Archivio del Tag ‘Sudafrica’
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L’ultimo neoliberista: Renzi è solo l’avanzo del nuovo
Il peggior lascito del ventennio berlusconiano si chiama Matteo Renzi. Nonostante il colpo di fulmine che ha provocato in Maurizio Landini, penso che il segretario del Pd rappresenti l’ennesima riverniciatura delle politiche liberiste che ci han portato a questa crisi e che ora la stanno aggravando. Lo dimostrano i primi suoi atti di governo. Il suo staff sta preparando un altro attacco all’articolo 18, quello che nell’Italia garantista solo verso i potenti suscita scandalo perché stabilisce che chi è licenziato ingiustamente, se il giudice gli dà ragione, deve tornare al suo posto di lavoro. Questo principio di civiltà ha già molte limitazioni, non si applica sotto i quindici dipendenti ed è reso nullo dalla marea di contratti precari. Inoltre, con un accordo con il governo Monti, Cgil Cisl e Uil hanno accettato di liberalizzare i licenziamenti cosiddetti economici, che in una crisi come questa significa via libera alla cacciata di tante e tanti. Ma nonostante questo ultimo atto di autolesionismo sindacale Renzi vuole di più.Il progetto per il lavoro annunciato dal suo staff prevede la cancellazione dell’articolo 18 per tutti i nuovi assunti. In cambio verrebbero diminuiti i contratti formalmente precari. Questo per la ovvia ragione che essendo possibile il licenziamento a discrezione, il contratto precario perderebbe ragione d’essere. Se posso cacciarti quando voglio perché devo scervellarmi a trovare il contratto capestro più adeguato, semplicissimo no? È ovvio che questo è solo un passaggio intermedio verso l’abolizione totale della tutela contro i licenziamenti ingiusti. Infatti se tutti i nuovi assunti saranno privi di quella tutela per un bel po’ di tempo, le aziende saranno interessate a chiudere e licenziare per riassumere senza diritti. E chi li dovesse mantenere sarebbe considerato un privilegiato da combattere. Il renziano Pietro Ichino sostiene da anni che nel mondo del lavoro vige l’apartheid come nel Sudafrica prima della vittoria di Mandela. Peccato che così si faccia l’eguaglianza a rovescio. Come se in quel paese, invece che estendere ai neri i diritti dei bianchi, si fosse deciso di rendere tutti eguali togliendo quei diritti a tutti.La soppressione dell’articolo 18 non è certo una novità. Da sempre in Italia è rivendicata dalle organizzazioni delle imprese quando non sanno che dire e fu tentata dal governo Berlusconi nel 2002. La Cgil di allora però riuscì a impedirla. In Spagna i governi hanno da tempo liberalizzato i licenziamenti, e quel paese oggi è l’unico grande Stato europeo con un tasso di disoccupazione superiore al nostro. In Francia ci provò il presidente Sarkozy a introdurre una misura simile a quella che piace oggi a Renzi. Fu fermato da una gigantesca protesta giovanile e popolare. La seconda iniziativa del neoeletto leader è stata quella di mettersi di traverso rispetto a quella che è stata chiamata la Google Tax. Cioè un tenuissimo provvedimento di tassazione sugli affari delle grandi multinazionali che operano nella rete e che hanno sede legale in paradisi fiscali.Queste società guadagnano miliardi da noi e non pagano un centesimo, come ha ricordato quel comunista di Carlo De Benedetti. E come soprattutto ricorda la Corte dei Conti, che da tempo afferma che la quota più rilevante dei tanti miliardi che mancano al fisco viene dalla elusione fiscale delle grandi società che giocano con le sedi legali all’estero. Il progressista Renzi ha subito detto a Letta che questa tassa non s’ha da fare, e così è stato. Viene da chiedersi, ma dove sta il nuovo in tutto questo? Sviluppare l’economia con la flessibilità del lavoro e la detassazione dei ricchi e delle multinazionali, è il principio guida delle politiche liberiste che hanno dominato negli ultimi trenta anni. Siamo ancora qui, sono queste le “riforme”? Se è così, il progetto di Matteo Renzi più che essere il nuovo che avanza, è l’avanzo di quel nuovo che ci ha portato al disastro attuale.Il peggior lascito del ventennio berlusconiano si chiama Matteo Renzi. Nonostante il colpo di fulmine che ha provocato in Maurizio Landini, penso che il segretario del Pd rappresenti l’ennesima riverniciatura delle politiche liberiste che ci han portato a questa crisi e che ora la stanno aggravando. Lo dimostrano i primi suoi atti di governo. Il suo staff sta preparando un altro attacco all’articolo 18, quello che nell’Italia garantista solo verso i potenti suscita scandalo perché stabilisce che chi è licenziato ingiustamente, se il giudice gli dà ragione, deve tornare al suo posto di lavoro. Questo principio di civiltà ha già molte limitazioni, non si applica sotto i quindici dipendenti ed è reso nullo dalla marea di contratti precari. Inoltre, con un accordo con il governo Monti, Cgil Cisl e Uil hanno accettato di liberalizzare i licenziamenti cosiddetti economici, che in una crisi come questa significa via libera alla cacciata di tante e tanti. Ma nonostante questo ultimo atto di autolesionismo sindacale Renzi vuole di più.
