il Psai, potrà agire in modo incisivo «un Alto Istituto per la Piena Occupazione, incaricato di dare lavoro ai disoccupati». Altra bomba: se fosse al governo, il Psai introdurrebbe un “reddito universale”, destinato a tutti, da adattare annualmente in base all’andamento dell’economia. Reddito vero, «da aggiungersi al normale salario già percepito». Altro che il reddito-burletta elemosinato da Di Maio. Premessa imprescindibile : «Eliminare il pareggio di bilancio dalla Costituzione». E poi, creare un’agenzia di rating indipendente da Wall Street, «che renda noti e credibili i criteri di giudizio riguardo gli asset patrimoniali e il debito pubblico e privato», sottraendo l’Italia alle consuete pressioni da parte della grande speculazione.
    L’affondo, rispetto al mondo finanziario, è frontale: «Vogliamo riformare il sistema bancario e introdurre in Italia una legge simile al Glass-Steagall Act», si legge nella bozza programmatica del Psai. Obiettivo: «Separare l’attività delle banche commerciali e quella delle banche d’affari», mettendo al sicuro i risparmi degli italiani e il credito destinato alle aziende. Fu Roosevelt a imporre il Glass-Steagall Act, per salvare l’America dalla Grande Depressione innescata dalle bolle finanziarie. E fu Bill Clinton ad abolirlo, dopo mezzo secolo (e lo scandalo Lewinsky), per la gioia di Wall Street. Non ha nessuna timidezza, il nascente “Partito che serve all’Italia”, neppure di fronte ai maggiori simboli del potere economico mondiale: vorrebbe «obbligare le multinazionali a replicare a livello nazionale le strutture organizzative globali», per mettere fine alla piaga dello sfruttamento, dei licenziamenti facili e delle delocalizzazioni. Programma folle? Certo, in giro non s’era mai sentito niente di simile: roba da far cadere dalla sedia qualsiasi conduttore televisivo. Il piglio, “garibaldino”, ricorda epoche lontane come gli anni ruggenti, sfrontati e coraggiosi dell’Italia di Enrico Mattei, che infatti poi riuscì a stupire il mondo.
    Eppure, ragiona Galloni, non c’è altro da fare: cambia tutto, se l’Italia trova finalmente la forza di rigettare l’austerity, recuperando sovranità e capacità di spesa. Ridiventa un mercato appetibile per gli investimenti produttivi, ma soprattutto rianima la domanda interna, l’occupazione, i consumi. In alre parole: riaccende il futuro. Si può fare, dunque? La risposta è sì, per il Psai. Il motore? La moneta parallela: basta a garantire lavoro e investimenti, restituendo agli italiani i loro diritti. Per esempio: età pensionabile non superiore ai 65 anni, orario lavorativo di sole 35 ore settimanali, salario minimo garantito e drastica riduzione delle tasse, anche per i pensionati. L’Iva? Ridotta al minimo per i beni essenziali. Già, ma l’Europa? Ecco, appunto: il Psai propone «un radicale ripensamento dell’attuale Disunione Europea». Come? Restituendo sovranità ai popoli europei: «Occorre attribuire al Parlamento Europeo il potere legislativo, abolendo la Commissione Europea». Il Psai parla anche di «promozione dell’elezione diretta del presidente del Consiglio Europeo, per renderlo indipendente dall’influenza di singoli paesi, o gruppi di paesi». Non è tutto: oltre a eleggere un nuovo governo europeo, finalmente sovrano e legittimato dal voto, il Parlamento di Strasburgo dovrebbe ottenere «la competenza sulle politiche monetarie», attualmente appannaggio della Bce.
    La stessa banca centrale – almeno, nel libro dei sogni che il Psai sembra prendere molto sul serio – dovrebbe essere sottoposta a una revisione completa del suo mandato: la Bce «va legata al potere politico, cambiando la sua “mission”: dovrà preoccuparsi di creare piena occupazione». Quanto all’euro, la valuta comune «è da convertire in una moneta contabilmente trasparente, sovrana e in grado di rilanciare l’economia senza generare debito». In altre parole, il Psai chiede di ridiscutere integralmente i trattati europei, ritenendoli «lesivi del diritto di autodeterminazione dei popoli e della dignità della persona umana». Insomma, robetta da niente. Illusioni? Miraggi? Non per i promotori del “Partito che serve all’Italia”, la cui scommessa è palese: creare la prima piattaforma rivoluzionaria che si sia mai vista, dalla nascita dell’Unione Europea, per tentare di dire finalmente le cose come stanno, proponendo inoltre soluzioni pratiche (estremamente sensate) per uscire dal tunnel. Una road map, destinata al giudizio degli elettori. Di più: un nuovo alfabeto, per demifisticare l’economicismo miserabile che ha oscurato la politica, riducendola al piccolo derby tra avversari apparenti, destinati – comunque si voti – a eseguire gli ordini dell’eterno “pilota automatico”, in realtà manovrato dall’oligarchia del denaro che sta impoverendo l’intero continente.

