LIBRE

associazione di idee
  • idee
  • LIBRE friends
  • LIBRE news
  • Recensioni
  • segnalazioni

Archivio del Tag ‘spettacolo’

  • Calcio, la religione perfetta di questo capitalismo spietato

    Scritto il 07/6/15 • nella Categoria: idee • (2)

    La nascita del calcio moderno è strettamente legato alla nascita dello Stato parlamentare borghese ed ai primi passi del sistema economico capitalista alla fine del XVII secolo e inizi del XVIII in Inghilterra. In questo modo, la configurazione delle regole di questo sport ed il consenso che ne deriva, sono il risultato della filosofia propria del sistema appena creato, dove si incontrano diversi gruppi politici per competere al potere parlamentare sottoscrivendo delle regole concrete sotto la supervisione di un giudice. Gli artefici di questa trasposizione di valori sono stati gli studiosi degli elitisti della ‘public shcools’ britannici, che diedero all’attuale “re degli sport” la forma che ha oggi all’adottare regole comuni per poter competere a livello nazionale tra le squadre legate ai propri centri educativi. Ma fu solo grazie alla classe operaia britannica che il calcio si professionalizzò e si estese, arrivando a tutte le colonie e porti con presenza britannica nel XIX secolo.  La rapida espansione si deve, tra le altre cose, a la scarsità di mezzi che richiedeva la dinamica del gioco, dove solo serviva un pallone (o qualcosa che possa sembrare sferico) e alcune delimitazioni che facessero le veci della porta.
    Una religione mediatizzata. Attualmente questo fenomeno genera potenti comunità vertebrate da sentimenti identitari collettivi che gestano intorno a diversi clubs del mondo, riaffermandosi in ogni partita attraverso una serie di azioni di massa che possono essere ben classificati come riti sociali. Diversi autori fanno notare il parallelismo dei luoghi comuni che condividono il calcio e i riti religiosi. Partendo dagli studi realizzati da Émile Durkheim sulle religioni primitive agli inizi del XX secolo, si intende che la ragion d’essere delle diverse religioni, presenti in tutte le civiltà conosciute, è quella di giustificare la forma sociale della quale a sua volta ne è il risultato. Tutti i riti religiosi compiono in questo modo una funzione unificante della comunità che li praticano. Questi riti solitamente consistono in atti di comunione congiunta dei suoi membri con entità sovra-terrene., che costituiscono in fine una specie di omaggio e riaffermazione della propria comunità e della propria struttura sociale.
    In coincidenza con le rivoluzioni liberali, dove si elimina la grazia di Dio come giustificazione principale del potere, cominciò in occidente una progressiva, anche se limitata, perdita di autorità politica del cristianesimo, sostituita da diverse forme di culto “laico” della società. Uno di questi è il fenomeno sociale del calcio. Durante il rito calcistico, le tifoserie realizzano un atto di comunione quasi religioso, esprimendo devozione nei confronti del proprio club durante la stagione di calcio ordinaria e alla propria nazione quando gioca la formazione dei rispettivi paesi. Sia in un caso che nell’altro, gli individui approcciano con l’ideale che li unisce affidandosi in questo modo alla comunità alla quale appartengono. Sono diversi gli elementi condivisi dai riti religiosi e calcistici, dove la comunità rafforza e riafferma il sentimento che si ha della stessa. In ogni culto religioso è necessario, in primo luogo, separare gli atti sacri dai profani, configurando un calendario liturgico per la quotidianità dei fedeli. I fine settimana sono i giorni eletti sia per andare a messa che generalmente per andare allo stadio.
    In secondo luogo, la rottura con la vita profana deve estendersi anche nella sua dimensione spaziale. Una cerimonia religiosa può essere svolta solo in spazi sacri e appositamente preparati per questa. Attualmente, i tempi del calcio emergono solenni nelle città simbolizzandone l’importanza politica ed economica, così come la grandezza dello stesso club.  Al loro interno, il terreno di gioco, così come il presbiterio cattolico, si investe come spazio sacro che può essere calpestato unicamente dagli ufficianti del rito, in questo caso i giocatori e l’arbitro. Questo spazio viene sottomesso a particolari attenzioni che lo rendono degno dell’importanza dell’atto: prato curato, pulito e adeguatamente annaffiato.
    In terzo luogo, in tutti gli atti religiosi hanno luogo una serie di di azioni più o meno collettive e ripetitive, dove i fedeli esprimono la propria devozione verso l’istanza adorata.  Alzare le braccia, agitare le sciarpe, alzarsi dalle sedie o intonare canti sono espressioni collettive di venerazione verso il club e che rispecchiano una significativa somiglianza da quelle realizzate dai e dalle fedeli verso le rispettive divinità nei loro rispettivi templi.
    Tutte le comunità religiose devono avere dei riferimenti storici che servano da esempio ai suoi integranti. La leggenda e il mito attorno a determinati giocatori per un club assomigliano alla tradizionale santificazione cristiana di personaggi storici. I santi costituiscono in questo modo autentici esempi di attuazione e di servizio verso la comunità religiosa, essendo stati canonizzati dalla realizzazione di determinati atti o gesta che contribuirono all’espansione del cristianesimo nel mondo. Nel caso del calcio, i tifosi delle squadre ricordano giocatori emblematici le cui gesta sul terreno di gioco sono state determinanti nel conseguimento di titoli e glorie che ingrandirono il club. Il caso di Diego Armando Maradona è un chiaro esempio del vincolo esistente tra idolatria religiosa e calcistica: intorno a lui si formò la Chiesa maradoniana in Argentina, un culto di stampo parodico ma che comprende sentimenti reali verso la figura del calciatore. A Napoli fu santificato extra-ufficialmente dai tifosi del club.
    Competitività, consumo e successo sociale. Come si può vedere, i legami tra rito religioso e rito sportivo sono noti. Durante la stagione di calcio prende inizio un culto dedicato alla competizione per il successo professionale (legato al successo sociale) che governa la società contemporanea basata sull’economia di mercato. Ma il calcio nella società attuale non è l’unico spazio di aggregazione collettiva che risponde a queste funzioni di coesione. Il modo in cui le persone consumano quasi tutti gli altri tipi di spettacoli, come il cinema, la musica e la televisione, si avvicinano in gran misura al culto religioso. Un esempio sono le diverse comunità di appassionati (fanatici) creati attorno a prodotti culturali generati dalle industrie dello spettacolo, dove gli integranti mostrano simboli identificativi incorporate in oggetti di merchandising di uso quotidiano o  realizzano autentiche mostre di devozione accudendo a cerimonie collettive come concerti , film, o il consumo simultaneo di capitoli di serie televisive.
    In ognuno di questi campi è un luogo comune l’opera di santificazione delle figure più importanti, condotta dai mass media. Anche se gli antichi santi erano usati come esempi di comportamento ascetico, le celebrità moderne sono santificati esattamente per l’opposto, essendo esempi di opulenza e di comportamenti sociali legati al consumo, che costituiscono il carburante di un sistema sociale basato sulla sovrapproduzione. In questo aspetto, sono disposte intorno al calcio autentici modelli di uomo per la classe operaia, soprattutto perché la maggior parte dei calciatori provengono dai settori più umili della società e hanno raggiunto la fama e il successo solitamente per competenze sul campo e per la dedizione. E ‘ particolarmente significativo che l’ industria mediatica dedichi tale privilegio all’unico posto che il sistema economico capitalista offre in cui la classe sociale non determina il successo nella carriera. I mass media portano a termine questo lavoro di glorificazione di campioni, che investiti come modelli autentici della vita nella società dei consumi, come esempi di virilità, di auto-superamento e lavoro.
    Dal settore della pubblicità ai telegiornali, ci vengono continuamente mostrate le gesta di questi superuomini in campo e, ogni volta di più, le telecamere si introducono nella loro vita quotidiana per mostrare l’opulenza in cui vivono, le donne bellissime che hanno o la nuova auto che hanno acquisito. Il telespettatore medio della classe operaia vedrà così che un suo simile è arrivato alla cima del successo sociale con i propri mezzi, essendo egli stesso l’unico responsabile delle loro condizioni socioeconomiche. Il mito attualmente generato da giornalisti sportivi e aziende pubblicitarie intorno al calciatore Cristiano Ronaldo è il miglior esempio di questa strategia mediatica. Il marchio sportivo Nike sfrutta da anni la sua immagine come modello di mascolinità e professionalità. “Le mie aspettative sono meglio delle tue” è stato lo slogan lanciato dal brand nel 2009. Una gigantesca immagine del giocatore esultando per un gol con il torso nudo appariva praticamente in ogni fermata metropolitana di Madrid, ricordando ai milioni di lavoratori che usano  i mezzi pubblici come siano ancora lontani dal successo sociale e professionale. Il consumo diventa quindi l’unico modo possibile per emulare il superuomo che non sono stati in grado di essere.
    Il prato politicizzato. Ma quello di cui abbiamo parlato è solo uno degli aspetti attraverso i quali il calcio diviene uno spazio per la disputa politica per il potere e il controllo sociale. È necessario ricordare che il calcio costituisce un’allegoria del combattimento in cui due comunità perfettamente identificate si affrontano attraverso il gioco, che permette di svolgersi senza rischiare l’integrità fisica dei partecipanti. Nella dimensione di fenomeno di massa, questo sport canalizza impulsi aggressivi della società attraverso l’elemento mimetico che costituisce il gioco competitivo su prato, essendo un luogo ideale per soddisfare le pretese di accrescere il potere così come riaffermazioni dell’autorità stabilita. Il fascista Benito Mussolini è stato tra i primi leader politici a vedere nel calcio un importante strumento di propaganda. Dedicò grandi sforzi per costruire stadi monumentali e organizzare grandi eventi sportivi, al fine di dimostrare la potenza della nuova Italia.
    Attualmente, questa strategia è un modello di base della politica globale, che si reggono su simili pretese imperialiste. Basta notare il modo in cui gli stati nazionali scaricano sul prato il loro orgoglio nazionale, o il modo in cui competono in precedenza per ospitare i mondiali, mostrando il loro livello organizzativo e il loro potenziale di sviluppo per gli investimenti stranieri. Si producono violenti sgomberi di gente povera nei centri delle città, o ingenti investimenti di capitale pubblico nella costruzione di infrastrutture che daranno enormi profitti alle élite economiche locali e straniere. In questi campionati, il calcio funziona come un elemento di coesione. Nel caso della Spagna, dopo l’esito della Coppa del Mondo in Sud Africa 2010 non passò molto tempo prima di sentire dai mass media allegorie riguardo il gran potere che potrebbe avere una Spagna unita nel campo della politica globale, essendo l’unione un requisito vincolante per uscire il prima possibile dalla crisi economica.
    Il complesso da impero smarrito che costituisce il nazionalismo spagnolo viene riflesso dai media col trionfo della selezione, rafforzando il senso di identità nazionale calmando a sua volta il clima socio-politico”. Si nota un gran contrasto dalla saturazione mediatica dei mondiali del 2010 con il relativo silenzio dei media dopo che gli spagnoli vennero eliminati nel 2014 in Brasile. Attraverso l’armamentario multimediale creato intorno ai trionfi della squadra nazionale, viene generato nella classe operaia una sorta di illusione collettiva di partecipazione allo stato-nazione, come sostituto. In ogni canale televisivo si creano talk show e programmi sportivi condotti da “esperti” che esaltano gli eroi del paese, plasmando uno spirito nazionale che integra i lavoratori, i datori di lavoro, e le istituzioni politiche. Grazie alla facilità che offre nel generare identità collettive, il calcio è un richiamo di massa senza eguali riproducendo le strutture di potere sociali e le diverse tensioni insite in loro.
    Il calcio e la sessualità. Il calcio rappresenta uno dei grandi bastioni intoccabili di dominio maschile nella sua dimensione più tradizionale. Le glorie calcistiche sono sistematicamente negate alle donne anche se hanno sempre maggiore presenza negli stadi. Esse sono una minoranza, come gli omosessuali, condannate al silenzio più completo. L’associazione tra la virilità e la competizione attraverso il contatto fisico, che è la spina dorsale del culto di calcio, è logica conseguenza del contesto  filosofico morale-borghese in cui è stato sviluppato questo sport. Come in ogni altro sport, viene eseguita la discriminazione delle donne a praticare insieme agli uomini, alludendo a ragioni di stampo biologistico. Senza entrare nel merito di una discussione di questo tipo, è sufficiente ricordare che il calcio è uno sport in cui le capacità fisiche si compensano con le capacità tecniche, l’intelligenza del giocatore o la giocatrice, la strategia e la coesione della squadra.
    Altrimenti sarebbe stato impensabile, per esempio, che una squadra come la squadra spagnola, composta per lo più di giocatori più bassi e relativamente sottili, conquistasse il titolo mondiale nel 2010, rispetto a squadre in gara come il Camerun o la Costa d’Avorio che non hanno nanche raggiunto la seconda fase del torneo. Argomenti di stampo evoluzionista prevalgono rispetto le teorie sociali nello spiegare perché le donne giocano a calcio peggio degli uomini e non sono degne di competere con loro. Sicuramente pensare al fatto che le donne fin dalla nascita partano da una posizione chiaramente svantaggiosa per questo sport (e praticamente qualsiasi altro) rispetto agli uomini a causa della costruzione sociale rigida che coinvolge ruoli di genere nei quali socializzano è più assurdo che pensare che le donne giocano a calcio perché Madre Natura (paradossalmente) così volle. D’altra parte, il culto all’ideale maschile su cui regge lo spettacolo calcistico comporta una sorta di divieto tacito sulla pratica a quegli individui la cui identità sessuale è percepita come una minaccia per i fondamenti della mascolinità tradizionale venerati in questo sport.
    Non è un caso che ci siano attualmente solo due giocatori professionisti attivi apertamente gay, Anton Hysén svedese e l’americano Robbie Rogers, entrambi giocano attualmente in Usa. I casi più noti sono diventati pubblici dopo il loro ritiro, evidenziando l’incompatibilità della loro identità sessuale con la loro carriera. Interpretando così, ogni partita di calcio professionale come una cerimonia quasi religiosa in cui la società realizza un culto abitudinario dei valori di competitività e mascolinità che governano il sistema socio-politico dominante, si capisce la difficoltà di un calciatore gay di affermarsi come elemento dissonante in un ambiente così mediatico, in cui sarà sottoposto ad un inevitabile giudizio dalla massa. Eppure, a poco a poco cresce il divario della Fifa grazie al coraggio dei giocatori stessi, che silenziosamente lottano per la loro libertà sessuale auspicando lo sviluppo di ulteriori iniziative che promuovono la normalizzazione dell’omosessualità nello sport. Tuttavia, questo è solo l’inizio di un percorso faticoso che comporta la necessità di ripensare i pilastri culturali su cui questo fenomeno di massa si basa.
    (Manuel González Ayestarán, “Calcio, media e controllo sociale”, da “Rebelion” del 16 dicembre 2014, tradotto da Torito per “Come Don Chisciotte”).

