Archivio del Tag ‘Syriza’
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Della Luna: siamo in trappola, e la politica non conta nulla
Mentre gli animi si infuocano sulle manovre politiche in corso per il nuovo governo, definito da alcuni “dei cialtroni voltagabbana al servizio dello straniero”, Marco Della Luna passa oltre: «Rispetto alla politica alta e segreta, che pianifica e decide a porte chiuse, tacendo gli obiettivi che persegue, tutta quest’altra politica bassa, palese, narrata e recitata al grande pubblico, consiste solo di riflessi, conseguenze e di atti esecutivi della politica vera, con minimi margini di libertà». La politica visibile, in altre parole, conta pochissimo: «I politici bassi, dediti a tatticismi, spartizioni e obiettivi ristretti, presentano questi come se fossero fondamentali e decisivi, così come i loro programmi elettorali e i loro provvedimenti esecutivi o legislativi, ma non lo sono». Ultimamente, il bipolarismo popolo-élite ha sostituito quello precedente, tra destra e sinistra. «Ma lo hanno presentato in modo illusorio, come cioè se tale struttura fosse un’anomalia correggibile, e non una costante universale ineluttabile, connaturata all’organizzarsi stesso della società». La politica palese, riflessa nel teatrino dei media mainstream, «dibatte di millesimi in più o in meno che si possono fare di deficit sul Pil», grazie a cui «ricollocare altri millesimi tra sanità, pensioni, investimenti, sgravi o aggravi fiscali per lavoratori o imprese». Briciole, in realtà.Davvero nulla che conti davvero, sostiene l’avvocato Della Luna, brillante saggista euroscettico, sia che si tratti di migranti o di «diritti civili consolatori come l’eutanasia, la droga, il matrimonio e l’adozione da parte di coppie omosessuali, l’affitto di utero e la fecondazione eterologa». Al livello più profondo «si trovano fattori strutturalmente molto più potenti, come gli effetti recessivi e deindustrializzanti dell’euro». Effetti «visibili a tutti, e dei quali i partiti nostrani, erroneamente ritenuti sovranisti, populisti e antisistema, parlavano prima di andare al governo contemplando la possibilità di uscire dall’euro, mentre subito dopo hanno dichiarato fedeltà ad esso senza condizioni, rivelandosi non sovranisti né populisti, ma sottomessi ai gestori dell’Ue». Del resto, «quando si hanno incarichi istituzionali, certi principi e certi dati di realtà bisogna rinnegarli: così è avvenuto con Syriza in Grecia e Podemos in Spagna: si sono omologati», a differenza – secondo Della Luna – dello Ukip di Nigel Farage e del Brexit Party. Ma c’è un livello ancora più profondo, e quindi «mai o quasi mai proposto al pubblico dalla politica», dove affiorano «tematiche quali la intenzionale, dolosa pianificazione dell’uso dell’euro e dei suoi effetti nocivi per alcuni paesi a vantaggio della Germania, e l’analisi della stessa costruzione europeista come concepita per questo fine».In quel livello decisionale, inaccessibile alla politica ordinaria, «si trovano pure fatti come l’imperialismo e il neocolonialismo cinese, francese e statunitense, con il land grabbing e la rimozione dei popoli locali, come causa della marea migratoria dall’Africa verso l’Europa, della quale noi dovremmo farci carico». Si trovano inoltre temi come “l’inestinguibilità” del debito pubblico di quasi tutti i paesi, la tendenza nazionale italiana (dopo 27 anni di declino) ad almeno altri 25 anni di perdita di efficienza comparata. Ci sono «la sostituzione etnica (afro-islamizzazione) congiunta alla fuga di cervelli, capitali e imprese», nonché «gli ingravescenti effetti di una coesione nazionale mantenuta e mantenibile solo spogliando Veneto e Lombardia del loro reddito (quindi della capacità di investimento e innovazione) per integrare il reddito di una Roma e di un Meridione storicamente dimostratisi incapaci di crescere nonostante gli aiuti». A una maggior profondità, quindi a una maggior lontananza dalla “notiziabilità” popolare e dalla pubblica “dibattibilità” politica nelle istituzioni, c’è poi «il problema dei rapporti gerarchici tra le potenze (Stati, ma anche potentati bancario-finanziari)», che è «il problema delle sovranità limitate».Quanta libertà di autodeterminazione politica resta, all’Italia, “colonia” statunitense com 130 basi militari sul suo territorio? Cosa resta, di un’Italia vincolata all’Eurosistema a guida franco-tedesca, che dopo l’equivoco gialloverde torna pienamente sottomessa grazie al Conte-bis? «E’ divenuto manifesto, ma non se ne parla in Parlamento, il fatto che un paese che non controlla la propria moneta è diretto politicamente da chi gliela fornisce, cioè dai banchieri». Nel frattempo, «si è constatata la capacità di Ue, Bce e agenzie di rating di prescrivere coercitivamente (con la minaccia di impedire il finanziamento del debito pubblico) all’Italia e ad altri paesi deboli politiche e riforme socio-economiche favorevoli al grande capitale finanziario di tipo liberista, recessivo, sperequante, in contrasto con l’articolo 3 della Costituzione». Questo potere di ricatto manifesta «l’illusorietà dei principi fondamentali della Costituzione italiana, alla luce del reale ordinamento e funzionamento gerarchico internazionale: niente governo del popolo (democrazia) ma dei capitali; niente sovranità nazionale; niente primato del lavoro; niente perseguimento dell’eguaglianza sostanziale». Ancora: «Niente equa e dignitosa retribuzione; niente subordinazione dell’impresa privata all’interesse collettivo; niente intervento pubblico keynesiano per uscire dalla depressione e dalla disoccupazione». E quindi «mancano i presupposti per la legittimazione del potere politico delle istituzioni».Queste sono le tematiche della post-democrazia, ampiamente analizzate e illuminate da giuristi come Luciano Barra Caracciolo, da valenti sociologi come Luciano Gallino. Secondo Della Luna, al filosofo Diego Fusaro, onnipresente sui media, sarebbe «riuscita l’unica impresa rivoluzionaria del dopoguerra, ossia sfondare la muraglia di censura culturale (costruita dalla falsa sinistra) portando davanti al naso del grande pubblico la spiegazione cristallina di che cosa è e che cosa fa il sistema liberal-finanziario». Fusaro avrebbe anche smascherato «l’ipocrisia delle forze presentate e presentantisi come di sinistra o progressiste, cioè in Italia soprattutto del Pd», traditrici del socialismo (cioè della difesa dei lavoratori contro lo sfruttamento) e al servizio dell’élite bancaria. Per contro, c’è chi guarda con sospetto a Fusaro: non sarà che il suo presenzialismo mediatico in fondo è comodo, al potere, perché appare stravagante e quasi cariturale, dunque innocuo? Ma a parte il giudizio su Fusaro (positivo, per Della Luna), l’autore di “Euroschiavi” e “Cimiteuro”, “Traditori al governo”, “Sbankitalia” e “I signori della