    La Commissione Europea? Va abolita. E allora chi governa l’Europa? Un esecutivo finalmente normale, votato dal Parlamento Europeo, democraticamente eletto. E la Bce? Deve cambiare il suo mandato: dovrà creare lavoro, sotto la direzione della politica, e non badare più soltanto alla stabilità dei prezzi per contenere l’inflazione. E il pareggio di bilancio imposto da Monti? Va eliminato subito dalla Costituzione italiana. Di più: bisogna raggiungere la piena occupazione, grazie a un’agenzia speciale per il lavoro, in ogni caso limitato a 35 ore settimanali e remunerato con salari dignitosi. E ancora: ci spetta un reddito universale (per tutti, anche per chi un lavoro ce l’ha già). Cos’è, uno scherzo? No: è la bozza programmatica del Psai, cioè il “Partito che serve all’Italia”. L’aggettivo “rivoluzionario” suona persino eufemistico. Siamo di fronte all’eresia pura, all’utopia. Letteralmente: non esiste, oggi, un posto così. Sarebbe un paradiso. E noi siamo ormai abituati all’inferno ordinario nel quale siamo stati sprofondati poco alla volta, a colpi di austerity e neoliberismo selvaggio spacciato per legge divina (“ce lo chiede l’Europa”, quella del “pilota automatico” che privilegia i soliti super-poteri finanziari, che usano i burattini dell’Ue per trasformare in legge il loro business privato).

  • Bombacci: morì fascista il primo leader comunista italiano

    Scritto il 23/6/19 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    Cent’anni fa apparve in Italia il primo leader comunista, amico personale di Lenin; morì poi da fascista, fucilato a Dongo e appeso per i piedi dai suoi compagni in Piazzale Loreto, accanto a Mussolini. Si chiamava Nicolino Bombacci e fu eletto nel 1919 alla guida del partito socialista. Era il capo dei massimalisti, somigliava non solo fisicamente a Che Guevara e ricordava Garibaldi. Era un puro e un confusionario; rappresentava, per dirla con De Felice, il comunismo-movimento, rispetto a chi poi si arroccò nel comunismo-regime. Fu lui a volere la falce e martello nella bandiera rossa, sull’esempio sovietico. Questa storia rimossa dai comunisti merita di essere raccontata. Il 1°maggio di cent’anni fa era nato a Torino “Ordine Nuovo”, fondato da Antonio Gramsci, Amadeo Bordiga e Palmiro Togliatti. A quel tempo, disse poi Tasca (che, esule dal Pci, finì a Vichy con Pétain): «Eravamo tutti gentiliani». Sull’onda della rivoluzione bolscevica nel giugno di cent’anni fa “Ordine Nuovo” propose i soviet in Italia. Quel progetto li ricongiunse a Bombacci e insieme poi fondarono a Livorno il Partito Comunista. «Deve la sua fortuna di sovversivo a un paio d’occhi di ceramica olandese e a una barba bionda come quella di Cristo»: così Mussolini dipinse il suo antico compagno, poi nemico e infine camerata Bombacci.
    Romagnolo e maestro elementare come Mussolini, cacciato anch’egli dalla stessa scuola perché sovversivo, compagno di lotte e di prigione del futuro duce, e nemico dei riformisti, Bombacci si separò da Mussolini dopo la svolta interventista. Per tornare al suo fianco a Salò ed essere ucciso, dopo aver gridato “Viva il socialismo, viva l’Italia”. A differenza di Mussolini, Bombacci veniva dal seminario (come Stalin e Curcio) e da una famiglia papalina di Civitella di Romagna. Bombacci diventò il principale bersaglio dei fascisti che gli urlavano “Con la barba di Bombacci / faremo spazzolini. Per lucidare le scarpe di Mussolini” (la stessa canzone fu riadattata al Negus quando l’Italia fascista conquistò l’Etiopia). I fascisti lo trascinarono alla gogna, tagliandogli la barba. Zazzera biondastra e incolta, volto magro, zigomi sporgenti, malinconici occhi turchini e una voce appassionata, impetuoso trascinatore di piazza. Così lo ricordava Pietro Nenni: «Una selva di capelli spettinati, uno scoppio di parole spesso senza capo né coda. Nessun tentativo di convincere, ma lo sforzo di piacere. Un’innegabile potenza di seduzione. E in tutto questo, un soffio di passione…».
    Sposato in chiesa, tre figli e varie storie d’amore alle spalle, Bombacci si schierò con Gramsci dalla parte di D’Annunzio a Fiume con la Carta del Carnaro. Quando nacque il Pcd’I, Mussolini dirà in un discorso alla Camera: «Li conosco i comunisti, sono figli miei». Bombacci fece uscire il folto gruppo parlamentare socialista dalla Camera prima che parlasse il Re nel giorno dell’insediamento, al grido di “Viva il socialismo”. Bombacci fu l’unico dei comunisti italiani in diretti rapporti con Lenin. Bombacci ricevette da lui denaro, oro e platino per la propaganda. A Mosca, Bombacci tornò coi vertici del partito nel quinto anniversario della rivoluzione bolscevica, il 9 novembre del 1922 che nel calendario russo coincideva, col nostro 28 ottobre: quell’anno ci fu la Marcia su Roma. Bombacci sostenne l’intesa tra l’Italia fascista e l’Urss comunista, anche in Parlamento. Poi suggerì ai comunisti d’infiltrarsi nei sindacati fascisti (strategia che Togliatti poi teorizzò come “entrismo”). Fu lui il primo comunista a entrare (indenne) nella Camera con Mussolini al potere.
    Continuò a far la spola con Mosca, soprattutto dopo che l’Italia fascista era stata il primo paese occidentale a riconoscere l’Urss e ad avviare rapporti economici. Bombacci tornò a Mosca il 1924 ai funerali di Lenin ed era ritenuto il n.1 in Italia. Fu espulso dal partito quattro anni dopo, per deviazionismo e indegnità, dopo aver dato vita a un’agenzia di export-import tra l’Italia e l’Urss; Bombacci fu il precursore delle coop rosse. Per tutta la vita navigò tra i debiti; Mussolini aiutò i suoi famigliari e gli trovò un’occupazione all’Istituto di cinematografia educativa, in una palazzina di Villa Torlonia, proprio dove risiedeva il Duce. E gli finanziò un giornale fasciocomunista degli anni trenta, “La Verità”, che evocava la “Pravda” a cui Bombacci aveva collaborato. Odiato da Starace e dai fascisti, la “Verità” continuò a uscire fino al ’43. Dalle sue pagine teorizzò l’autarchia. Bombacci sognava d’unificare le rivoluzioni di Roma, Mosca e Berlino; ma con la rottura del patto Molotov-Ribbentrop, il comunismo si alleò con le plutocrazie occidentali, e lui, anti-capitalista, si schierò col fascismo.
    Ai tempi di Salò, Bombacci aveva i capelli corti e la barba non era più incolta; una palpebra gli si era abbassata davanti all’occhio, vestiva con abiti gessati. Ma coltivava ancora il suo velleitario socialismo. A Salò il sindacalista Francesco Grossi lo ricorda «caloroso nell’esporre, gli brillavano gli occhi chiari ed acuti che rivelavano una totale pulizia interiore». Perorò la socializzazione nella prima bozza della Carta di Verona e sognò la nascita dell’Urse, l’unione delle repubbliche socialiste europee. Con Carlo Silvestri voleva riaprire il caso Matteotti per dimostrare che quel delitto fu messo di traverso tra Mussolini e il socialismo per evitare il riavvicinamento. Con Silvestri Bombacci promosse l’estremo tentativo di consegnare le sorti della Rsi al partito socialista di unità proletaria con un messaggio consegnato a Pertini e a Lombardi, che i due leader partigiani cestinarono. Bombacci continuò a predicare tra gli operai la rivoluzione sociale: nel suo ultimo discorso a Genova il 15 marzo del ’45 ritrovò la foga della sua gioventù; lo raccontò in una lettera entusiasta a Mussolini. Fucilato con Mussolini a Dongo, fu esposto col cartello “Supertraditore”. Cadde cogli occhi azzurri spalancati verso il cielo, come si addice a un sognatore ad occhi aperti.
    (Marcello Veneziani, “Cent’anni fa il primo comunista italiano – che morì fascista”, da “La Verità” dell’11 giugno 2019).