    La nascita del calcio moderno è strettamente legato alla nascita dello Stato parlamentare borghese ed ai primi passi del sistema economico capitalista alla fine del XVII secolo e inizi del XVIII in Inghilterra. In questo modo, la configurazione delle regole di questo sport ed il consenso che ne deriva, sono il risultato della filosofia propria del sistema appena creato, dove si incontrano diversi gruppi politici per competere al potere parlamentare sottoscrivendo delle regole concrete sotto la supervisione di un giudice. Gli artefici di questa trasposizione di valori sono stati gli studiosi degli elitisti della ‘public shcools’ britannici, che diedero all’attuale “re degli sport” la forma che ha oggi all’adottare regole comuni per poter competere a livello nazionale tra le squadre legate ai propri centri educativi. Ma fu solo grazie alla classe operaia britannica che il calcio si professionalizzò e si estese, arrivando a tutte le colonie e porti con presenza britannica nel XIX secolo.  La rapida espansione si deve, tra le altre cose, a la scarsità di mezzi che richiedeva la dinamica del gioco, dove solo serviva un pallone (o qualcosa che possa sembrare sferico) e alcune delimitazioni che facessero le veci della porta.

  • Kultura italiana in Italia, benvenuti nel chiasso del nulla

    Scritto il 30/5/15 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Kultura italiana in Italia = ultimo modello di smartphpone; ultimo modello di tablet; ultimo modello di app; ultimo modello di televisore; ultimo modello di auto; lavare l’auto col detersivo nel cortile di casa; squadra di calcio, comprensiva di allenatore, presidente e bilancio; Tg1; Tg5; la cronaca nera; Renzusconi; il Bunga Bunga; l’evasione fiscale; le escort; le veline; la moglie trofeo; la fidanzata trofeo; l’accompagnatrice trofeo; la segretaria trofeo; la presentatrice trofeo; le ministre trofeo; Maria De Filippi; Antonella Clerici; Carlo Conti; il film di Natale; il Papa santo; il presidente della Repubblica santo; tutti i santi metropolitani e regionali; la messa della domenica mattina; le bestemmie; il presidente del Consiglio cantastorie; Matteo Salvini; le brave persone che seguono Matteo Salvini; il famoso presentatore televisivo scrittore; il famoso politico scrittore; il famoso attore scrittore; il famoso calciatore scrittore; il famoso cuoco scrittore; il famoso giornalista scrittore; il famoso scrittore scrittore;
    Dolce & Gabbana; la parrucchiera; l’estetista; fare footing parlando al alta voce; i Tq; il festival di Sanremo; Sky; i giochi on-line; i telequiz; Luciano Ligabue; Laura Pausini; Andrea Bocelli; Giovanni Allevi; Fabio Volo; Il Volo; l’aperitivo; tutto ciò che è mangereccio, preferibilmente a base di salumi, vino bianco e fritti; Carlo Cracco; il nouveau ragu à l’italienne: col cioccolato, il cotechino fritto nell’Amaretto di Saronno, la marmellata fritta nello strutto, la salsiccia fritta nel miele, l’aglio fritto nel patchouli; la Confindustria; la Confcommercio; la Confagricoltura; l’Asppi; l’Uppi; l’Abi; la Confapi; gli affitti in nero; il lavoro nero; il commercio in nero; la Mafia; i tatuaggi; i telefilm americani; i film americani; gli attori americani; i cantanti americani; gli atleti americani; i poliziotti americani; i soldati americani; i serial killer americani; gli adolescenti americani; i wasp americani; i negri americani;
    i bambini canterini in televisione; i bambini in pubblicità; i bambini nei telefilm; i bambini nella fame nel mondo; i pianti in televisione; gli abbandoni in televisione; le confessioni in televisione; gli amori in televisione; i giuramenti in televisione; i contratti in televisione; gli insulti in televisione; gli insulti alle donne; gli insulti; i gesti osceni mentre si guida l’auto; la polizia; i carabinieri; i due marò; parcheggiare sulle strisce pedonali; parcheggiare sul marciapiede; parcheggiare sulla pista ciclabile; andare con la moto sulla pista ciclabile; andare con la moto nel parco pubblico; gli abusi edilizi; gli abusi finanziari; le discariche abusive di rifiuti; i condoni; le deroghe; l’emergenza; la crisi; la crescita; che cazzo menefregaammé; la Spending Review.
    Kultura italiana in Italia 2 = gli annunci patacca. E’ costume consolidato da parte dei centri di potere lanciare annunci forti, spettacolari, e reiterarli per un tempo sufficiente a farli entrare a forza nell’Archetipo dell’inconscio collettivo. In questo, il “Presidente del Consiglio” attuale è un maestro assoluto, e ha fatto scuola. Gli annunci vanno ripetuti, con scansioni variabili a seconda delle dinamiche (variabili) a cui si riferiscono. Se sono diretti, cioè recitati dal “ministro” di turno, o addirittura dal “Presidente del Consiglio” in persona, vanno accompagnati da una mimica al contempo rassicurante e autorevole, di chi non è sfiorato dal dubbio, e deve sottendere un agire positivo, “giovane”, energico, e soprattutto liberista, che è una delle grandi passioni della kultura italiana in Italia.
    Uno degli ultimi, e uno dei più patacca di tutti i pataccari, è stato quello secondo il quale le variazioni catastali conseguenti a interventi edilizi di unità immobiliari siano “tempestivamente inoltrate” direttamente dai comuni all’Agenzia del Territorio (cioè il Catasto), con la fine lavori della pratica edilizia. E’ uno degli articoli del cosiddetto Decreto Sblocca Italia (133/2014), sul quale il “governo” ha puntato molte carte mediatiche: “semplificazione”, lotta alla burocrazia, il fare, il non pagare ecc. Così, i Comuni sono stati inondati da tecnici e da cittadini che chiedevano l’applicazione di questa norma. L’avevano sentito e visto in Tv e in radio, santo cielo! Non si paga, ed è tutto più semplice! “Ci pensa il Comune”. E’ stata una bufala, una norma inapplicabile e inapplicata. A parte problemi molto seri di personale, che i Comuni scontano in seguito ai tagli delle risorse, tra i due enti non esiste un linguaggio informatico condivisibile: l’Agenzia del Territorio usa una piattaforma e una banca dati indisponibili ai comuni. E’ un linguaggio che va costruito, con un grande investimento di tempo e di denaro. Ma cosa interessa ai professionisti degli annunci?
    Nulla! L’importante è sostituire la realtà con l’annuncio, nutrire certi rancori della popolazione, reiterarlo fino a che è possibile, poi abbandonarlo e sostituirlo con un altro, altrettanto “forte”, enfatico, “giovane” e positivo. Funziona. Il cittadino si accorge che quello precedente si è rivelato una patacca, ma c’è già quello nuovo a riempire gli spazi, a stimolare aspettative. Così lo dimentica presto, mentre resta quel brivido liberista, come traccia, come “segno mondano”, come l’avrebbe definito Deleuze, il segno del vuoto, del nulla, dell’ingannevole, dell’effimero, il segno che passa e va, mentre quello nuovo si fa strada e genera altro vuoto, altri inganni. Così si tira avanti con questa straordinaria complicità tra ingannatori e ingannati, che si basa sul complesso e al tempo stesso primordiale sistema dei segni mondani, il codice non tanto segreto che costituisce il vero, solido e palpitante organo vitale della kultura italiana in Italia.
    (Mauro Baldrati, “Kultura italian in Italia”, da “Carmilla online” del 21 maggio 2015).

    Kultura italiana in Italia = ultimo modello di smartphpone; ultimo modello di tablet; ultimo modello di app; ultimo modello di televisore; ultimo modello di auto; lavare l’auto col detersivo nel cortile di casa; squadra di calcio, comprensiva di allenatore, presidente e bilancio; Tg1; Tg5; la cronaca nera; Renzusconi; il Bunga Bunga; l’evasione fiscale; le escort; le veline; la moglie trofeo; la fidanzata trofeo; l’accompagnatrice trofeo; la segretaria trofeo; la presentatrice trofeo; le ministre trofeo; Maria De Filippi; Antonella Clerici; Carlo Conti; il film di Natale; il Papa santo; il presidente della Repubblica santo; tutti i santi metropolitani e regionali; la messa della domenica mattina; le bestemmie; il presidente del Consiglio cantastorie; Matteo Salvini; le brave persone che seguono Matteo Salvini; il famoso presentatore televisivo scrittore; il famoso politico scrittore; il famoso attore scrittore; il famoso calciatore scrittore; il famoso cuoco scrittore; il famoso giornalista scrittore; il famoso scrittore scrittore;

  • Craxi: via noi, il regime violento della finanza vi farà a pezzi

    Scritto il 29/5/15 • nella Categoria: idee • (11)