catastrofe” punta il dito contro «livelli ancora più profondi» nella ricerca delle vere cause delle nostre sciagure socio-economiche.La moneta, per esempio: domina un monopolio «privato e irresponsabile della creazione dei mezzi monetari, della loro distribuzione, della fissazione del loro ‘costo’ (tasso di interesse)». E questo monopolio abusivo grava sulla politica e sulla società, soprattutto in relazione precisi fattori. Primo: quella imposta «è una moneta indebitante, che dà luogo a un indebitamento pubblico e privato che, per ragioni matematiche, non può essere estinto e continua a crescere, anche perché il reddito da creazione monetaria non viene contabilizzato e sfugge così alla tassazione». Secondo punto: questo tipo di moneta, nel lungo termine, «grazie all’indebitamento inarrestabile sta portando tutto e tutti, come debitori insolventi, nel dominio dei monopolisti monetari, azzerando la dimensione pubblica della politica e dello Stato». E infine: scontiamo «i falsi dogmi» con cui questi monopolisti «nascondono o legittimano» il loro potere abusivo, dogmi come «quello della scarsità e costosità della moneta». Pura invenzione: la moneta è illimitata, e la sua emissione è ormai a costo zero. «Portare tali temi nel pubblico dibattito non è fattibile – scrive Della Luna – perché la gente non li capirebbe, ma soprattutto perché renderebbero manifesta l’impotenza della politica bassa, palese, e dello stesso Stato».Un dibattito del genere, oltretutto, demolirebbe «la fede popolare (e il consenso) verso la falsa narrazione economica che legittima tutte le scelte di fondo finalizzate agli interessi dell’oligarchia che le formula a suo beneficio». Della Luna ha espresso lo stesso concetto nel saggio “Oligarchia per popoli superflui”: «Le masse, come strumenti di produzione di potere e ricchezza per le oligarchie, ormai sono divenute superflui (quindi impotenti poiché prive di potere negoziale, ma anche ridondanti, eliminabili) per effetto della concentrazione globale del potere e della smaterializzazione-automazione dei processi produttivi e bellici». E ora la possibilità tecnologica di gestirli in modo zootecnico, ossia non più semplicemente attraverso leve economiche e psicologiche «ma entrando nei loro corpi, nel loro Dna, e modificandoli biologicamente e geneticamente, soprattutto attraverso una manipolazione attuata per via legislativa (somministrazione forzata a generazioni di bambini di sostanze dagli effetti non chiari e non garantiti), avvia la decostruzione ontologica dell’essere umano, della specie homo, e la sua completa riduzione a strumento, merce, cosa illimitatamente formattabile, disponibile, fungibile». “Tecnoschiavi”, appunto: e senza scampo, almeno secondo Della Luna.Mentre gli animi si infuocano sulle manovre politiche in corso per il nuovo governo, definito da alcuni “dei cialtroni voltagabbana al servizio dello straniero”, Marco Della Luna passa oltre: «Rispetto alla politica alta e segreta, che pianifica e decide a porte chiuse, tacendo gli obiettivi che persegue, tutta quest’altra politica bassa, palese, narrata e recitata al grande pubblico, consiste solo di riflessi, conseguenze e di atti esecutivi della politica vera, con minimi margini di libertà». La politica visibile, in altre parole, conta pochissimo: «I politici bassi, dediti a tatticismi, spartizioni e obiettivi ristretti, presentano questi come se fossero fondamentali e decisivi, così come i loro programmi elettorali e i loro provvedimenti esecutivi o legislativi, ma non lo sono». Ultimamente, il bipolarismo popolo-élite ha sostituito quello precedente, tra destra e sinistra. «Ma lo hanno presentato in modo illusorio, come cioè se tale struttura fosse un’anomalia correggibile, e non una costante universale ineluttabile, connaturata all’organizzarsi stesso della società». La politica palese, riflessa nel teatrino dei media mainstream, «dibatte di millesimi in più o in meno che si possono fare di deficit sul Pil», grazie a cui «ricollocare altri millesimi tra sanità, pensioni, investimenti, sgravi o aggravi fiscali per lavoratori o imprese». Briciole, in realtà.
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Salvini nella ruota del criceto: si agita, ma non otterrà nulla
Salvini è in gabbia: si agita come un criceto nella sua ruotina, ma non può evadere dalle sbarre Ue. Lo afferma “Contropiano”, in un editoriale di Sergio Cararo che analizza l’esito profondo del voto europeo. Politica e media italiani celebrano la vittoria di Salvini, che però «si è venuto a trovare in una situazione in cui, qualsiasi cosa farà, si troverà in mezzo a rogne rilevanti». In primo luogo, l’assalto “sovranista” all’architettura europea è fallito. «In Francia la vittoria della Le Pen è stata di strettissima misura e del tutto insufficiente a un cambio dei rapporti di forza. Orban in Ungheria si è ormai allineato e coperto al Partito Popolare, e comunque il suo paese “pesa” poco». Per contro, a sinistra «c’è stato un sostanziale allineamento alla visione dominante, tanto che in Italia e Spagna gli elettori hanno preferito gli originali (dal Pd al Partito socialista spagnolo) alle alternative tiepide». E in Grecia, “Syriza” cede il primo posto ai conservatori di Nuova Democrazia. «Le forze della sinistra popolare più antagoniste al sistema, come la francese “La France Insoumise”, «non hanno capitalizzato il ciclo di conflitto sociale aperto dai Gilets Jaunes».Al contrario, la struttura politica, ideologica ed economica europeista – pur perdendo la storica “maggioranza” popolari-socialdemocratici – si è rafforzata, «e questo mette fine ad ogni velleità di Salvini di negoziare alcunchè». Bruxelles, aggiunge Cararo, starebbe infatti considerando di proporre per l’Italia una procedura di infrazione già il prossimo 5 giugno per “debito eccessivo”. «E poi c’è la manovra finanziaria “lacrime e sangue” da decine di miliardi che si tradurrà nella Legge di Stabilità da varare in autunno». Infine i grandi gruppi multinazionali, come Fca e Renault, daranno vita al maggiore produttore dell’automotive, «materializzando uno di quei “campioni europei” evocati nel recente Trattato di Aquisgrana». Sulle eventuali “rodomontate” propagandistiche di Salvini, continua “Contropiano”, pesano da un lato la minaccia dello spread (quello che tolse di mezzo Berlusconi, e che sta già risalendo) e dall’altro gli interessi del “Partito Trasversale del Pil” che, soprattutto tra gli elettori di Salvini nel Nord, «è pronto a tirare per le orecchie il ragazzo se dovesse mettere a rischio l’economia».Insomma, «si ha la netta impressione che Salvini sia come un criceto sulla ruota, ma dentro la gabbia». Ha e dà la sensazione di muoversi, e se avvicini un dito «può dare morsi anche dolorosi (soprattutto sul piano repressivo)», ma sostanzialmente «resta fermo nello stesso punto e chiuso dalla gabbia su ogni lato». Il capo della Lega «ha riportato a casa una parte dei consensi del blocco di destra, con una media tra il 2008 e il 2013 (ma con ben tre milioni di voti in meno rispetto a quell’anno)», includendo in questo blocco anche i voti di Berlusconi, che oggi però «appare più “intrigato” dal blocco europeista che dagli ululati di Salvini e della Meloni». Per Cararo, si tratta di «una sostanziale partita di giro tutta all’interno del blocco reazionario consolidato da decenni e di cui una parte, per un periodo, ha provato ad saggiare l’ipotesi del M5S». Ma, con un bagno di sano realismo, è indispensabile tener conto dell’astensionismo – un oceano: quasi il 44% – che di fatto «dimezza anche le sensazioni stimolate dalle sole percentuali».