    Cent’anni fa apparve in Italia il primo leader comunista, amico personale di Lenin; morì poi da fascista, fucilato a Dongo e appeso per i piedi dai suoi compagni in Piazzale Loreto, accanto a Mussolini. Si chiamava Nicolino Bombacci e fu eletto nel 1919 alla guida del partito socialista. Era il capo dei massimalisti, somigliava non solo fisicamente a Che Guevara e ricordava Garibaldi. Era un puro e un confusionario; rappresentava, per dirla con De Felice, il comunismo-movimento, rispetto a chi poi si arroccò nel comunismo-regime. Fu lui a volere la falce e martello nella bandiera rossa, sull’esempio sovietico. Questa storia rimossa dai comunisti merita di essere raccontata. Il 1°maggio di cent’anni fa era nato a Torino “Ordine Nuovo”, fondato da Antonio Gramsci, Amadeo Bordiga e Palmiro Togliatti. A quel tempo, disse poi Tasca (che, esule dal Pci, finì a Vichy con Pétain): «Eravamo tutti gentiliani». Sull’onda della rivoluzione bolscevica nel giugno di cent’anni fa “Ordine Nuovo” propose i soviet in Italia. Quel progetto li ricongiunse a Bombacci e insieme poi fondarono a Livorno il Partito Comunista. «Deve la sua fortuna di sovversivo a un paio d’occhi di ceramica olandese e a una barba bionda come quella di Cristo»: così Mussolini dipinse il suo antico compagno, poi nemico e infine camerata Bombacci.