    Il regime avanza inesorabilmente. Lo fa passo dopo passo, facendosi precedere dalle spedizioni militari del braccio armato. La giustizia politica è sopra ogni altra l’arma preferita. Il resto è affidato all’informazione, in gran parte controllata e condizionata, alla tattica ed alla conquista di aree di influenza. Il regime avanza con la conquista sistematica di cariche, sottocariche, minicariche, e con una invasione nel mondo della informazione, dello spettacolo, della cultura e della sottocultura che è ormai straripante. Non contenti dei risultati disastrosi provocati dal maggioritario, si vorrebbe da qualche parte dare un ulteriore giro di vite, sopprimendo la quota proporzionale per giungere finalmente alla agognata meta di due blocchi disomogenei, multicolorati, forzati ed imposti. Partiti che sono ben lontani dalla maggioranza assoluta pensano in questo modo di potersi imporre con una sorta di violenta normalizzazione. Sono oggi evidentissime le influenze determinanti di alcune lobbies economiche e finanziarie e di gruppi di potere oligarchici.
    A ciò si aggiunga la presenza sempre più pressante della finanza internazionale, il pericolo della svendita del patrimonio pubblico, mentre peraltro continua la quotidiana, demagogica esaltazione della privatizzazione. La privatizzazione è presentata come una sorta di liberazione dal male, come un passaggio da una sfera infernale ad una sfera paradisiaca. Una falsità che i fatti si sono già incaricati di illustrare, mettendo in luce il contrasto che talvolta si apre non solo con gli interessi del mondo del lavoro ma anche con i più generali interessi della collettività nazionale. La “globalizzazione” non viene affrontata dall’Italia con la forza, la consapevolezza, l’autorità di una vera e grande nazione, ma piuttosto viene subìta in forma subalterna in un contesto di cui è sempre più difficile intravedere un avvenire, che non sia quello di un degrado continuo, di un impoverimento della società, di una sostanziale perdita di indipendenza.
    I partiti dipinti come congreghe parassitarie divoratrici del danaro pubblico, sono una caricatura falsa e spregevole di chi ha della democrazia un’idea tutta sua, fatta di sé, del suo clan, dei suoi interessi e della sua ideologia illiberale. Fa meraviglia, invece, come negli anni più recenti ci siano state grandi ruberie sulle quali nessuno ha indagato. Basti pensare che solo in occasione di una svalutazione della lira, dopo una dissennata difesa del livello di cambio compiuta con uno sperpero di risorse enorme ed assurdo dalle autorità competenti, gruppi finanziari collegati alla finanza internazionale, diversi gruppi, speculando sulla lira evidentemente sulla base di informazioni certe, che un’indagine tempestiva e penetrante avrebbe potuto facilmente individuare, hanno guadagnato in pochi giorni un numero di miliardi pari alle entrate straordinarie della politica di alcuni anni. Per non dire di tante inchieste finite letteralmente nel nulla.
    D’Alema ha detto che con la caduta del Muro di Berlino si aprirono le porte ad un nuovo sistema politico. Noi non abbiamo la memoria corta. Nell’anno della caduta del Muro, nel 1989, venne varata dal Parlamento italiano una amnistia con la quale si cancellavano i reati di finanziamento illegale commessi sino ad allora. La legge venne approvata in tutta fretta e alla chetichella. Non fu neppure richiesta la discussione in aula. Le Commissioni, in sede legislativa, evidentemente senza opposizioni o comunque senza opposizioni rumorose, diedero vita, maggioranza e comunisti d’amore e d’accordo, a un vero e proprio colpo di spugna. La caduta del Muro di Berlino aveva posto l’esigenza di un urgente “colpo di spugna”. Sul sistema di finanziamento illegale dei partiti e delle attività politiche, in funzione dal dopoguerra, e adottato da tutti anche in violazione della legge sul finanziamento dei partiti entrata in vigore nel 1974, veniva posto un coperchio.
    La montagna ha partorito il topolino. Anzi il topaccio. Se la Prima Repubblica era una fogna, è in questa fogna che, come amministratore pubblico, il signor Prodi si è fatto le ossa. I parametri di Maastricht non si compongono di regole divine. Non stanno scritti nella Bibbia. Non sono un’appendice ai dieci comandamenti. I criteri con i quali si è oggi alle prese furono adottati in una situazione data, con calcoli e previsioni date. L’andamento di questi anni non ha corrisposto alle previsioni dei sottoscrittori. La situazione odierna è diversa da quella sperata. Più complessa, più spinosa, più difficile da inquadrare se si vogliono evitare fratture e inaccettabili scompensi sociali. Poiché si tratta di un Trattato, la cui applicazione e portata è di grande importanza per il futuro dell’Europa Comunitaria, come tutti i Trattati può essere rinegoziato, aggiornato, adattato alle condizioni reali ed alle nuove esigenze di un gran numero ormai di paesi aderenti.
    Questa è la regola del buon senso, dell’equilibrio politico, della gestione concreta e pratica della realtà. Su di un altro piano stanno i declamatori retorici dell’Europa, il delirio europeistico che non tiene contro della realtà, la scelta della crisi, della stagnazione e della conseguente disoccupazione. Affidare effetti taumaturgici e miracolose resurrezioni alla moneta unica europea, dopo aver provveduto a isterilire, rinunciare, accrescere i conflitti sociali, è una fantastica illusione che i fatti e le realtà economiche e finanziarie del mondo non tarderanno a mettere in chiaro. La pace si organizza con la cooperazione, la collaborazione, il negoziato, e non con la spericolata globalizzazione forzata. Ogni nazione ha una sua identità, una sua storia, un ruolo geopolitico cui non può rinunciare. Più nazioni possono associarsi, mediante trattati per perseguire fini comuni, economici, sociali, culturali, politici, ambientali. Cancellare il ruolo delle nazioni significa offendere un diritto dei popoli e creare le basi per lo svuotamento, la disintegrazione, secondo processi imprevedibili, delle più ampie unità che si vogliono costruire. Dietro la longa manus della cosiddetta globalizzazione si avverte il respiro di nuovi imperialismi, sofisticati e violenti, di natura essenzialmente finanziaria e militare.
    (Bettino Craxi, estratti dal libro “Io parlo, e continuerò a parlare”, ripresi da “Il Blog di Lameduck” il 19 maggio 2015. Il libro, edito da Mondadori nel 2014, cioè 14 anni dopo la morte di Craxi, raccoglie scritti del leader socialista risalenti alla seconda metà degli anni ‘90. Scritti che oggi appaiono assolutamente profetici).

    Il regime avanza inesorabilmente. Lo fa passo dopo passo, facendosi precedere dalle spedizioni militari del braccio armato. La giustizia politica è sopra ogni altra l’arma preferita. Il resto è affidato all’informazione, in gran parte controllata e condizionata, alla tattica ed alla conquista di aree di influenza. Il regime avanza con la conquista sistematica di cariche, sottocariche, minicariche, e con una invasione nel mondo della informazione, dello spettacolo, della cultura e della sottocultura che è ormai straripante. Non contenti dei risultati disastrosi provocati dal maggioritario, si vorrebbe da qualche parte dare un ulteriore giro di vite, sopprimendo la quota proporzionale per giungere finalmente alla agognata meta di due blocchi disomogenei, multicolorati, forzati ed imposti. Partiti che sono ben lontani dalla maggioranza assoluta pensano in questo modo di potersi imporre con una sorta di violenta normalizzazione. Sono oggi evidentissime le influenze determinanti di alcune lobbies economiche e finanziarie e di gruppi di potere oligarchici.

  • La Troika mollerà Renzi, ormai gli italiani credono a Salvini

    Scritto il 05/5/15 • nella Categoria: idee • (9)

    La sera di martedì 28 aprile, tornato a casa dall’ufficio e costatato che il nipotino se ne stava tranquillo, già addormentato fra le braccia di suo padre (mio figlio, che teneva il bambino perché mia nuora era al lavoro), ho fatto una cosa che raramente oso fare, un po’ per “snobbismo” e molto di più per disgusto: ho guardato quasi per intero un talk-show alla tv. Cosa c’è di martedì? “Di Martedì” su La7, appunto, del pessimo ma astuto Giovanni Floris, un ex della Rai a suo tempo soprannominato “il vespino della sinistra”. Ciò che è accaduto nel mondo virtuale di Floris – parte integrante dello spettacolo sistemico – mi ha fatto riflettere, portandomi a trarre conclusioni piuttosto inquietanti. Voglio condividere, di seguito, le mie riflessioni con i lettori di “Pauperclass”, che so essere pochi ma buoni. Mi sono visto il confronto fra Salvini, in collegamento esterno da Strasburgo, e una giornalista radical chic di “Repubblica” (principale rotolo di carta igienica della sinistra euroserva, buonista e pro-troika), tale insignificante Annalisa Cuzzocrea, presente in studio. La querelle era sugli immigrati clandestini che stanno arrivando a frotte nel nostro paese.
    L’attacco a Matteo Salvini da parte di Cuzzocrea, per la verità scontato e piuttosto prevedibile, verteva proprio su questo tema. Il segretario leghista ha distinto, come fa ultimamente con un po’ di retorica, fra gli immigrati regolari, che lavorano, pagano le tasse, mandano i figli a scuola, eccetera, e quelli clandestini che rappresentano un problema, per i populisti ma soprattutto per il popolo. Cuzzocrea, non trovando di meglio, ha obbiettato che anche i regolari possono essere entrati come clandestini, prima di regolarizzarsi con difficoltà. Matteo Salvini si è smarcato abilmente, in perfetta linea con quello che è il “sentiment” popolare di questi tempi, vincendo il confronto (almeno a mio dire) davanti agli occhi della cosiddetta opinione pubblica. Forse un po’ banale, vagamente propagandistico, ma sicuramente efficace: «Possiamo ospitare qualche altro milione di clandestini, in attesa che si regolarizzino e trovino un lavoro che non hanno neanche gli italiani? Vada a spiegarlo, signora, agli immigrati che sono qua regolarmente con i documenti a posto che stanno perdendo il lavoro, che non sanno come tirare a fine mese… Vada a spiegare a loro che l’Italia può ospitare altre migliaia … non so quante, decine, centinaia di migliaia – non so quante, mi dica lei un numero – di immigrati senza nessun tipo di titolo».
    E’ intervenuto Floris, a quel punto, forse in soccorso alla debole Cuzzocrea dagli argomenti scontati, cianciando qualcosa a riguardo di quelli che fanno lavorare in nero i clandestini, subito rintuzzato da un Salvini in forma, che non si è lasciato confondere o attirare in tranelli. Del resto, un altro giornalista che ha fatto domande al segretario leghista era Sergio Rizzo del “Corsera”, che però non sembrava intenzionato a mettere troppo in difficoltà Matteo Salvini, il quale ha fatto nel complesso una buona figura. All’inizio dell’intervista, Giovanni Floris dialogando con Salvini non ha “calcato troppo la mano”, lasciando il Matteo anti-Matteo piuttosto libero di dire la sua e anzi concludendo che Salvini «ha fatto una sorta di indice dei temi che tratteremo» (nel lungo talk-show). Bene Salvini, dunque, ma poi? Per farla breve, perché non voglio commentare tutto il lungo talk-show, le veline piddiote di Renzi, Alessandra Moretti, candidata alle regionali in Veneto, e Alessia Rotta della segreteria piddì (mi scappa una battuta, dato il cognome, ma mi trattengo per ragioni di stile), sono state letteralmente contraddette, sbugiardate e persino massacrate dai giornalisti presenti, come Mario Giordano direttore del Tg4 che ha “curato” particolarmente la Moretti, e da altri ospiti, come ad esempio l’agguerrito sindaco forzaitaliota di Ascoli Piceno, Guido Castelli, che stigmatizzava i drammatici tagli (renziano-piddini) alla spesa degli enti locali, o Massimiliano Fedriga capogruppo leghista alla Camera, che non mancava di assestare i suoi colpetti.
    In particolare Alessia Rotta è stata ben maciullata da uno scatenato Andrea Scanzi, del “Fatto Quotidiano”, che l’ha persino definita una dei “droidi televisivi” di Renzi, senza che il furbo e controllato Floris s’inquietasse più di tanto. Tutti, o quasi, contro la Moretti e la Rotta, questa ultima anello più che debole della catena renziana, soprattutto davanti a un “professionista della polemica” come Andrea Scanzi. Tanto più che Scanzi, di certo non favorevole alla Lega, ha detto che quelli di sinistra potrebbero riconoscersi nelle parole di Salvini, che ha accennato a problemi reali come quello degli esodati e della “legge Fornero”, della pressione fiscale insostenibile, degli studi di settore, eccetera. Massimiliano Fedriga, leghista, dichiarava di apprezzare le uscite di Scanzi, e Mario Giordano, in collegamento esterno, si inseriva per tirare qualche mazzata anche lui. Ebbene, mi sono chiesto perché mai uno come Floris, apparatchik massmediatico al servizio del potere, ha graziato il “cattivo” Salvini, che nel complesso ne è uscito bene, e ha permesso che dei professionisti del talk-show, molto agguerriti come Scanzi e Giordano, assieme ad altri soggetti più o meno ostili alle veline renziane, facessero a fettine i “droidi televisivi” di Renzi (secondo l’indovinata espressione del giornalista del “Fatto Quotidiano”).
    Intuendo che uno come Floris difficilmente rischierebbe la sua brillante e remunerativa carriera se non avesse ricevuto qualche input dall’alto, posso concludere che l’aria, forse, sta cambiando e il futuro ci riserverà qualche sorpresa. Anzitutto, ci sono sondaggi segreti – non diffusi mediaticamente, ma a uso e consumo delle sub-élite italiane – che avvertono di un vero e proprio collasso nei consensi per Renzi e per il piddì? E’ possibile che sia così e ciò non potrebbe essere ignorato dai manovratori sopranazionali e dai loro collaborazionisti locali, che dovrebbero correre ai ripari. Non è che in questi sondaggi segreti, molto più aderenti alla realtà di quelli a uso e consumo della neoplebe, Salvini stia crescendo più di quello che mediaticamente i sondaggisti ammettono? Anche questo è possibile, nonostante oggi si sbandieri – sempre a “beneficio” del popolo bue – una certa ripresa di consensi per l’esausto Grillo. Cosa ancor più importante, c’è un’incertezza che riguarda la sorte della martoriata Grecia. Nonostante Tsipras abbia abbassato la testa davanti alla troika (come avevo previsto), da bravo mentitore sinistroide addirittura sostituendo il fido Varoufakis, la Grecia potrebbe riservare nuove sorprese e innescare una violenta crisi in Europa.
    La crisi colpirebbe inevitabilmente, con brutali impennate dello spread e degli interessi sul debito, anche la sottomessa Italia. E le menzogne renziano-piddine non avrebbero più l’effetto imbonitore, sul volgo, che oggi osserviamo. Si diffonderebbe la paura, mista a un senso di totale impotenza politica che caratterizza i nostri anni, e il famigerato governo-troika commissariale, con la presenza di “tecnici”, stranieri e commissari europei potrebbe diventare, in poche settimane, una realtà. Con o senza il passaggio delle elezioni politiche. Si sta avvicinando per Renzi – parliamo più ragionevolmente di mesi che di settimane – il momento di lasciare il governo, anticipatamente rispetto al 2018? Forse. Potrebbe essere “in cantiere”, per decisione degli occupatori dell’Italia, il passaggio dai governi-Quisling (gli ultimi tre) al governo-troika terminale. I segnali più potenti saranno quasi sicuramente, da un punto di vista economico-finanziario, l’innalzamento repentino dello spread con il bund (non necessariamente e non soltanto “per colpa” della Grecia), che potrà arrivare a quattro volte il livello attuale, e pesanti attacchi speculativi internazionali, accompagnati da una campagna terroristica dei media per impaurire la popolazione e farle accettare, senza reagire, il governo-troika deciso nelle capitali che contano.
    Un mio interlocutore, tale Maurizio, ha ipotizzato che i signori della finanza che manovrano Renzi e il piddì potrebbero seguire una strada ancor più tortuosa e subdola, per chiudere definitivamente nella morsa l’Italia. L’Italicum dovrebbe essere approvato in breve, a colpi di fiducia, senza nuovi passaggi al Senato per modifiche indesiderate nel testo; ma anche questo non è certo, nonostante la viltà e la malafede delle “opposizioni” interne al piddì e visto il voto segreto. Comunque sia, niente è irreversibile e l’Italicum emana un forte tanfo d’incostituzionalità, cosa che potrebbe fargli fare la fine del Porcellum (ma più rapidamente), nonostante lo straordinario “allineamento astrale” di tutte le istituzioni sotto l’egida della troika. Il “percorso” potrebbe essere quello di permettere una vittoria elettorale – più che di Grillo, il quale ha già vinto senza ottenere risultati – dell’“astro nascente” dell’opposizione parlamentare a Renzi, cioè Matteo Salvini. Si tratterebbe, poi, di affondare il suo governo “populista” e “euroscettico” (e ovviamente il suo consenso) a colpi di spread e di speculazione finanziaria, imponendo a stretto giro di posta un governo-troika, con il paese scivolato nel panico e attraversato dalla paura, da commissariare definitivamente.
    Le ipotesi che ho presentato fin qui sembrano inverosimili? Non credo, perché le élite finanziarie che tirano i fili del piddì si sono mostrate prive di scrupoli in molte occasioni, e lo saranno anche nei confronti dell’Italia. Se Renzi dovrà lasciare la presidenza del Consiglio (e probabilmente la segreteria piddina) lo farà obbedendo agli ordini. Se Salvini dovrà essere utilizzato come “vittima sacrificale” per arrivare al governo-troika commissariale, non avrà modo di evitarlo, e così Grillo con il cinque stelle, nel caso in cui i maggiori consensi dovessero riversarsi su di lui e non sul segretario leghista. Oppure, in modo meno indiretto, se ci dovesse essere un brutto Grexit, Renzi potrebbe essere costretto a mollare la poltrona a causa dello spread alle stelle (ironia della sorte, lo stesso pretesto usato contro Berlusconi) e l’occasione sarebbe ghiotta per imporre all’Italia un governo di commissari della troika.
    (Eugenio Orso, “Dal governo Renzi al governo troika’”, da “Pauperclass” del 30 aprile 2015).