“Contropiano”, blog vicino a “Potere al Popolo”, fornisce «una diagnosi definitiva sull’inutilità e l’inesistenza della cosiddetta “sinistra”». Osserva Cararo: «Chiunque abbia la lucidità e la tenacia di misurarsi sul terreno della ricostruzione di una ipotesi di classe, ormai sa che tale fattore e il contesto politico-culturale in cui è sopravvissuto non possono che scomparire dal ventaglio di ipotesi da prendere in esame». Sempre secondo Cararo, è l’austerità “europeista” a produrre la destra e ad alimentarla. «E l’impossibilità per chiunque di mettere in campo politiche che migliorino le condizioni di vita delle classi popolari – anzi: l’obbligo feroce a peggiorarle – rende il gioco politico sterile e impotente». Ma in questa impotenza, «le uniche “soluzioni” che diventano possibili sono quelle a “costo zero”», ossia «quelle repressive, che cercano il consenso indicando un nemico di comodo su cui scaricare rabbia e frustrazioni create da altri». Aggiunge Cararo: «E’ l’incubo della scarsità che scatena la caccia a qualcun altro, per ridurre i posti intorno a una tavola sempre più povera».Salvini è in gabbia: si agita come un criceto nella sua ruotina, ma non può evadere dalle sbarre Ue. Lo afferma “Contropiano”, in un editoriale di Sergio Cararo che analizza l’esito profondo del voto europeo. Politica e media italiani celebrano la vittoria di Salvini, che però «si è venuto a trovare in una situazione in cui, qualsiasi cosa farà, si troverà in mezzo a rogne rilevanti». In primo luogo, l’assalto “sovranista” all’architettura europea è fallito. «In Francia la vittoria della Le Pen è stata di strettissima misura e del tutto insufficiente a un cambio dei rapporti di forza. Orban in Ungheria si è ormai allineato e coperto al Partito Popolare, e comunque il suo paese “pesa” poco». Per contro, a sinistra «c’è stato un sostanziale allineamento alla visione dominante, tanto che in Italia e Spagna gli elettori hanno preferito gli originali (dal Pd al Partito socialista spagnolo) alle alternative tiepide». E in Grecia, “Syriza” cede il primo posto ai conservatori di Nuova Democrazia. «Le forze della sinistra popolare più antagoniste al sistema, come la francese “La France Insoumise”, «non hanno capitalizzato il ciclo di conflitto sociale aperto dai Gilets Jaunes».
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Spannaus: poteri opachi dietro la rissa tra Salvini e Di Maio
Poteri opachi potrebbero strumentalizzare la guerra interna ai gialloverdi. Lo sostiene Andrew Spannaus, giornalista americano, fondatore di “transatlantico.info” e consigliere delegato dell’Associazione stampa estera di Milano, intervistato da Federico Ferraù per il “Sussidiario”. Lo scontro intestino, in effetti, continua senza tregua: «Di Maio vuole stanziare per la famiglia i soldi avanzati dal reddito di cittadinanza, introdurre il salario minimo a 9 euro e nuovi criteri, solo tecnici, per le nomine in sanità». Ma il capo politico dei 5 Stelle, aggiunge Ferraù, ha pure stigmatizzato «le camionette delle forze dell’ordine» alla Sapienza, dove parlava Mimmo Lucano, e «una tensione sociale palpabile come non si avvertiva da anni». Pronta la risposta: «Di Maio e Zingaretti parlano di razzismo che non c’è», ha replicato Salvini: «Gli italiani non sono violenti, né egoisti, né razzisti. Pd e 5 Stelle si sono forse coalizzati anche contro autonomie, Flat Tax e per aprire i porti ai clandestini?». Il capo della Lega rilancia quindi su autonomia, tasse e decreto sicurezza bis. Ce n’è quanto basta – osserva Ferraù – per rendere esplosivo il prossimo Consiglio dei ministri, l’ultimo prima del voto europeo. «In campagna elettorale bisogna distinguersi», premette Spannaus. Prima, però – aggiunge – i distinguo e le repliche erano reciproci ma senza andare allo scontro. «Adesso invece la situazione sembra quasi fuori controllo».Il governo terrà? «Mi auguro che le due forze siano in grado di gestire la competizione elettorale senza andare alla rottura», dice Spannaus: «Ne va della loro fortuna». Prima delle inchieste – prosegue Ferraù – Salvini diceva di voler governare altri quattro anni. I 5 Stelle anche, perché erano in difficoltà e non volevano andare al voto. Ma adesso? «Salvini intende raddoppiare il consenso delle politiche e io credo che ci andrà vicino», sostiene Spannaus. «Se non arriverà al 30% la sua sarà vista come una sconfitta, in modo un po’ ingannevole perché la Lega sarà comunque il primo partito italiano. Se invece dovesse superare il 33-34%, sarà tentato di passare all’incasso». Lo farà? «Lui stesso dovrebbe valutare attentamente le prospettive». Insomma, far saltare il governo non conviene? «Il voto europeo non cambierà la composizione del Parlamento», sottolinea il giornalista americano. Un’ovvietà, certo. «Ma è il primo dato con cui fare i conti». Eventuali elezioni anticipate, «oltre ad arrivare in vista della legge di bilancio, sarebbero un’incognita». Perché, ragiona Spannaus, «o si ha la certezza di superare il 40%, oppure con l’attuale sistema elettorale occorre allearsi».Per Salvini, «ribaltare la maggioranza parlamentare a suo favore sarebbe molto difficile» e probabilmente neppure auspicabile, «soprattutto nel momento in cui, alla luce del risultato europeo, dovesse risultare più forte». Riflette Ferraù: e se il Movimento 5 Stelle si rivelasse in Italia ciò che è stato Syriza in Grecia, il partito che ha raccolto il voto anti-establishment ma poi ha governato attuando l’austerity europea? «Non mi spingerei così avanti», frena Spannaus. «Nei fatti, soprattutto a breve termine, il M5S potrebbe anche avere questo ruolo, ma che possa fare intenzionalmente una virata pro-establishment mi pare improbabile e controproducente», sostiene il giornalista. «Questo governo – aggiunge – è totalmente diverso dagli altri governi in Europa. E mi auguro che Di Maio e Salvini se ne siano accorti. Pur litigando, mantiene un consenso del 55%, forse superiore». Velo pietoso sulle opposizioni: «Le critiche che provengono dagli altri partiti si riducono a quella di