  • Vincere la depressione: le stelle spiegano il destino di Vasco

    Scritto il 19/5/19 • nella Categoria: segnalazioni • (5)

    Vasco Rossi è stato sempre uno dei miei cantautori preferiti, insieme a Fabrizio De André, Rino Gaetano e Edoardo De Angelis. Ascoltando le sue canzoni, ho sempre sentito che doveva soffrire di una profonda depressione latente e di un male di vivere che non lo ha mai abbandonato, neanche negli anni del successo. Dal punto di vista astrologico il suo tema natale è una sorta di capolavoro, perché è il tema di una persona profondamente depressa e bloccata, che però ha raggiunto il successo mondiale proprio grazie a questi blocchi. Analizzarlo può quindi essere di aiuto a tutti coloro che si sono sempre sentiti come Sally, o Jenny, ovverosia depressi, che non vogliono più alzarsi dal letto, che fanno fatica ad andare avanti, che non vogliono più sforzarsi di capire, vorrebbero solo dormire, come Jenny. Il tema natale di Vasco Rossi, più che essere caratterizzato dal suo essere “Acquario”, quindi stravagante, fuori dagli schemi e anticonformista, o peggio ancora dal suo ascendente Vergine, è caratterizzato da quella che, in gergo tecnico, si chiama “grande croce”: è una croce di nome e di fatto, nel senso che chi ha una configurazione del genere nel suo tema ha spesso la vita bloccata in molte manifestazioni, sente che non ce la fa a vivere, tende alla depressione e alla paralisi e spesso formula pensieri di suicidio (viene da domandarsi quante volte Vasco avrà pensato al suicidio nella sua vita, anche durante gli anni del successo… credo molte volte).
    Questa configurazione (caratterizzata da due coppie di pianeti in reciproca opposizione tra loro; e Vasco ha addirittura tre coppie di pianeti in opposizione tra loro) è una delle peggiori possibili in un tema natale; ma è anche quella che porta le più grandi opportunità di crescita (è presente infatti nel tema di molti maestri spirituali). E’ la configurazione di chi sente che la vita è un “perdere tempo” (come dice la canzone “Vivere”); di chi ogni giorno spera che il domani sia meglio, di chi non è mai contento e si sente morto dentro, di chi combatte e sente che ha tutti contro, e di chi spesso domanda a Dio il significato di una vita che ha vissuto e che non ha capito (ma che, proprio a causa di questa domanda, quando trova Dio e trova le risposte che cerca, vive una vita più intensa di quella degli altri). Per uscire da questa situazione di stallo spesso la persona ha bisogno di stimoli esterni, perché da solo sente che non ce la fa: si ha bisogno di droghe, di psicoterapie, di farmaci. Oppure una vita spericolata, oppure un figlio. Vasco lo dice chiaramente nella sua canzone “Benvenuto”: C’ho pensato dopo… c’ho pensato poco; vuoi che sia sincero… ho pensato solo… solamente a noi… A noi due che eravamo qui annoiati ormai… quasi spenti sì davanti alla Ti Vi. In qualunque caso, figlio, droghe, o altro, ci vuole qualcosa, “una scusa che ti può tenere su”  (“Gli angeli”).
    La prima cosa che colpisce è quel Saturno in prima casa; una posizione che implica, per coloro che ce l’hanno, una notevole tendenza al pessimismo se non alla depressione vera e propria. Come se non bastasse, il Saturno in prima casa è opposto a Giove, nella casa 7, ovverosia la casa dei sentimenti. Vale a dire, che potenzialmente avrebbe avuto pure le possibilità di costruirsi una vita felice, ma l’opposizione di Saturno (la sua depressione, quindi, e la sua personalità) gliel’ha impedito. Ha avuto infatti sempre rapporti abbastanza tormentati con cui ha cercato, insieme all’alcool e alle droghe, di vincere quel male di vivere che lo tormentava. E il successo? Era iscritto nel suo destino? In un certo senso sì. Nella sua decima casa, quella del successo, troviamo infatti Urano e la Luna, congiunti. Da una parte questo indica che dentro di lui c’era la voglia di successo, la voglia di emergere (“voglio una vita spericolata”); Urano – il pianeta del cambiamento e dell’imprevedibilità – indica un successo di tipo Uraniano appunto, ovverosia o incostante e altalenante o, come nel suo caso, proiettato all’esterno e implicante trasformazione e cambiamento in chi lo ascolta; ma questa Luna congiunta a Urano è anche, al tempo stesso, opposta a Venere e a Chirone. In altre parole: non è stato un successo facile, il suo, perché è presente proprio in questo campo un’altra opposizione.
    Senza contare che la Luna congiunta a Urano, ovunque essa sia collocata, indica sempre instabilità di umore, cambiamenti repentini di stati d’animo e di sensazioni: insomma, un vero inferno interiore, destinato a seguire i cambi della Luna. Quindi, sì, nel suo destino era previsto che avrebbe raggiunto il successo, ma a prezzo dell’amore (Venere) e del raggiungimento di quell’equilibrio e quell’armonia familiare che lui avrebbe voluto, e che sentiva dentro come qualcosa che forse avrebbe potuto guarirlo dal suo male di vivere (Chirone e Venere sono infatti in quarta casa, la casa delle radici familiari e degli affetti). E soprattutto, era iscritto nel suo destino il fatto che avrebbe raggiunto il successo a prezzo del superamento di tutti quei blocchi presenti nel suo tema natale, dati dalle tre opposizioni presenti in esso. Potremmo poi analizzare molti altri aspetti; il suo Mercurio in Acquario o il suo Marte in Scorpione e in seconda casa, o il suo Sole in quinta casa opposto a Plutone (forse alcune amicizie nella sua vita lo hanno condizionato, nel bene e nel male, e influenzato nella sua potenzialità di godersi la vita?); ma non credo che siano questi i dati rilevanti della sua vita, e che l’hanno portato ad essere ciò che è.
    Colpisce, infine, il Nodo Lunare nord in sesta casa (la casa del lavoro) e il Nodo sud in 12esima casa. Chi ha il Nodo sud in 12esima casa (la casa dell’inconscio) è spesso una persona fuori dagli schemi, con una vita particolare, perché ha poca dimestichezza con il suo inconscio, ed è come se le sue azioni fossero mosse da una forza invisibile di cui la persona stessa non si capacita. Probabilmente, se chiedessimo a Vasco perché ha avuto successo, perché è diventato ciò che è diventato, e se può dare consigli a chi vuole seguire la sua strada, risponderebbe: “Boh… io sono stato solo me stesso, e ho solo seguito quello che sentivo” (è questa infatti la risposta che viene data da chi ha questa posizione del Nodo Lunare, quando gli si chiede il motivo delle sue scelte). Il segreto del suo successo, infatti, credo stia qui: nelle sue canzoni ha messo se stesso, la sua rabbia, la sua depressione profonda, e anche le sue evoluzioni di vita e di pensiero, che sono evidenti seguendo la cronologia delle sue opere.
    Era un tema natale duro quello di Vasco Rossi. Guardandolo senza pregiudizi, e senza sapere che è di Vasco Rossi, un astrologo si domanderebbe: “Ma una persona così, ce l’ha fatta? Ha una vita normale, o, come Jenny, passa il suo tempo a letto e dormire?”. Il tema natale di Vasco Rossi, e quindi la sua vita, sono qualcosa di meraviglioso come le sue canzoni: sono un invito a non mollare, a continuare a lottare, perché anche se la vostra vita è bloccata e sembra che tutto vi remi contro, nonostante tutto potete farcela, e la vostra vita può diventare un grande sogno, proprio grazie a questi blocchi e a quel male di vivere che sentite. Sono, forse, anche un invito a fare meglio di lui; come se il suo tema natale dicesse: potete raggiungere il successo, potete superare ogni limite anche se avete blocchi ovunque nel vostro tema natale, ma c’è un risultato migliore da raggiungere e che io non ho raggiunto: la pace interiore. Lo dice chiaramente nella sua canzone “Liberi liberi”: soddisfatto di me, in fondo in fondo non lo sono mai stato. Potete farcela. Chiunque può farcela.
    (Paolo Franceschetti, “Vincere la depressione: il tema natale di Vasco Rossi”, dal blog “Petali di Loto” del 9 maggio 2019).