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Mandela e la vergogna dell’altro apartheid: Israele
L’opera di Nelson Mandela si celebra ovunque nel mondo in occasione della sua morte. Ma a cosa serve il suo esempio se accettiamo che possa perdurare in uno Stato – Israele – l’ideologia razziale che lui aveva sconfitto in Sud Africa? Il sionismo non è un frutto del giudaismo, che anzi gli fu a lungo ferocemente contrario. È semmai un progetto imperialista nato in seno all’ideologia puritana britannica. Nel XVII secolo, Lord Cromwell rovesciò la monarchia inglese e proclamò la Repubblica. Instaurò una società egualitaria e intese ampliare quanto più possibile la potenza del suo paese. Per questo, sperava di stringere un’alleanza con la diaspora ebraica che sarebbe diventata l’avanguardia dell’imperialismo britannico. Autorizzò quindi il ritorno degli ebrei in Inghilterra, da cui erano stati cacciati quattrocento anni prima, e annunciò che avrebbe creato uno stato ebraico, Israele. Tuttavia, morì senza essere riuscito a convincere gli ebrei a partecipare al progetto.L’impero britannico da allora non ha smesso di sollecitare la diaspora ebraica e di proporre la creazione di uno stato ebraico, come fece Benjamin Disraeli, primo ministro della regina Vittoria alla Conferenza di Berlino (1884). Le cose cambiarono con il teorico dell’imperialismo britannico, il “molto onorevole” Cecil Rhodes – il fondatore dei diamanti De Beers e della Rhodesia – che trovò in Theodor Herzl il lobbista di cui aveva bisogno. I due uomini si scambiarono una fitta corrispondenza, la cui riproduzione fu vietata dalla Corona in occasione del centenario della morte di Rhodes. Il mondo doveva essere dominato dalla «razza germanica» (ossia secondo loro gli inglesi, irlandesi inclusi, gli statunitensi e canadesi, gli australiani e neozelandesi e i sudafricani), che dovevano estendere il loro impero conquistando nuove terre con l’aiuto degli ebrei.Theodor Herzl non solo era riuscito a convincere la diaspora a partecipare a questo progetto, ma rovesciò il parere della sua comunità utilizzando i suoi miti biblici. Lo Stato ebraico non sarebbe stato una terra vergine in Uganda o in Argentina, ma in Palestina, con Gerusalemme come sua capitale. Ne deriva che l’attuale Stato di Israele sia il figlio tanto dell’imperialismo quanto dell’ebraismo. Israele, fin dalla sua proclamazione unilaterale, si è rivolto verso il Sud Africa e la Rhodesia, gli unici Stati assieme ad esso che manifestavano il colonialismo di Rhodes. Poco importa da questo punto di vista che gli Afrikaneers avessero sostenuto il nazismo, perché si erano nutriti con la stessa visione del mondo.Benché il primo ministro John Vorster fece viaggi ufficiali nella Palestina occupata solo nel 1976, già nel 1953 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite aveva condannato «l’alleanza tra il razzismo sudafricano e il sionismo». I due Stati lavorarono con una collaborazione stretta tanto in materia di manipolazione dei media occidentali, quanto nei trasporti per aggirare l’embargo, o ancora per sviluppare la bomba atomica. L’esempio di Nelson Mandela dimostra che è possibile superare questa ideologia e ottenere la pace civile. Oggi Israele è l’unico erede al mondo dell’imperialismo alla maniera di Cecil Rhodes. La pace civile presuppone che israeliani e palestinesi trovino il loro De Klerk e il loro Mandela.(Thierry Meyssan, “Mandela e Israele”, da “Megachip” dell8 dicembre 2013).L’opera di Nelson Mandela si celebra ovunque nel mondo in occasione della sua morte. Ma a cosa serve il suo esempio se accettiamo che possa perdurare in uno Stato – Israele – l’ideologia razziale che lui aveva sconfitto in Sud Africa? Il sionismo non è un frutto del giudaismo, che anzi gli fu a lungo ferocemente contrario. È semmai un progetto imperialista nato in seno all’ideologia puritana britannica. Nel XVII secolo, Lord Cromwell rovesciò la monarchia inglese e proclamò la Repubblica. Instaurò una società egualitaria e intese ampliare quanto più possibile la potenza del suo paese. Per questo, sperava di stringere un’alleanza con la diaspora ebraica che sarebbe diventata l’avanguardia dell’imperialismo britannico. Autorizzò quindi il ritorno degli ebrei in Inghilterra, da cui erano stati cacciati quattrocento anni prima, e annunciò che avrebbe creato uno stato ebraico, Israele. Tuttavia, morì senza essere riuscito a convincere gli ebrei a partecipare al progetto.