litigare senza affrontare i problemi del paese», taglia corto Spannaus. I litigi dentro il governo gialloverde, invece, fino a prima della contrapposizione frontale, «sono avvenuti sul da farsi, sulle tasse, sullo sblocca-cantieri». E quindi: si può rimproverare all’esecutivo Conte di non averlo fatto in modo abbastanza incisivo o sufficiente. «Ma dire, come fa Zingaretti, “meno litigi e più lavoro” è la confessione di una penosa mancanza di proposte».La controffensiva grillina ha trovato un alleato nelle inchieste della magistratura, osserva Ferraù: si sta dunque ripetendo il copione di Tangentopoli, quando le inchieste risparmiarono il maggiore partito della sinistra? Per Spannaus, i 5 Stelle «potrebbero avere indirettamente un ruolo strumentale in un gioco di interessi più ampio», anche se la loro posizione non è paragonabile a quella del Pci-Pds negli anni ‘90. «Ricordiamoci che i 5 Stelle nascono come partito anti-casta, dunque la loro prima ragion d’essere è l’anticorruzione. Oggi si sono trovati ad approfittare di un momento favorevole. Ma effettivamente un rischio c’è». Quale? «Quello di prestarsi al gioco di cui sopra, perdendo lo slancio che questo governo potrebbe avere». Da straniero, Spannaus aggiunge un’osservazione: «Che dei politici vengano indagati o arrestati a tre settimane da un appuntamento elettorale, mi sembra fuori dal mondo». E quindi cosa dobbiamo aspettarci? «Il problema più grande è la prossima manovra», sostiene il giornalista, pensando alle ristrettezze finanziarie alle quali Bruxelles ha costretto l’Italia, negandole il pur minimo aumento del deficit proposto dall’esecutivo.«In occasione dell’ultima legge di bilancio il governo italiano ha lanciato una sfida all’Ue sull’austerity, ma per evitare la procedura di infrazione ha dovuto chinare il capo all’automatismo delle clausole di salvaguardia. E al rinvio del problema. Per negoziare con più probabilità di successo è necessario che il governo sia unito e che il consenso delle due parti si mantenga alto». Scenario probabile: un rimpasto, dopo le europee, per dare più spazio alla Lega. Conclude Ferraù: dobbiamo attenderci un’offensiva “antisovrana” dell’establishment, italiano ed europeo? «Questa offensiva – conferma Spannaus – è pronta a scattare ogni volta che il governo fa qualcosa per contravvenire alle regole europee. Chi osteggia questo governo, dentro e fuori dall’Italia, cerca ogni occasione per fargli male. Mi stupirei se Salvini e Di Maio, presi dalla campagna elettorale, lo avessero dimenticato». Cosa dovrebbero fare, i due ex amici gialloverdi? «Del loro meglio – risponde Spannaus – per gestire la conflittualità senza spezzare l’impulso del governo. E andare avanti».Poteri opachi potrebbero strumentalizzare la guerra interna ai gialloverdi. Lo sostiene Andrew Spannaus, giornalista americano, fondatore di “transatlantico.info” e consigliere delegato dell’Associazione stampa estera di Milano, intervistato da Federico Ferraù per il “Sussidiario”. Lo scontro intestino, in effetti, continua senza tregua: «Di Maio vuole stanziare per la famiglia i soldi avanzati dal reddito di cittadinanza, introdurre il salario minimo a 9 euro e nuovi criteri, solo tecnici, per le nomine in sanità». Ma il capo politico dei 5 Stelle, aggiunge Ferraù, ha pure stigmatizzato «le camionette delle forze dell’ordine» alla Sapienza, dove parlava Mimmo Lucano, e «una tensione sociale palpabile come non si avvertiva da anni». Pronta la risposta: «Di Maio e Zingaretti parlano di razzismo che non c’è», ha replicato Salvini: «Gli italiani non sono violenti, né egoisti, né razzisti. Pd e 5 Stelle si sono forse coalizzati anche contro autonomie, Flat Tax e per aprire i porti ai clandestini?». Il capo della Lega rilancia quindi su autonomia, tasse e decreto sicurezza bis. Ce n’è quanto basta – osserva Ferraù – per rendere esplosivo il prossimo Consiglio dei ministri, l’ultimo prima del voto europeo. «In campagna elettorale bisogna distinguersi», premette Spannaus. Prima, però – aggiunge – i distinguo e le repliche erano reciproci ma senza andare allo scontro. «Adesso invece la situazione sembra quasi fuori controllo».
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Comanda il denaro: la politica obbedisce e il popolo subisce
«Il liberalismo si è imposto in modo autoritario, portando con sé impoverimento generalizzato, precarietà, disoccupazione di massa e concorrenza forzata per il lavoro». Per lo scrittore francese Michel Onfray, il neoliberismo ha ormai gettato la maschera: «E’ un sistema economico che ha promesso tutto ma non ha mantenuto niente», scrive Onfray su “L’Espresso”, guardando al caos che ci assedia, con «una plebe che vuole fare piazza pulita, ma senza progetti». Dopo la caduta del Muro di Berlino nel 1989, seguita nel 1991 dal crollo dell’Unione Sovietica, il capitalismo ha potuto espandersi senza più freni: è allora, ricorda Onfray, che siamo precipitati nell’accelerazione atomica della globalizzazione, «voluta con tanto ardore dal capitalismo liberale più duro», che poi «ha trovato un alleato inaspettato nella sinistra liberale e, in seguito, ancor più paradossalmente, nella sinistra anti-liberale». Per Onfray, il mercato «odia le frontiere, disprezza il locale e ciò che ha messo radici, combatte una guerra spietata contro i paesi, riempie di merda le nazioni, orina contro i popoli e ama soltanto i flussi multiculturali che abbattono le frontiere, sradicano il mondo, devastano ciò che è locale, spaesano i paesi, fustigano le nazioni, diluiscono i popoli a esclusivo beneficio del mercato, l’unico a contare e a dettare legge», per usare «la definizione chimicamente pura del liberalismo».Il capitale, aggiunge il filosofo transalpino, vuole l’abolizione delle frontiere per porre fine una volta per tutte a ciò che nell’ambito delle nazioni e dei paesi è stato ottenuto con secoli di lotte sociali. Lo se Stato teoricamente prevede una sicurezza sociale e offre scuole gratuite, il pensionamento a un’età decorosa, diritti del lavoro e un autentico progresso sociale, il neoliberismo si fa beffe delle tutele sociali e pratica la medicina con due pesi e due misure, o quella dei poveri o quella dei ricchi. «Dispone di un sistema di istruzione, certo, ma a misura di genitori facoltosi in grado di pagare le rette per la loro progenie e privo di utilità per i genitori indigenti». E poi «ignora i limiti dell’orario di lavoro e fa sgobbare i lavoratori tutta la giornata, tutta la settimana, tutta la vita, come ai tempi della schiavitù». E’ un sistema che «non conosce il codice del lavoro e trasforma gli operai, gli impiegati, i salariati, i proletari, i precari, gli stagisti in soggetti sottomessi, che devono sobbarcarsi ogni tipo di corvè». Quel che vuole il nuovo capitale, neoliberismo «nella sua versione di destra come nella sua versione