    Vasco Rossi è stato sempre uno dei miei cantautori preferiti, insieme a Fabrizio De André, Rino Gaetano e Edoardo De Angelis. Ascoltando le sue canzoni, ho sempre sentito che doveva soffrire di una profonda depressione latente e di un male di vivere che non lo ha mai abbandonato, neanche negli anni del successo. Dal punto di vista astrologico il suo tema natale è una sorta di capolavoro, perché è il tema di una persona profondamente depressa e bloccata, che però ha raggiunto il successo mondiale proprio grazie a questi blocchi. Analizzarlo può quindi essere di aiuto a tutti coloro che si sono sempre sentiti come Sally, o Jenny, ovverosia depressi, che non vogliono più alzarsi dal letto, che fanno fatica ad andare avanti, che non vogliono più sforzarsi di capire, vorrebbero solo dormire, come Jenny. Il tema natale di Vasco Rossi, più che essere caratterizzato dal suo essere “Acquario”, quindi stravagante, fuori dagli schemi e anticonformista, o peggio ancora dal suo ascendente Vergine, è caratterizzato da quella che, in gergo tecnico, si chiama “grande croce”: è una croce di nome e di fatto, nel senso che chi ha una configurazione del genere nel suo tema ha spesso la vita bloccata in molte manifestazioni, sente che non ce la fa a vivere, tende alla depressione e alla paralisi e spesso formula pensieri di suicidio (viene da domandarsi quante volte Vasco avrà pensato al suicidio nella sua vita, anche durante gli anni del successo… credo molte volte).

  • Farinetti: macché Flax Tax, meglio una bella patrimoniale

    Scritto il 17/5/19 • nella Categoria: segnalazioni • (18)