    La sera di martedì 28 aprile, tornato a casa dall’ufficio e costatato che il nipotino se ne stava tranquillo, già addormentato fra le braccia di suo padre (mio figlio, che teneva il bambino perché mia nuora era al lavoro), ho fatto una cosa che raramente oso fare, un po’ per “snobbismo” e molto di più per disgusto: ho guardato quasi per intero un talk-show alla tv. Cosa c’è di martedì? “Di Martedì” su La7, appunto, del pessimo ma astuto Giovanni Floris, un ex della Rai a suo tempo soprannominato “il vespino della sinistra”. Ciò che è accaduto nel mondo virtuale di Floris – parte integrante dello spettacolo sistemico – mi ha fatto riflettere, portandomi a trarre conclusioni piuttosto inquietanti. Voglio condividere, di seguito, le mie riflessioni con i lettori di “Pauperclass”, che so essere pochi ma buoni. Mi sono visto il confronto fra Salvini, in collegamento esterno da Strasburgo, e una giornalista radical chic di “Repubblica” (principale rotolo di carta igienica della sinistra euroserva, buonista e pro-troika), tale insignificante Annalisa Cuzzocrea, presente in studio. La querelle era sugli immigrati clandestini che stanno arrivando a frotte nel nostro paese.

  • Rella: guerra alla memoria, per dominarci definitivamente

    Scritto il 25/4/15 • nella Categoria: idee • (3)

    Benjamin ha scritto che ogni documento di cultura è anche un documento di barbarie. Una passeggiata nei Fori Imperiali a Roma ne è una straordinaria illustrazione. Certo, con il passare del tempo il monumento, eretto per celebrare una vittoria, e di converso una sconfitta, si allontana dall’occasione che lo ha generato. Non testimonia più un potere attuale, ma piuttosto l’opera del tempo che si deposita su di esso, lo modifica, spesso lo risignifica. Accanto al Monumentum, vale a dire a ciò che deve essere ricordato, c’è la damnatio memoriae, ciò che deve essere dimenticato. Dall’antichità ai nostri giorni la gestione della memoria e la gestione dell’oblio sono state strumenti politici, strumenti di potere. Nella distruzione dei monumenti di Mosul c’è però qualcosa che va oltre la damnatio memoriae. È una operazione di barbarie, ma di barbarie ultramoderna, addirittura postmoderna. I capolavori a cui l’uomo dovrebbe legare la sua memoria o addirittura la sua identità vengono spostati di qui e di là scopi turistici ed economici, o addirittura promozionali, o propagandistici, come lo sono le distruzioni di Mosul.
    Su Botticelli all’Expo non caleranno magli e martelli, ma orde di turisti a decretarne la sostanziale insignificanza culturale. Ancora una volta la barbarie dell’Isis è ultramoderna, spettacolare, cinematografica, o meglio da serie Tv. Ha scritto Arjun Appadurai che nel periodo della globalizzazione si sono moltiplicati episodi di violenza immane, che è penetrata con ferocia chirurgica all’interno dei corpi, dilaniandone le carni. Dalla Bosnia negli anni Novanta del secolo scorso, al Ruanda, e via via fino agli orrori attuali è stata una catena di delitti, una striscia ininterrotta di sangue. L’Isis è andato oltre. Ha massacrato centinaia e migliaia di persone, ma ha spettacolarizzato la singolarità. Una vittima, un coltello, un carnefice, un corpo senza testa. È una gestione sapiente dell’orrore. Si pensi come l’uccisione con una lama implichi un rapporto diretto, inequivocabile, carnale, tra i corpi della vittima e del carnefice.
    Bush è colpevole di molte cose. Già Bush padre con la Guerra del Golfo aveva trasformato, come aveva scritto Asor Rosa, un piccola guerra locale in una guerra mondiale: una guerra senza conflitto effettivo, una guerra dell’epoca della globalizzazione. Bush figlio ha proseguito. Ma non solo lui. Tutto l’Occidente si è trovato – dopo l’Iraq e dopo l’Afghanistan – a gestire conflitti per delega, anche quando, come in Libia, c’è stato intervento diretto. E ovunque ha lasciato dietro di sé caos e violenza. Oggi c’è chi chiede un intervento di polizia internazionale contro l’Isis. I pacifisti ironizzano sull’elmetto indossato dai fautori dell’intervento. Ora, al di là del pericolo paventato dall’Occidente, assistiamo a veri e propri etnocidi: intere tribù e intere popolazioni eliminate per il loro credo religioso o per la loro etnia. Era giusto intervenire contro Hitler e cercare di fermare l’Olocausto? Non era forse giusto magari intervenire anche prima?
    Il potere strega, affascina: chi lo esercita e chi lo subisce. Penso all’immane sforzo di Pier Paolo Pasolini per fronteggiare il potere in “Petrolio”, facendo stuprare il suo personaggio, trasformandolo in donna, sgretolando la forma stessa del romanzo, per concludere che anche organizzando il mondo in un’opera d’arte si esercita una forma di potere. Penso a Kafka che, come dice Canetti, ha combattuto il potere in tutte le sue forme, per riconoscere nelle lettere alla fidanzata, Felice, che egli era bensì, come lei, vittima, ma al tempo stesso era anche carnefice. Dunque esercitiamo sempre una qualche forma di potere, e sempre in qualche forma lo subiamo. Si tratta di essere costantemente vigili. Non piegarsi ad esso, riconoscerlo, resistere alla sua seduzione. Direi che la conoscenza è ormai così diffusa che rischia di diventare un rumore di fondo, di ottundere la nostra percezione dei conflitti e della loro durezza. Diventa perfino difficile, nell’iterazione degli omicidi dell’Isis, convincerci che quello che vediamo è sangue vero. Ho parlato della gestione del tempo e della memoria come un atto di potere e di dominio. Qual è il potere che gestisce oggi l’immane memoria della rete? A quale fine?
    Posso citare i nomi dei proprietari di Google, di Amazon, di Facebook. Non mi dicono nulla. Questa è l’epoca in cui uno dei più formidabili strumenti di potere della storia dell’umanità scivola nell’anonimato, si fa oscuro e indecifrabile. Si fa neutro. proprio come le operazioni di Borsa computerizzate che distruggono l’economia di una nazione, o creano profitti scandalosamente osceni per i singoli. Inoltre la rete spinge a vivere il tempo in istanti submicroscopici, tempi segmentati fatti solo di “ora”: da un’“ora” a un’altra “ora”, senza che questo tempo possa diventare una memoria individuale. Mi chiedo se non sia in atto un processo di desoggettivazione, in quanto il soggetto può dirsi tale soltanto se in possesso di una propria memoria e di un proprio tempo. La damnatio sarebbe in questo caso la cancellazione della memoria individuale. Foucault concludeva il suo ultimo seminario invitando alla “cura di sé”, a costruirsi come soggetti e a mantenersi soggetti. Foucault sapeva come questo processo di soggettivazione fosse sempre a rischio.
    (Franco Rella, dichiarazioni rilasciate a Monica Pepe per l’intervista “Morte della civiltà?” pubblicato da “ZeroViolenza” il 9 aprile 2015. Filosofo e saggista, Rella ha insegnato estetica allo Iuav di Venezia. È autore di saggi su arte, letteratura e filosofia, come “L’enigma della bellezza”, “La responsabilità del pensiero”, “Interstizi. Tra arte e filosofia”, “Ai confini del corpo”, “Forme del sapere. L’eros, la morte, la violenza” e “Figure del tempo”, introduzione al secondo volume dell’Enciclopedia delle Arti Contemporanee, a cura di Achille Bonito Oliva).

    Benjamin ha scritto che ogni documento di cultura è anche un documento di barbarie. Una passeggiata nei Fori Imperiali a Roma ne è una straordinaria illustrazione. Certo, con il passare del tempo il monumento, eretto per celebrare una vittoria, e di converso una sconfitta, si allontana dall’occasione che lo ha generato. Non testimonia più un potere attuale, ma piuttosto l’opera del tempo che si deposita su di esso, lo modifica, spesso lo risignifica. Accanto al Monumentum, vale a dire a ciò che deve essere ricordato, c’è la damnatio memoriae, ciò che deve essere dimenticato. Dall’antichità ai nostri giorni la gestione della memoria e la gestione dell’oblio sono state strumenti politici, strumenti di potere. Nella distruzione dei monumenti di Mosul c’è però qualcosa che va oltre la damnatio memoriae. È una operazione di barbarie, ma di barbarie ultramoderna, addirittura postmoderna. I capolavori a cui l’uomo dovrebbe legare la sua memoria o addirittura la sua identità vengono spostati di qui e di là scopi turistici ed economici, o addirittura promozionali, o propagandistici, come lo sono le distruzioni di Mosul.