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Contro Usa e Israele: il Mandela che non osano citare
«Se c’è un paese che ha commesso atrocità indicibili nel mondo, questi sono gli Stati Uniti d’America. A loro non importano gli esseri umani». Parola di Nelson Mandela. Mentre il mondo ricorda l’eredità di “Madiba” in veste di primo presidente nero del Sudafrica e icona anti-apartheid, va ricordato che fu anche profondamente scettico nei confronti della potenza americana, criticata all’epoca dell’invasione dell’Iraq. Inoltre, Mandela era un sostenitore cruciale dell’Olp di Arafat. «Qui di seguito», annuncia “Rt” in un servizio ripreso da “Megachip”, «potrete leggere le sette citazioni del leader che hanno meno probabilità di essere pubblicate, anche laddove si sta rendendo onore alla sua vita e si commemora la sua morte nei media mainstream». Prima dell’invasione Usa dell’Iraq, Mandela sferzò duramente gli Stati Uniti: al Forum Internazionale delle Donne a Johannesburg, dichiarò che il movente principale dell’allora presidente Bush era «il petrolio». Rincarò la dose intervistato da “Newsweek”: «L’atteggiamento degli Stati Uniti d’America è una minaccia per la pace nel mondo».Mandela è stato da lungo tempo sostenitore dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, offrendosi come mediatore politico tra Israele e i suoi vicini. «Israele dovrebbe ritirarsi da tutte le aree che ha conquistato a danno degli arabi nel 1967, e in particolare dovrebbe ritirarsi completamente dalle Alture del Golan, dal sud del Libano e dalla Cisgiordania», dichiarò Mandela, come riferì Suzanne Belling dell’agenzia “Jewish Telegraph”. Storico l’incontro con Fidel Castro nel 1991, insieme a cui tenne un discorso intitolato “Quanto lontano siamo andati noi schiavi”. Il paese stava commemorando il 38° anniversario della presa della caserma Moncada da parte dei castristi, e Mandela salutò il «posto speciale» di Cuba nel cuore della gente dell’Africa. «Fin dai suoi primi giorni, la rivoluzione cubana è stata anche una fonte di ispirazione per tutte le persone che amano la libertà. Ammiriamo i sacrifici del popolo cubano nel mantenere la propria indipendenza e sovranità di fronte alla malvagia campagna imperialista orchestrata per distruggere l’impressionante miglioramento realizzato nel corso della rivoluzione cubana».Sempre il leader sudafricano invitò a porre fine alle dure sanzioni imposte dall’Onu alla Libia nel 1997, e promise il suo sostegno a Gheddafi, a sua volta un suo sostenitore di lunga data. «È nostro dovere dare sostegno al leader fratello, soprattutto per quanto riguarda le sanzioni, che non stanno colpendo solo lui ma stanno colpendo la massa della gente qualunque, i nostri fratelli e sorelle africani», dichiarò Mandela. In occasione della Giornata Internazionale di Solidarietà con il Popolo Palestinese, il 4 dicembre 1997, Mandela assemblò un gruppo «in qualità di sudafricani, di palestinesi nostri ospiti e di umanisti, per esprimere la nostra solidarietà nei confronti del popolo della Palestina». Nel discorso, fece appello affinché le fiamme metaforiche della solidarietà, della giustizia e della libertà fossero tenute accese. «L’Onu ha preso una posizione forte contro l’apartheid, e nel corso degli anni è stato costruito un consenso internazionale, che ha contribuito a porre fine a questo sistema iniquo. Ma sappiamo fin troppo bene che la nostra libertà è incompleta senza la libertà dei palestinesi».