Archivio del Tag ‘sviluppo’
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Dietro la maschera, la piccola Italia (padronale) di Di Maio
La doppia investitura di Luigi Di Maio quale leader e candidato premier dei Cinquestelle dovrebbe favorire la compiuta definizione del profilo ideologico del Movimento. Naturalmente, sempre che il farsi da parte del guru fondatore Grillo non sia, come già altre volte, una gag; quanto la presa d’atto che la politica è materia troppo aggrovigliata per un banalizzatore che affronta a battute ogni questione. Eccoci dunque alla consacrazione di vertice del giovanotto plastificato, una sorta di Barbie al maschile della politica nostrana, che già più volte ha rivelato la propria dipendenza da una cultura pre-moderna, bagno di coltura per modelli di rappresentazione retrogradi tendenti al reazionario nostalgico. Se, nella fase magmatica dopo il primo Vaffa bolognese 2007, nel grillismo confluivano molte anime unificate dall’indignazione (Sinistra rosso antico, Destra anti-sistema, ambientalismo, sanculottismo ribellista e sanfedismo rurale), sicché era opportuno coltivare vaghezze identitarie per ragioni di marketing politico, ora sembra giunto il momento di gettare la maschera. Grazie al giovane emergente/emerso dal milieu profondo Sud. Perfettamente sintonico con la cultura ForzaLega incistata nel milieu della Milano berlusconizzata, da cui proviene l’uomo realmente “forte” nella cabina di regia pentastellata: il consulente aziendale soft Davide Casaleggio.Ma che Di Maio sia un destrorso in proprio lo dimostra già la scelta dei consulenti: un po’ di politologi NeoLib della Luiss, suggeritori del posizionamento ottimale nel bacino del revival destrorso più oscurantista (da qui la scelta avversa allo jus soli e contro le nozze omosessuali; toni insolitamente trucidi in bocca a un perbenino, tipo la definizione di “taxi del mare” per le Ong), soprattutto l’incarico per un paper sul tema del lavoro affidato al sociologo de La Sapienza Mimmo De Masi (pare per la modica cifra di 50mila euro). E De Masi, magari cazzeggiando in un caffè vista mare di Ravello, celebra da una vita l’ozio inteso come il massimo della civiltà post-industriale; alla faccia di torme crescenti di inoccupati e precarizzati, che non sanno come quadrare i conti già dalla seconda settimana del mese. Ma questo approccio tanto piace al giovane Cinquestelle, proprio per le fisime subliminali evocate: il modello latifondistico-fancazzista da baroni meridionali; quelli che si facevano crescere l’unghia del mignolo, come i mandarini confuciani, per esplicitare la loro assoluta estraneità a qualsivoglia attività manuale.Quella manualità su cui si è costruita la cultura operaia, che pone al centro della propria visione del mondo il lavoro come riscatto. Ma che terrorizza i ceti premoderni della rendita e del parassitismo; propugnatori di istanze che hanno alimentato tutte le insorgenze reazionarie del passato, prossimo e remoto. Sempre combattendo il lavoro organizzato. E – quindi – la cultura della modernità. Affidandosi a leader incolti, come il nostro fuori corso arrembante. Che non solo confonde Venezuela con Cile o ignora chi sia un maestro quale Luciano Gallino. Peggio, identifica il reddito di cittadinanza in qualcosa di analogo al New Deal. Per cui un paracadute contro la miseria diventerebbe un improbabile investimento riproduttivo di sviluppo che si auto-alimenta. E quando parla di finanziare le attività economiche non sa distinguere l’impresa innovativa dall’azienducola interstiziale.Quello che conta sono le dimensioni micro, nella permanente avversione verso il lavoro organizzato. Lo spauracchio di padroni e padroncini che accomuna un altro golden boy della nostra politica: il ministro Calenda, il cui curriculum professionale si riduce al ruolo d’assistente alla corte di quell’uomo del fare, quel risanatore d’aziende del Cordero Di Montezemolo. Perché stupirsi se con la fanfaluca ministeriale dell’impresa 4.0, quella che espelle lavoratori investendo in robotizzazione, ci troviamo in presenza di una (modesta) ripresa senza nuova occupazione. Con questi giovanotti da aperitivo spritz h24, presunti rifondatori, il mondo operoso se ne va a ramengo. Per un vecchio liberale gobettiano, che in giovinezza propugnava il progetto “alleanza dei produttori”, il messaggio è oltremodo deprimente.(Pierfranco Pellizzetti, “Di Maio leader, il M5S getta la maschera”, da “Micromega” del 19 settembre 2017).La doppia investitura di Luigi Di Maio quale leader e candidato premier dei Cinquestelle dovrebbe favorire la compiuta definizione del profilo ideologico del Movimento. Naturalmente, sempre che il farsi da parte del guru fondatore Grillo non sia, come già altre volte, una gag; quanto la presa d’atto che la politica è materia troppo aggrovigliata per un banalizzatore che affronta a battute ogni questione. Eccoci dunque alla consacrazione di vertice del giovanotto plastificato, una sorta di Barbie al maschile della politica nostrana, che già più volte ha rivelato la propria dipendenza da una cultura pre-moderna, bagno di coltura per modelli di rappresentazione retrogradi tendenti al reazionario nostalgico. Se, nella fase magmatica dopo il primo Vaffa bolognese 2007, nel grillismo confluivano molte anime unificate dall’indignazione (Sinistra rosso antico, Destra anti-sistema, ambientalismo, sanculottismo ribellista e sanfedismo rurale), sicché era opportuno coltivare vaghezze identitarie per ragioni di marketing politico, ora sembra giunto il momento di gettare la maschera. Grazie al giovane emergente/emerso dal milieu profondo Sud. Perfettamente sintonico con la cultura ForzaLega incistata nel milieu della Milano berlusconizzata, da cui proviene l’uomo realmente “forte” nella cabina di regia pentastellata: il consulente aziendale soft Davide Casaleggio.
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Conditi: moneta fiscale, e usciamo dalla crisi in 100 giorni
Molti mi chiedono: “Cosa faresti per uscire dalla crisi se tu fossi al governo?”. Bella domanda, perché è facile parlare di soluzioni finchè sai che non sarai tu a doverle attuare, altra cosa è essere lì ed avere la responsabilità della vita di 60 milioni di persone. Noi italiani. Tutti sanno che il problema dell’attuale crisi economica è la mancanza di soldi nell’economia reale, ma nessuno lo dice. Tutto il resto sono solo chiacchiere e distintivo. Ci dicono sempre che le cause sono la corruzione, l’evasione fiscale, il debito pubblico, gli sprechi, l’automatizzazione, la globalizzazione, ma noi sappiamo che non sono il problema principale. Ci distraggono in continuazione con discussioni su temi diversi come i vaccini, l’immigrazione, i cambiamenti climatici, gli attentati terroristici, gli stupri e qualsiasi altra cosa riesca a distogliere la nostra attenzione dall’unico e vero problema. La crisi economica deriva dalla mancanza di soldi nell’economia reale. Ma i problemi dovrebbero essere la scarsità di risorse umane e materiali, certamente non i soldi che si possono creare e vengono anche oggi creati in grandi quantità e senza alcun limite. Solo che finiscono nelle mani di pochi privilegiati, che si arricchiscono a scapito di tutti gli altri.Siamo una delle nazioni al mondo più ricche di risorse materiali, con un patrimonio artistico, culturale ed ambientale che tutti ci invidiano, ma soprattutto abbiamo risorse umane di qualità, perché abbiamo cultura, capacità, genio ed inventiva come nessun’altra popolazione al mondo. Tuttavia, siamo incapaci di trovare l’unica risorsa che può essere creata dal nulla senza alcun problema: i soldi. Supponiamo che ci sia un governo illuminato che voglia seguire la nostra strada, questi dovrebbero essere gli interventi legislativi nei primi cento giorni: 1) Istituire una moneta fiscale elettronica chiamata Sire, che gira su un circuito fiscale indipendente dalle banche, che fa capo al ministero dell’economia e delle finanze. Stampa anche biglietti di Stato in Sire e monete metalliche da 5 e 10 euro in Sire. Essendo materia fiscale, né la Bce né l’Ue possono dire niente; l’importante è che siano ad accettazione volontaria e utilizzabili per pagare le tasse.2) Lo Stato diventa istituto di moneta elettronica come prevede l’articolo 114/bis del Tub (Testo unico bancario), per cui con la stessa carta di credito fiscale posso anche effettuare pagamenti in euro, magari con tecnologia blockchain. 3) Riprendere il pieno controllo della Banca d’Italia da parte dello Stato, procedendo al rinnovo delle cariche direttive e riacquistando le quote di partecipazione attualmente detenute da privati, per rispettare quanto previsto dall’articolo 47 della nostra Costituzione. 4) Procedere al consolidamento dei titoli di debito pubblico dello Stato attualmente detenuto da Banca d’Italia, circa per 400 miliardi di euro, in modo che il famigerato rapporto debito/Pil possa scendere vicino al 100%. 5) Creare un sistema di banche pubbliche sul modello tedesco, nazionalizzando ed acquisendo il controllo di quelle in difficoltà, trasferendo tutte le sofferenze che gravano sul settore bancario presso la Banca d’Italia.6) Disporre il pagamento immediato di tutti i debiti della pubblica amministrazione nei confronti delle aziende private e finanziare, con denaro creato direttamente dallo Stato, il sostegno ai cittadini in difficoltà, la ricostruzione del terremoto, gli investimenti produttivi ed innescare lo sviluppo economico in tutti i settori strategici dell’economia reale. Mentre diventano operativi questi 6 punti, viene contemporaneamente inoltrata, al Parlamento Europeo e alla Corte di Giustizia Europea, una denuncia per il mancato rispetto dei Trattati da parte della Bce e della Commissione Europea, citando nello specifico gli obiettivi dell’articolo 3 del Tue (Trattato sull’Unione Europea) e dell’articolo 127 del Tfue (Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea), oltre a tutte le altre norme a favore degli Stati che non sono state rispettate: l’accusa è di aver adottato politiche monetarie solo a favore di banche e mercati finanziari, mentre i Trattati hanno ben altri obiettivi.Nell’eventualità la Bce adottasse provvedimenti di blocco del sistema bancario, tenere pronto un decreto legge con il quale trasformare il sistema “fiscale” Sire, già utilizzato negli scambi, in un sistema monetario vero e proprio, dichiarandone la validità a corso legale e l’accettazione obbligatoria. In questo caso si usce dall’euro, ma senza traumi e con un sistema monetario pronto e già funzionante. Parleremo di questo e di molto altro a Roma il 9 ottobre 2017, presso il VII Municipio in un incontro pubblico con Nino Galloni e Paolo Tintori. Siete tutti invitati. Perchè se vogliamo davvero un cambiamento radicale e profondo delle politiche economiche e monetarie, dobbiamo aumentare la consapevolezza di tutti su questi temi fondamentali ed essere capaci di immaginare un sistema diverso, altrimenti saremo noi stessi un freno al cambiamento. Ho anche realizzato 6 video brevissimi e chiari, che potete trovare sul mio profilo pubblico su Facebook da condividere con i vostri amici.(Fabio Conditi, “Come risolvere la crisi in soli 100 giorni”, da “Come Don Chisciotte” del 17 settembre 2017. Conditi è presidente dell’associazione “Moneta Positiva”).Molti mi chiedono: “Cosa faresti per uscire dalla crisi se tu fossi al governo?”. Bella domanda, perché è facile parlare di soluzioni finchè sai che non sarai tu a doverle attuare, altra cosa è essere lì ed avere la responsabilità della vita di 60 milioni di persone. Noi italiani. Tutti sanno che il problema dell’attuale crisi economica è la mancanza di soldi nell’economia reale, ma nessuno lo dice. Tutto il resto sono solo chiacchiere e distintivo. Ci dicono sempre che le cause sono la corruzione, l’evasione fiscale, il debito pubblico, gli sprechi, l’automatizzazione, la globalizzazione, ma noi sappiamo che non sono il problema principale. Ci distraggono in continuazione con discussioni su temi diversi come i vaccini, l’immigrazione, i cambiamenti climatici, gli attentati terroristici, gli stupri e qualsiasi altra cosa riesca a distogliere la nostra attenzione dall’unico e vero problema. La crisi economica deriva dalla mancanza di soldi nell’economia reale. Ma i problemi dovrebbero essere la scarsità di risorse umane e materiali, certamente non i soldi che si possono creare e vengono anche oggi creati in grandi quantità e senza alcun limite. Solo che finiscono nelle mani di pochi privilegiati, che si arricchiscono a scapito di tutti gli altri.