  • Expo e MasterChef, l’Italia che insegna a servire i padroni

    Scritto il 06/4/15 • nella Categoria: idee • (1)

    Aveva visto giusto Corrado Ravazzini, nel suo cortometraggio “Perfetto”, a identificare nel ristorante il luogo dove meglio emerge, e meglio viene esibito, lo status sociale nel capitalismo post-moderno. Si andava al ristorante banalmente per mangiare, ma ora tra cuochi che non sono più cuochi bensì chef, tra piatti che non sono più piatti ma opere di arte moderna impossibilitate a riempire lo stomaco perchè miserrime nel contenuto e nelle dimensioni, diventa chiaro che tra il fine (mangiare, possibilmente bene) e il mezzo (il ristorante, guai a chiamarlo trattoria perchè troppo evocatoria di bifolchi camionisti con la camicia a quadretti) si sono inseriti una serie di sgradevoli ostentazioni di “skill sociali” che contribuiscono a farmi guardare all’ambiente degli chef e dei ristoranti blasonati con una sorta di imponderabile disgusto. L’avevamo già visto con il mercato del vino, dove per “ribrandizzare” un buon Barbera erano arrivate orde di buffoni chiamati sommelier a sentire retrogusti improbabili di tabacco e di cumino a questo e quell’altro vino; era necessario trasformare la bevanda popolare per eccellenza, il vino, in uno skill sociale da esibire per dimostrare il proprio status.
    Tale disgusto si amplifica a dismisura quando accendo la televisione e osservo per alcuni minuti (limite massimo di tolleranza) una puntata di “Masterchef”. Questa spiacevole sensazione (appunto, di disgusto) non è tuttavia del tutto infruttuosa, perchè ha un effetto pedagogico e mostra chiaramente che l’equazione “ristorante = ostentazione della differenza di classe sociale” non è solo frutto della mia immaginazione ma una realtà oggettiva e conclamata. Del resto non si tratta solo di un paradigma sociale che ci ricorda – per chi l’avesse dimenticato – che viviamo ancora in una società divisa in classi, ma anche del paradigma del capolinea di una nazione, la nostra, che ormai si è ridotta come un paese del terzo mondo a vendere solo cibo e turismo. Se penso all’expo del 2015 dedicato al cibo (si ricordi che per esempio la Tour Eiffel fu costruita appunto nell’expo del 1889, e si raffronti con la miserrima sagra del tartufo nostrana a cui l’abbiamo ridotta nel 2015) mi rendo conto che per un giovane in questo paese non c’è più speranza.
    L’unica prospettiva che gli offre questo paese è scegliere tra una carriera come cameriere o come cuoco, magari con la segreta speranza un giorno di diventare chef e rifarsi delle umiliazioni subite dal cliente che per definizione “ha sempre ragione”, e di quelle subite dal padrone che, per definizione, ha ancora più ragione del cliente. Diventa così magicamente spiegabile, per noi outsider del mondo della cucina, tutto l’assurdo interesse sado-masochista, che in questa infelice nazione milioni di persone riversano in questa sarabanda di maleducazione e arroganza chiamata “Masterchef”. Frotte di cuochi e camerieri vedono in “Masterchef” una sorta di rievocazione della loro triste, alienante e frustrante vita quotidiana. Ma c’è di più, “Masterchef” è il momento pedagogico in cui bisogna insegnare a milioni di giovani italiani come ci si comporta nei confronti dei superiori, come subire i peggiori insulti senza fiatare; del resto è questo che offre il mercato del lavoro al giovane italiano.
    Se l’industria è morta, finisce la possibilità anche solo teorica di fare una carriera “tecnica” in cui il lavoro sia scisso dal suo aspetto servile di “sudditanza al cliente” (e al padrone). Ma l’industria è morta e all’Expo si parlerà di cibo, cibo solo cibo e nient’altro che cibo… Riflesso di ciò che l’Italia è diventata: un paese con una minoranza di ricchi e una maggioranza di poveri che possono lavorare solo e soltanto in una serie di lavori servili che gratifichino i padroni, perchè è questa la traduzione vera della parola arcana “terziarizzazione” dietro la quale si cercano di nascondere le tremende condizioni della società capitalistica postindustriale. Credevamo che la fabbrica fosse l’apice dello sfruttamento, e invece è arrivata l’era del ristorante, degli chef e dei “Masterchef”. Cari giovani, buona fortuna, ne avremo bisogno.
    (Enrico Fiorini, “Masterchef ed Expo, l’Italia dei servi e dei padroni”, da “L’Interferenza” del 23 marzo 2015).

    Aveva visto giusto Corrado Ravazzini, nel suo cortometraggio “Perfetto”, a identificare nel ristorante il luogo dove meglio emerge, e meglio viene esibito, lo status sociale nel capitalismo post-moderno. Si andava al ristorante banalmente per mangiare, ma ora tra cuochi che non sono più cuochi bensì chef, tra piatti che non sono più piatti ma opere di arte moderna impossibilitate a riempire lo stomaco perchè miserrime nel contenuto e nelle dimensioni, diventa chiaro che tra il fine (mangiare, possibilmente bene) e il mezzo (il ristorante, guai a chiamarlo trattoria perchè troppo evocatoria di bifolchi camionisti con la camicia a quadretti) si sono inseriti una serie di sgradevoli ostentazioni di “skill sociali” che contribuiscono a farmi guardare all’ambiente degli chef e dei ristoranti blasonati con una sorta di imponderabile disgusto. L’avevamo già visto con il mercato del vino, dove per “ribrandizzare” un buon Barbera erano arrivate orde di buffoni chiamati sommelier a sentire retrogusti improbabili di tabacco e di cumino a questo e quell’altro vino; era necessario trasformare la bevanda popolare per eccellenza, il vino, in uno skill sociale da esibire per dimostrare il proprio status.

  • Conoscere la verità, ecco la grande rivoluzione che faremo

    Scritto il 05/4/15 • nella Categoria: idee • (8)

    Che altro deve succedere perché la mia generazione scenda in piazza e faccia una rivoluzione? E pure basta guardare a tassazione, disoccupazione (in particolare quella giovanile), precariato, il deficit democratico delle istituzioni europee, la violenta politica imperialista dei paesi Nato (Yugoslavia, Afghanistan, Iraq, Libia, Siria, e Ucraina sono le medaglie insanguinate che portiamo al petto) per rendersi conto che la società sta regredendo e l’Europa ha preso una svolta di tipo autoritario sia pure nascosta dagli specchi di istituzioni internazionali paramassoniche al servizio di forze reazionarie; la gente non lo capisce o se ne frega? Spesso sento dire che in Italia non faremo mai una rivoluzione perché siamo un paese di vecchi o perché il 70% degli italiani ha una casa di proprietà o anche perché ci basta guardare il calcio in televisione mangiare un piatto di pasta e fumarci una sigaretta con il caffè. La verità che è che il malcontento può portare la gente in piazza ma questo non basta a fare una rivoluzione, per quello ci vuole un’organizzazione pronta a succedere all’amministrazione uscente e tanti soldi, come ci ha mostrato il Dipartimento di Stato Americano, fabbrica di tutte le ultime rivoluzioni in giro per il mondo (il Venezuela o l’Ucraina sono esempi perfetti).
    La verità è che una rivoluzione la possiamo fare anche senza scendere per strada informandoci e informando chi ci circonda. Il sistema informazione in Italia è sotto lo stretto controllo di gruppi (lobby, massonerie, servizi segreti, gruppi bancari e multinazionali) filo-atlantici come voluto nel piano di rinascita democratica della P2; lo stesso succede negli altri paesi occidentali ed infatti questi sistemi sono coordinatissimi quando si tratta di argomenti sensibili come guerre e rivoluzioni, Unione Europea. E’ risaputo che prima di intervenire militarmente le oligarchie occidentali devono vendere la guerra all’opinione pubblica il controllo totale dei mezzi di informazione è cruciale alla raggiungimento di tale obbiettivo. Vi basterà osservare come prima di un intervento militare i telegiornali riportino notizie di odiose violenze contro donne e bambini, servono esattamente a vendervi la guerra. Se pensate che quello che è successo in Iraq o in Libia, dove sono morte centinaia di migliaia di persone, sia il risultato di una guerra ‘giusta’, non è perché siete cretini ma semplicemente vivete in un contesto di precarietà lavorativa, distratti dall’industria dell’intrattenimento e sovraesposti ad una propaganda bellica contro la quale non avete ne voglia ne tempo di assumere un ruolo critico.
    Ci confondono con il teatro della politica dove la dialettica destra e sinistra è solo intrattenimento che persegue un pensiero unico trasversale sintesi di interessi privati, aziendali, finanziari, militari, massonici e criminali. Mi rendo conto che potrei scrivere pagine e pagine per argomentare alcuni temi toccati ma preferisco suggerire al lettore un modo pratico per cominciare la propria rivoluzione… culturale. In un mondo dove l’informazione è un prodotto come un altro e l’acquirente sono i grossi gruppi di potere che governano il mondo, il sistema produce l’informazione commissionata selezionando in modo darwiniano i compiacenti giornalisti allineati. Negli ultimi tempi c’e’ un grande sforzo di creare raccoglitori di news da parte di giganti come Yahoo o Google per poter controllare quello che la gente legge. Spezzate le catene con il mainstrean e cominciate a leggere anche le news di fonti alternative. Il modo migliore e scaricare un’app che si chiama feedly o anche semplicemente salvare queste fonti nel folder del vostro browser.
    (Ludovico Nobile, “Impariamo a informarci in tempi moderni”, da “Conflitti e strategie” del 29 marzo 2015).

    Che altro deve succedere perché la mia generazione scenda in piazza e faccia una rivoluzione? E pure basta guardare a tassazione, disoccupazione (in particolare quella giovanile), precariato, il deficit democratico delle istituzioni europee, la violenta politica imperialista dei paesi Nato (Yugoslavia, Afghanistan, Iraq, Libia, Siria, e Ucraina sono le medaglie insanguinate che portiamo al petto) per rendersi conto che la società sta regredendo e l’Europa ha preso una svolta di tipo autoritario sia pure nascosta dagli specchi di istituzioni internazionali paramassoniche al servizio di forze reazionarie; la gente non lo capisce o se ne frega? Spesso sento dire che in Italia non faremo mai una rivoluzione perché siamo un paese di vecchi o perché il 70% degli italiani ha una casa di proprietà o anche perché ci basta guardare il calcio in televisione mangiare un piatto di pasta e fumarci una sigaretta con il caffè. La verità che è che il malcontento può portare la gente in piazza ma questo non basta a fare una rivoluzione, per quello ci vuole un’organizzazione pronta a succedere all’amministrazione uscente e tanti soldi, come ci ha mostrato il Dipartimento di Stato Americano, fabbrica di tutte le ultime rivoluzioni in giro per il mondo (il Venezuela o l’Ucraina sono esempi perfetti).