«Se c’è un paese che ha commesso atrocità indicibili nel mondo, questi sono gli Stati Uniti d’America. A loro non importano gli esseri umani». Parola di Nelson Mandela. Mentre il mondo ricorda l’eredità di “Madiba” in veste di primo presidente nero del Sudafrica e icona anti-apartheid, va ricordato che fu anche profondamente scettico nei confronti della potenza americana, criticata all’epoca dell’invasione dell’Iraq. Inoltre, Mandela era un sostenitore cruciale dell’Olp di Arafat. «Qui di seguito», annuncia “Rt” in un servizio ripreso da “Megachip”, «potrete leggere le sette citazioni del leader che hanno meno probabilità di essere pubblicate, anche laddove si sta rendendo onore alla sua vita e si commemora la sua morte nei media mainstream». Prima dell’invasione Usa dell’Iraq, Mandela sferzò duramente gli Stati Uniti: al Forum Internazionale delle Donne a Johannesburg, dichiarò che il movente principale dell’allora presidente Bush era «il petrolio». Rincarò la dose intervistato da “Newsweek”: «L’atteggiamento degli Stati Uniti d’America è una minaccia per la pace nel mondo».
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Galtung: è un impero di assassini, il mondo ora si ribella
Il mondo si sta ribellando agli Usa: lo scandalo Datagate conferma che il centro dell’impero sta perdendo il controllo della periferia. Nel suo libro “This Town”, Mark Leibovich ritiene improbabile che il conglomerato politica-media di Washington riesca a trovare soluzioni a calamità tanto drammatiche come quelle che oggi ha di fronte Obama. La superpotenza sta letteralmente evaporando, sostiene Johan Galtung. Basta misurare la stizza di Angela Merkel di fronte alla scoperta di esser stata spiata dalla Nsa. O prendere alla lettera quello che ha dichiarato il generale Keith Alexander, direttore dell’intelligence digitale smascherata da Snowden: «Alla Nsa era stato richiesto da responsabili delle politiche Usa di scoprire le “intenzioni delle leadership” dei paesi stranieri». Alleati di cui Washington non si fida più: sta saltando il patto su si è retto l’Occidente per oltre mezzo secolo, protezione militare in cambio di obbedienza. Anche perché frana la moneta di scambio: il benessere, minacciato dalla grande crisi.Finora, scrive Galtung in un post ripreso da “Megachip”, il sistema ha funzionato con élite di periferia disposte a servire il centro: «Per dire, uccidere in Libia, in Siria, quando richiesto; assicurare gli interessi economici del centro in cambio di un taglio sostanzioso, servendo culturalmente da testa di ponte». Affinché ciò funzioni, le élite devono credere nell’impero. «Si nascondono dietro belle parole – democrazia, diritti umani, Stato di diritto – usate come scudi umani». Ma attenzione: «I costi possono essere ingenti, i benefici in calo». Periferie irrequiete, rivendicazioni. O peggio: cresce «la sensazione che l’impero non stia funzionando, che avanzi verso il declino e la caduta», e quindi i satelliti «vogliono uscirne». E’ per questo che la Nsa li ha “marcati a uomo”. Certo, resta il club esclusivo degli “affidabili”: Canada e Gran Bretagna, Australia e Nuova Zelanda. Chi sono? Famigerati stragisti e genocidi, risponde senza esitazioni il grande sociologo norvegese.Per Galtung, gli Usa e gli eredi del Commonwealth sono «un circolo di paesi selezionati su base razzista-culturalista». Sono tutti «bianchi e anglo, uccisori di popoli indigeni ovunque», gli Usa degli indiani nativi, il Canada idem. L’Australia ha sterminato gli aborigeni, la Nuova Zelanda ha emarginato i maori. Quanto al Regno Unito, ha compiuto stragi dappertutto, «facendo sì che gli altri si lanciassero su quel pendio scivoloso del genocidio e del sociocidio». Attenzione: «Lo sanno. Sanno che la maggioranza del mondo è costituita da quel tipo di genti che loro hanno ucciso, e