di sinistra», è l’affermazione dei sempre più ricchi, a scapito dei sempre più poveri. «Da qui la sua ideologia che prevede l’abolizione delle frontiere, degli Stati e delle tutele di qualsiasi tipo – simboliche, reali, giuridiche, legali, culturali, intellettuali».Non appena viene meno tutto ciò che protegge i deboli dai forti, scrive Onfray, questi ultimi «possono disporre dei deboli a loro piacere, e i deboli possono essere terrorizzati dal fatto di trovarsi in costante concorrenza, possono essere sfruttati con posti di lavoro precari, maltrattati con contratti a tempo determinato, imbrogliati con gli stage di formazione, minacciati dalla disoccupazione, angosciati dalle riconversioni, messi kappaò da capetti che giocano anche con i loro stessi posti di lavoro». Evaporato lo Stato, è il mercato a dettare legge. «Giocando la carta del liberalismo – aggiunge Onfray – la sinistra al governo spinge nella medesima direzione del capitalismo con i suoi banchieri». E giocando invece la carta dell’antiliberalismo, «la sinistra definita radicale spinge nella medesima direzione», premiando la finanza. Queste due modalità d’azione della sinistra, aggiunge il filosofo, hanno gettato il popolo alle ortiche: «Non ci sarebbero più operai, impiegati, proletari, poveri contadini, ma soltanto un popolo-surrogato, un popolo di migranti in arrivo da un mondo non giudeo-cristiano, con i valori di un Islam che assai spesso volta le spalle alla filosofia dei Lumi. Questo popolo-surrogato non è tutto il popolo, ne è soltanto una parte che, però, non deve eclissare tutto ciò che non è».Il proletariato? «Esiste ancora, e così pure gli operai». Esistono ancora anche gli impiegati (per non parlare dei precari, più importanti che mai). «La pauperizzazione analizzata così bene da Marx è diventata la vera realtà del nostro mondo: i ricchi sono sempre più ricchi e sempre meno numerosi, mentre i poveri sono sempre più poveri e sempre più numerosi». Se nell’ambito dell’Europa si pratica l’islamofilia empatica, aggiunge Onfray, fuori dalle sue frontiere il liberalismo che ci governa pratica un’islamofobia militare. «Al potere, in Francia, la sinistra socialista ha rinunciato al socialismo di Jaurès nel 1983 e in seguito, nel 1991, ha rinunciato al pacifismo del medesimo Jaurès prendendo parte alle crociate decise dalla famiglia Bush, che così ha dato all’apparato industriale-militare che lo sostiene l’occasione di accumulare benefici immensi, conseguiti grazie alle guerre combattute nei paesi musulmani». Queste guerre «si fanno nel nome dei diritti dell’uomo: di fatto, si combattono agli ordini del capitale che ha bisogno di esse per dopare il suo business e migliorarne artificialmente le prestazioni». Usare armi, insiste Onfray, significa poterne costruirne altre, collaudandole sul campo. A chiudere il conto, poi, provvede il business della ricostruzione, che – sempre ai soliti monopolisti – garantisce «introiti smisurati».Se all’Occidente importasse qualcosa, dei diritti umani, eviterebbe di allearsi con paesi come l’Arabia Saudita e il Qatar, la Corea del Nord e la stessa Cina, che secondo Amnesty International non rispettano i diritti dell’uomo. «Queste false guerre per la democrazia, che di fatto sono vere e proprie guerre coloniali – sottolinea Onfray – prendono di mira le comunità musulmane». Dal 1991 hanno provocato 4 milioni di morti tra le popolazioni civili dei paesi coinvolti. «Come si può anche solo immaginare che l’Umma, la comunità planetaria dei musulmani, non sia solidale con le sofferenze di quattro milioni di correligionari?». Di conseguenza, aggiunge Onfray, non ci si deve stupire se in virtù di quella che Clausewitz definì la “piccola guerra”, quella che i deboli combattono contro i forti, l’Occidente gregario della politica statunitense si trova adesso esposto alla reazione che assume la forma di terrorismo islamico. «La religione continua a essere “l’oppio dei popoli”, e l’oppio è tanto più efficace quanto più il popolo è oppresso, sfruttato e, soprattutto, umiliato. Non si umiliano impunemente i popoli: un giorno quei popoli si ribelleranno, è inevitabile. E la cultura musulmana ha mantenuto potentemente quel senso dell’onore che l’Occidente ha perduto».Il ritorno del popolo alle urne, per Onfray, è una risposta «alla bassezza di questo mondo capitalista e liberale che è impazzito». Dalla caduta del Muro di Berlino, le ideologie dominanti «hanno assimilato la gestione liberale del capitalismo all’unica politica possibile». L’Europa di Maastricht «è una delle macchine con le quali si impone il liberalismo in maniera autoritaria, ed è un vero colmo per il liberalismo: negli anni Novanta, la propaganda di questo Stato totalitario maastrichtiano ha presentato il suo progetto asserendo che esso avrebbe consentito la piena occupazione, la fine della disoccupazione, l’aumento del tenore di vita, la scomparsa delle guerre, l’inizio dell’amicizia tra i popoli». Dopo un quarto di secolo di questo regime trionfante e senza opposizione, «i popoli hanno constatato che ciò che era stato promesso loro non è stato mantenuto e, peggio ancora, che è accaduto esattamente il contrario: impoverimento generalizzato, disoccupazione di massa, abbassamento del tenore di vita, proletarizzazione del ceto medio, moltiplicarsi di guerre e incapacità di impedire quella dei Balcani, concorrenza forzata in Europa per il lavoro».A fronte di questa evidenza, il popolo sembra prepararsi a reagire. «Per il momento si affida a uomini e donne che si definiscono provvidenziali». Certo, il doppio smacco di Tsipras con “Syriza” in Grecia e di Pablo Iglesias con “Podemos” in Spagna «mostra i limiti di questa fiducia nella capacità di questo o quello di cambiare le cose restando in un assetto di politica liberale». Per Onfray, anche Beppe Grillo e i suoi 5 Stelle «vivono un flop di egual misura». La Francia, che nel 2005 ha detto “no” a questa Europa di Maastricht, «ha subito una sorta di colpo di Stato compiuto dalla destra e dalla sinistra liberale» che, nel 2008, hanno imposto tramite il Parlamento «l’esatto contrario di ciò che il popolo aveva scelto». Onfray si riferisce al Trattato di Lisbona, ratificato da Hollande e dal partito socialista, come pure da Sarkozy e dal suo partito. «Gli eletti del popolo hanno votato contro il popolo, determinando così una rottura che ora si paga con un astensionismo massiccio o con decine di voti estremisti di protesta». Altri paesi ancora che hanno manifestato il loro rifiuto nei confronti di questa configurazione europea liberale – Danimarca, Norvegia, Irlanda, Svezia, Paesi Bassi – sono dovuti tornare a votare per rivedere le loro prime scelte. «La Brexit è in corso, e assistiamo in diretta a una sfilza di pressioni volte a scavalcare la volontà popolare».Oggi, riassume Onfray, il popolo «sembra deciso