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D’Attorre: per l’euro noi di sinistra dobbiamo chiedere scusa
Bene la discussione scientifica sui problemi dell’uscita, ma riconoscendo due cose: la moneta unica ci impoverisce ed è incompatibile con la Costituzione. Il dibattito sul futuro dell’euro che si è aperto recentemente fra intellettuali e economisti di sinistra sulle colonne di diversi giornali, tra i quali il “Fatto Quotidiano”, è una novità positiva. Per chi si professa progressista non dovrebbero esistere tabù, e invece l’intangibilità della moneta unica ha rappresentato a sinistra, tranne isolate eccezioni, una sorta di articolo di fede, sottratto al vaglio empirico e a una laica valutazione dei costi e dei benefici. Un confronto più razionale sulla sostenibilità economica dell’euro e sulle conseguenze del suo eventuale superamento può aiutare ad aprire un’altra discussione urgente nel campo del centrosinistra, a maggior ragione se si porrà l’esigenza di una sua riorganizzazione politica e programmatica dopo la sconfitta di Renzi nel referendum costituzionale. Il punto è semplice: può un qualsiasi schieramento progressista riproporsi credibilmente alla guida del paese senza fare un bilancio onesto degli effetti sulla società italiana della scelta più importante che il centrosinistra ha compiuto nell’ultimo ventennio, ossia l’adesione incondizionata al vincolo esterno europeo e al progetto dell’euro?Se gli economisti discutono sulla praticabilità di un’uscita dalla moneta unica, su altri due punti la discussione scientifica è chiusa, nel senso che le evidenze empiriche conducono univocamente nella stessa direzione: Primo: l’euro è stato costruito in una maniera radicalmente sbagliata, funzionale solo agli interessi della Germania e dei suoi satelliti, ha enormemente accresciuto la divergenza e l’ostilità tra i popoli europei e si è rivelato incompatibile con una logica di sana cooperazione politica ed economica su base paritaria fra i diversi Stati. Secondo: l’Italia è uno dei paesi per i quali la scelta dell’euro ha prodotto gli effetti più negativi. Basta prendere in considerazione un qualsiasi grafico che illustri comparativamente l’andamento della produttività, della bilancia commerciale, del reddito pro capite o del Pil fra Italia e Germania prima e dopo l’introduzione della moneta unica per aver un quadro impressionante. Si pensi solo al fatto che ancora nel 2015 l’Italia era l’unico paese dell’Eurozona, Grecia compresa, in cui il livello del Pil pro capite rimaneva inferiore a quello del 1999, l’anno in cui siamo stati ammessi nella moneta unica e sono stati fissati i cambi tra le diverse valute nazionali.Di fronte all’evidenza di tale disastro economico e sociale, a cui vanno aggiunti gli effetti sulla qualità della nostra democrazia, le forze progressiste dovrebbero riconoscere apertamente l’errore storico compiuto nell’appoggiare un progetto fallimentare e, ciascuna per la propria parte di responsabilità, chiedere scusa agli italiani. Si tratterebbe, a mio avviso, di un atto politico in grado di riaprire un rapporto con settori della società italiana un tempo vicini alla sinistra e che oggi rischiano di essere consegnati irreversibilmente alla destra xenofoba o all’avventurismo del M5S. L’altra riflessione che si dovrebbe aprire fra gli intellettuali e i politici progressisti, specie tra quelli più impegnati per il No al referendum, riguarda il rapporto fra euro e Costituzione repubblicana. Se si fa della battaglia referendaria la strada non solo per sconfiggere il renzismo, ma per restituire alla Costituzione il ruolo di bussola fondamentale dello sviluppo del paese, è arrivato il tempo di interrogarsi sulla compatibilità fra il progetto di società tracciato dalla Carta costituzionale e quello contenuto nei Trattati europei, su cui il funzionamento della moneta unica si regge.Le famigerate “riforme strutturali” richieste dall’Europa in materia di lavoro, pensioni, sanità, istruzione, risparmio non sono un accidente della storia, ma la diretta conseguenza di un modello economico chiaramente alternativo a quello disegnato nella prima parte della nostra Costituzione e strettamente funzionale al mantenimento della moneta unica. Decine di studi hanno ormai chiarito che per le economie della periferia dell’Eurozona l’austerità, gli alti livelli di disoccupazione e la conseguente deflazione salariale non sono una condizione transitoria legata a una fase di crisi, ma il presupposto per mantenere le economie di quei paesi su una linea di galleggiamento dentro la moneta unica, in una situazione in cui essi hanno rinunciato al controllo della leva fiscale e di quella monetaria.Se non si riconoscono questi dati di realtà, protestare contro la svalutazione del lavoro o invocare il ritorno a un livello di investimenti pubblici incompatibili con i vincoli finanziari della moneta unica significa semplicemente abbaiare alla luna. Per quanto possa considerare difficile e rischiosa l’uscita dalla moneta unica, la sinistra non può più permettersi di considerare l’euro un Moloch sovraordinato rispetto ai principi costituzionali. Se la vittoria del No al referendum impedirà un ulteriore svuotamento della sovranità democratica nazionale a vantaggio dei poteri tecnocratici europei e rimetterà al centro della politica italiana la Costituzione a tutto tondo, bisognerà mettere in atto una strategia di resistenza costituzionale rispetto a ogni ulteriore trasformazione economica, sociale e democratica imposta dalla logica di funzionamento della moneta unica. Prendere di nuovo sul serio la Costituzione potrà difendere gli italiani dalle conseguenze dell’euro molto più di quanto abbia fatto la classe politica di destra o di sinistra nell’ultimo ventennio.(Alfredo D’Attorre, “Noi di sinistra dobbiamo chiedere scusa per l’euro”, dal “Fatto Quotidiano” del 26 ottobre 2016, articolo ripreso da “Sinistra Lavoro”).Bene la discussione scientifica sui problemi dell’uscita, ma riconoscendo due cose: la moneta unica ci impoverisce ed è incompatibile con la Costituzione. Il dibattito sul futuro dell’euro che si è aperto recentemente fra intellettuali e economisti di sinistra sulle colonne di diversi giornali, tra i quali il “Fatto Quotidiano”, è una novità positiva. Per chi si professa progressista non dovrebbero esistere tabù, e invece l’intangibilità della moneta unica ha rappresentato a sinistra, tranne isolate eccezioni, una sorta di articolo di fede, sottratto al vaglio empirico e a una laica valutazione dei costi e dei benefici. Un confronto più razionale sulla sostenibilità economica dell’euro e sulle conseguenze del suo eventuale superamento può aiutare ad aprire un’altra discussione urgente nel campo del centrosinistra, a maggior ragione se si porrà l’esigenza di una sua riorganizzazione politica e programmatica dopo la sconfitta di Renzi nel referendum costituzionale. Il punto è semplice: può un qualsiasi schieramento progressista riproporsi credibilmente alla guida del paese senza fare un bilancio onesto degli effetti sulla società italiana della scelta più importante che il centrosinistra ha compiuto nell’ultimo ventennio, ossia l’adesione incondizionata al vincolo esterno europeo e al progetto dell’euro?
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Sankara: basta rapinare l’Africa, col debito. E lo uccisero
Noi pensiamo che il debito si analizzi prima di tutto dalla sua origine. Le origini del debito risalgono alle origini del colonialismo. Quelli che ci hanno prestato denaro sono gli stessi che ci avevano colonizzato. Sono gli stessi che gestivano i nostri Stati e le nostre economie. Sono i colonizzatori che indebitavano l’Africa con i finanziatori internazionali, che erano i loro fratelli e cugini. Noi non c’entravamo niente con questo debito. Quindi non possiamo pagarlo. Il debito è ancora il neocolonialismo, con i colonizzatori trasformati in assistenti tecnici – anzi, dovremmo invece dire “assassini tecnici”. Sono loro che ci hanno proposto dei canali di finanziamento, dei “finanziatori”. Un termine che si usa ogni giorno, come se ci fossero degli uomini che solo “sbadigliando” possono creare lo sviluppo degli altri. Questi finanziatori ci sono stati consigliati, raccomandati. Ci hanno presentato dei dossier e dei movimenti finanziari allettanti. Noi ci siamo indebitati per cinquant’anni, sessant’anni e più. Cioè siamo stati portati a compromettere i nostri popoli per cinquant’anni e più.Il debito nella sua forma attuale, controllata e dominata dall’imperialismo, è una riconquista dell’Africa sapientemente organizzata, in modo che la sua crescita e il suo sviluppo obbediscano a delle norme che ci sono completamente estranee. In modo che ognuno di noi diventi schiavo finanziario, cioè schiavo tout court, di quelli che hanno avuto l’opportunità, l’intelligenza, la furbizia, di investire da noi con l’obbligo di rimborso. Ci dicono di rimborsare il debito. Non è un problema morale. Rimborsare o non rimborsare non è un problema di onore. Abbiamo prima ascoltato e applaudito il primo ministro della Norvegia, intervenuta qui. Ha detto, lei che è un’europea, che il debito non può essere rimborsato tutto. Il debito non può essere rimborsato prima di tutto perché se noi non paghiamo, i nostri finanziatori non moriranno, siamone sicuri. Invece se paghiamo, saremo noi a morire, ne siamo ugualmente sicuri. Quelli che ci hanno condotti all’indebitamento hanno giocato come al casinò. Finché guadagnavano non c’era nessun problema; ora che perdono al gioco esigono il rimborso. E si parla di crisi. No, signor presidente. Hanno giocato, hanno perduto, è la regola del gioco. E la vita continua.Non possiamo rimborsare il debito perché non abbiamo di che pagare. Non possiamo rimborsare il debito perché non siamo responsabili del debito. Non possiamo pagare il debito perché, al contrario, gli altri ci devono ciò che le più grandi ricchezze non potranno mai ripagare: il debito del sangue. E’ il nostro sangue che è stato versato. Si parla del Piano Marshall che ha rifatto l’Europa economica. Ma non si parla mai del Piano africano che ha permesso all’Europa di far fronte alle orde hitleriane quando la sua economia e la sua stabilità erano minacciate. Chi ha salvato l’Europa? E’ stata l’Africa. Se ne parla molto poco. Così poco che noi non possiamo essere complici di questo silenzio ingrato. Se gli altri non possono cantare le nostre lodi, noi abbiamo almeno il dovere di dire che i nostri padri furono coraggiosi e che i nostri combattenti hanno salvato l’Europa e alla fine hanno permesso al mondo di sbarazzarsi del nazismo.Il debito è anche conseguenza degli scontri. Quando ci parlano di crisi economica, dimenticano di dirci che la crisi non è venuta all’improvviso. La crisi è sempre esistita e si aggraverà ogni volta che le masse popolari diventeranno più coscienti dei loro diritti di fronte allo sfruttatore. Oggi c’è crisi perché le masse rifiutano che le ricchezze siano concentrate nelle mani di pochi individi. C’è crisi perché pochi individui depositano nelle banche estere delle somme colossali che basterebbero a sviluppare l’Africa intera. C’è crisi perché di fronte a queste ricchezze individuali, che hanno nomi e cognomi, le masse popolari si rifiutano di vivere nei ghetti e nei bassifondi. C’è crisi perché i popoli rifiutano dappertutto di essere dentro una Soweto di fronte a Johannesburg. C’è quindi lotta, e l’esacerbazione di questa lotta preoccupa chi ha il potere finanziario.Ci si chiede oggi di essere complici della ricerca di un equilibrio. Equilibrio a favore di chi ha il potere finanziario. Equilibrio a scapito delle nostre masse popolari. No! Non possiamo essere complici. Non possiamo accompagnare quelli che succhiano il sangue dei nostri popoli e vivono del sudore dei nostri popoli nelle loro azioni assassine. Signor presidente, sentiamo parlare di club – Club di Roma, Club di Parigi, Club di dappertutto. Sentiamo parlare del Gruppo dei Cinque, dei Sette, del Gruppo dei Dieci, forse del Gruppo dei Cento o che so io. E’ normale allora che anche noi creiamo il nostro club e il nostro gruppo. Facciamo in modo che a partire da oggi anche Addis Abeba diventi la sede, il centro da cui partirà il vento nuovo del Club di Addis Abeba. Abbiamo il dovere di creare oggi il fronte unito di Addis Abeba contro il debito. E’ solo così che potremo dire, oggi, che rifiutando di pagare non abbiamo intenzioni bellicose ma, al contrario, intenzioni fraterne.Del resto, le masse popolari in Europa non sono contro le masse popolari in Africa. Ma quelli che vogliono sfruttare l’Africa sono gli stessi che sfruttano l’Europa. Abbiamo un nemico comune. Quindi il club di