sentono intensamente di dover restare insieme, diffidando dei non-membri». Ma gli Usa «spiano il partito laburista e il Parlamento britannici». E, insieme, Washington e Londra a loro volta spiano Canada, Australia e Nuova Zelanda. La Germania? Grosso problema: «Vuole entrare nel circolo al fine di un altro 5+1, per godere del potere di veto del Consiglio di Sicurezza Onu». Dettaglio: «La razza non è un problema, ma la cultura sì», perché i tedeschi «non sono anglo».Tanto più l’impero declina, osserva Galtung, quanto più ci si aspetta di spiare ancora per identificare il nemico all’interno. «Com’è la condizione dell’impero? Non buona». In Afghanistan, gli Usa «hanno guadagnato delle basi e un oleodotto», ma possono anche perdere tutto. L’Iran sta accrescendo la sua leadership in Medio Oriente e nel Golfo, le conquiste imperiali in Iraq non sono al sicuro, l’operazione di spaccatura della Siria è fallita. Un vero disastro in Egitto: «Gli Usa hanno frainteso la situazione nel suo insieme, sono arenati in una scelta fra due mali che non padroneggiano». In Libia, «altro fraintendimento, senza capire come un imperialismo laico occidentale (Italia-Regno Unito-Francia-Usa-Israele) abbia acceso un risveglio islamista (anziché arabo) e berbero-tuareg (anziché arabo)». Poi, ovviamente Israele: che spia la stessa élite Usa («la politica della coda che muove il cane»), mentre Tel Aviv ha contro anche i media, e si contorce «nella morsa angosciosa fra uno Stato ebraico e la democrazia», con di fronte «uno scenario sudafricano».Quanto ai Brics, siamo di fronte a una vera e propria orchestra sinfonica anti-Usa. In Brasile, la presidente Dilma Rousseff, è stata la prima a parlare all’Assemblea Generale dell’Onu con una critica devastante del programma spionistico Nsa, richiedendo server Internet alternativi. In Russia, Putin «può aver posto termine alla crisi siriana in quanto parte di una crisi generale del Medio Oriente – come Gorbaciov pose fine alla guerra fredda, non alla perenne guerra e minaccia di guerra Usa – richiedendo una fine alle armi di distruzione di massa, comprese quelle nucleari, nella regione». In Cina, l’agenzia mediatica Hsinhua si è appellata a una deamericanizzazione generale e a una fine del dollaro come “valuta di riserva mondiale”, proponendo «un paniere di valute», non più una sola moneta. «I “capi esteri” lo sanno – conclude Galtung – e tradirebbero i rispettivi popoli qualora non esplorassero le opzioni. La questione è come, quando». I satelliti di Washington «possono usare lo spionaggio Nsa come pretesto per ritirarsi dall’impero». Prima mossa: cancellare, o ritardare, il super trattato Ttip (Trans-Atlantic Partnership) con cui le multinazionali Usa progettano di sostituirsi – per gli arbitrati legali – alla magistratura dei paesi vassalli. Come uscirne? Servirebbe una leadership straordinaria, di cui non c’è traccia.Il mondo si sta ribellando agli Usa: lo scandalo Datagate conferma che il centro dell’impero sta perdendo il controllo della periferia. Nel suo libro “This Town”, Mark Leibovich ritiene improbabile che il conglomerato politica-media di Washington riesca a trovare soluzioni a calamità tanto drammatiche come quelle che oggi ha di fronte Obama. La superpotenza sta letteralmente evaporando, sostiene Johan Galtung. Basta misurare la stizza di Angela Merkel di fronte alla scoperta di esser stata spiata dalla Nsa. O prendere alla lettera quello che ha dichiarato il generale Keith Alexander, direttore dell’intelligence digitale smascherata da Snowden: «Alla Nsa era stato richiesto da responsabili delle politiche Usa di scoprire le “intenzioni delle leadership” dei paesi stranieri». Alleati di cui Washington non si fida più: sta saltando il patto su si è retto l’Occidente per oltre mezzo secolo, protezione militare in cambio di obbedienza. Anche perché frana la moneta di scambio: il benessere, minacciato dalla grande crisi.