a voler fare tabula rasa di tutti coloro che, vicini o lontani, hanno avuto una responsabilità precisa nel creare la terribile situazione nei loro paesi». Lo scenario contro cui si ribella è quello innescato dalla globalizzazione neoliberista, «alle prese con le guerre neocoloniali statunitensi, davanti ai massacri planetari di popolazioni civili musulmane e a guerre che distruggono paesi come Iraq, Afghanistan, Mali, Libia e Siria, provocando migrazioni di massa di profughi in direzione del territorio europeo». Un panorama sul quale si staglia ingloriosamente «l’inettitudine dell’Europa di Maastricht, forte con i deboli e debole con i forti». Rabbia e frustrazione: è il carburante che, in Francia, spinge in strada i Gilet Gialli. «Una volta ottenuta questa tabula rasa – conclude Onfray – non è previsto che ci sia alcun castello nel quale riparare, perché è impossibile che vi resti un castello». A quel punto, aggiunge, «sembra che non ci resterà che un’unica scelta: la peste liberale o il colera liberale». Trump e Putin? «Non potranno farci nulla: è il capitale a dettar legge. I politici obbediscono e i popoli subiscono».«Il liberalismo si è imposto in modo autoritario, portando con sé impoverimento generalizzato, precarietà, disoccupazione di massa e concorrenza forzata per il lavoro». Per lo scrittore francese Michel Onfray, il neoliberismo ha ormai gettato la maschera: «E’ un sistema economico che ha promesso tutto ma non ha mantenuto niente», scrive Onfray su “L’Espresso”, guardando al caos che ci assedia, con «una plebe che vuole fare piazza pulita, ma senza progetti». Dopo la caduta del Muro di Berlino nel 1989, seguita nel 1991 dal crollo dell’Unione Sovietica, il capitalismo ha potuto espandersi senza più freni: è allora, ricorda Onfray, che siamo precipitati nell’accelerazione atomica della globalizzazione, «voluta con tanto ardore dal capitalismo liberale più duro», che poi «ha trovato un alleato inaspettato nella sinistra liberale e, in seguito, ancor più paradossalmente, nella sinistra anti-liberale». Per Onfray, il mercato «odia le frontiere, disprezza il locale e ciò che ha messo radici, combatte una guerra spietata contro i paesi, riempie di merda le nazioni, orina contro i popoli e ama soltanto i flussi multiculturali che abbattono le frontiere, sradicano il mondo, devastano ciò che è locale, spaesano i paesi, fustigano le nazioni, diluiscono i popoli a esclusivo beneficio del mercato, l’unico a contare e a dettare legge», per usare «la definizione chimicamente pura del liberalismo».
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Magaldi: se cedono sul deficit i gialloverdi perdono la faccia
Riscrivere, insieme, le regole del mondo. Ingenuo? Forse, ma necessario. “Se non così, come? E se non ora, quando?”, si potrebbe dire, parafrasando Primo Levi. E’ la premessa – implicita – da cui sembra muovere, sempre, l’analisi che dell’attualità politica offre Gioele Magaldi, autore del bestseller “Massoni” (Chiarelettere, 2014), libro-evento che svela la natura supermassonica del potere mondiale. Da presidente del Movimento Roosevelt, meta-partito che si propone di rigenerare la politica italiana partendo da una piattaforma realmente progressista, fondata sul ripristino della sovranità democratica, Magaldi guarda con attenzione al possibile cantiere rappresentato dal governo gialloverde. Ipotesi: ribaltare la narrazione mainstream, ai cui diktat ideologici «si sono appecoronati l’ex sedicente centrodestra e l’ex sedicente centrosinistra», entrambi proni alle direttive dell’élite finanziaria – in sintesi: smantellare l’industria italiana e privatizzare il paese consegnandolo a un oligopolio di grandi poteri economici finto-europeisti, che in realtà utilizzano l’Ue per i loro obiettivi privatistici. Contro questo establishment, almeno fino a ieri, si era levata la voce dei 5 Stelle, gradualmente sovrastata da quella di Salvini. E ora, dopo tanto abbaiare, il governo Conte si appresta a calare clamorosamente le brache rinunciando al pur misero 2,4% di deficit previsto per il 2019?
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La faccia tosta di Prodi, il pifferaio della svendita dell’Italia
Romano Prodi è uno dei massimi artefici della mutazione genetica della sinistra italiana, avendo validamente contribuito a traghettarla dal campo socialista al campo liberale; fa parte (con Andreatta, Ciampi e Carli) del clan dei grandi burocrati che, prima, hanno sottratto al paese la sovranità monetaria, favorendo il divorzio fra il Tesoro e la banca centrale, poi hanno operato per sottrargli anche la sovranità nazionale (e quindi la sovranità popolare); è il grande liquidatore di quell’industria di Stato che aveva promosso il nostro sviluppo industriale, e che lui ha fatto sì che venisse trasferita in mani private; è fra coloro che hanno spianato la strada alla deregulation finanziaria, alla colonizzazione del nostro sistema produttivo da parte delle imprese transnazionali, alla distruzione del potere contrattuale dei sindacati; è – con Bill Clinton, Tony Blair, Schröder e altri – fra i massimi ispiratori della “sinistra” neoliberale e antikeynesiana; si è battuto perché l’Italia entrasse a qualsiasi costo nell’Unione Europea contribuendo a realizzare l’utopia di von Hayek, cioè la nascita di un’entità sovranazionale che ha neutralizzato i principi “criptosocialisti” della Costituzione del ‘48 e imbrigliato la nostra politica economica con vincoli esterni che le vietano di ridistribuire risorse a favore delle classi subalterne.Questo è l’uomo che ha oggi la faccia tosta di lanciare un appello (sulle pagine del “Corriere della Sera” di venerdì 5 ottobre) per salvare l’Italia che, parole sue, «rischia di diventare una democrazia illiberale». Democrazia illiberale è un termine interessante, quasi un lapsus. Il binomio democrazia-liberalismo si è infatti dissolto da un pezzo, come hanno spiegato, fra gli altri, Colin Crouch e Wolfgang Streeck: i nostri sono regimi post-democratici, nei quali la democrazia si riduce all’esercizio formale di alcune procedure, mentre le vere decisioni sono delegate ai “mercati” (mitiche entità impersonali dietro cui si celano gli interessi di ben precise caste economiche), in nome dei quali governano esecutivi che giustificano le proprie decisioni antipopolari con i vincoli (che loro stessi hanno scelto di autoimporsi!) dettati da istituzioni sovranazionali prive di legittimazione democratica. Regimi liberali, nel senso che vengono ancora rispettati i diritti civili e individuali (ma non quelli sociali!), ma certamente non democratici, come ha sperimentato sulla propria pelle il popolo greco.Parlando del pericolo dell’avvento di una “democrazia illiberale”, Prodi e soci manifestano la propria paura che possa ritornare una democrazia capace di far valere gli