Addis Abeba dovrà dire agli uni e agli altri che il debito non sarà pagato. Quando diciamo che il debito non sarà pagato non vuol dire che siamo contro la morale, la dignità, il rispetto della parola. Noi pensiamo di non avere la stessa morale degli altri. Tra il ricco e il povero non c’è la stessa morale. La Bibbia, il Corano, non possono servire nello stesso modo chi sfrutta il popolo e chi è sfruttato. C’è bisogno che ci siano due edizioni della Bibbia e due edizioni del Corano. Non possiamo accettare che ci parlino di dignità. Non possiamo accettare che ci parlino di merito per quelli che pagano, e perdita di fiducia per quelli che non dovessero pagare. Noi dobbiamo dire, al contrario, che oggi è normale si preferisca riconoscere come i più grandi ladri siano i più ricchi.Un povero, quando ruba, non commette che un peccatucolo per sopravvivere e per necessità. I ricchi sono quelli che rubano al fisco, alle dogane. Sono quelli che sfruttano il popolo. Signor presidente, non è quindi provocazione o spettacolo. Dico solo ciò che ognuno di noi pensa e vorrebbe. Chi non vorrebbe, qui, che il debito fosse semplicemente cancellato? Quelli che non lo vogliono possono subito uscire, prendere il loro aereo e andare dritti alla Banca Mondiale a pagare! Non vorrei poi che si prendesse la proposta del Burkina Faso come fatta da “giovani”, senza maturità ed esperienza. Non vorrei neanche che si pensasse che solo i rivoluzionari parlano in questo modo. Vorrei semplicemente che si ammettesse che è una cosa oggettiva, un fatto dovuto. E posso citare, tra quelli che dicono di non pagare il debito, dei rivoluzionari e non, dei giovani e degli anziani. Per esempio Fidel Castro ha già detto di non pagare. Non ha la mia età, anche se è un rivoluzionario. Ma posso citare anche François Mitterrand, che ha detto che i paesi africani non possono pagare, i paesi poveri non possono pagare. Posso citare la signora primo ministro di Norvegia. Non conosco la sua età e mi dispiacerebbe chiederglielo, è solo un esempio.Vorrei anche citare il presidente Félix Houphouët Boigny. Non ha la mia età, eppure ha dichiarato pubblicamente che, quanto al suo paese, la Costa d’Avorio, non può pagare. Ma la Costa d’Avorio è tra i paesi che stanno meglio in Africa, almeno nell’Africa francofona. E per questo, d’altronde, è normale che paghi un contributo maggiore, qui. Signor presidente, la mia non è quindi una provocazione. Vorrei che molto saggiamente lei ci offrisse delle soluzioni. Vorrei che la nostra conferenza adottasse la risoluzione di dire chiaramente che noi non possiamo pagare il debito. Non in uno spirito bellicoso, bellico. Questo per evitare di farci assassinare individualmente. Se il Burkina Faso da solo rifiuta di pagare il debito, io non sarò qui alla prossima conferenza! Invece, col sostegno di tutti, di cui ho molto bisogno, col sostegno di tutti potremo evitare di pagare. Ed evitando di pagare potremo consacrare le nostre magre risorse al nostro sviluppo.E vorrei terminare dicendo che ogni volta che un paese africano compra un’arma, è contro un africano. Non contro un europeo, non contro un asiatico. E’ contro un africano. Perciò dobbiamo, anche sulla scia della risoluzione sul problema del debito, trovare una soluzione al problema delle armi. Sono militare e porto un’arma. Ma, signor presidente, vorrei che ci disarmassimo. Perché io porto l’unica arma che possiedo. Altri hanno nascosto le armi che pure portano. Allora, cari fratelli, col sostegno di tutti, potremo fare la pace a casa nostra. Potremo anche usare le sue immense potenzialità per sviluppare l’Africa, perché il nostro suolo e il nostro sottosuolo sono ricchi. Abbiamo abbastanza braccia e un mercato immenso, da Nord a Sud, da Est a Ovest. Abbiamo abbastanza capacità intellettuali per creare, o almeno prendere la tecnologia e la scienza in ogni luogo dove si trovano.Signor presidente, facciamo in modo di realizzare questo fronte unito di Addis Abeba contro il debito. Facciamo in modo che, a partire da Addis Abeba, decidiamo di limitare la corsa agli armamenti tra paesi deboli e poveri. I manganelli e i machete che compriamo sono inutili. Facciamo in modo che il mercato africano sia il mercato degli africani. Produrre in Africa, trasformare in Africa, consumare in Africa. Produciamo quello di cui abbiamo bisogno e consumiamo quello che produciamo, invece di importarlo. Il Burkina Faso è venuto a mostrare qui la cotonella, prodotta in Burkina Faso, tessuta in Burkina Faso, cucita in Burkina Faso per vestire i burkinabé. La mia delegazione e io stesso siamo vestiti dai nostri tessitori, dai nostri contadini. Non c’è un solo filo che venga d’Europa o d’America. Non faccio una sfilata di moda, ma vorrei semplicemente dire che dobbiamo accettare di vivere africano. E’ il solo modo di vivere liberi e degni.(Thomas Sankara, estratto dal “discorso sul debito” pronunciato al vertice panafricano di Addis Abeba, Etiopia, il 29 luglio 1987. Un anno dopo, il 28 ottobre, Sankara verrà assassinato a Ouagadougu, capitale del Burkina Faso, che quattro anni prima aveva liberato, con la sua rivoluzione, dal colonialismo francese. Il presidente dell’Organizzazione per l’Unità Africana, cui Sankara si rivolge nel discorso, è il congolese Denis Sassou-Nguesso, mentre la citata premier norvegese è Gro Harlem Brundtland, progressista e ambientalista. Riletto oggi, il celebre discorso di Sankara – martire socialista della sovranità democratica dell’Africa – è particolarmente illuminante, di fronte alla tragedia quotidiana dell’esodo dei migranti africani).Noi pensiamo che il debito si analizzi prima di tutto dalla sua origine. Le origini del debito risalgono alle origini del colonialismo. Quelli che ci hanno prestato denaro sono gli stessi che ci avevano colonizzato. Sono gli stessi che gestivano i nostri Stati e le nostre economie. Sono i colonizzatori che indebitavano l’Africa con i finanziatori internazionali, che erano i loro fratelli e cugini. Noi non c’entravamo niente con questo debito. Quindi non possiamo pagarlo. Il debito è ancora il neocolonialismo, con i colonizzatori trasformati in assistenti tecnici – anzi, dovremmo invece dire “assassini tecnici”. Sono loro che ci hanno proposto dei canali di finanziamento, dei “finanziatori”. Un termine che si usa ogni giorno, come se ci fossero degli uomini che solo “sbadigliando” possono creare lo sviluppo degli altri. Questi finanziatori ci sono stati consigliati, raccomandati. Ci hanno presentato dei dossier e dei movimenti finanziari allettanti. Noi ci siamo indebitati per cinquant’anni, sessant’anni e più. Cioè siamo stati portati a compromettere i nostri popoli per cinquant’anni e più.
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Scordatevi i parchi italiani: fanno gola, vogliono mangiarseli
Di fronte a un aumento galoppante dell’effetto serra, alla minaccia di estinzione di migliaia di specie animali e vegetali importantissime sia per l’equilibrio di interi habitat sia per il sostentamento umano, quale obiettivo si dovrebbe prefiggere un governo? Il buon senso direbbe un obiettivo di salvaguardia e incremento delle aree protette, di incentivi politici ed economici per la protezione del territorio e degli esseri viventi che lo abitano. E infine un obiettivo culturale per sviluppare nella popolazione e soprattutto nei giovani amore, rispetto e conoscenza della natura. Ma nel nostro paese sta succedendo esattamente il contrario. Con 249 voti a favore, 115 contrari e 2 astenuti, la Camera dei Deputati ha approvato la nuova legge in materia di parchi ed aree protette. E chi ne è stato informato, se ha a cuore l’ambiente, ha fatto davvero fatica a non cadere nello sconforto. La nuova legge è un’accozzaglia di concessioni e favoritismi nei confronti dei privati, di lobbies potenti come i cacciatori, di categorie come gli agricoltori. La politica entra a gamba tesa nella gestione dei parchi e lo fa come una ruspa in una foresta vergine, con protervia e ignoranza e con l’unico obiettivo di favorire interessi economici e speculazioni.Ma vediamo nel dettaglio cosa comporta questa legge e perché ha fatto levare un coro di proteste da parte di tutte le associazioni ambientaliste. In primo luogo, a chi governerà i parchi, ovvero i presidenti e i direttori, non sarà più richiesta alcuna competenza scientifica e i presidenti saranno nominati dal ministro e dalle Regioni, cioè dai politici; nei consigli direttivi dei parchi la metà dei membri sarà scelta dalle amministrazioni comunali, un quarto sarà composto di sindaci, ma ci sarà posto anche per gli agricoltori. Si apre la strada a interessi economici privati, interessi politici e clientelistici (d’altra parte si dichiara che questa riforma è fatta per lo sviluppo economico), alle ditte del legname e all’industria del turismo. Viene scardinata l’idea che un’area naturale protetta sia prima di tutto necessaria alla salvaguardia dell’ambiente, a preservare il futuro di un territorio, oltre che il presente. Passa l’idea che l’economia e il profitto siano l’unico obiettivo e metro di giudizio nei riguardi della natura. Il mondo scientifico viene emarginato nella gestione dei parchi, e anche il mondo ambientalista è messo in un angolo, a favore di categorie politiche ed economiche.Si apre la strada a possibili trivellazioni ed estrazioni petrolifere, si potrà inquinare pagando delle royalties, si apre alle attività di caccia col pretesto del controllo degli ungulati, con le conseguenze di disturbo, danneggiamento e migrazione di altre specie anche rare e protette. Una serie di vergognose scelte difese con assoluta facciatosta da voltagabbana dell’ambientalismo come Ermete Realacci, che da presidente di Legambiente è passato armi e bagagli al carrozzone politico e riesce a elogiare con accanimento una legge “mostro” inqualificabile. Tale legge, tra l’altro, considera marginali le aree marine protette, privandole dei fondi e delle organizzazioni che spettano ai parchi naturali. C’è poi la questione del delta del Po, da anni tema di proteste e proposte per realizzare un parco nazionale. Un’area che l’Unesco ha dichiarato area prioritaria, che rientra nella Convenzione di Ramsar sugli uccelli migratori, e che ora è spezzettata in tre provincie con diverse concezioni e gestioni.Questa legge-pastrocchio indecente ha fatto infuriare il Wwf Italia, che parla di aree naturali protette «usate come merce di scambio da mettere in mano ai poteri di parte e locali, invece che un bene comune che appartiene ai cittadini», e rincara la dose dichiarando: «La Camera ha portato indietro di 40 anni la legislazione di salvaguardia della natura». Anche la Lipu parla di «mortificazione di una legge storica fondamentale per la conservazione della natura in Italia, e una delle pagine più grigie della legislazione ambientale italiana». Ecco dunque le disastrose decisioni prese dal nostro governo e avvallate da una parte dell’opposizione. Le ricadute ambientali, sociali e anche economiche potrebbero essere devastanti ma, per avvantaggiare interessi economici privati, si buttano alle ortiche i nostri beni più preziosi. Beni che non appartengono solo a noi ma anche alle generazioni future e che con questa legge saranno invece compromessi. Ancora una volta una decisione politica antipopolare e che distrugge il patrimonio e l’immagine dell’Italia.(Martino Danielli, “Addio parchi italiani”, da “Il Cambiamento” dell’11 agosto 2017).Di fronte a un aumento galoppante dell’effetto serra, alla minaccia di estinzione di migliaia di specie animali e vegetali importantissime sia per l’equilibrio di interi habitat sia per il sostentamento umano, quale obiettivo si dovrebbe prefiggere un governo? Il buon senso direbbe un obiettivo di salvaguardia e incremento delle aree protette, di incentivi politici ed economici per la protezione del territorio e degli esseri viventi che lo abitano. E infine un obiettivo culturale per sviluppare nella popolazione e soprattutto nei giovani amore, rispetto e conoscenza della natura. Ma nel nostro paese sta succedendo esattamente il contrario. Con 249 voti a favore, 115 contrari e 2 astenuti, la Camera dei Deputati ha approvato la nuova legge in materia di parchi ed aree protette. E chi ne è stato informato, se ha a cuore l’ambiente, ha fatto davvero fatica a non cadere nello sconforto. La nuova legge è un’accozzaglia di concessioni e favoritismi nei confronti dei privati, di lobbies potenti come i cacciatori, di categorie come gli agricoltori. La politica entra a gamba tesa nella gestione dei parchi e lo fa come una ruspa in una foresta vergine, con protervia e ignoranza e con l’unico obiettivo di favorire interessi economici e speculazioni.