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Expo-guerra, il bazar galleggiante dell’Italia che affonda
Il nemico complotta contro l’Italia fino a farla crollare, ma la portaerei Cavour – ammiraglia della marina militare, costata 3,5 miliardi – non si dirige contro chi attenta alla vita e al futuro degli italiani, tramando per devastare l’economia, impoverire il paese e trascinarlo nella catastrofe sociale pianificata tra Bruxelles e Berlino, Wall Street e Francoforte. Al contrario, la grande nave trasformata in expò galleggiante del made in Italy bellico preferisce incrociare in acque lontane: «Si vanno a vendere altre armi ai paesi mediorientali e africani, dominati da oligarchie e caste militari, provocando un ulteriore aumento delle loro spese militari che comporterà un ulteriore aumento della povertà soprattutto in Africa», scrive il “Manifesto”. Scopo ufficiale della “campagna navale” organizzata dal governo Letta, è presentare il “sistema paese” in movimento e «rafforzare la presenza dell’Italia nelle aree geografiche considerate strategiche per gli interessi nazionali», senza trascurare la consueta ipocrisia della «assistenza umanitaria alle popolazioni bisognose».Per il ministro Mauro, il bazar navigante – ribattezzato “crociera di morte” – non andrà a vendere armi di distruzione di massa al di fuori dalle convenzioni internazionali, ma resta una «missione di promozione» che incrocerà aree dove impazzano guerre e repressioni, come ad esempio Congo, Nigeria e Kenya, o terre «dove governi potenti finanziano guerre per procura», scrivono Manlio Dinucci e Tommaso Di Francesco, indicando paesi come l’Arabia Saudita impegnata in Siria, o il Barhein con la sua “primavera” cancellata dai militari. Regioni del mondo «dove le spese sociali vengono ridimensionate se non cancellate per sostenere la sicurezza interna e le frontiere, come in Angola e Mozambico». Oman, Dubai, Doha, Gibuti, Madagascar, Sudafrica, Ghana, Senegal, e poi su fino a Casablanca in Marocco, e poi Algeri. In navigazione fino al 7 aprile 2014. Costo: 20 milioni di euro, di cui 7 a carico dello Stato e 13 dei “partner dell’industria privata”. «Soldi ben spesi: potranno usare la portaerei, lunga 244 metri e larga 39, come una grande fiera espositiva itinerante», con stand per accogliere i clienti. Prezzo amico: 200.000 euro per ogni giorno di navigazione.La portaerei non venderà certo l’immagine turistica dell’Italia: gli “ambasciatori” del paese sono le industrie di Finmeccanica come Agusta-Westland (elicotteri da guerra), Oto Melara (cannoni), Selex Es (sistemi radar e di combattimento), Wass (siluri), Telespazio (satelliti), e poi Mbda, coi suoi missili Aspide, Aster, Teseo. Poi ci sono la Intermarine (vascelli militari) e Elt, che offre apparecchiature elettroniche per la guerra aerea, terrestre e navale, mentre Beretta mette in mostra le sue pistole, accanto agli stand di lusso che presentano gli aerei executive della Piaggio e della Blackshape. «Ogni cannone, ogni missile, ogni mitraglia venduta dai commessi viaggiatori della Cavour ai governi clienti – scrivono i giornalisti del “Manifesto” – significherà meno investimenti locali nel sociale e quindi altre migliaia di bisognosi, affamati e morti, soprattutto tra i bambini, per sottoalimentazione cronica e malattie che potrebbero essere curate». Ma niente paura, sulla nave «ci sono anche gli “operatori umanitari” pronti a soccorrere i disperati che abbiamo contribuito a creare con il traffico di armi, per dimostrare quanto l’Italia sia sensibile e pronta ad aiutare “le popolazioni bisognose”».Il nemico complotta contro l’Italia fino a farla crollare, ma la portaerei Cavour – ammiraglia della marina militare, costata 3,5 miliardi – non si dirige contro chi attenta alla vita e al futuro degli italiani, tramando per devastare l’economia, impoverire il paese e trascinarlo nella catastrofe sociale pianificata tra Bruxelles e Berlino, Wall Street e Francoforte. Al contrario, la grande nave trasformata in expò galleggiante del made in Italy bellico preferisce incrociare in acque lontane: «Si vanno a vendere altre armi ai paesi mediorientali e africani, dominati da oligarchie e caste militari, provocando un ulteriore aumento delle loro spese militari che comporterà un ulteriore aumento della povertà soprattutto in Africa», scrive il “Manifesto”. Scopo ufficiale della “campagna navale” organizzata dal governo Letta, è presentare il “sistema paese” in movimento e «rafforzare la presenza dell’Italia nelle aree geografiche considerate strategiche per gli interessi nazionali», senza trascurare la consueta ipocrisia della «assistenza umanitaria alle popolazioni bisognose».