    L’ultimo nemico di Matteo Salvini si chiama Konrad Krajewski. L’elemosiniere del Vaticano è andato a riattaccare la luce in un palazzo di Roma occupato da alcune centinaia di persone, rompendo i sigilli ai contatori e prendendosi la piena responsabilità con prefettura e Acea. Un gesto che ha portato alla replica stizzita del ministro dell’interno: «Adesso mi aspetto che paghi anche i 300mila euro di bollette arretrate», ha detto Salvini. «Poteva evitare questa battuta», commenta Oscar Farinetti in un’intervista a “Radio Capital”: «Salvini ha rivelato un sentimento umano di base, che si può mettere sotto la parola ‘razzismo’. C’è questa nuova forma di razzismo che elimina completamente la pietà». Secondo il fondatore di Eataly, Padre Konrad «ha fatto molto bene, lo ammiro. Manca il sentimento umano della pietà, ormai. In Italia ci sono delle situazioni di povertà, e bisogna intervenire, dare una mano. Secondo me è un gesto importante». Contro la povertà, il governo ha lanciato il reddito di cittadinanza, su cui Farinetti ammette di avere un’opinione positiva: «È chiaro che una roba di questo tipo va fatta. Chiamiamola reddito di cittadinanza o reddito di inclusione, ma in una situazione generale in cui c’è della gente che non ha di che vivere è assolutamente indispensabile che scatti un sentimento umano, e che chi è stato più fortunato nella vita aiuta anche chi ha meno».
    Sull’altra misura economica bandiera del governo, la Flat Tax, l’imprenditore è scettico: «La trovo anticostituzionale. È scritto nella Costituzione che chi guadagna di più deve pagare di più, e a me sembra il minimo», dice a “Daily Capital”, ospite di Jean Paul Bellotto e Riccardo Quadrano. Per Farinetti, il problema della povertà «si può risolvere con una piccolissima patrimoniale sui risparmi degli italiani, che sono più di 4.000 miliardi. Se mettessimo via lo 0,5% ci saebbero 20 miliardi e potremmo affrontare sia il problema della povertà che quello dell’immigrazione. Ma c’è un altro tema strategico e importante, quello di avere un progetto per il paese. E questo manca». L’Italia, dice ancora Farinetti, in libreria con “Dialogo tra un cinico e un sognatore” (scritto per Rizzoli con Piergiorgio Odifreddi), «deve puntare tantissimo sulle proprie vocazioni: dovrebbe raddoppiare il numero di esportazioni delle proprie eccellenze e raddoppiare il numero di turisti stranieri per creare così un’infinità di posti di lavoro. Questa è una cosa che secondo me si può fare con un progetto di cinque anni». Aggiunge: «Ci dovrebbe essere un maggior impegno generale. Ci sono stati momenti come il miracolo economico nel dopoguerra, o il Rinascimento, in cui l’Italia ha fatto meraviglie. Ma i sentimenti umani che c’erano in quei periodi erano altissimi: c’era tanta fiducia, per esempio. Se manca la fiducia è un casino».
    «L’aria nuova che si è tentato di far partire attraverso “vaffa” e rottamazioni in realtà non è ancora partita. Avremmo bisogno di qualche gesto importante, da parte di persone che diano il buon esempio. Il gesto di quel cardinale ad esempio è un grandissimo gesto di buon esempio». Il patron di Eataly svela anche un suo nuovo progetto: «Si chiama Green Pea, pisello verde, e si pone come obiettivo di vendere solo oggetti di rispetto, costruiti in armonia con il pianeta, e di farli diventare “cool”, perché secondo me salveremo il pianeta soltanto se diventerà simpatico o profittevole farlo. Bisogna passare dal senso del dovere al senso del piacere. Ho visto che questa cosa funziona egregiamente in tante nazioni del mondo, nel Nord Europa è figo comportarsi bene: uno che non fa la differenziata là non è che gli urlano dietro, ma lo guardano e pensano che ha dei problemi e bisogna aiutarlo». Infine, Farinetti nega di considerare una futura discesa in campo: «Non scendo in politica perché ritengo che non sarei bravo a farla; perché non è detto che uno che sia abbastanza bravo in un settore sia bravo in tutto, quindi la lascio fare a persone secondo me più brave di me e più valide di me».
    (Oscar Farinetti a “Radio Capital”: “Serve una patrimoniale per combattere la povertà”, da “Dagospia” del 13 maggio 2019).

    L’ultimo nemico di Matteo Salvini si chiama Konrad Krajewski. L’elemosiniere del Vaticano è andato a riattaccare la luce in un palazzo di Roma occupato da alcune centinaia di persone, rompendo i sigilli ai contatori e prendendosi la piena responsabilità con prefettura e Acea. Un gesto che ha portato alla replica stizzita del ministro dell’interno: «Adesso mi aspetto che paghi anche i 300mila euro di bollette arretrate», ha detto Salvini. «Poteva evitare questa battuta», commenta Oscar Farinetti in un’intervista a “Radio Capital”: «Salvini ha rivelato un sentimento umano di base, che si può mettere sotto la parola ‘razzismo’. C’è questa nuova forma di razzismo che elimina completamente la pietà». Secondo il fondatore di Eataly, Padre Konrad «ha fatto molto bene, lo ammiro. Manca il sentimento umano della pietà, ormai. In Italia ci sono delle situazioni di povertà, e bisogna intervenire, dare una mano. Secondo me è un gesto importante». Contro la povertà, il governo ha lanciato il reddito di cittadinanza, su cui Farinetti ammette di avere un’opinione positiva: «È chiaro che una roba di questo tipo va fatta. Chiamiamola reddito di cittadinanza o reddito di inclusione, ma in una situazione generale in cui c’è della gente che non ha di che vivere è assolutamente indispensabile che scatti un sentimento umano, e che chi è stato più fortunato nella vita aiuta anche chi ha meno».