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Sono pazzi, dicono ancora che l’Ue si possa democratizzare
Mettetevelo in testa: l’Unione Europea è finita, non è riformabile. E’ la sintesi che fornisce Carlo Formenti su “Micromega”, commentando il numero di maggio-giugno della rivista “Il Ponte”, intitolato “Un’altra Europa”, con 10 mini-saggi firmati da autori come Ernesto Screpanti, Luciano Vasapollo, Giorgio Cremaschi nonché Marco Baldassari, Diego Melegari e Stefano Zai. Fine dell’illusione riformista, nessuna possibile «evoluzione democratica delle istituzioni comunitarie». Tesi scolpite nel marmo: la natura dell’Ue è «costitutivamente oligarchica». Peggio: «Principi e valori dell’ordoliberalismo tedesco ne ispirano il progetto». C’è ormai una «presa d’atto della natura neocoloniale della relazione fra Germania e paesi dell’area mediterranea e dell’Est europeo». Tutti concordi sulla «necessità di rompere con la Ue e di dare avvio a processi alternativi di aggregazione fra paesi periferici». Sbagliato, scrive Formenti, considerare “un errore” la politica economica europea «nel ritorno al dogma dello Stato minimo, tipico del liberismo classico». Sbagliato pensare «che tale errore sia correggibile attraverso il ritorno a politiche neokeynesiane». Con Brxelles la partita è persa, resta solo la fuga.Si insiste sul fatto che la visione ordoliberale, adottata fin dalle origini dalla Germania postbellica, nega la capacità del mercato di autoregolarsi e affida allo Stato – uno Stato forte, dunque – il ruolo di definire un quadro giuridico istituzionale, una vera e propria “costituzione economica”, nel quale i fattori economici possano esplicarsi correttamente (stabilità dei prezzi, protezione della concorrenza da sostegni pubblici e interventi “lobbistici” dei corpi intermedi come i sindacati). La politica non deve dunque compensare gli effetti del mercato (di qui l’obiettivo di smantellare il welfare) ma garantire il libero sviluppo di un’economia che – in quanto “economia sociale di mercato” – si presenta come un vera e propria utopia, una economia “morale” fondata su un mix di spirito imprenditoriale, valore comunitario e ordine sociale armonico. Questa funzione di governance, continua Formenti, non necessita di legittimazione, per cui le critiche alla scarsa democraticità delle istituzioni europee, o alla presunta incompletezza del processo di unificazione politica cadono letteralmente nel vuoto: «l’Unione non è uno stato federale “incompiuto”, bensì una superstruttura parastatale che ha il compito di gestire una governance multilivello». Una superstruttura «rispetto alla quale i trattati assumono valore costituzionale, funzionano come “una costituzione senza Stato e senza popolo”».Di fronte a questa realtà, «l’unico argomento che consente alle sinistre radicali di coltivare l’illusione riformista di poter democratizzare questa Europa è il dogma (fedele a una sorta di internazionalismo astratto che sconfina nel cosmopolitismo borghese) secondo cui il piano sovranazionale sarebbe l’unico sul quale è possibile rappresentare gli interessi delle classi subalterne», osserva Formenti. Altro argomento, la relazione semicoloniale fra la Germania e gli altri paesi, mediterranei e dell’Est, «imposta dai rapporti di forza fra grandi potenze in conflitto reciproco sul mercato globale». Il processo di globalizzazione è stato a lungo trainato «dalla sostanziale convergenza di interessi fra Stati Uniti e Cina: da un lato, la politica americana di espansione della domanda aggregata che alimentava la crescita di consumi, investimenti e importazioni gonfiando il debito pubblico e privato (e facendolo pagare agli altri paesi grazie all’egemonia del dollaro), dall’altro, il mercantislismo cinese che sfruttava la politica americana per alimentare i vertiginosi tassi di crescita del proprio surplus commerciale».La crisi, argomenta Screpanti, ha rotto questi equilibri, inducendo quasi tutti i paesi ad adottare forme di “mercantilismo difensivo” che tendono a rallentare lo sviluppo, nella misura in cui rallentano la domanda mondiale di importazioni. Secondo Screpanti, non è tuttavia corretto parlare di “fine della globalizzazione”, in quanto il processo di internazionalizzazione delle grandi imprese prosegue, anche se entra in contraddizione con il nazionalismo dei grandi Stati. In questo contesto la Germania, «il cui modello di sviluppo è stato fin dall’inizio basto sulle esportazioni», tende ad accentuare ulteriormente la pressione sugli altri paesi dell’Unione, imponendo – come afferma Vasapollo – una divisione del lavoro «che assegna ai paesi mediterranei il ruolo di importatori, mentre trasferisce all’Est il sistema industriale per ridurre ulteriormente il costo del lavoro». Del resto, «il mito della convergenza delle economie nazionali dell’area Ue è tramontato da tempo, di fronte alla forbice che vede un Nord che cresce rapidamente grazie ai surplus commerciali opposto un Sud che cresce lentamente, ha elevati tassi di disoccupazione, debiti pubblici in aumento, bilanci commerciali in deficit e subisce un processo di deindustrializzazione».Ormai, continua Formenti, è evidente che l’euro «è lo strumento che ha consentito alla Germania di imporre ai soci di finanziare i suoi squilibri di bilancio (soprattutto dopo l’unificazione con l’Est), di costruire un nuovo proletariato industriale per le sue multinazionali e di esercitare un inedito colonialismo interno al polo europeo per sostenere le proprie ambizioni di potenza emergente a livello globale». Di fronte a questo scenario, «che rende irrealistico qualsiasi progetto di riforma di questa Europa», tutti gli articoli sostengono l’inevitabilità, per quelle forze politiche che intendano realmente rappresentare gli interessi delle classi subalterne, di lavorare per la rottura della Ue anche prendendo in considerazione l’ipotesi di un’uscita unilaterale (Italexit) del nostro paese – uscita che, scrive Screpanti, mentre rappresenterebbe un processo dirompente per tutta l’Unione, non deve farci dimenticare che implicherebbe un prezzo elevato da pagare. Tema che Vasapollo affronta da un altro punto di vista, sviluppando la prospettiva della costruzione di un’Europa dei popoli mediterranei in analogia all’alleanza politico-economica messa in atto alle rivoluzioni bolivariane in America Latina.Di taglio più politico l’articolo di Cremaschi, che affronta la crisi della globalizzazione dal punto di vista della perdita di consenso delle masse popolari nei confronti delle élite che hanno governato il processo negli ultimi decenni. «A causa della crisi, gli avanzi della ricchezza accumulata non hanno più potuto essere ridistribuiti, aggravando ulteriormente gli effetti di una “guerra di classe dall’alto” che già aveva falcidiato occupazione, salari e welfare, per cui non è un caso se la rivolta è partita proprio in quei paesi – Stati Uniti e Inghilterra, dove quasi mezzo secolo fa è iniziata la controrivoluzione liberista». Che poi questa rivolta abbia assunto connotati di destra (senza dimenticare tuttavia il caso Sanders), sia stata cioè egemonizzata da forze che affidano ogni soluzione a un leader, si concentrano esclusivamente sulla lotta alle caste corrotte e dirottano la rabbia popolare sui migranti, non toglie nulla al fatto che questo dissenso politico di massa sia il punto da cui è necessario partire per produrre qualsiasi cambiamento reale. Le sinistre radicali? Continuano ad allearsi «alle socialdemocrazie in via di estinzione», quando non sono «pienamente convertite al liberismo», e quindi «si autocondannano alla ininfluenza più assoluta». Meglio invece «misurarsi con “l’onda populista”», perché il vero problema ormai «non è se, ma come, usciremo dalla globalizzazione».Mettetevelo in testa: l’Unione Europea è finita, non è riformabile. E’ la sintesi che fornisce Carlo Formenti su “Micromega”, commentando il numero di maggio-giugno della rivista “Il Ponte”, intitolato “Un’altra Europa”, con 10 mini-saggi firmati da autori come Ernesto Screpanti, Luciano Vasapollo, Giorgio Cremaschi nonché Marco Baldassari, Diego Melegari e Stefano Zai. Fine dell’illusione riformista, nessuna possibile «evoluzione democratica delle istituzioni comunitarie». Tesi scolpite nel marmo: la natura dell’Ue è «costitutivamente oligarchica». Peggio: «Principi e valori dell’ordoliberalismo tedesco ne ispirano il progetto». C’è ormai una «presa d’atto della natura neocoloniale della relazione fra Germania e paesi dell’area mediterranea e dell’Est europeo». Tutti concordi sulla «necessità di rompere con la Ue e di dare avvio a processi alternativi di aggregazione fra paesi periferici». Sbagliato, scrive Formenti, considerare “un errore” la politica economica europea «nel ritorno al dogma dello Stato minimo, tipico del liberismo classico». Sbagliato pensare «che tale errore sia correggibile attraverso il ritorno a politiche neokeynesiane». Con Bruxelles la partita è persa, resta solo la fuga.
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Guénon e l’aria condizionata, l’inizio della fine (del mondo)
Nel suo libro “Oriente e occidente”, René Guénon credeva fosse ancora possibile recuperare spiritualmente l’Occidente e porlo entro una prospettiva più serena, meno materialista e meno neospiritualista, oserei dire. Sono trascorsi quasi cent’anni da allora. Ciò che vedeva era un Oriente ancora tradizionale, nemmeno troppo logorato dalle conquiste coloniali, capace ancora di opporsi alla supremazia materialista e scientista occidentale. Si deve notare che se da un lato siamo andati ben oltre il declino dell’Occidente (come dice un amico, professore di informatica in una facoltà euroamericana, l’Occidente ha toccato il fondo, ma continua a scavare – pensate ai debiti), dall’altro l’Oriente ha smesso da tempo di interessarci spiritualmente e di farci sognare. Il tempo dei guru per i Beatles e degli hippies (sic) è passato. Il Dalai Lama festeggia il suo compleanno con George Bush e si aspetta la scelta del suo successore. Da più di cinquant’anni anche l’Oriente si è gettato a testa bassa e voracemente nel capitalismo, nella corruzione, nell’inquinamento, nella distruzione-recupero del suo patrimonio spirituale e culturale (a quando una grande muraglia contro il turismo, una grande muraglia della quale Guénon intravedeva le crepe nella sua ultima e fondamentale opera, “Il regno della quantità e i segni dei tempi”?). L’Oriente è diventato come noi, stanco, materialista, inquinato e civilizzato.Il demiurgo di questa umanità luciferina resta l’America e ciò che essa rappresenta. Sono i messicani (povero Antonin Artaud), gli indiani e i cinesi che fanno incrementare il mercato immobiliare statunitense (“Zerohedge.com” e “Nbc”). E ciò dimostra che il sogno americano, per quanto malridotto, continui ad affascinare gli infelici che nel giro di una o due generazioni sono passati dalla loro società tradizionale alle periferie degradate, agli alti e bassi della Borsa, ai deliri immobiliari, alla competizione dei mercati – che necessitano di rinchiudere cento o duecento milioni di contadini e bambini sottopagati in ripugnanti fabbriche tessili, il tutto per soddisfare un gruppetto di grossi azionisti. Mille uomini (entità?) sono diventati più ricchi del resto dell’umanità, che tra l’altro sognano di rimpiazzare. Come si è arrivati a ciò? Una breve spiegazione. Noi tutti conosciamo il nome di un qualsiasi scrittore di seconda categoria, di un cantante bidone, di un pittore di terzo livello, di un attore televisivo, di un politico cretino, di uno stupido sapientone. Ma non conosciamo il nome di coloro che hanno realmente cambiato il mondo – e bypassato le idee guenoniane e soprattutto le ultime società tradizionali.Tra questi Willis Haviland Carrier. Io non sono un ingegnere né un erudito, pertanto consultate direttamente Wikipedia e poi i manuali professionali. Carrier è l’inventore dell’aria condizionata. Proprio lei ha liquidato René Guénon, il sud, l’Oriente, le terre spirituali e cavalleresche che avevano preservato la loro identità spirituale e religiosa. E’ stata messa ovunque, sul posto di lavoro, nelle fabbriche, negli uffici, ovunque vogliate. Wikipedia ci informa che lo sfruttamento e lo sviluppo (dunque la distruzione delle autoctone strutture antropologiche e culturali, questa brutta espressione ereditata dalle scienze umane offre suggerimenti poco guenoniani) della Sunbelt è stata resa possibile grazie all’aria condizionata. L’aria condizionata ha posto fine a ciò che restava del vecchio sud e poi al resto del mondo. Pensateci e vedrete che non mi sbaglio di molto. L’aria condizionata ha condizionato, accelerato e accompagnato la degenerazione (chi osa parlare ancora di decadenza?) irreversibile del nostro mondo. Willis Haviland Carrier. L’uomo che ha vinto Guénon e le tradizioni. Non è un caso che la Russia sia il solo paese spirituale rimasto.(Nicolas Bonnal, “L’aria condizionata e la fine del mondo”, dal blog “Dedefensa.org” del 23 luglio 2017, tradotto per “Come Don Chisciotte”).Nel suo libro “Oriente e occidente”, René Guénon credeva fosse ancora possibile recuperare spiritualmente l’Occidente e porlo entro una prospettiva più serena, meno materialista e meno neospiritualista, oserei dire. Sono trascorsi quasi cent’anni da allora. Ciò che vedeva era un Oriente ancora tradizionale, nemmeno troppo logorato dalle conquiste coloniali, capace ancora di opporsi alla supremazia materialista e scientista occidentale. Si deve notare che se da un lato siamo andati ben oltre il declino dell’Occidente (come dice un amico, professore di informatica in una facoltà euroamericana, l’Occidente ha toccato il fondo, ma continua a scavare – pensate ai debiti), dall’altro l’Oriente ha smesso da tempo di interessarci spiritualmente e di farci sognare. Il tempo dei guru per i Beatles e degli hippies (sic) è passato. Il Dalai Lama festeggia il suo compleanno con George Bush e si aspetta la scelta del suo successore. Da più di cinquant’anni anche l’Oriente si è gettato a testa bassa e voracemente nel capitalismo, nella corruzione, nell’inquinamento, nella distruzione-recupero del suo patrimonio spirituale e culturale (a quando una grande muraglia contro il turismo, una grande muraglia della quale Guénon intravedeva le crepe nella sua ultima e fondamentale opera, “Il regno della quantità e i segni dei tempi”?). L’Oriente è diventato come noi, stanco, materialista, inquinato e civilizzato.