interessi delle classi subalterne. Un ritorno che, causa la latitanza delle forze politiche che avrebbero dovuto difenderla (quelle sinistre che oggi ballano come topolini al suono dei pifferi liberali), ha assunto il volto “barbaro” della rivolta populista: dall’elezione di Trump, alla Brexit, alla bocciatura del referendum renziano, passando per la valanga di voti raccolti da formazioni di diversa coloritura ideologica (Lega e M5S in Italia, Mélenchon e Le Pen in Francia, Podemos e Ciudadanos in Spagna, ecc.) ma accomunate dal rifiuto del pensiero unico liberal/liberista. Per certa gente la democrazia diventa illiberale quando capisce che il popolo non la segue più, che non riconosce più la loro autorevolezza di “esperti” e pretende di avere voce in capitolo su temi che è troppo rozza per capire. È allora che viene agitato lo spettro di una democrazia che può trasformarsi in “dittatura della maggioranza”, o addirittura suicidarsi, aprendo la strada all’avvento di regimi totalitari. È allora che si lanciano appelli come quello di Prodi (rilanciato da Gentiloni il giorno seguente) che invita a costruire un fronte “antipopulista” che dovrebbe andare da Macron a Tsipras.Quale sublime sfrontatezza: si chiama a raccolta Tsipras, l’uomo che ha tradito il voto del suo popolo, piegandosi alla volontà della Troika e accettando che la Grecia venisse ridotta allo stato di colonia, un uomo che non ha più alcun titolo per dirsi di sinistra (giustamente Mélenchon ne ha chiesto l’espulsione dal gruppo parlamentare della sinistra europea), accostandolo a Macron, l’uomo che dopo essere stato eletto in nome di una sacra unione antipopulista, è riuscito, a causa alle sue scellerate scelte antipopolari, a perdere in tempi brevissimi il consenso raccolto con quell’espediente. Senza operare alcuna riflessione autocritica, si rilancia un progetto che si è già dimostrato fallimentare, nella speranza di poter cancellare – con la complicità del terrorismo mediatico – l’evidenza dei fatti e di far dimenticare ai cittadini il recente passato. Non funzionerà. O meglio: non funzionerà per la maggioranza dei cittadini, funzionerà invece nei confronti dei resti d’una sinistra che continua a correre verso il baratro come un branco di lemming.(Carlo Formenti, “Prodi ovvero il pifferaio stonato”, da “Micromega” dell’8 ottobre 2018).Romano Prodi è uno dei massimi artefici della mutazione genetica della sinistra italiana, avendo validamente contribuito a traghettarla dal campo socialista al campo liberale; fa parte (con Andreatta, Ciampi e Carli) del clan dei grandi burocrati che, prima, hanno sottratto al paese la sovranità monetaria, favorendo il divorzio fra il Tesoro e la banca centrale, poi hanno operato per sottrargli anche la sovranità nazionale (e quindi la sovranità popolare); è il grande liquidatore di quell’industria di Stato che aveva promosso il nostro sviluppo industriale, e che lui ha fatto sì che venisse trasferita in mani private; è fra coloro che hanno spianato la strada alla deregulation finanziaria, alla colonizzazione del nostro sistema produttivo da parte delle imprese transnazionali, alla distruzione del potere contrattuale dei sindacati; è – con Bill Clinton, Tony Blair, Schröder e altri – fra i massimi ispiratori della “sinistra” neoliberale e antikeynesiana; si è battuto perché l’Italia entrasse a qualsiasi costo nell’Unione Europea contribuendo a realizzare l’utopia di von Hayek, cioè la nascita di un’entità sovranazionale che ha neutralizzato i principi “criptosocialisti” della Costituzione del ‘48 e imbrigliato la nostra politica economica con vincoli esterni che le vietano di ridistribuire risorse a favore delle classi subalterne.
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Salvini assediato, ha tutti contro: perfetto, così stravincerà
Chissà quanti popcorn si sta mangiando, Matteo Salvini, al pensiero che altrove stiano sbocciando champagne per festeggiare la sentenza del tribunale del riesame, quella per cui la Lega dovrà restituire i 49 milioni di rimborsi elettorali fittizi risalenti alla gestione Bossi-Belsito. Perché basterebbe scorrere le cronache a ritroso per capire come è dal 2013 che la Lega e Salvini si stanno preparando a questo momento. E che la strategia politica stessa del partito di Via Bellerio è figlia di questa consapevolezza: allargare la base del consenso e proiettarsi su scala nazionale per dar vita, qualora le condizioni lo richiederanno, a un nuovo movimento autonomo rispetto al passato leghista. Attenzione: non stiamo dicendo che la svolta sovranista della Lega sia esclusivamente figlia della necessità di salvare il partito dallo tsunami giudiziario. Stiamo dicendo che la strategia del leader della Lega è stata contemporaneamente di attacco a uno spazio politico da riempire, e di difesa della sopravvivenza del partito stesso e della sua sostenibilità finanziaria.A Salvini va riconosciuto di aver intuito che ci fosse una domanda di nazionalismo inevasa, che in Italia e in Europa, mentre Renzi veleggiava al 40% e Tsipras e Podemos sembravano le uniche alternative possibili, stesse iniziando a soffiare vento da destra, e dall’Est, che negli Stati Uniti di Obama e nel Regno Unito saldamente tra le mani di David Cameron vi fosse aria di rivoluzione. Nessuno ci credeva, lui sì. Un po’ per virtù, un po’ per necessità. Un po’ perché aveva capito che i voti di Berlusconi in Meridione erano in libera uscita, un po’ perché allargare la propria base elettorale al di fuori del perimetro settentrionale – con tanti saluti alla Padania e al Sole delle Alpi – gli avrebbe consentito di tentare il colpo gobbo: il sorpasso ai danni di Forza Italia e la presa di tutto il centrodestra, nel giorno del tramonto definitivo della stella di Re Silvio, attraverso la creazione di un soggetto politico nuovo. È stato un lavoro lungo e faticoso che Salvini ha intrapreso con una costanza e una tenacia da applausi. Un giorno andava a prendersi sputi e insulti a Napoli, il giorno dopo era ai cancelli dell’Ilva di Taranto, quello dopo ancora in giro sui treni regionali per la campagna elettorale in Sicilia.Nel frattempo, gli antichi feticci della Lega Nord che fu cadevano come petali di un fiore. Prima il simbolo della Padania, poi il colore verde, sostituito dal blu, quindi gli slogan, da “Prima il Nord” a “Prima gli italiani”, lui che nemmeno tifava la nazionale di calcio. Infine il nome stesso del partito, Lega, senza più alcun riferimento al settentrione. Se la strategia ha avuto successo, è perché tutti gli altri gli hanno concesso spazio e libertà per portarla avanti. Né Forza Italia, né il Movimento Cinque Stelle, né il Partito Democratico, ognuno con le proprie responsabilità, sono riusciti a togliere alla Lega e a Salvini mezzo elettore lombardo o veneto, nonostante federalismo e autonomia – al