  • L’ex uomo Cia: giornalisti, vi bevete proprio tutte le bufale

    Scritto il 25/2/15 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Giornalisti, ma perché ve le bevete proprio tutte, le bufale che vi propina il potere? La notizia è che a domandarlo non è un reporter d’inchiesta, ma un ex dirigente della Cia, Raymond McGovern, per anni a capo del “National Intelligence Estimates”, uno dei massimi organismi dell’agenzia di Langley. Marcello Foa lo ha incontrato in un recente dibattito pubblico a Firenze. Oggi, McGovern «è uno dei più arcigni difensori delle libertà civili e implacabile critico delle politiche della Casa Bianca, sia di George W. Bush sia di Barack Obama». Foa condivide al 100% la sua analisi: «Oggi la stampa non svolge il proprio ruolo di cane da guardia della democrazia, semmai è vero il contrario: troppo compiacente, troppo schierata, troppo pavida nei momenti in cui bisognerebbe essere coraggiosi. Si beve tutte le bufale degli spin doctor». Ovvio che l’opinione pubblica sia sempre più indifesa: non viene solo disinformata, viene anche puntualmente depistata non appena il Palazzo teme che qualche verità scomoda possa venire a galla.
    Viviamo immersi in un mare di notizie false, di mezze notizie manipolate, di notizie taciute. Nel suo blog sul “Giornale”, Foa ricorda come la Troika abbia appena «piegato la Grecia anche grazie alle sottili pressioni di Sarkozy». L’ex presidente francese, avendo avuto accesso alla lista dei clienti “Hsbc” trafugata a Ginevra da Hervé Falciani, sapeva che la madre dell’allora premier Papandreu, socialista, possedeva un conto non dichiarato da 500 milioni di euro. «Diciamola tutta: fu un complotto, di cui naturalmente nessuno era a conoscenza». L’ex ministro del Tesoro americano, Tim Geithner, ha ammesso che nel 2011 Berlusconi fu disarcionato in seguito a una cospirazione. In Ucraina, continua Foa, un anno fa la verità sulla cosiddetta rivolta di Piazza Maidan «è stata ampiamente aggiustata a fini mediatici, oltre che ovviamente politici, presentando quello che di fatto era un golpe sotto le sembianze molto più confortevoli della commovente e pacifica rivoluzione di piazza e tacendo sul pesante, decisivo coinvolgimento di forze paramilitari neonaziste».
    Scandalosa, poi, la vicenda di “Charlie Hebdo”, che «presenta ancora oggi numerosi aspetti non chiariti», alcuni dei quali molto imbarazzanti per la stampa internazionale. «Uno su tutti: quando i leader mondiali si sono ritrovati per capeggiare l’immensa marcia popolare in difesa della libertà di stampa». Peccato, però, che i leader «non abbiano mai guidato il corteo, ma si siano fatti filmare in una strada chiusa al pubblico». Attenzione: «Dietro di loro non marciava nessuno, ma naturalmente né i tg né i giornali lo hanno detto al pubblico, preferendo enfatizzare la verità formale». Persino le rivelazioni sulla “Lista Falciani” «non possono essere certo considerate giornalismo di inchiesta, sebbene siano state presentate come tali». Qualcuno «ha semplicemente recapitato a un pool di testate internazionali gli elenchi, di cui peraltro non si sa nemmeno se autentici. E i giornali hanno sparato i nomi in prima pagina, senza nemmeno chiedersi se loro fossero strumentalizzati e a chi convenisse la pubblica gogna».
    Illuminante, secondo Foa, il duro giudizio che Raymond McGovern riserva alla stampa amercana, «che noi continuiamo a torto a mitizzare, come se fosse ancora quella dei tempi del Watergate». Stampa che, peraltro, «è estendibile a quella europea». McGovern non è certo un complottista, premette Foa: «Tutt’altro: adotta un approccio pragmatico e saggio. Non insegue le proprie fantasie e i propri sospetti, per quanto suggestivi, ma si basa  sull’analisi dei fatti, sull’individuazione delle incongruenze, sulla formulazione insistita e pertinente di domande sugli aspetti poco chiari di una vicenda, sulla capacità di individuare connessioni non evidenti a prima vista e di costruire il proprio giudizio su prove o comunque su riscontri oggettivi. Insomma, ricostruisce con il dovuto scetticismo. Ed è paradossale che debba essere un ex analista della Cia animato da un’ardente passione civica a ricordare ai giornalisti quella che dovrebbe essere una caratteristica innata di chi fa il mio mestiere», conclude Foa, che cita anche l’ex consulente politica Naomi Wolf, divenuta una scrittrice famosa grazie al romanzo “The end of America” in cui denuncia i rischi di un’involuzione totalitaria negli Stati Uniti. Oggi, dice la Wolf, «siamo entrati in un’era in cui non è assurdo per un giornalista chiedersi sistematicamente se gli eventi a cui assiste sono veri o falsi. E più un evento è spettacolare, più alto è il rischio che sia stato inventato ad arte ovvero che si tratti di notizie false, create da governi e  da servizi segreti».

    Giornalisti, ma perché ve le bevete proprio tutte, le bufale che vi propina il potere? La notizia è che a domandarlo non è un reporter d’inchiesta, ma un ex dirigente della Cia, Raymond McGovern, per anni a capo del “National Intelligence Estimates”, uno dei massimi organismi dell’agenzia di Langley. Marcello Foa lo ha incontrato in un recente dibattito pubblico a Firenze. Oggi, McGovern «è uno dei più arcigni difensori delle libertà civili e implacabile critico delle politiche della Casa Bianca, sia di George W. Bush sia di Barack Obama». Foa condivide al 100% la sua analisi: «Oggi la stampa non svolge il proprio ruolo di cane da guardia della democrazia, semmai è vero il contrario: troppo compiacente, troppo schierata, troppo pavida nei momenti in cui bisognerebbe essere coraggiosi. Si beve tutte le bufale degli spin doctor». Ovvio che l’opinione pubblica sia sempre più indifesa: non viene solo disinformata, viene anche puntualmente depistata non appena il Palazzo teme che qualche verità scomoda possa venire a galla.

  • La sensazionale notizia della presenza dell’Isis in Libia

    Scritto il 18/2/15 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    Tragico errore o cinica scommessa? E se l’attacco a Gheddafi scatenato da Francia e Gran Bretagna nel 2011 fosse coinciso con il vero atto di fondazione della mostruosa creatura occidentale chiamata Isis? La Libia viene ora presentata come se fosse invasa da un’armata di Gengis Khan arrivata all’improvviso da non si sa dove, attraverso quali frontiere. In realtà, tra gli “shabab” insorti contro Gheddafi prevalse da subito la leadership fondamentalista, appoggiata dalle bombe della Nato. Crollato il regime, e aperto l’immediato e sanguinoso regolamento di conti tra clan, centinaia di guerriglieri libici furono segretamente dirottati in Siria, attraverso la Turchia, per creare il nerbo all’Esercito Siriano Libero, quello che un anno più tardi – con le armi chimiche usate contro i civili nel tentativo di incolpare Assad – portò il mondo a un passo dalla Terza Guerra Mondiale, spingendo anche il Papa (insieme al Parlamento di Londra) a schierarsi vigorosamente contro l’attacco Nato. Svanita la possibilità di “jihadizzare” Damasco, ecco la nascita dell’Isis, guidato tra le macerie dell’Iraq dall’oscuro al-Baghdadi reduce dalla Siria, dov’era assistito e finanziato dagli Usa tramite missioni come quelle coordinate sul campo dal senatore John McCain. Qualcuno dunque riesce ancora a stupirsi della “comparsa” dell’Isis in Libia?
    Visto il tragico copione degli eventi, Vincenzo Brandi su “Megachip” ricorda che quattro anni fa fu attaccato il paese più prospero dell’Africa, uno Stato che «stava in pace da 42 anni» ed «era riuscito a contenere i contrasti tra le varie tribù». Il Pil di Tripoli era il più alto di tutto il continente: la Libia di Gheddafi «ospitava 2 milioni di lavoratori immigrati, aveva ricontrattato le licenze petrolifere con le compagnie straniere ottenendo il 90% dei proventi per lo Stato libico redistribuendo i profitti tra la popolazione», e inoltre «riconosceva pienamente i diritti delle donne, aveva fornito il paese di acqua potabile riuscendo anche a raggiungere l’autosufficienza alimentare», dopo aver «allontanato tutte le basi militari straniere, acquisendo una piena indipendenza». La campagna militare anglo-francese del 2011, cui si associò l’Italia in extremis per tutelare i terminali petroliferi dell’Eni, fu preceduta dalla consueta disinformazione mirata a creare consenso bellico, con l’invariabile demonizzazione del dittatore, grande amico dell’Italia fino al giorno prima, accusato persino di aver fatto scavare inesistenti fosse comuni, evidentemente per occultare i corpi di altrettanto immaginarie stragi di civili.
    Sulla Libia, nel 2011 gli Usa si lasciarono ritrarre in posizione più defilata. «La pensavamo come l’Italia: non bisogna intervenire», dice ora a “La7” un super-falco come il politologo Edward Luttwak, che però sui tagliagole mediatici del “Califfato” oggi dice: «Non chiamiamoli Isis, ma Islam: quello è il pericolo da fermare». E’ esattamente la stessa conclusione a cui puntano i macellai parigini di “Charlie Hebdo” e lo stragista solitario danese: il risultato delle loro azioni è la criminalizzazione indiscriminata di tutti i musulmani, verso lo “scontro di civiltà” tanto caro ai signori della guerra, al comando della politica estera Usa a partire dall’11 Settembre. Secondo Gioele Magaldi, autore del libro-denuncia “Massoni”, l’ex presidente francese Sarkozy, che per primo attaccò la Libia bomdardando Bengasi, sarebbe affiliato alla superloggia “Hathor Pentalpha” creata dai Bush, loggia a cui apparterrebbe anche Tony Blair, l’inventore delle “armi di distruzione di massa” di Saddam. Lo stesso filo rosso-sangue collegherebbe Jeb Bush, possibile candidato alle presidenziali 2016, con lo stesso al-Baghdadi, il leader jihadista in apparenza comparso dal nulla – come Bin Laden – per terrorizzare l’opinione pubblica occidentale.
    Nell’immenso caos nel quale è stato precipitato il mondo dopo il crollo dell’Urss, si susseguono ipotesi di spregiudicati complotti – alcuni chiaramente leggibili subito, altri confermati spesso dai fatti a posteriori, da prove e ammissioni – mentre avanza all’orizzonte l’inevitabile collisione geopolitica con la Cina, sempre più prossima a una Russia sfidata in Siria e ora assediata alla frontiera con l’Ucraina. Oltre alla coltre di nebbia stesa dai media e dai tanti “debunker”, gli incursori anti-complottistici (la Gran Bretagna ha recentemente reclutato centinaia di “troll” da scatenare su Facebook per smentire le accuse più insidiose), restano perfettamente percepibili le trame in corso, soggette poi al vaglio dell’imponderabile, e in particolare le manovre dell’Occidente per incunearsi nella grande faglia che separa i due rami dell’Islam: da Bin Laden in poi, finora l’intelligence atlantica ha puntato sui sunniti, arma letale contro l’Iran sciita e i suoi alleati regionali, come le milizie libanesi di Hezbollah che hanno arginato l’espansione di Israele. Nonostante quasi 15 anni di guerre ininterrotte, rovine, vittime e profughi, paesi devastati, “fallimenti” dietro cui si celano lucrosissimi business di armamenti e ricostruzioni, i signori della guerra restano al riparo: nessuno si domanda perché tutto questo accada, e il mainstream può persino permettersi di inscenare la “sorpresa libica” dell’Isis, col suo spettacolo dell’orrore.

    Tragico errore o cinica scommessa? E se l’attacco a Gheddafi scatenato da Francia e Gran Bretagna nel 2011 fosse coinciso con il vero atto di fondazione della mostruosa creatura occidentale chiamata Isis? La Libia viene ora presentata come se fosse invasa da un’armata di Gengis Khan arrivata all’improvviso da non si sa dove, attraverso quali frontiere. In realtà, tra gli “shabab” insorti contro Gheddafi prevalse da subito la leadership fondamentalista, appoggiata dalle bombe della Nato. Crollato il regime, e aperto l’immediato e sanguinoso regolamento di conti tra clan, centinaia di guerriglieri libici furono segretamente dirottati in Siria, attraverso la Turchia, per creare il nerbo all’Esercito Siriano Libero, quello che un anno più tardi – con le armi chimiche usate contro i civili nel tentativo di incolpare Assad – portò il mondo a un passo dalla Terza Guerra Mondiale, spingendo anche il Papa (insieme al Parlamento di Londra) a schierarsi vigorosamente contro l’attacco Nato. Svanita la possibilità di “jihadizzare” Damasco, ecco la nascita dell’Isis, guidato tra le macerie dell’Iraq dall’oscuro al-Baghdadi reduce dalla Siria, dov’era assistito e finanziato dagli Usa tramite missioni come quelle coordinate sul campo dal senatore John McCain. Qualcuno dunque riesce ancora a stupirsi della “comparsa” dell’Isis in Libia?