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Sos, rischiamo un’estinzione di massa: la sesta, sulla Terra
Si avvicina il rischio di un’estinzione di massa, la sesta nella storia della Terra. Lo affermano Daniele Conversi e Luis Moreno, commentando una recentissima ricerca statunitense: secondo la prestigiosa Pnas, “Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America”, per la sesta volta, saremmo nell’imminenza di un evento chiamato “biological annihilation”, annientamento biologico. Miliardi di animali sono stati eliminati negli ultimi decenni, conseguenza diretta e indiretta dell’attività umana. Come se non bastassero gli allarmi che ci giungono da tutti i fronti, le ricerche confermano un’unica tendenza: l’impatto del consumo di massa promosso dal neoliberismo imperante sta alterando la superficie terrestre in maniera irreversibile, fino a cambiare lo stesso suolo su cui poggiamo i piedi. Nel corso dell’ultimo secolo, con l’uso generalizzato dell’automobile, ci si è adagiati sullo sfruttamento dei combustibili fossili attraverso un aumento massiccio dei consumi, promuovendo inoltre una divisione internazionale del lavoro tra regioni destinate all’estrazione e altre destinate all’industrializzazione. Tutto questo, dicono i ricercatori, sta semplicemente portando al collasso l’ecosistema terrestre.Resa popolare dal Nobel per la chimica Paul Crutzen per designare un nuovo periodo geologico separato dall’Olocene (l’ultimo periodo geologico dell’era Quaternaria), la nozione di Antropocene ci richiama all’impatto determinante, permanente e irreversibile del comportamento umano sulla superficie terrestre. Nel suo libro tradotto in italiano come “Benvenuti nell’Antropocene”, Crutzen argomenta che le prove per stabilire l’inizio del nuovo periodo sono già visibili sia nelle rocce (in forma di isotopi nucleari, sedimenti, scorie, particelle di alluminio, cemento, plastica e carbone), sia negli oceani e nelle zone costiere, con l’innalzamento del livello del mare conseguente allo scioglimento dei ghiacci. L’aumento rapido dei gas serra è probabilmente segna l’inizio della nuova era, che si può collocare all’incirca verso la metà del 20º secolo. Negli ultimi decenni, aggiungono Conversi e Moreno in un’analisi su “Micromega”, la crescita abnorme dei consumi di gran parte della popolazione terrestre ha prodotto gravi effetti sul nostro pianeta, con conseguenze potenzialmente catastrofiche per il futuro di tutte le specie viventi.Purtroppo però questa massa di studi fatica a trovare spazio sui grandi media, spesso «ostacolata e contraddetta dalla visibilità istrionica di pseudo-scienziati portavoce, riconosciuti o meno, delle lobbies petrolifere e dei combustibili fossili». Data l’assenza di vere informazioni, «non c’è da sorprendersi che il pubblico sia più orientato a crucciarsi per i prezzi di consumo dell’energia elettrica piuttosto che a chiedersi come ridurre le emissioni». Come ridurre il climate change? Nebbia fitta. «Raggiungendo livelli sempre più alti, l’aumento costante dei gas serra, accoppiato alla diffusione della fratturazione idraulica (fracking), è in grado di produrre un impatto incontrollabile, minacciando la continuità stessa della vita sulla Terra». L’attuale modello iper-consumistico «è stato responsabile non solo di un aumento senza precedenti delle emissioni di CO2, ma anche di un processo a senso unico di omogeneizzazione culturale, a seguito del quale mai prima d’ora così tante persone hanno assunto abitudini di consumo originariamente proprie delle vecchie élites occidentali». Processi che «hanno contribuito ad aumentare i livelli di povertà e di emarginazione sociale, sia nei paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo».Secondo un noto rapporto di Oxfam, la stragrande maggioranza delle vittime del cambiamento climatico sono proprio coloro che vivono in paesi che contribuiscono di meno al fenomeno. «E per di più, le regioni più vulnerabili ospitano circa la metà più povera della popolazione mondiale: un grafico assai rivelatore dell’ingiustizia climatica, che non lascia dubbi su come la metà più povera della popolazione mondiale produca solo il 10% delle emissioni globali di carbonio, mentre il 10% più ricco del pianeta contribuisce a oltre il 50% delle emissioni», aggiungono Conversi e Moreno. Inoltre, questo sembra dimostrare che, sebbene il problema demografico non debba essere sottovalutato, l’impatto più consistente non è prodotto dai numeri di bocche da sfamare, ma da modelli acquisiti di consumo, sperpero, abitudini e stili di vita insostenibili. Intanto, sempre secondo Oxfam, l’81% dei decessi causati dai disastri ambientali colpisce le aree a reddito basso e medio-basso. Secondo un altro studio, “Carbon and inequality from Kyoto to Paris”, diretto da Lucas Chancel e Thomas Piketty della Paris School of Economics, l’1% delle famiglie statunitensi, singaporesi o saudite a reddito più elevato sono annoverabili tra i maggiori responsabili di inquinamento, con più di 200 tonnellate annuali di emissione di CO2.Di conseguenza, continuano Conversi e Moreno, una visione semplicistica della frattura Est-Ovest o Nord-Sud, appare inadeguata: tra l’1% dei super-emettitori vanno anche incluse le élites dei super-ricchi di Cina, Russia, India e Brasile, per fare un esempio. E un terzo studio, pubblicato di recente (“The Carbon Majors Report” 2017) mostra che circa 100 aziende sono responsabili del 71% delle emissioni globali, cioè un numero significativamente infimo di grandi produttori legati ai combustibili fossili arreca un danno assolutamente sproporzionato rispetto ai guadagni astronomici di pochi. In America Latina, quasi tre quarti dei cittadini – una delle percentuali più alte al mondo – riconoscono fermamente la gravità e la serietà del cambiamento climatico: i paesi latinoamericani e caraibici sono molto vulnerabili al problema del riscaldamento globale. «Un aumento rilevante e sostenuto delle temperature porterebbe in un intervallo non molto lungo a una riduzione drastica dei terreni coltivabili, alla scomparsa di atolli, barriere coralline, isole basse e intere regioni costiere, così come ad una estrema variabilità del tempo».Per Conversi e Moreno, non sarebbe realistico ipotizzare una risposta unica ai difficili e complessi problemi legati al cambio climatico. I punti di vista normativi variano: dall’illusione di “miracoli tecnologici” all’espansione massiccia delle energie rinnovabili (dal 2019 la Volvo produrrà solo auto elettriche o ibride), dalla decrescita volontaria dei consumi alla rivalutazione delle conoscenze ecologiche tradizionali. Si pensa alla protezione delle economie pre-industriali residue, all’economia circolare, al riciclaggio, alla pratica della “sovranità alimentare” (km zero, filiere corte), fino all’opzione estrema della geo-ingegneria, «che implicherebbe la costruzione di dighe per proteggere città o paesi dall’innalzamento delle maree e altre soluzioni provvisorie per tamponare effetti localizzati di un fenomeno che non ha nulla di locale». In ogni caso, aggiungono Conversi e Moreno, sarà vitale «ambire alla massima eterogeneità e creatività in termini di soluzioni, adattamento, conoscenze o tecniche di sopravvivenza».Da parte sua, l’Ue si sta adoperando per trasformare i rifiuti in materiali rinnovabili in una nuova “economia circolare”. Secondo la Commissione Europea, l’Europa produce più di 2,5 milioni di tonnellate di rifiuti l’anno, oltre la metà dei quali (63%) è derivata dal settore minerario e delle costruzioni. Ma spesso l’accento è posto sul cittadino, nonostante solo l’8% dei rifiuti sia di origine domestica. «Così l’Europa perde ogni anno circa 600 milioni di tonnellate di materiali contenuti nei rifiuti che potrebbero essere riciclati o riutilizzati – mentre si ricicla solo il 40% dei rifiuti prodotti dalle famiglie». A livello planetario, i problemi restano di portata incalcolabile. «Questa nuova geografia del cambiamento climatico, accompagnata dall’aumento delle disuguaglianze di reddito e dell’emarginazione sociale, rende più che mai urgente un’azione concertata da parte di tutti i paesi». Unica possibilità di salvezza, trovare i mezzi per «controllare questa ristretta élite, detentrice di un potere economico e mediatico immenso». Ma le cose non stanno andando esattamente così: restano modesti gli obiettivi dei trattati internazionali finora firmati, da Rio (1992) all’accordo di Parigi del 2015, in vigore dal 2016 «in vista della sua piena applicabilità nel 2020», a seguito del Protocollo di Kyoto del 1997.Non mancano ulteriori complicazioni: «Donald Trump ha annunciato il ritiro degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi, in conformità alle promesse elargite durante la campagna elettorale in combutta con le élites dei combustibili fossili». In contrasto con l’allarme che si sta diffondendo in molti paesi, il nuovo protezionismo degli Stati Uniti, accompagnato dalle iperboli della negazione, «indica che ci stiamo avvicinando a passi da gigante verso il suicidio climatico, incoraggiato da un modello economico neoliberista inarrestabile», concludono Conversi e Moreno. «Di fronte al pressoché unanime consenso scientifico sulle origini antropogeniche di un riscaldamento globale indotto da modelli di consumo selvaggio, si erge un revisionismo corporativo militante impostato sulla manipolazione dei mezzi di comunicazione e ostile a ogni possibile mobilitazione sociale volta a salvare il pianeta». Ciò che si profila è un mondo nuovo, un “brave New World”, come annunciava Aldous Huxley, condannato a finire in tempi brevissimi. «Un mondo, insomma, in cui una percentuale irrisoria ma ultra-potente del genere umano sembra pronta a immolare i destini della Terra sull’altare dei propri guadagni mai soddisfatti».Conmversi e Moreno parlano di “classicidio”, vista l’enorme sproporzione numerica tra vittime e carnefici, ancora più accentuata tra i redditi delle vittime e quelli dei carnefici. «Ma nessuno potrà ritenersi al sicuro ed esente dal pericolo di estinzione: se il secolo 20º è stato spesso definito il “secolo del genocidio”, c’è da temere che il secolo 21º potrebbe essere identificato, da un punto di vista terminologico, come il “secolo dell’omnicidio”, dello sterminio potenziale della gran parte delle specie viventi, tra cui bisognerà annoverare gli esseri umani». Ma, onestamente, «piuttosto che di un epilogo casuale, è bene comprendere che si tratta una “cronaca” lungamente preannunciata». Bisognerà quindi «combattere il negazionismo, incarnato successivamente nell’anti-scienza, nella marginalizzazione degli esperti e nell’anarchia informativa della post-verità». Appello inevitabile: «Contro quest’Idra dalle multipli teste, siamo chiamati a mobilitarci. Meglio tardi che mai».Si avvicina il rischio di un’estinzione di massa, la sesta nella storia della Terra. Lo affermano Daniele Conversi e Luis Moreno, commentando una recentissima ricerca statunitense: secondo la prestigiosa Pnas, “Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America”, per la sesta volta, saremmo nell’imminenza di un evento chiamato “biological annihilation”, annientamento biologico. Miliardi di animali sono stati eliminati negli ultimi decenni, conseguenza diretta e indiretta dell’attività umana. Come se non bastassero gli allarmi che ci giungono da tutti i fronti, le ricerche confermano un’unica tendenza: l’impatto del consumo di massa promosso dal neoliberismo imperante sta alterando la superficie terrestre in maniera irreversibile, fino a cambiare lo stesso suolo su cui poggiamo i piedi. Nel corso dell’ultimo secolo, con l’uso generalizzato dell’automobile, ci si è adagiati sullo sfruttamento dei combustibili fossili attraverso un aumento massiccio dei consumi, promuovendo inoltre una divisione internazionale del lavoro tra regioni destinate all’estrazione e altre destinate all’industrializzazione. Tutto questo, dicono i ricercatori, sta semplicemente portando al collasso l’ecosistema terrestre.
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La Truffa dei Sei Giorni: così Israele eliminò l’Ataturk arabo
La Truffa dei Sei Giorni: «In realtà la guerra-lampo del 1967 durò appena 6 minuti, il tempo che impiegò l’aviazione israeliana per annientare quella egiziana, ancora a terra», senza che un solo aereo del Cairo avesse potuto decollare. E i famosi Sei Giorni? «Servirono solo a occupare e annettere territori non-israeliani, che da allora – con la sola eccezione del Sinai – fanno parte di Israele». Parola dello storico statunitense Norman Filkenstein, intervistato da Aaron Mate per l’emittente “The Real News” nel cinquantesimo anniversario della Guerra dei Sei Giorni, giugno 1967, evento fondante del mito vittimistico dell’autodifesa di Israele, paese “attaccato dagli arabi”. Un falso storico, accusa l’autore del bestseller “Palestine: Peace Not, Apartheid”, tradotto in 50 paesi. Fu Israele a provocare il conflitto, afferma Filkenstein: abbattè deliberatamente alcuni aerei siriani, ben sapendo che l’Egitto sarebbe stato costretto a schierarsi con la Siria, cui era legato da un patto di mutua assistenza. Obiettivo segreto di Tel Aviv: conquistare falcilmente territori, sapendo (da Cia e Mossad) che gli arabi non avrebbero potuto resistere. E soprattutto: demolire il leader politico egiziano Nasser, temutissimo come possibile “Ataturk arabo”, capace di guidare lo sviluppo laico del Medio Oriente, superando la storica arretratezza della regione.A partire dal 5 giugno del 1967, ricorda Filkenstein, Israele «ha catturato il Sinai egiziano, le alture del Golan siriano, la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Con l’eccezione del Sinai, Israele controlla ancora tutti questi territori. Di fatto l’occupazione militare israeliana della Cisgiordania e di Gaza è la più lunga dei tempi moderni». La versione ufficiale del mainstream è quella ancora oggi rilanciata dal “New York Times”, che scrive: «Quest’anno segna mezzo secolo dalla guerra arabo-israeliana del 1967, nella quale Israele ha resistito vittoriosamente a una minaccia di annientamento da parte dei suoi vicini arabi». Tutto falso, replica lo storico: «E’ un grosso problema, è ciò che noi chiamiamo “falsificare la storia”». E spiega: sia la Cia che il Mossad – è documentato – sapevano perfettamente che gli eserciti arabi non avrebbero potuto resistere all’attacco di Israele, la cui unica preoccupazione era: come avrebbe reagito il presidente americano Lyndon Jonhson? «Nel 1957, dieci anni prima, gli Usa avevano agito con molta severità. Dwight Eisenhower aveva dato a Israele un ultimatum: uscite dal Sinai, o dovrete affrontare una forte reazione del governo degli Stati Uniti. Nel 1967 gli israeliani avevano paura che si ripetesse la situazione del 1957».Sicché, Tel Aviv mandò emissari a tastare il polso di Washington. Come il generale Meir Amit, capo del Mossad. La risposta degli Usa: nessun indizio che il presidente egiziano Abdel Gamal Nasser stesse per attaccare Israele. Nasser, disse Johnson, sa benissimo che, «se vi attacca, voi israeliani gli darete una batosta». Una valutazione Cia, identica a quella del Mossad. Tel Aviv sapeva perfettamente che non aveva nulla da temere, dall’Egitto. Il segretario alla difesa, Robert McNamara, fu ancora più preciso: disse a Israele che, in caso di guerra, avrebbe vinto in 7 giorni, 10 al massimo. Era vero: la guerra sarebbe terminata «non solo in 6 giorni, ma letteralmente in 6 minuti circa», afferma Filkenstein. «Nel momento in cui Israele ha lanciato il suo attacco-lampo e distrutto la flotta aerea egiziana, che era ancora al suolo, ha tolto tutti gli appoggi aerei alle truppe al suolo. Era finita. L’unica ragione per la quale questa guerra è durata sei giorni, è perché volevano impadronirsi dei territori. Era un’occupazione violenta delle terre». Come sono riusciti a coinvolegere l’Egitto, sapendo che mai Nasser – di sua iniziativa – avrebbe aperto le ostilità? Semplice: attaccando la Siria, alleata dell’Egitto. Fu lo stesso Moshe Dayan ad ammettere che, nell’aprile del 1967, Israele abbattè 6 aerei siriani, uno dei quali nel cielo sopra Damasco.Ammise Dayan, poi uomo-chiave del governo Begin a partire dal 1977: «Vi dirò perché noi avevamo tutti questi conflitti con la Siria. C’era una zona smilitarizzata tracciata dopo la guerra del 1948 tra la Siria e Israele. Almeno l’80% del tempo noi mandavamo dei bulldozer in questa zona smilitarizzata perché Israele era impegnata a occupare territori con la forza». Israele, quindi, cercava di impadronirsi di terre nella zona smilitarizzata. Racconta Filkenstein: «Mandava dei bulldozer, i siriani reagivano, e questo aumentava la tensione. Nel aprile 1967 questo è sfociato in un combattimento aereo tra siriani e israeliani. Dopodiché Israele ha cominciato a minacciare, verbalmente, di lanciare un attacco contro la Siria. La dichiarazione più celebre in quel momento la fece Yitzhak Rabin, ma numerosi responsabili israeliani minacciavano la Siria». Lo storico israeliano Ami Gluska, nel suo libro “L’esercito israeliano e le origini della guerra del 1967”, scrive: «La valutazione sovietica della metà di maggio 1967, che Israele stava per colpire la Siria, era giusta e ben fondata». C’erano voci attendibili, dunque, secondo le quali Israele avrebbe aggredito gli arabi. Gluska «conferma che gli israeliani avevano preso la decisione di attaccare».L’Egitto aveva un patto di difesa con la Siria: sapendo che era imminente un attacco israeliano aveva l’obbligo di andare in aiuto di Damasco. Per questo, Nasser ha schierato – a scopo dissuasivo – delle truppe egiziane nel Sinai, zona allora presidiata da una forza di pace dell’Onu, l’Unef. La United National Emergency Force divideva l’Egitto da Israele. Nasser ha chiesto a U Thant, segretario generale dell’Onu, di ritirarla. In forza della legge, U Thant era obbligato a ritirare quelle truppe. «Ma c’era una risposta molto semplice alla richiesta di Nasser: spostate le truppe dell’Onu sul versante israeliano», ricorda Filkenstein. «Nel 1957, quando era stata schierata l’Unef, si erano accordati per disporla sia sul lato egiziano della frontiera, sia sul lato israeliano. Così, nel 1967, quando Nasser ha detto: “Ritirate l’Unef dalla nostra parte”, tutto quello che Israele doveva dire era: “Bene, noi la riposizioniamo dalla nostra parte della frontiera”, sul versante israeliano. Ma non lo hanno fatto». Ragiona lo storico: «Se l’Unef avrebbe veramente potuto evitare un attacco egiziano, come suggerisce Israele quando dice che U Thant ha commesso un errore monumentale ritirando la forza dell’Onu, perché gli israeliani non l’hanno semplicemente schierata dall’altra parte della frontiera?». Ovvio: perché erano loro a volere la guerra.Altro piccolo casus belli: c’erano degli attacchi di guerriglia contro la frontiera israeliana lanciati dalla Giordania e dalla Siria, descritti nella storia ufficiale come una grande minaccia per la sicurezza di Israele. Si trattava di incursioni di commandos palestinesi, sostenuti principalmente dal regime siriano. «Ma come hanno riconosciuto anche gli ufficiali superiori israeliani – obietta Filkenstein – la ragione per la quale la Siria incoraggiava questi raid di commandos era l’occupazione delle terre nelle zone smilitarizzate da parte di Israele». Inoltre si trattava di «azioni coraggiose ma estremamente inefficaci», peraltro «compiute da persone che erano state private della loro patria nel 1948». In alre parole, quei palestinesi «erano dei rifugiati». Avverte lo storico: «Ricordatevi che era passato poco tempo tra il 1948 e il 1967, meno di una generazione». Ma, appunto, quegli attacchi erano poco più che simbolici. A confermarlo è uno dei capi dello spionaggio israeliano, Yehosafat Harkabi, che dopo il 1967 li ha descritto come «ben poco significativi, secondo tutti i metri di giudizio».L’altro incidente storico importante che viene citato er giustificare la guerra-lampo di Israele è la chiusura, da parte dell’Egitto, dello Stretto di Tiran, all’imbocco del Mar Rosso, strategico per accedere al porto israeliano di Eilat. Passaggio marittimo chiuso effettivamente da Nasser a metà maggio. «Israele adesso respira con un solo polmone», protestò il diplomatico Abba Eban, allora rappresentante israeliano all’Onu, poi ministro degli esteri. Era vero? Non proprio, osserva Filkenstein: intanto, Israele disponeva di riserve di petrolio che garantivano allo Stato ebraico un’autonomia di mesi. «Ma la cosa più importante è che non c’è stato un blocco. Nasser era un fanfarone: ha annunciato il blocco, lo ha applicato per ciò che si stima abitualmente essere due o tre giorni, poi ha cominciato a lasciar passare tranquillamente le navi israeliane. Non c’era blocco, il problema non era un blocco fisico effettivo, il problema era politico. E cioè che Nasser aveva sfidato pubblicamente Israele. La chiusura di un canale navigabile non è un attacco armato. Comunque la si guardi, Israele non aveva alcuna valida ragione».L’Egitto aveva reagito in modo prevedibile – con il blocco (solo simbolico) del Mar Rosso – per “difendere a distanza” la Siria attaccata un mese prima dall’aviazione israeliana, agevolando così la “regia occulta” della guerra, progettata unilateralmente da Tel Aviv, travestitasi da vittima. Domanda Aaron Mate: perché Israele ha preso delle misure così straordinarie per iniziare quella guerra e impadronirsi di così tanti territori? Risponde Norman Finkelstein: perché il vero incubo di Israele era il presidente egiziano Nasser. Un politico arabo laico, indipendente, autorevole. Fin dalla sua fondazione nel 1948, il leader fondatore di Israele, David Ben Gurion, «si è sempre preoccupato che potesse arrivare al potere nel mondo arabo quello che lui chiamava un Ataturk arabo. Cioè qualcuno come il personaggio turco Kemal Ataturk, che ha modernizzato la Turchia, ha introdotto la Turchia nel mondo moderno; Ben Gurion ha sempre avuto paura che una figura come Ataturk potesse emergere nel mondo arabo, e quindi il mondo arabo si sottraesse allo Stato di arretratezza e di dipendenza dall’Occidente e potesse diventare una potenza con la quale bisognava fare i conti nel mondo e nella regione». La paura del regime sionista si impersonificò nel 1952, quando emerse Nasser come leader della rivoluzione attraverso cui l’Egitto si liberò del dominio europeo post-coloniale.Nasser, continua Filkenstein, era una figura emblematica di quell’epoca «molto inebriante», chiamata “decolonizzazione”: «L’epoca del dopoguerra, dei non-allineati, del terzomondismo». Anti-imperialismo e decolonizzazione: leader come Nehru in India, Tito in Jugoslavia. E Nasser. «Non erano ufficialmente compresi nel blocco sovietico. Erano una terza forza. Non allineata». Più incline a rivolgersi al blocco sovietico perché «ufficialmente antimperialista», ma solo a scopo difensivo: nel 1956, quando Nasser aveva sbarrato il Canale di Suez per protestare contro la mancata concessione del maxi-prestito della Banca Mondiale (Usa) per costruire sul Nilo la Diga di Assuan che averebbe dato respiro all’agricoltura egiziana, francesi e inglesi sbarcarono in armi a Port Said minacciando di deporre Nasser. Intervenne direttamente l’Urss, rivolgendo un ultimatum agli eserciti europei, tacitamente avallato dagli Stati Uniti: se le truppe anglo-francesi non avessero lasciato il litorale egiziano, Mosca le avrebbe colpite con la bomba atomica. Questo consacrò Nasser come grande leader arabo, senza farne – per forza – un satellite dei russi. Inutile aggiungere che il crescente prestigio internazionale del carismatico leader egiziano faceva paura soprattutto a Israele: sembrava davvero arrivato “l’Atarurk arabo”, il modernizzatore paventato da Ben Gurion.«Israele era considerato non senza ragione, come una postazione occidentale nel mondo arabo, e veniva ugualmente interpretato come il tentativo di mantenere nell’arretratezza il mondo arabo», osserva Filkenstein. C’era dunque una sorta di conflitto e di contrapposizione tra Nasser e Israele. E questo ha dato il via, come viene documentato anche stavolta assai scrupolosamente non da Finkelstein ma da uno storico importante molto considerato, cioè Benny Morris. Nel libro “Le guerre di frontiera di Israele”, che parla del periodo tra il 1949 ed il 1956, Morris dimostra che «intorno al 1952-53 Ben Gurion e Moshe Dayan erano veramente determinati a provocare Nasser, a continuare a stuzzicarlo fino a che avessero un pretesto per distruggerlo: volevano sbarazzarsi di lui». Insistettero, in modo che a un certo punto il leader egiziano non potesse fare a meno di rispondere: «Sostanzialmente Nasser è stato preso in trappola». Per Morris, la stessa crisi di Suez del 1956 era nata da «un complotto ordito dagli israeliani per rovesciarlo, con il concorso degli inglesi e dei francesi», con i quali Israele collaborò invadendo il Sinai.Gli americani non si opposero alla ferma difesa di Nasser da parte dell’Urss. «Eisenhower pensava che non fosse ancora il momento adatto», per abbattere il “raiss” egiziano. «Ma anche gli americani sicuramente volevano sbarazzarsi di Nasser», aggiunge Filkenstein: «Lo vedevano tutti come una spina nel fianco». Sicché, la guerra-lampo del 1967 non sarebbe altro che «una ripetizione del 1956, con una differenza fondamentale: il sostegno americano». Alla Guerra dei Sei Giorni, infatti, «gli Stati Uniti non si sono opposti», restando «molto prudenti e cauti nelle loro dichiarazioni». Non hanno sostenuto apertamente la guerra di Israele, «perché era illegale». E gli Usa erano già impantanati nella tragedia del Vietnam, estremamente impopolare: «Non volevano impegnarsi anche nel sostegno a Israele, che sarebbe stato visto allo stesso modo come il colonialismo occidentale che tenta di prevalere sul Terzo Mondo, sul mondo non-allineato». Ma c’era un comune interesse strategico: eliminare Nasser. «Era un obiettivo a lungo termine, mantenere il mondo arabo nell’arretratezza. Mantenerlo in uno stato subordinato, primitivo».Perfettamente funzionali, in questo, il “falchi” israeliani come Ariel Sharon: «Dobbiamo attaccare adesso, perché altrimenti perdiamo la nostra capacità di dissuasione». Frase storica, rimasta – da allora – a fondamento della “dottrina” politico-militare di Israele, la propaganda vittimistica che ha giustificato massacri come quello della popolazione della Striscia di Gaza. «La “capacità di dissuasione” – traduce Filkenstein – significa: “la paura che di noi ha il mondo arabo”». La “colpa” di Nasser? «Risollevava il morale degli arabi, i quali non avevano più paura». E per gli israeliani la paura «è una carta molto forte, per tenere gli arabi al loro posto». A questo, ovviamente, si aggiunge la “necessità”, per Israele, di incrementare i propri territori a spese degli arabi. E in tutto questo, chiarisce lo storico, la religione non c’entra: «Bisogna ricordare che il movimento sionista era per la maggior parte secolare, per la grandissima parte ateo. Una larga parte si considerava socialista e comunista e non aveva nessun aggancio con la religione. Ma consideravano lo stesso di avere un titolo legale di proprietà sulla terra perché nel loro pensiero la Bibbia non era solo un documento religioso, era un documento storico». Una mentalità “secolare”, «profondamente radicata e fanatica». Al punto da falsificare la storia, inventare un’aggressione araba mai avvenuta e organizzare la Truffa dei Sei Giorni per metter fine alla carriera di Nasser, il temutissimo Ataturk arabo.La Truffa dei Sei Giorni: «In realtà la guerra-lampo del 1967 durò appena 6 minuti, il tempo che impiegò l’aviazione israeliana per annientare quella egiziana, ancora a terra», senza che un solo aereo del Cairo avesse potuto decollare. E i famosi Sei Giorni? «Servirono solo a occupare e annettere territori non-israeliani, che da allora – con la sola eccezione del Sinai – fanno parte di Israele». Parola dello storico statunitense Norman Finkestein, intervistato da Aaron Mate per l’emittente “The Real News” nel cinquantesimo anniversario della Guerra dei Sei Giorni, giugno 1967, evento fondante del mito vittimistico dell’autodifesa di Israele, paese “attaccato dagli arabi”. Un falso storico, accusa l’autore del bestseller “Palestine: Peace Not, Apartheid”, tradotto in 50 paesi. Fu Israele a provocare il conflitto, afferma Finkestein: abbattè deliberatamente alcuni aerei siriani, ben sapendo che l’Egitto sarebbe stato costretto a schierarsi con la Siria, cui era legato da un patto di mutua assistenza. Obiettivo segreto di Tel Aviv: conquistare falcilmente territori, sapendo (da Cia e Mossad) che gli arabi non avrebbero potuto resistere. E soprattutto: demolire il leader politico egiziano Nasser, temutissimo come possibile “Ataturk arabo”, capace di guidare lo sviluppo laico del Medio Oriente, superando la storica arretratezza della regione.