  • Cosa ci manca per essere come Rosselli, Palme e Sankara

    Scritto il 07/5/19 • nella Categoria: idee • (6)

    Quando parliamo di costruire il futuro, spesso facciamo uso di sogni e visioni. Oggi, qui, invece, possiamo partire dalla realtà, che non di rado è meno piacevole. La realtà ci dice che Thomas Sankara è morto giovane e non è diventato il padre nobile di un’Africa democratica, più consapevole ed economicamente evoluta, che infatti ancora non c’è. La realtà ci dice che Carlo Rosselli non è sopravvissuto al fascismo e non ha potuto contribuire direttamente a rendere l’Italia e l’Europa postbelliche più libere e felici. E la realtà dice anche che Olof Palme non è diventato segretario generale delle Nazioni Unite. Sono stati assassinati e, soprattutto, nessuno ha potuto, o saputo, prendere il loro posto. Eppure sono stati degli esempi, per noi. Prendiamo Sankara: ha realizzato un piano tutto interno al Burkina Faso, coinvolgendo per quattro anni sette milioni di africani abbandonati a sé stessi e alla propria povertà.  Ha fatto costruire scuole, ospedali, pozzi, dighe, strade, campi sportivi. Ha promosso la piantumazione del Sahel, e lo sviluppo agricolo e dell’allevamento. Ha esteso le cure sanitarie a tutti, consentito un aumento della vita media e favorito la prevenzione dell’Aids. Ha reso possibile l’istruzione diffusa e ha consentito a tutti di dire il proprio pensiero alla radio nazionale, senza filtri e senza mediazioni.
    Ha impegnato l’esercito in opere civili, e convertito parte dei fondi militari destinandoli a progetti di sviluppo. Ha liberato la donna dal giogo culturale maschile e proibito le mutilazioni genitali femminili, valorizzando quindi gli aspetti culturali costruttivi del suo paese e intervenendo su quelli deteriori. Ha chiesto di cancellare il debito estero di origine coloniale.  Un presidente non ancora quarantenne ha realizzato tutto ciò in quattro anni. L’emozione che sentiamo di fronte alle azioni di Sankara è un pugno nello stomaco per la nostra coscienza, perché ci fa vedere quanto e quanto in fretta è possibile cambiare. Palme ha proposto un mondo senza dittature, che controlla le armi nucleari, cancella l’apartheid, distribuisce la ricchezza e rende i lavoratori piccoli azionisti delle aziende per le quali prestano la propria opera. Rosselli ha insegnato a coinvolgere tutti, nelle decisioni che riguardano tutti, al fine di raggiungere il benessere per tutti: liberalismo come metodo, socialismo come fine.
    Potremmo forse considerare questi tre leader degli idealisti o, peggio, degli ingenui. Ingenuo sarebbe colui che guarda solo i propri ideali, incapace di comprendere il mondo per quello che è. Si dice che in politica il contrario dell’ingenuità sia invece il realismo, cioè la capacità di guardare la dura realtà e governare le masse di conseguenza, senza illusioni, per raggiungere quello che si può. Eppure, Sankara per conoscere il suo paese girava le città e le campagne anche in bicicletta, pagava il mutuo e quando morì c’erano pochissimi soldi sul suo conto corrente; aveva ben presenti i suoi nemici e sapeva quale pericolo rappresentavano per lui; Palme si oppose alla guerra in Vietnam (che gli Usa persero, e tale sconfitta dimostrò quanto fossero falsi i motivi per i quali era stata combattuta); Rosselli previde che l’esito della parabola nazifascista sarebbe stato una guerra fratricida. Che cosa accomuna questi tre leader? Tutti hanno usato in modo costruttivo le risorse materiali e mentali a disposizione, per raggiungere obiettivi di valore. Usare la cooperazione al posto della competizione, che ha nella guerra la sua fine più stupida e ingloriosa, non è certo mancanza di realismo politico.
    Il vero realismo politico è conoscere la miseria della nostra razza e, con i propri principi spirituali, trovare soluzioni per modificarla (la miseria, non la razza). Se siamo dunque qui a parlare di Rosselli, Palme e Sankara come dei “nostri esempi” è perché abbiamo perso quegli stessi esempi per strada considerandoli inconsciamente “idealistici”, e abbiamo dormito il sonno della ragione e della coscienza: tutti noi, sia le masse dei governati sia le élite dei cosiddetti leader, progressisti compresi. Il problema è proprio che Palme, Rosselli e Sankara sono ancora i nostri fari (fuori di noi) e non parte del nostro Dna (dentro di noi). È questo il paradosso della leadership: dichiariamo di seguirla ma non l’abbiamo interiorizzata. Guardiamo i nostri capi attuali. Non soltanto i soliti Kim, Putin, Trump, Erdogan, Orban, Bolsonaro, Maduro, Macron, Merkel, May e così via. Mi riferisco anche alle alte cariche dello Stato in Italia, nazionali e locali, rappresentanti della Costituzione che loro dovrebbero difendere. Quando siamo chiamati a un referendum si dimenticano di ricordare che, proprio secondo la Costituzione, l’esercizio del voto è dovere civico (guadagnato per noi da milioni di soldati e civili morti nell’ultimo conflitto mondiale).
    E noi non pensiamo che, se anche i politici “tradiscono le decisioni referendarie”, in Parlamento noi possiamo votare ancora (e ancora, e ancora) per ribaltare quei tradimenti, informandoci e dedicando mezz’ora del nostro tempo per mettere una croce sulla scheda. Gli stessi politici naturalmente non ricordano ai giornalisti il loro dovere di informare i cittadini prima del voto perché possano conoscere per deliberare. Tutti tacciono e, quando i parlamentari alterano l’esito referendario, la volta dopo noi ce ne stiamo a casa “per protestare”, come bambini incapricciati. È normale che, appena prima del referendum sulla Brexit, il “Sun” titolasse dando ancora indicazioni su come votare? Una decisione così importante avrebbe dovuto essere stata presa dai lettori di quel tabloid settimane prima del voto: un voto che non può essere cambiato dopo cinque anni, come nelle elezioni generali, ma che avrà impatto per decenni sulla vita del Regno Unito. Come è possibile che gli elettori abbiano deciso sulla base di un titolo di giornale?
    I nostri politici non hanno più, o non hanno mai avuto, la spiritualità di Sankara, Rosselli e Palme. E noi non abbiamo quel livello di spiritualità che, se fosse presente, ci farebbe rendere conto che avere capi politici come i nostri non è normale. Diceva Oscar Wilde che il coraggio è sparito dalla nostra razza o forse non lo abbiamo mai avuto veramente… perché, aggiungeva, ci facciamo governare dal terrore della società (che è la base della morale) e dal terrore di Dio (che è la base della religione). In un mondo governato dai principi spirituali, un presidente come Sankara sarebbe considerato un buon amministratore della cosa pubblica, e non un rivoluzionario; un politico normale, che con il cuore e la ragione dei buoni padri di famiglia favorisce la felicità di quelli che dipendono da lui. I politici diversi sarebbero visti come anomalie geneticamente modificate, involucri privi della coscienza, cioè della capacità di distinguere ciò che crea sofferenza da ciò che produce benessere. Il modello di leadership delle nostre società è invece quello del capobranco con il suo gregge, modello che produce povertà e dolore e che nessun essere spirituale accetterebbe mai come “normale”.
    Molti nostri predecessori sono morti sperando che noi avremmo raccolto la loro eredità di cambiamento. Finora non lo abbiamo fatto a sufficienza. Ma le crisi della coscienza sono salutari perché la risvegliano. Che cosa possiamo fare noi oggi di diverso? Quando ci troviamo di fronte a un problema, una crisi, un conflitto, qualcosa che non ci piace, possiamo guardarci dentro e interpellare la nostra scala dei valori, e se riusciamo anche la nostra scintilla divina; poi possiamo ripensare alla scintilla divina che ha animato persone come Palme, Rosselli e Sankara, collegarci ad essa e chiederci: “Ma io, lasciando perdere tutte le distorsioni che mi hanno raccontato sul realismo politico, che cosa farei in questa situazione seguendo i miei principi?”. E poi, possiamo agire di conseguenza. Se lo facessimo, a quel punto ci accorgeremmo che, come non siamo rivoluzionari noi, non lo erano nemmeno Rosselli, Palme e Sankara. Erano uomini con la U maiuscola e la schiena dritta, che hanno fatto semplicemente ciò che andava, ragionevolmente, fatto.
    (Zvetan Lilov, “Rosselli, Palme, Sankara e noi: il paradosso della leadership”, intervento al convegno “Nel segno di Olof Palme, Carlo Rosselli, Thomas Sankara e contro la crisi globale della democrazia” organizzato dal Movimento Roosevelt il 3 maggio 2019 a Milano).