  • Praticamente mezzo paese, un noir sull’Italia che affonda

    Scritto il 08/1/15 • nella Categoria: Recensioni • (Commenti disabilitati)

    L’assassino non è il maggiordomo, è il sindaco. O il braccio destro dell’ex vicesindaco. O la moglie, l’amante, l’ex prostituta, la figlia che non studia e non lavora. L’assassino è il figliolo trascurato, il becchino mezzo matto, il barista di uno qualsiasi dei 41 bar che affollano il centro storico. La lista dei sospettati è sterminata. “Praticamente mezzo paese”, per dirla con Elisa Bevilacqua, che – al suo libro d’esordio – tratteggia una provincia italiana molto riconoscibile, a tratti opulenta, sfigurata dal cemento ma non ancora dalla crisi, nella perdurante illusione che il futuro possa dipendere davvero da un piano regolatore, dai favori elargiti in modo clientelare, da una licenza frettolosamente accordata a una inquinante “fabbrica” di polli in batteria. C’è anche il morto, naturalmente. Agiato, mediamente colto e politicamente moderato, piccolo campione di una middle class piemontese periferica e residuale, quella che convive da anni coi “marziani” NoTav della valle di Susa senza ancora aver capito veramente chi sono, per cosa lottano, in nome di quale universo civile tentano di battersi, con l’anima offesa di chi si sente tradito nella sua semplice vocazione di cittadino.
    Di altri analoghi tradimenti racconta “Praticamente mezzo paese”, che in 160 pagine dipana una trama avvolgente, senza cadute di ritmo, che attorno all’indagine strapaesana sulla tragica dipartita dell’ex vicesindaco, ucciso alla vigilia delle elezioni, mette in scena la strana alleanza tra un solitario capitano dei carabinieri, laconico per indole e per ufficio, e una giovane giornalista precaria e chiacchierona, in possesso del vasto background sul malaffare che regna nella cittadina, così prezioso per illuminare il terreno di caccia in tempo utile. Si tenta infatti di risolvere il caso in extremis, prima del voto, per restituire al rito elettorale il suo sacro potere democratico, quello del microcosmo che si autogoverna scegliendo direttamente i propri rappresentanti. E qui la narrazione si inoltra in una galleria di piccoli orrori tristemente casalinghi, fatta di lusinghe e minacce, ritorsioni, prebende e tangenti, nel grigio orizzonte dell’assalto edilizio che ha ridotto il verde territorio prealpino a un labirinto di villette a schiera “color giallo Paperopoli”, arricchendo una casta di privilegiati quasi mai in regola con la legge.
    Se ne accorge ben presto il capitano, che cerca un assassino e invece inciampa di continuo in nient’altro che piccoli predatori, occupati soltanto a mettere in salvo il proprio conto corrente e non l’ospedale, declassato per colpa di quella che ancora non si chiamava “spending review” ma già minava la sopravvivenza di una provincia fino a ieri prospera, e oggi presidiata quasi solo da palazzinari e baristi, senza trascurare le parrucchiere a cui le signore ricorrono per “essere in quadro” nei giorni di festa. Un Piemonte italianissimo e sfregiato da una modernità farlocca, dalla caricatura del marketing territoriale tenuto in piedi dalle ricette della nonna, mentre qualcuno uccide un candidato alle elezioni – non un eroe, un italiano normale – sulla cui morte si scatena l’ignobile speculazione dei concorrenti. Brutto spettacolo: ai veterani, con alle spalle anni di malversazioni alla corte del Feudatario, il “sindaco sempiterno”, si oppongono esordienti già accecati dall’ambizione e dalla presunzione.
    Il sistema è marcio, dice Elisa Bevilacqua, che provvede a irrigare di abbondante ironia il suo noir patriottico sullo stato delle cose, senza mai allontanarsi dalle procedure di un’indagine che mette a nudo la fragilità inconfessabile dietro alla quale si nasconde la normalità quotidiana dei discorsi ufficiali, quelli a cui tutti fingono ancora di credere, danzando su un Titanic in tricolore. Il sistema è marcio, quindi è debole: chiunque potrà farne un sol boccone. Ed è esattamente quello che sta accadendo, all’Italia tutta. Per fortuna, il poco che resta vale molto: l’affetto, i sentimenti, i legami familiari. La dedizione alla verità, che la giovane giornalista ha pagato di persona, anche con la perdita del posto di lavoro. E l’integrità di uomini silenziosi come l’ufficiale dei carabinieri. Si cercano, si trovano. In fondo, li accomuna la stessa nostalgia per un’Italia migliore: che entrambi hanno conosciuto, almeno per sentito dire.
    (Il libro: Elisa Bevilacqua, “Praticamente mezzo paese”, edizioni Graffio, 160 pagine, euro 13,50).

    L’assassino non è il maggiordomo, è il sindaco. O il braccio destro dell’ex vicesindaco. O la moglie, l’amante, l’ex prostituta, la figlia che non studia e non lavora. L’assassino è il figliolo trascurato, il becchino mezzo matto, il barista di uno qualsiasi dei 41 bar che affollano il centro storico. La lista dei sospettati è sterminata. “Praticamente mezzo paese”, per dirla con Elisa Bevilacqua, che – al suo giallo d’esordio – tratteggia una provincia italiana molto riconoscibile, a tratti opulenta, persino comica, sfigurata dal cemento ma non ancora dalla crisi, nella perdurante illusione che il futuro possa dipendere davvero da un piano regolatore, dai favori elargiti in modo clientelare, da una licenza frettolosamente accordata a una inquinante “fabbrica” di polli in batteria. C’è anche il morto, naturalmente. Agiato, mediamente colto e politicamente moderato, piccolo campione di una middle class piemontese periferica e residuale, come quella che convive da anni coi “marziani” NoTav della valle di Susa senza ancora aver capito veramente chi sono, per cosa lottano, in nome di quale universo civile tentano di battersi, con l’anima offesa di chi si sente tradito nella sua semplice vocazione di cittadino.

  • Hathor Pentalpha e Isis, il romanzo criminale che ci attende

    Scritto il 02/1/15 • nella Categoria: Recensioni • (7)

    Globalizzazione violenta, a mano armata. Un progetto criminale, deviato, spietato. Coltivato e attuato da criminali. Attorno a loro, una corte di politici, capi di Stato, economisti, giornalisti. Tutti a ripetere la canzoncina bugiarda del neoliberismo: lo Stato non conta più, è roba vecchia, a regolare il mondo basta e avanza il “libero mercato”. Peccato che il paradiso golpista dell’élite non possa prescindere dallo Stato, l’ingombrante monopolista della moneta e delle tasse. Lo Stato va quindi conquistato, occupato militarmente per via elettorale. Deve capitolare, rinnegare la sua funzione storica, servire le multinazionali e non più i cittadini, che devono semplicemente ridiventare sudditi, pagare sempre più tasse, veder sparire i diritti conquistati in due secoli, elemosinare un lavoro precario e sottopagato. Le menti del commissariamento mondiale sono state chiamate oligarchia, impero, tecnocrati, destra economica, finanza, banche, neo-capitalismo. Gioele Magaldi chiama costoro con un altro nome: “Massoni”, come il titolo del suo libro esplosivo. E mette sul piatto 650 pagine di rivelazioni, che stanno scalando le classifiche editoriali nell’assordante silenzio dei media mainstream.
    Si tratta di massoni speciali, potentissimi, interconnessi fra loro nel super-network segreto delle Ur-Lodges. Uomini del massimo potere, abituati da sempre a influire nelle grandi decisioni geopolitiche, condizionando istituzioni che – in Occidente, a partire dagli Usa – vengono considerate esse stesse una sorta di emanazione massonica: senza il secolare impegno laico della “libera muratoria” europea nella lotta contro l’oscurantismo vaticano e l’assolutismo monarchico, non avremmo avuto gli Stati moderni, la scienza moderna, la cultura moderna. Erano massoni i maggiori scienziati – da Newton a Einstein – così come i maggiori letterati e musicisti. Massoni anche i padri fondatori degli Stati Uniti. Massone l’americano Roosevelt, spettacolare campione della spesa pubblica vocata allo sviluppo della piena occupazione, secondo il credo del più grande economista del ‘900, il massone inglese John Maynard Keynes, su cui si basa tutta la sinistra europea marxista e post-marxista che ha messo in piedi il grandioso sistema di protezione sociale del welfare, fondato sulla sovranità democratica e monetaria per mitigare gli appetiti antisociali del “libero mercato”.
    La dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, promossa dalla “libera muratrice” Eleanor Roosevelt alle Nazioni Unite, l’assemblea planetaria eretta sulle rovine della Seconda Guerra Mondiale, prefigura un’umanità redenta, liberata, globalizzata nei diritti e nelle aspirazioni al futuro. Esattamente il contrario dell’attuale globalizzazione neo-schiavistica, aristocratica, mercantilista, neo-feudale. Un disegno cinico e reazionario, oggi chiamato semplicemente “crisi”, sviluppato negli anni ‘70 dai ristrettissimi circoli elitari internazionali preoccupati dall’avanzata del loro grande nemico: la democrazia. Da qui il famigerato memorandum di Lewis Powell per stroncare la sinistra in tutto l’Occidente e il manifesto “La crisi della democrazia” promosso dalla Commissione Trilaterale sempre con lo stesso obiettivo: collocare i propri uomini (Thatcher, Reagan, Kohl, Mitterrand) alla guida dei paesi-chiave, per occupare lo Stato e traviarlo, in modo che non servisse più l’interesse pubblico, ma obbedisse ai diktat delle grandi lobby, l’industria delle armi, le grandi multinazionali invadenti e totalitarie.
    Una storia già raccontata? Sì, anche, da diversi analisti “eretici”. Ma mai, finora, dallo sconcertante punto di osservazione del massone Magaldi, che fornisce dettagli inediti e spiegazioni spiazzanti, partendo da una rivelazione capitale: tutti gli uomini del massimo potere, nel ‘900, sono sempre stati accomunati dall’iniziazione esoterica. Questo fa di loro gli esponenti privilegiati di un circuito cosmopolita autoreferenziale e invisibile, protetto, ma al tempo stesso profondamente dialettico, non sempre concorde. Anzi, proprio alla guerra sotterranea che ha dilaniato il “terzo livello” del super-potere è dedicata la straordinaria contro-lettura di Magaldi: che nel golpe in Cile, ad esempio, non vede solo il noto complotto delle multinazionali americane per colpire il governo socialista, pericolosamente amico dei lavoratori e dei loro salari, ma anche – e soprattutto, in questo caso – il ruolo decisivo del massone Kissinger nel colpo di Stato promosso dalla Cia contro il massone Allende, come monito all’intera America Latina, da ridurre a periferia coloniale, e anche alla stessa Europa, dove le stesse “menti raffinatissime” hanno organizzato il “golpe dei colonnelli” in Grecia e i tre tentativi di colpo di Stato in Italia, affidati a Borghese e Sogno ma supervisionati da Licio Gelli, emissario della potentissima superloggia “Three Eyes”, quella di Kissinger.
    Sul fronte opposto, si è mossa nell’ombra la “fratellanza bianca” delle superlogge progressiste, per tentare di rintuzzare i colpi dei “grembiulini” oligarchici. Come in un romanzo di Dan Brown, in un film di Harry Potter? Non a caso, sostiene Magaldi: proprio nel cinema e nella letteratura, negli ultimi anni, si è concentrata l’azione delle Ur-Lodges democratiche, in attesa di una grande riscossa – pace contro guerra, diritti contro privilegi – di cui lo stesso libro del “gran maestro” del Grande Oriente Democratico, affiliato alla superloggia progressista “Thomas Paine”, è parte integrante. Per credere a Magaldi, all’inizio della lettura, occorre accettare di indossare i suoi occhiali. Poi, però, già dopo poche pagine, diventa impossibile togliergli: quelli che aggiunge, infatti, sono preziosi tasselli che spiegano ancor meglio i passaggi-chiave della storia del “secolo breve”, senza mai discostarsi dalla verità accertata, dalla storiografia corrente. Solo (si fa per dire) Magaldi aggiunge nomi e cognomi. Completa la storia che già conosciamo integrandola con indizi inequivocabili, che illuminano retroscena finora rimasti in ombra.
    I riflessi della “grande guerra” che Magaldi racconta li stiamo pagando oggi: la crescita delle masse in Occidente è finita, e il mondo è sull’orlo della Terza Guerra Mondiale. Tutto è cominciato alla fine degli anni ‘60, prima con la morte di Giovanni XXIII e John Fitzgerald Kennedy, poi con il doppio omicidio di Bob Kennedy e Martin Luther King, che le Ur-Lodges progressiste volevano entrambi alla Casa Bianca. Nessuno si stupisca, dice Magaldi, se da allora la sinistra è stata sconfitta in modo sistematico: hanno vinto “loro”, i padreterni neo-feudali che volevano confiscare i diritti democratici e le garanzie del lavoro, retrocedendo i cittadini occidentali al rango di sudditi impauriti dal futuro e assediati dal bisogno. Sempre “loro”, gli egemoni, si sarebbero persino abbandonati a un clamoroso regolamento di conti: il clan che voleva George Bush alla Casa Bianca avrebbe fatto sparare a Reagan, e i sostenitori occulti di Reagan, per rappresaglia, di lì a poco avrebbero promosso l’attentato simmetrico a Wojtyla, eletto Papa anche col sostegno occulto degli amici di Bush.
    Poi, su tutto, è calato l’ambiguo sudario della pax massonica, suggellato nello storico patto “United Freemasons for Globalization”, sottoscritto nel 1981 non solo dalle superlogge occidentali di destra e di sinistra, ma anche dai “confratelli” sovietici alla vigilia della Perestrojka di Gorbaciov e dagli stessi cinesi, in vista delle grandiose riforme del “fratello” Deng Xiaoping. Peccato che però qualcuno abbia “esagerato”, riconosce il super-massone oligarchico che si firma “Frater Kronos”, nella sconcertante appendice del libro di Magaldi, in cui quattro pesi massimi delle Ur-Lodges si confrontano sulla trattazione, dopo aver aiutato il massone italiano a mettere in piazza tanti segreti di famiglia. “Frater Kronos”, su cui si lesinano le informazioni personali per mascherarne l’identità, dimostra l’autorevolezza del grande vecchio del potere occidentale. «No, non sono il fratello Kissinger», scherza, quasi a suggerire che potrebbe trattarsi di un pari grado, del calibro di Zbigniew Brzezinski. Anche “Frater Kronos” – chiunque egli sia in realtà – conferma l’allarme: qualcosa è andato storto, qualcuno è andato oltre il perimetro concordato. Un nome su tutti: quello del “fratello” George Bush senior, che sarebbe “impazzito di rabbia” dopo la bruciante sconfitta inflittagli dai sostenitori di Reagan. Da allora, ancor prima di diventare a sua volta presidente, Bush avrebbe dato vita a una superloggia definita inquietante, pericolosa e sanguinaria, denominata “Athor Pentalpha”, che avrebbe reclutato il gotha neocon del Pnac, il piano per il Nuovo Secolo Americano, da Cheney a Rumsfeld, nonché fondamentali alleati europei, da Blair a Sarkozy. Missione del clan: destabilizzare il pianeta, anche col terrorismo, a partire dall’11 Settembre.
    Per questa missione, si legge nel libro di Magaldi, è stato riciclato il “fratello” Osama Bin Laden, arruolato dallo stesso Brzezinski ai tempi dell’invasione sovietica in Afghanistan. Risultato, dopo l’attentato alle Torri: una serie di guerre, in sequenza, dall’Afghanistan all’Iraq, dalla Libia alla Siria, anche dietro lo schermo della “primavera araba”. Il nuovo bersaglio è la Russia di Putin? C’è una precisa geopolitica del caos: e i golpisti occidentali puntano sempre sulla loro creatura più grottesca, il fondamentalismo islamico. Ci stanno lavorando dal lontano 2009, quando i militari americani del centro iracheno di detenzione di Camp Bucca si videro recapitare l’ordine di rilascio dell’allora oscuro Abu Bakr Al-Baghdadi, l’attuale “califfo” dell’Isis. Regista dell’operazione? Sempre loro: la famiglia Bush. Per la precisione il fratello di George Walker, Jeb Bush, che vorrebbe fare di Al-Baghdadi il nuovo Bin Laden, da spendere per le presidenziali 2016. Dietrologia? Anche qui, “Massoni” fornisce chiavi inedite, partendo dall’attitudine esoterica degli iniziati: Isis non è solo il nome dell’orda terroristica messa in piedi da segmenti della Cia, è anche quello della divinità egizia Iside, vedova di Osiride, carissima ai massoni che si definiscono anche “figli della vedova”. In alcuni testi antichi, Isis è chiamata anche con un altro nome, Athor. Proprio come la superloggia di Bush e Blair. Il Medio Oriente sta bruciando, è tornato lo spettacolo dell’orrore dei tagliatori di teste. “Frater Kronos” è preoccupato, il 2015 comincia male. Sicuri che non sia il caso di indossarli ancora, gli occhiali di Gioele Magaldi?
    (Il libro: Gioele Magaldi, “Massoni. Società a responsabilità illimitata. La scoperta delle Ur-Lodges”, Chiarelettere, 656 pagine, 19 euro).