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Streeck: decapitare quest’Europa, dittatura neoliberista
Wolfgang Streeck è il direttore del Max-Planck Institut per la ricerca sociale di Colonia, ha diversi incarichi di ricerca e docenza in molteplici istituti tedeschi, europei ed americani; è un sociologo, che all’inizio della sua carriera fu dalle parti di Francoforte dove frequentò il sapere della Scuola di Adorno, Marcuse ed Habermas. E’ a tutti gli effetti un sapiente della knowledge factory che ha dato alle stampe un testo che ha innescato un dibattito forte e potente in Germania ed è stato appena pubblicato in Italia per i tipi di Feltrinelli (Wolfang Streeck, “Tempo guadagnato”, Campi del sapere, Feltrinelli, luglio 2013). Streeck fornisce una rilettura genealogica degli ultimi trent’anni in Europa, abbracciando nell’analisi l’economia e le coniugate riforme di politica economica, istituzionali e politiche.
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Roger Waters: vergogna-apartheid, boicottiamo Israele
In occasione dei recenti Promenade Concerts alla Royal Albert Hall di Londra, il virtuoso violinista e violista inglese Nigel Kennedy ha accennato al fatto che Israele è uno Stato che pratica l’apartheid. Voi penserete che non ci sia nulla di strano, finché la baronessa Deech (nata Fraenkel) ha contestato il fatto che Israele sia uno Stato di apartheid e ha avuto la meglio sulla Bbc nel censurare l’esibizione di Kennedy, rimuovendo la sua dichiarazione. Nonostante la baronessa Deech non abbia prodotto uno straccio di prova per sostenere la sua dichiarazione, l’apolitica Bbc, che probabilmente agisce solo su comando della baronessa Deech, si è improvvisamente comportata alla 1984. Bene!! È tempo che mi faccia avanti, insieme a mio fratello Nigel Kennedy, com’è giusto che sia. A proposito Nigel: grande rispetto, amico. Qui di seguito una lettera modificata l’ultima volta a luglio.
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Un G20 storico, se i Brics fermano i predoni del pianeta
L’irruzione dei Brics nel G20 dimostra che i tempi stanno per cambiare: non potrà più essere solo Washington a dettare le regole del gioco. Una lunghissima stagione egemonica, dopo Yalta e Bretton Woods, forzata nel ’71 con la fine del Golden Exchange Standard, evento che fece crollare tutto l’impianto, «figlio della Rivoluzione Francese ed elaborato dalla massoneria mondiale». Fu in quell’occasione, rileva Glauco Benigni, che «la volontà di egemonia di una minoranza» si impose apertamente «contro il resto dell’umanità»: e il pianeta «paga tuttora quel progetto», che consente al dollaro di considerarsi (al 65%) moneta di riserva mondiale, quindi stampabile all’infinito, «solo perchè garantito e “coperto” dal bisogno di petrolio degli umani». Se la Guerra del Kippur nel ’73 siglò il secondo atto della tragedia e la caduta del Muro di Berlino una nuova pace provvisoria, lo scoppio del Nasdaq nel 1999 fu l’alba della nuova era, quella dalla quale il mondo sta ora cercando affannosamente di uscire.