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Qe, truffa da record: soldi facili alle banche, solo per i ricchi
Sembra che l’enorme trasferimento di ricchezza verso i ricchi, durato circa un decennio e noto come ‘quantitative easing’, stia per volgere al termine. Delle quattro principali banche centrali del mondo – la Federal Reserve americana, la Bank of England, la Banca Centrale Europea e la Banca del Giappone – due hanno già abbandonato la politica di acquisto di attività finanziarie (la Fed e la BoE), e la Bce intende smettere gli acquisti da dicembre. La Fed dovrebbe infatti iniziare a vendere nei prossimi due mesi i 3500 miliardi di dollari di titoli acquistati in tre cicli di Qe. Dal momento che – valutato alla luce degli obiettivi ufficiali – il Qe è stato un completo disastro, ciò appare perfettamente sensato. Grazie ad un’“iniezione” di denaro nell’economia, il Qe avrebbe dovuto portare le banche a prestare nuovamente, rilanciando gli investimenti e la crescita economica. In realtà, dopo l’introduzione del Qe il credito bancario totale nel Regno Unito è invece diminuito, e il credito a piccole e medie imprese – responsabili per il 60% dell’occupazione – è in caduta verticale.Come notato da Laith Khalaf, senior analyst presso Hargreaves Lansdown, «dopo la crisi finanziaria, le banche centrali hanno inondato l’economia globale con denaro a buon mercato, ma la crescita globale è tuttora in una situazione di stallo, in particolare in Europa ed in Giappone, dove sono state prese imponenti misure di stimolo per fronteggiare il problema». Persino “Forbes” ammette che il Qe ha «in gran parte fallito nel rivitalizzare la crescita economica». Ciò non sorprende, o quanto meno non dovrebbe. Il Qe era destinato fin dall’inizio a mancare i suoi obiettivi dichiarati, perché il motivo per cui le banche non finanziavano investimenti produttivi non era la carenza di denaro – al contrario, già nel 2013, molto prima degli ultimi cicli di Qe, le imprese inglesi disponevano di quasi 500 miliardi di riserve liquide – ma piuttosto perché l’economia globale si trovava (e si trova tuttora) in una profonda crisi di sovrapproduzione. In poche parole, i mercati erano (e sono) saturi, e non ha senso investire in un mercato saturo.Per questo motivo, tutto il nuovo denaro creato dal Qe ed “iniettato” nelle istituzioni finanziarie – come fondi pensione e compagnie d’assicurazione – non è stato poi investito nelle attività produttive, ma si è invece riversato nei mercati azionari ed immobiliari, gonfiando i prezzi delle azioni e degli immobili, senza generare nulla in termini di ricchezza reale o occupazione. I titolari di beni come azioni e immobili hanno tratto molti vantaggi dal Qe, che in Uk si stima abbia accresciuto la ricchezza del 5 percento più ricco mediamente di 128.000 sterline a testa. Com’è stato possibile? Da dove è venuta tutta questa nuova ricchezza? Dopo tutto, anche se il denaro – a dispetto degli slogan dei Tory – può essere effettivamente creato “dal nulla”, precisamente come è stato fatto col Qe, non è così per la ricchezza reale. Ed il Qe non ha prodotto ricchezza reale. Eppure, il 5% più ricco oggi dispone di 128.000 sterline extra da spendere in yacht, ville principesche, diamanti, caviale e così via. Ma da dove viene questo denaro?Semplice. La ricchezza che il Qe ha trasferito ai titolari di asset proviene, in primo luogo, direttamente dai salari dei lavoratori. Poiché ha praticamente svalutato la moneta, il Qe ha ridotto la capacità d’acquisto del denaro, il che ha causato nei fatti una svalutazione dei salari reali, che in Uk sono tuttora del 6% al di sotto dei loro livelli pre-Qe. Il denaro sottratto ai salari forma dunque parte di quel dividendo di 128.000 sterline. Ma viene anche dagli ultimi arrivati nei mercati gonfiati dal Qe – principalmente gli acquirenti di una prima casa e chi è recentemente andato in pensione. Chi oggi acquista una casa (che il Qe ha reso molto più cara), ad esempio, dovrà lavorare migliaia di ore in più per pagare un mutuo a prezzi più alti. Sono queste ore in più a creare la ricchezza che sovvenziona le stravaganti spese del 5% più ricco. Ovviamente, questi prezzi immobiliari più alti sono pagati da chiunque acquisti una casa, non solo da chi lo fa per la prima volta – ma per chi è già proprietario il costo aggiuntivo è compensato dall’aumento di prezzo della casa già di proprietà (o delle azioni, per chi è abbastanza ricco da possederne).Un’altra conseguenza del Qe è che chi va in pensione adesso è costretto a sovvenzionare il 5% più ricco. I nuovi pensionati usano il loro fondo pensione per acquistare una ‘rendita’ – un pacchetto di titoli azionari fruttiferi che produce reddito. Ma poiché il Qe ha causato un’inflazione del prezzo dei titoli, ciò ha ridotto il numero di titoli acquistabili con questo fondo. E dato che all’aumento di prezzo dei titoli non corrisponde un aumento dei dividendi, ciò si traduce in una pensione ridotta. In realtà, la teoria che il Qe servisse ad incoraggiare gli investimenti e stimolare l’occupazione e la crescita è sempre stata un artificio fantasioso creato per dissimulare quello che stava realmente accadendo – un colossale trasferimento di ricchezza verso i più ricchi. L’economista Dhaval Joshi faceva notare nel 2011: «La cosa più sconvolgente è che, dopo due anni di apparente ripresa, i lavoratori [inglesi] in realtà guadagnano meno che nel momento più drammatico della recessione. Salari e stipendi reali sono calati di 4 miliardi di sterline. I profitti sono aumentati di 11 miliardi. I benefici della ripresa sono stati distribuiti nel modo più iniquo possibile».Nel marzo di quest’anno il “Financial Times” riportava che, nonostante il Pil della Gran Bretagna sia ritornato ai livelli pre-crisi già dal 2014, i salari reali sono ancora più bassi del 10% rispetto al 2008. «La contrazione dei salari reali in Uk si è arrestata nel 2015», aggiungeva, «ma ciò non è destinato a durare». Così è stato. Nello stesso mese di pubblicazione di quell’articolo, i salari reali hanno iniziato nuovamente a scendere, e sono da allora in costante diminuzione. Lo stesso è successo in Giappone, dove, secondo “Forbes”, «il reddito delle famiglie si è effettivamente ridotto dopo l’introduzione del Qe». Il Qe ha sortito un effetto simile nei paesi del sud del mondo: aumentare la ricchezza dei detentori di asset a spese di chi non ne ha. Così come l’afflusso di nuovo denaro crea bolle nei mercati immobiliari e finanziari, allo stesso modo crea una bolla nei prezzi delle materie prime, dovuta ad esempio alla corsa degli speculatori all’acquisto di quote di petrolio e di materie prime alimentari.Per alcuni paesi produttori di petrolio ciò ha comportato effetti positivi, con la messa a disposizione di denaro inatteso da investire in programmi sociali, come inizialmente è accaduto nel caso di Venezuela, Libia ed Iran. In tutti e tre i casi, le forze imperialiste sono state costrette a ricorrere a vari livelli di intervento militare per contrastare queste conseguenze indesiderate. Ma l’aumento del prezzo del petrolio è certamente deleterio per paesi che non ne producono – e qualsiasi aumento dei prezzi alimentari è sempre devastante. Nel 2011 il “Daily Telegraph” sottolineava «la correlazione tra i prezzi alimentari e gli acquisti da parte della Fed di titoli di Stato americani (ossia, programmi di quantitative easing)…Si può notare come l’indice dei prezzi alimentari si è pressoché stabilizzato tra la fine del 2009 e l’inizio del 2010, ed è poi nuovamente salito a partire dalla metà del 2010 dopo il nuovo avvio del quantitative easing… con un aumento dei prezzi di circa il 40% durante un periodo di tempo di otto mesi».L’aumento dei prezzi ha spinto 44 milioni di persone in povertà nel solo 2010 – il “Telegraph” riteneva che ciò stesse alla base del malcontento manifestato nelle cosiddette Primavere Arabe. Robert Zoellick, ex presidente della Banca Mondiale, all’epoca commentava: «L’inflazione dei prezzi alimentari è oggi la più grave minaccia incombente sui poveri del mondo… basta un episodio di maltempo estremo per finire nel baratro». Sono questi i costi del quantitative easing. I paesi Brics erano anche critici nei confronti del Qe per un altro motivo: lo consideravano un metodo subdolo di svalutazione competitiva. Riducendo artificialmente il valore delle loro monete, la “triade imperiale” Usa, Ue e Giappone causavano a tutti gli effetti un apprezzamento delle valute di tutti gli altri paesi, danneggiando così le loro esportazioni.Nel 2015 “Forbes” scriveva: «Gli effetti si iniziano già a sentire anche nei paesi esportatori più dinamici al mondo, nell’est asiatico. Le loro esportazioni in dollari americani hanno subito una drammatica variazione, da una crescita annua del 10% ad una contrazione del 12% nella prima metà di quest’anno, e questi risultati non cambiano, che si tenga conto o no della Cina». Il vantaggio principale del Qe per i paesi in via di sviluppo avrebbe dovuto essere l’enorme afflusso di capitali da esso innescato. Si stima che circa il 40% del denaro generato dalla prima espansione di credito Qe della Fed (‘Qe1’) si è spostato all’estero – in particolare nei cosiddetti ‘mercati emergenti’ del sud del mondo – e circa un terzo durante il Qe. Tuttavia, contrariamente alle apparenze questo non è necessariamente un vantaggio. Gran parte del denaro, come si è visto, è stato utilizzato per acquistare scorte di materie prime (rendendo così beni essenziali come il cibo esorbitanti per i poveri) invece di essere investito in attività di produzione, ed un’altra buona parte è servita per acquistare scorte valutarie, causando ancora una volta un apprezzamento nocivo alle esportazioni.Per di più, un afflusso di ‘hot money’ (capitali speculativi erranti, in contrapposizione al capitale per gli investimenti di lungo termine) accentua la volatilità e vulnerabilità delle valute in caso, ad esempio, di aumenti dei tassi esteri. Se, ad esempio, i tassi d’interesse dovessero nuovamente salire in Usa ed in Europa, ciò rischierebbe di scatenare una fuga di capitali dai mercati emergenti, che potrebbe innescare un tracollo valutario. Fu infatti proprio un afflusso di ‘hot money’ nei mercati valutari asiatici, molto simile a quello visto durante il Qe, a precedere la crisi valutaria asiatica del 1997. La prossima fine del Qe, con il conseguente innalzamento dei tassi d’interesse, rischia di riproporre proprio questa vulnerabilità come una possibilità – se non addirittura come un’opportunità speculativa.(Dan Glazebrook, “Quantitative Easing, il più grande trasferimento di ricchezza della storia”, da un editoriale su “Rt” del 22 luglio 2017, tradotto e ripreso da Margherita Russo per “Voci dall’Estero”. Glazebrook è un giornalista politico freelance che collabora, fra gli altri, con “Russia Today Rt”, “Counterpunch”, “Z Magazine”, il “Morning Star”, il “Guardian”, il “New Statesman”, l’“Independent” e “Middle East Eye”. I suoi saggi esaminano i legami tra la crisi economica, l’ascesa dei Brics, le guerra in Libia e in Siria e l’“austerità” europea. Attualmente conduce ricerche per un libro sull’impiego degli “squadroni della morte” contro Stati sovrani e movimenti politici, dall’Irlanda del Nord e dall’America Centrale negli anni ‘70 e ‘80 fino al Medio Oriente e all’Africa di oggi).Sembra che l’enorme trasferimento di ricchezza verso i ricchi, durato circa un decennio e noto come ‘quantitative easing’, stia per volgere al termine. Delle quattro principali banche centrali del mondo – la Federal Reserve americana, la Bank of England, la Banca Centrale Europea e la Banca del Giappone – due hanno già abbandonato la politica di acquisto di attività finanziarie (la Fed e la BoE), e la Bce intende smettere gli acquisti da dicembre. La Fed dovrebbe infatti iniziare a vendere nei prossimi due mesi i 3500 miliardi di dollari di titoli acquistati in tre cicli di Qe. Dal momento che – valutato alla luce degli obiettivi ufficiali – il Qe è stato un completo disastro, ciò appare perfettamente sensato. Grazie ad un’“iniezione” di denaro nell’economia, il Qe avrebbe dovuto portare le banche a prestare nuovamente, rilanciando gli investimenti e la crescita economica. In realtà, dopo l’introduzione del Qe il credito bancario totale nel Regno Unito è invece diminuito, e il credito a piccole e medie imprese – responsabili per il 60% dell’occupazione – è in caduta verticale.