    Globalizzazione violenta, a mano armata. Un progetto criminale, deviato, spietato. Coltivato e attuato da criminali. Attorno a loro, una corte di politici, capi di Stato, economisti, giornalisti. Tutti a ripetere la canzoncina bugiarda del neoliberismo: lo Stato non conta più, è roba vecchia, a regolare il mondo basta e avanza il “libero mercato”. Peccato che il paradiso golpista dell’élite non possa prescindere dallo Stato, l’ingombrante monopolista della moneta e delle tasse. Lo Stato va quindi conquistato, occupato militarmente per via elettorale. Deve capitolare, rinnegare la sua funzione storica, servire le multinazionali e non più i cittadini, che devono semplicemente ridiventare sudditi, pagare sempre più tasse, veder sparire i diritti conquistati in due secoli, elemosinare un lavoro precario e sottopagato. Le menti del commissariamento mondiale sono state chiamate oligarchia, impero, tecnocrati, destra economica, finanza, banche, neo-capitalismo. Gioele Magaldi chiama costoro con un altro nome: “Massoni”, come il titolo del suo libro esplosivo. E mette sul piatto 650 pagine di rivelazioni, che stanno scalando le classifiche editoriali nell’assordante silenzio dei media mainstream.

  • Foa: Grillo s’è suicidato, Salvini avrà imparato la lezione?

    Scritto il 06/12/14 • nella Categoria: idee • (2)

    Sto leggendo le analisi degli editorialisti che, ora, ci spiegano con sicurezza e spesso toni saccenti le ragioni per cui Grillo è finito. Sottolineo: ora. Come sempre accade in Italia si è cortigiani con i vincenti e spietati con i perdenti. Quelli che oggi impartiscono lezioni a Grillo sono gli stessi che hanno ignorato e poi sottovalutato la sua strepitosa ascesa. Ma tant’è, non è la prima volta. Veniamo al punto. Le ragioni per cui il “Movimento 5 Stelle” è entrato verosimilmente nella parabola finale del suo percorso politico, con scarsissime possibilità di riscatto, sono legate essenzialmente a errori di comunicazione, il che è paradossale per uno che sulla comunicazione ha costruito la propria carriera artistica e poi quella politica. Quando Grillo volava nei sondaggi mi sono chiesto più volte per quale ragione incontrasse poca resistenza dall’establishment. Sì, certo, per mesi, anzi anni, i media tradizionali lo hanno ignorato, ma la coltre del silenzio non bastò a neutralizzarlo perché Grillo (assieme a Casaleggio) raggiungeva il suo popolo via Internet.
    Poi c’è stata la fase in cui i media rincorrevano Grillo e ne parlavano male, ma il leader del M5S usò molto abilmente questa popolarità indotta, usando le tv, che erano costrette a trasmettere i suoi interventi, pur continuando a delegittimare e a criticare pesantemente le tv. Il fatto di negarsi ai talk show faceva salire le sue quotazioni mediatiche. Grillo e Casaleggio, come scrissi più volte su questo blog, furono bravissimi nel cavalcare l’onda. Risultato: una copertura mediatica fantastica, in cui alla mobilitazione tramite la Rete si aggiunse l’effetto propagatorio di radio, giornali e soprattutto tv che permise al M5S di raggiungere il 25% alle elezioni di inizio 2013. Ma poi sono iniziati i guai. Un leader accorto deve sapere quando è il momento di togliere il piede dall’acceleratore, quando la capacità di gestione deve prevalere sulla costruzione del successo. Bisogna saper cambiare i toni, mantenendo la tensione ideale tra i militanti della base; occorre perseguire obiettivi di lungo periodo mantenendo alta l’attenzione nel breve, partecipando ai dibattiti d’attualità ma senza farsi travolgere, dunque tenendo sempre ben presente a quale pubblico ci si rivolge e cosa bisogna dire per ampliare il consenso.
    E’ un’arte quasi scientifica che presuppone self control, un partito ben inquadrato, squadre compatte, capacità di modulare i toni, analisi sociologiche mirate, capacità di programmazione. E invece Grillo ha fatto l’opposto. Ha continuano a gridare come quando non aveva il 25% dei consensi, non ha costruito una classe dirigente capace di assecondarlo; non solo: ha perso chiaramente la testa procedendo a espulsioni che hanno spaventato e definitivamente allontanato la stragrande maggioranza dell’elettorato. Deputati e senatori si sono dimostrati inadeguati, un gruppo eterogeneo e piuttosto modesto; certo non una squadra compatta. Aggiungete gli sbandamenti nella comunicazione, con l’improvviso e mal motivato sdoganamento delle apparizioni in tv, che ha disorientato i suoi sostenitori, o i trattamenti riservati al portavoce Claudio Messora e le giravolte programmatiche, tra cui senz’altro la più clamorosa quella sull’euro, e il quadro è completo.
    Insomma abbiamo assistito a un processo di auto-distruzione che verosimilmente è irreversibile. Sarei meravigliato se Grillo riuscisse a recuperare il consenso perduto, mentre il rischio che finisca come Di Pietro o Vendola è sempre più concreto. E ora capisco perché l’establishment lo abbia lasciato scorrazzare, anche nei momenti in cui la spinta dei grillino sembrava irresistibile. Evidentemente speculava sull’incapacità di Grillo e Casaleggio di trasformarsi in forza politica consolidata. Sapeva che i due si sarebbero fatti del male da soli. E ha avuto ragione. E’ la stessa strategia – condita da attacchi alla personalità, peraltro iniziati subito dopo la vittoria della Lega in Emilia Romagna – che l’establishment riserverà all’unico politico in grado di raccogliere e raggruppare l’ampio popolo degli scontenti: Matteo Salvini. Chissà se il leader della Lega avrà la forza, il coraggio e soprattutto la saggezza di non commettere gli stessi errori di Grillo.
    (Marcello Foa, “Grillo s’è suicidato, Salvini avrà imparato la lezione?”, dal blog di Foa su “Il Giornale” del 30 novembre 2014).

    Sto leggendo le analisi degli editorialisti che, ora, ci spiegano con sicurezza e spesso toni saccenti le ragioni per cui Grillo è finito. Sottolineo: ora. Come sempre accade in Italia si è cortigiani con i vincenti e spietati con i perdenti. Quelli che oggi impartiscono lezioni a Grillo sono gli stessi che hanno ignorato e poi sottovalutato la sua strepitosa ascesa. Ma tant’è, non è la prima volta. Veniamo al punto. Le ragioni per cui il “Movimento 5 Stelle” è entrato verosimilmente nella parabola finale del suo percorso politico, con scarsissime possibilità di riscatto, sono legate essenzialmente a errori di comunicazione, il che è paradossale per uno che sulla comunicazione ha costruito la propria carriera artistica e poi quella politica. Quando Grillo volava nei sondaggi mi sono chiesto più volte per quale ragione incontrasse poca resistenza dall’establishment. Sì, certo, per mesi, anzi anni, i media tradizionali lo hanno ignorato, ma la coltre del silenzio non bastò a neutralizzarlo perché Grillo (assieme a Casaleggio) raggiungeva il suo popolo via Internet.

  • Page 10 of 12
  • <
  • 1
  • ...
  • 3
  • 4
  • 5
  • 6
  • 7
  • 8
  • 9
  • 10
  • 11
  • 12
  • >

Libri

UNA VALLE IN FONDO AL VENTO

Pagine

  • Pubblicità su Libreidee.org
  • Siberian Criminal Style
  • UNA VALLE IN FONDO AL VENTO

Archivi

Link

  • Cadavre Exquis
  • Il Cambiamento
  • Movimento per la Decrescita Felice
  • Nicolai Lilin
  • Penelope va alla guerra
  • Rete del Caffè Sospeso
  • Rialto Sant’Ambrogio
  • Shake edizioni

Tag Cloud

politica Europa finanza crisi potere democrazia storia Unione Europea media disinformazione Ue Germania Francia élite elezioni diritti mainstream sovranità banche rigore lavoro tagli welfare euro libertà Italia Pd debito pubblico sistema oligarchia Gran Bretagna tasse Bce neoliberismo terrorismo industria giustizia Russia globalizzazione disoccupazione sinistra futuro pericolo movimento 5 stelle paura Occidente diktat Cina popolo umanità sicurezza Stato cultura verità mondo Bruxelles Costituzione Grecia Matteo Renzi austerity