    Quando parliamo di costruire il futuro, spesso facciamo uso di sogni e visioni. Oggi, qui, invece, possiamo partire dalla realtà, che non di rado è meno piacevole. La realtà ci dice che Thomas Sankara è morto giovane e non è diventato il padre nobile di un’Africa democratica, più consapevole ed economicamente evoluta, che infatti ancora non c’è. La realtà ci dice che Carlo Rosselli non è sopravvissuto al fascismo e non ha potuto contribuire direttamente a rendere l’Italia e l’Europa postbelliche più libere e felici. E la realtà dice anche che Olof Palme non è diventato segretario generale delle Nazioni Unite. Sono stati assassinati e, soprattutto, nessuno ha potuto, o saputo, prendere il loro posto. Eppure sono stati degli esempi, per noi. Prendiamo Sankara: ha realizzato un piano tutto interno al Burkina Faso, coinvolgendo per quattro anni sette milioni di africani abbandonati a sé stessi e alla propria povertà.  Ha fatto costruire scuole, ospedali, pozzi, dighe, strade, campi sportivi. Ha promosso la piantumazione del Sahel, e lo sviluppo agricolo e dell’allevamento. Ha esteso le cure sanitarie a tutti, consentito un aumento della vita media e favorito la prevenzione dell’Aids. Ha reso possibile l’istruzione diffusa e ha consentito a tutti di dire il proprio pensiero alla radio nazionale, senza filtri e senza mediazioni.

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