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Crisi economica, i neurologi: la povertà ci cambia il cervello
Quali sono gli effetti sul nostro cervello del vivere in particolari condizioni di povertà socio-economica? Ci dà risposta una recente ricerca condotta dall’università di Harvard. Sembra proprio che lo stress prolungato scaturito da problemi economici interferisca col nostro “circuito decisionale”. Una recente ricerca americana, commissionata da Economic Mobility Pathways (EmPath), una no-profit di Boston che dal 2006 lavora nella promozione di strumenti sociali contro la povertà, mette in luce un collegamento diretto tra meccanismi neuronali che coinvolgono sistema limbico e corteccia prefrontale e alcune contingenze pratiche della vita, come le condizioni socio-economiche in cui ci si trova. Di cosa sono responsabili il sistema limbico e la corteccia prefrontale? A grandi linee, si può dire che la corteccia prefrontale (parte più “recente” del cervello) medi e sia responsabile delle capacità di problem-solving, goal-setting e task execution; presiede quindi alla pianificazione dei comportamenti, alla capacità di prendere decisioni ed eseguirle e, secondo molti studiosi, anche all’espressione della personalità.Essa lavora in concerto col sistema limbico (parte più “antica” del cervello), che si trova nella parte centrale dell’encefalo, precisamente nel tronco encefalico. Il sistema limbico si occupa del processamento dei segnali emotivi e dell’elaborazione delle risposte emotive, in parte per via del suo collegamento con la memoria a lungo termine. Un ampio corpus di ricerche, dopo aver analizzato il cervello tanto di adulti quanto di bambini che vivono in condizioni di povertà, ha evidenziato che «quando una persona vive a lungo in condizioni di povertà, dal sistema limbico partono costantemente messaggi di paura e di stress che poi vengono inviati alla corteccia prefrontale. Quest’ultima influenzerebbe la capacità di un individuo di risolvere problemi, raggiungere obiettivi e fronteggiare le situazioni della vita quotidiana e varie richieste ambientali nei modo più efficaci possibili». E’ vero che questo può succedere a chiunque ad un certo punto della propria vita, indipendentemente dalla classe sociale. E’ vero però anche che le persone in condizione di povertà rischiano di essere “abituate” a dover fronteggiare uno stress continuo e duraturo nel tempo.Questo può generare condizioni di “strain” (stress negativo) che più facilmente possono portare a modi di agire e re-agire alle richieste ambientali disadattivi e disfunzionali. Lo stress, inoltre, sarebbe spesso acutizzato dal dover combattere contro i pregiudizi della società nei confronti di chi è più povero. La scienza è chiara su questo: l’energia cerebrale utilizzata per far fronte alle paure e agli “stressors” di tutti i giorni, riferiti al soddisfacimento dei bisogni primari (sbarcare il lunario, vestirsi, potersi permettere un’istruzione, ecc…), viene completamente “assorbita” da queste impellenze e diventa inefficiente e non utilizzabile per cambiamenti di prospettiva, di valutazione delle situazioni e di se stessi in relazione ad esse. Ne risentono inoltre l’immagine di sé, l’autostima e l’autoefficacia, oltre che le abilità di problem solving e di “insight”.Elisabeth Babcock, presidente dell’EmPath, sostiene che, in questo modo, le persone in povertà tenderebbero a divenire vittime, col tempo, di un vero e proprio “circolo vizioso” che si auto-rinforzerebbe (come un serpente che si morde la coda) basandosi sull’idea per la quale le persone povere non possono cambiare e migliorare le proprie condizioni di vita. Lo studio più recente, in merito, afferma che questo meccanismo passa dall’essere un evento occasionale che inibisce temporaneamente alcune facoltà intellettive al diventare una routine che trasforma il cervello dei soggetti interessati. È possibile interrompere questa spirale negativa che si auto-alimenta? La risposta è: sì! E’ stata spiegata da Atlantic Al Race, condirettore del Centro di sviluppo del bambino dell’Università di Harvard: «È vero che gli stress e i rischi costanti cui la povertà espone cambiano il cervello delle persone. Ma è vero anche che le sezioni cerebrali interessate dal fenomeno preso in esame si caratterizzano per essere particolarmente “plastiche”, cioè possono essere rafforzate e ri-sviluppate in modo positivo anche nell’età adulta».Facendo leva sulla plasticità neurale, la funzione di “rigenerazione” e “riorganizzazione” dei circuiti neurali del cervello, presente anche in età adulta, gli studiosi hanno rilevato che questi modi appresi e disadattivi di immagine di sé, problem solving e task execution che col tempo hanno trasformato il cervello, possano essere ri-costruiti e “corretti” tramite tecniche di psicoterapia rivolte a singoli adulti, minori e ad interi nuclei familiari. Ha detto Elisabeth Babcock: «Il segreto per rompere il meccanismo è aiutare queste persone a portare a termine anche un solo obiettivo che non credevano di poter raggiungere». Gli stessi autori della ricerca infatti spiegano che questa spirale può essere rappresentata metaforicamente come «un ponte in cui basta far venire giù un pilastro per fare cadere l’intera struttura». Si potrebbe concludere che le capacità che abbiamo di ri-generazione e cambiamento sono infinite, e queste sono date dalla complessità che ci caratterizza. La stessa complessità che ci porta a cadere in spirali negative, è la stessa che ci porta a rialzarci e guardare con “nuovi occhi” noi stessi e il mondo.(Carlotta Cadoni, “Crisi economica e neuroscienze: come la povertà cambia il cervello”, dal blog “Il Sapere” dell’8 luglio 2017).Quali sono gli effetti sul nostro cervello del vivere in particolari condizioni di povertà socio-economica? Ci dà risposta una recente ricerca condotta dall’università di Harvard. Sembra proprio che lo stress prolungato scaturito da problemi economici interferisca col nostro “circuito decisionale”. Una recente ricerca americana, commissionata da Economic Mobility Pathways (EmPath), una no-profit di Boston che dal 2006 lavora nella promozione di strumenti sociali contro la povertà, mette in luce un collegamento diretto tra meccanismi neuronali che coinvolgono sistema limbico e corteccia prefrontale e alcune contingenze pratiche della vita, come le condizioni socio-economiche in cui ci si trova. Di cosa sono responsabili il sistema limbico e la corteccia prefrontale? A grandi linee, si può dire che la corteccia prefrontale (parte più “recente” del cervello) medi e sia responsabile delle capacità di problem-solving, goal-setting e task execution; presiede quindi alla pianificazione dei comportamenti, alla capacità di prendere decisioni ed eseguirle e, secondo molti studiosi, anche all’espressione della personalità.
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Folli sanzioni di guerra, imposte a Trump per farlo cadere
È uno scandalo senza precedenti. Il segretario generale della Casa Bianca, Reince Priebus, faceva parte della congiura intesa a destabilizzare il presidente Trump e preparare la sua rimozione. Ha alimentato le fughe di notizie quotidiane che perturbano la vita politica statunitense, tra cui la presunta collusione tra la squadra di Trump e il Cremlino. Nel farlo dimettere, il presidente Trump è entrato in conflitto con l’establishment del Partito Repubblicano, di cui Priebus è l’ex presidente. Osserviamo di passaggio che nessuna di queste soffiate in merito alle agende e ai contatti degli uni e degli altri ha apportato la benché minima prova delle accuse. La riorganizzazione della squadra di Trump che ne è seguita è avvenuta esclusivamente a spese di personalità repubblicane e a vantaggio di militari opposti alla tutela dello Stato profondo. L’alleanza che era stata conclusa facendo buon viso a cattivo gioco dal partito repubblicano con Donald Trump in occasione della convention di investitura, il 21 luglio 2016, è morta. Così ci si ritrova con l’equazione di partenza: da una parte il presidente outsider dell’«America profonda», dall’altro, l’intera classe dirigente di Washington sostenuta dallo Stato profondo (cioè dalla parte dell’amministrazione incaricata della continuità dello Stato al di là delle alternanze politiche). Ovviamente questa coalizione è sostenuta dal Regno Unito e da Israele.Quel che doveva arrivare alla fine è arrivato: i leader democratici e repubblicani si sono intesi nel contrastare la politica estera del presidente Trump e preservare i loro vantaggi imperiali. Per fare questo, hanno approvato al Congresso una legge di 70 pagine che introduce formalmente sanzioni contro la Corea del Nord, contro l’Iran e contro la Russia. Questo testo impone unilateralmente a tutti gli altri Stati del mondo di rispettare questi divieti commerciali. Queste sanzioni quindi valgono tanto per l’Unione Europea e la Cina quanto per gli Stati ufficialmente presi di mira. Solo cinque parlamentari si sono dissociati dalla coalizione e hanno votato contro questa legge: i deputati Justin Amash, Tom Massie e Jimmy Duncan e i senatori Rand Paul e Bernie Sanders. Le disposizioni di questa legge proibiscono grosso modo all’esecutivo di ammorbidire queste interdizioni commerciali sotto qualsiasi forma. Donald Trump è teoricamente legato mani e piedi. Certo, potrebbe opporre il suo veto, ma secondo la Costituzione, al Congresso basterebbe votare di nuovo il testo negli stessi termini per poterlo imporre al presidente. Costui quindi lo promulgherà senza imporsi l’affronto di doversi mettere al passo del Congresso. Nei prossimi giorni inizierà una guerra senza precedenti.I partiti politici Usa intendono cancellare la “dottrina Trump”, secondo cui gli Stati Uniti devono svilupparsi più velocemente degli altri per mantenere la leadership mondiale. Intendono invece ripristinare la “Dottrina Wolfowitz” del 1992, secondo la quale Washington deve conservare il proprio vantaggio sul resto del mondo rallentando lo sviluppo di qualsiasi potenziale concorrente. Paul Wolfowitz è un trotskista messosi al servizio del presidente repubblicano Bush per lottare contro la Russia. Divenne dapprima vicesegretario della difesa, dieci anni più tardi, sotto il figlio di Bush, poi presidente della Banca Mondiale. L’anno scorso ha dato il suo sostegno alla democratica Hillary Clinton. Nel 1992 scrisse che il concorrente più pericoloso degli Stati Uniti era l’Unione Europea e che Washington doveva distruggerla politicamente, cioè economicamente. La legge rimette in questione tutto ciò che Donald Trump ha fatto nel corso degli ultimi sei mesi, compresa la lotta contro i Fratelli Musulmani e le loro organizzazioni jihadiste, la preparazione dell’indipendenza del Donbass (Malorossiya), e il ripristino della Via della Seta.Come prima ritorsione, la Russia ha chiesto a Washington di ridurre il personale della sua ambasciata a Mosca al livello della propria ambasciata a Washington, ossia 455 persone, espellendo 755 diplomatici. Secondo le nostre informazioni, ci sarebbe una pletora di diplomatici statunitensi in Russia, tra 1.100 e 1.500. In questo modo, Mosca intende ricordare che se anche avesse interferito nella politica americana, questo non avrebbe misure paragonabili con l’importanza dell’ingerenza degli Stati Uniti nella propria vita politica. A questo proposito, è stato appena il 27 febbraio scorso che il ministro della Difesa, Sergei Shoigu, annunciava alla Duma che le forze armate russe sono ora in grado anch’esse di organizzare “rivoluzioni colorate”, con 28 anni di ritardo sugli Stati Uniti. Gli europei si rendono conto con stupore che i loro amici di Washington (i democratici Obama e Clinton, i repubblicani McCain e McConnell) hanno appena stoppato ogni speranza di crescita nell’Unione. Lo shock è certamente pesante, ma ancora non hanno ammesso che il presunto “imprevedibile” Donald Trump è in realtà il loro migliore alleato. Completamente storditi da questo voto, sopraggiunto durante le loro vacanze estive, gli europei si sono messi in stand-by.Salvo reazione immediata, le aziende che hanno investito nella soluzione adottata dalla Commissione europea per l’approvvigionamento energetico dell’Ue sono rovinate. Wintershall, E.On Ruhrgas, N.V. Nederlandse Gasunie, e Engie (ex Gdf Suez) si sono impegnate a raddoppiare il gasdotto North Stream, ora vietato dal Congresso. Perdono non solo il diritto di competere in gare d’appalto Usa, ma perfino tutti i loro beni negli Stati Uniti. È loro negato l’accesso alle banche internazionali e non possono continuare le loro attività al di fuori dell’Unione. Per il momento, solo il governo tedesco ha espresso il suo sgomento. Non si sa se riuscirà a convincere i suoi partner europei e a organizzare l’Unione contro la signoria Usa che la sovrasta. Mai una tale crisi si è verificata, e quindi non v’è alcun elemento di riferimento precedente che consenta di anticipare il seguito degli avvenimenti. È probabile che alcuni Stati membri dell’Unione difenderanno gli interessi degli Stati Uniti, così come sono concepiti dal Congresso, contro i loro partner europei.Gli Stati Uniti, come ogni Stato, possono vietare alle loro aziende di commerciare con l’estero e alle società straniere di commerciare con loro. Ma, secondo la Carta delle Nazioni Unite, non possono imporre le proprie scelte in materia ai loro alleati e partner. Eppure questo è ciò che hanno fatto a partire dalle loro sanzioni contro Cuba. A quel tempo, sotto la guida di Fidel Castro – che non era un comunista – il governo rivoluzionario cubano aveva lanciato una riforma agraria alla quale Washington intendeva opporsi. I membri della Nato, che nulla avevano a che fare con questa piccola isola dei Caraibi, ne seguirono l’esempio. A poco a poco, l’Occidente, sempre più pieno di sé, ha considerato cosa normale affamare gli Stati che osavano resistere al suo potente signore. Ecco quindi che – per la prima volta – l’Unione Europea è direttamente toccata da quel sistema che essa stessa ha contribuito a mettere in campo. Più che mai, il conflitto Trump/Establishment prende una forma culturale. Esso oppone i discendenti di immigrati alla ricerca del “sogno americano” a quelli dei puritani del Mayflower. Da qui, per esempio, la denuncia da parte della stampa internazionale del linguaggio volgare del nuovo responsabile della comunicazione della Casa Bianca, Anthony Scaramucci.Fin qui Hollywood si era perfettamente accomodata alle maniere degli uomini d’affari di New York, ma improvvisamente questo linguaggio da carrettieri è presentato come incompatibile con l’esercizio del potere. Solo il presidente Richard Nixon si esprimeva così. Fu costretto a dimettersi da parte dell’Fbi che ha organizzato lo scandalo del Watergate contro di lui. Eppure, tutti sono d’accordo nel riconoscere che è stato un grande presidente, ponendo fine alla guerra del Vietnam e riequilibrando le relazioni internazionali con la Cina Popolare contro l’Unione Sovietica. È sorprendente vedere la stampa della vecchia Europa riprendere l’argomento puritano, religioso, contro il vocabolario di Scaramucci per giudicare la competenza politica della squadra di Trump, e il presidente Trump stesso licenziarlo appena nominato. Dietro quella che può sembrare solo una lotta fra clan, si gioca il futuro del mondo. O rapporti conflittuali e di dominio, o di cooperazione e sviluppo.(Thierry Meyssan, “L’establishment Usa contro il resto del mondo”, da “Megachip” del 31 luglio 2017).È uno scandalo senza precedenti. Il segretario generale della Casa Bianca, Reince Priebus, faceva parte della congiura intesa a destabilizzare il presidente Trump e preparare la sua rimozione. Ha alimentato le fughe di notizie quotidiane che perturbano la vita politica statunitense, tra cui la presunta collusione tra la squadra di Trump e il Cremlino. Nel farlo dimettere, il presidente Trump è entrato in conflitto con l’establishment del Partito Repubblicano, di cui Priebus è l’ex presidente. Osserviamo di passaggio che nessuna di queste soffiate in merito alle agende e ai contatti degli uni e degli altri ha apportato la benché minima prova delle accuse. La riorganizzazione della squadra di Trump che ne è seguita è avvenuta esclusivamente a spese di personalità repubblicane e a vantaggio di militari opposti alla tutela dello Stato profondo. L’alleanza che era stata conclusa facendo buon viso a cattivo gioco dal partito repubblicano con Donald Trump in occasione della convention di investitura, il 21 luglio 2016, è morta. Così ci si ritrova con l’equazione di partenza: da una parte il presidente outsider dell’«America profonda», dall’altro, l’intera classe dirigente di Washington sostenuta dallo Stato profondo (cioè dalla parte dell’amministrazione incaricata della continuità dello Stato al di là delle alternanze politiche). Ovviamente questa coalizione è sostenuta dal Regno Unito e da Israele.