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Sorpresa: guerra e menzogne non ci incantano più
Come in una tragedia greca, gli occidentali che annunciavano di voler bombardare la Siria entro un’ora, non hanno fatto nulla e si sbranano fra loro. «Gli dei fanno prima impazzire coloro che vogliono portare alla rovina», diceva Euripide. Da una parte i leader degli Stati che sono membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, Barack Obama, David Cameron e François Hollande; dall’altra, i loro popoli. Da un lato, l’hybris (ὕϐρις), l’eccesso delle ultime grandi potenze coloniali; dall’altro, i Lumi della Ragione. Di fronte a loro, i siriani, silenziosi e resistenti, e i loro alleati, russi e iraniani, appostati. Il brano che viene suonato non è solo un ennesimo episodio della dominazione mondiale, ma un tale momento cruciale che la Storia non conosceva dal 1956 e dalla vittoria di Nasser al Canale di Suez. All’epoca, il Regno Unito, la Francia e Israele dovettero rinunciare al loro sogno coloniale. Certo, ci furono ancora le guerra d’Algeria, del Vietnam e la fine dell’apartheid in Sud Africa, ma lo slancio che aveva posto l’Occidente a capo del mondo si era spezzato.
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Il vero peso dell’Italia, occultato dai padrini dell’euro
Opinion maker come Eugenio Scalfari e Giovanni Floris fanno operazioni di «spudorato terrorismo», perché «spaventavano il pubblico dicendo che, fuori dall’euro, l’Italia avrebbe perso qualsiasi peso economico» e hanno usato espressioni come «finiremmo come il Marocco, o l’Egitto, quei posti lì». Sorvolando sul «retrogusto razzistoide» di frasi di quel genere, che possono far presa «solo su chi ha una totale ignoranza della realtà economica del nostro tempo, e in particolare sul peso specifico del nostro paese nel contesto internazionale», Claudio Martini ricorda che l’Italia «è un paese molto importante, ma sopratutto molto ricco». Peccato che, nell’immaginario collettivo di tanti italiani, il nostro paese resta «una provincia piccola e marginale», che presto sarà «scalzata dalla Thailandia», e che comunque «non può reggere il peso dell’avanzata dei paesi emergenti», quindi deve “fare gruppo” con i cugini europei per resistere alla preoccupante ascesa dei “negri”, membri dell’ex “terzo mondo”. «Corollario: se si esce dall’esclusivo club euro si finisce come il Nord Africa».
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Craig Roberts: colpo di Stato, Obama ha tradito l’America
Gli americani hanno subito un colpo di Stato, anche se esitano ad ammetterlo. Il regime di Washington manca di legittimità costituzionale e giuridica. Gli americani sono attualmente governati da usurpatori secondo i quali l’esecutivo è al di sopra della legge e la Costituzione americana è né più né meno che carta straccia. Un governo non costituzionale è un governo illegittimo. I giuramenti di fedeltà comprendono la difesa della Costituzione “contro ogni nemico, straniero e interno”. Come vollero ben sottolineare i Padri Fondatori, il principale nemico è il governo stesso. Al potere non piacciono vincoli e restrizioni, e fa di tutto, sempre, per liberarsi da questi “lacci”. Alla base del regime di Washington c’è usurpazione di potere. Il Regime Obama, come quello passato Bush-Cheney, non è legittimo. Gli americani sono governati da un potere che comanda non in forza del diritto e della Costituzione, ma con le menzogne e la forza bruta. Quelli che oggi sono al potere considerano la Costituzione solo “una catena che gli tiene le mani legate”.
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Italia kaputt, a Palazzo Chigi il super-piazzista dell’euro
“Euro sì. Morire per Maastricht”. Era il 1997 ed Enrico Letta annunciava, nel suo saggio pubblicato da Laterza, che sarebbe valsa la pena di morire per l’euro e Maastricht come nel 1939 valeva la pena di “morire per la Polonia”. «Non c’è un paese che abbia, come l’Italia, tanto da guadagnare nella costruzione di una moneta unica», disse al “Corriere della Sera”, al termine del suo primo incarico importante, la partecipazione alla commissione per l’introduzione dell’euro. «Abbiamo moltissimi imprenditori piccoli e medi che, quando davanti ai loro occhi si spalancherà il grandissimo mercato europeo, sarà come invitarli a una vendemmia in campagna: è impossibile che non abbiano successo, il mercato della moneta unica sarà una buona scuola, ci troveremo bene». Questo è l’uomo a cui l’appena rieletto Napolitano affida il “governissimo”.