netto della burla dei referendum – siano state messe in soffitta, nonostante gli scandali bancari, nonostante i guai giudiziari. E nessuno, nel contempo, è riuscito a contrapporsi a Salvini nel centrosud, dove oggi, stando ai sondaggi, veleggia attorno al 20%, cinque punti sopra al Partito Democratico, quasi quindici più di Berlusconi.Contemporaneamente, il leader leghista le ha provate tutte per mettere al sicuro i soldi del partito. Ci ha provato col nuovo movimento “Noi con Salvini”, senza successo. E, ancora, con la mossa a sorpresa di Roberto Calderoli, che sul finire della scorsa legislatura è uscito dal gruppo della Lega Nord per fondare quello della Lega e basta. Nessuna scissione: solo la dimostrazione che quello che oggi governa è un nuovo soggetto politico, del tutto indipendente da quello che si era intascato illegalmente i rimborsi elettorali. Se oggi la Lega fosse identica a cinque anni fa sarebbe praticamente spacciata. Oggi, senza Nord, senza Padania, senza felpe e bandane verdi, non lo è. Non sappiamo cosa succederà domani. Se effettivamente la nuova Lega (senza Nord) dovrà sborsare 49 milioni sino all’ultimo centesimo, o se sarà necessario un’ulteriore allontanamento dalle radici della vecchia Lega (col Nord) attraverso la nascita di un nuovo soggetto politico unitario di centrodestra, del tutto alieno, almeno formalmente, alla vicenda giudiziaria che fu.Quel che sappiamo è che Salvini ci è arrivato nelle migliori condizioni possibili in cui ci poteva arrivare: al governo, da ministro dell’interno, con un consenso popolare stellare, con una linea politica completamente diversa da quella del Carroccio di cinque anni fa, con una marea di deputati e senatori di Forza Italia e Fratelli d’Italia che non vedono l’ora di saltare il fossato e di passare armi e bagagli sotto le insegne della Lega. E con la possibilità di guadagnarsi il centro della scena invocando un nuovo complotto, quello della magistratura ai suoi danni, e un nuovo nemico da abbattere. In altre parole, pronto a ogni evenienza. «Io non mollo e lavoro ancora più duro. Sorridente e incazzato», ha scritto sui suoi canali social. Avete capito, adesso, perché sorride?(Francesco Cancellato, “Se sperate che Salvini cada sui 49 milioni, state andando a sbattere contro a un muro”, da “Linkiesta” del 7 settembre 2018).Chissà quanti popcorn si sta mangiando, Matteo Salvini, al pensiero che altrove stiano sbocciando champagne per festeggiare la sentenza del tribunale del riesame, quella per cui la Lega dovrà restituire i 49 milioni di rimborsi elettorali fittizi risalenti alla gestione Bossi-Belsito. Perché basterebbe scorrere le cronache a ritroso per capire come è dal 2013 che la Lega e Salvini si stanno preparando a questo momento. E che la strategia politica stessa del partito di Via Bellerio è figlia di questa consapevolezza: allargare la base del consenso e proiettarsi su scala nazionale per dar vita, qualora le condizioni lo richiederanno, a un nuovo movimento autonomo rispetto al passato leghista. Attenzione: non stiamo dicendo che la svolta sovranista della Lega sia esclusivamente figlia della necessità di salvare il partito dallo tsunami giudiziario. Stiamo dicendo che la strategia del leader della Lega è stata contemporaneamente di attacco a uno spazio politico da riempire, e di difesa della sopravvivenza del partito stesso e della sua sostenibilità finanziaria.
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Stiglitz: ma all’Italia conviene lasciare l’euro, ecco come
Qual è il modo migliore per lasciare l’euro? Questa domanda è riaffiorata dopo che in Italia è salito al potere un governo euroscettico. Sì, i ministri chiave si sono formalmente impegnati a mantenere la valuta comune, ma quegli impegni non sono immutabili. Devono essere considerati nel contesto del più ampio potere di contrattazione italiano: il nuovo governo vuole chiarire che non si tratta solo di un parvenu. Preferirebbe rimanere all’interno dell’Eurozona, ma pretende dei cambiamenti. I nuovi leader italiani hanno ragione a dire che l’Eurozona ha un forte bisogno di riforme. L’euro è viziato sin dal suo concepimento. Per paesi come l’Italia, ha eliminato due meccanismi chiave di regolazione: il controllo dei tassi di interesse e di cambio. E invece di mettere qualcosa al loro posto, ha introdotto strette restrizioni su debiti e deficit – ulteriori ostacoli alla ripresa economica. Il risultato per la zona euro è stato una crescita più lenta, soprattutto per i paesi più deboli al proprio interno. L’euro avrebbe dovuto inaugurare una maggiore prosperità, che a propria volta avrebbe portato ad un rinnovato impegno per una maggior integrazione europea. Ha fatto esattamente il contrario – aumentare le divisioni all’interno dell’Ue, in particolare tra paesi creditori e debitori.Le divisioni risultanti hanno inoltre reso più difficile la risoluzione di altri problemi, in particolare la crisi migratoria, per la quale le norme europee impongono un onere ingiusto ai paesi in prima linea, come Grecia e Italia. Questi sono anche i paesi debitori, già afflitti da difficoltà economiche. Non c’è da stupirsi si ribellino. Cosa bisogna fare è ben noto. Il problema è che la Germania non vuole farlo. L’Eurozona ha da tempo riconosciuto la necessità di un’unione bancaria. Berlino insiste però nel rinviare la riforma chiave – una comune assicurazione sui depositi – che ridurrebbe la fuga di capitali dai paesi deboli: quest’ultima è uno dei fattori chiave che spiega la profondità del declino dei paesi in crisi. Le politiche economiche interne della Germania aggravano i problemi della zona euro. La principale sfida economica affrontata dai paesi in un’unione monetaria è l’incapacità di adeguare i tassi di cambio disallineati. Nell’Eurozona, l’onere dell’adeguamento è attualmente imposto ai paesi debitori, che già soffrono di bassi crescita e redditi. Se la Germania avesse una politica fiscale e salariale più espansiva, parte della pressione verrebbe tolta da questi paesi.Se la Germania non è disposta ad intraprendere i passi necessari per migliorare l’unione monetaria, dovrebbe fare la cosa migliore: lasciare l’Eurozona. Come detto da Soros, dovrebbe o guidare l’area o andarsene. Con la Germania (e forse altri paesi dell’Europa settentrionale) fuori dall’unione monetaria, il valore dell’euro si ridurrebbe e le esportazioni dell’Italia e di altri paesi dell’Europa meridionale aumenterebbero. La principale fonte di disallineamento sparirebbe. Allo stesso tempo, l’aumento del tasso di cambio tedesco farebbe molto per curare uno degli aspetti più destabilizzanti dell’economia globale: lo squilibrio commerciale a favore di Berlino. Il guaio, naturalmente, è che la Germania non vuole intraprendere nessuna delle due strade. Ciò lascia i cittadini di paesi come Grecia ed Italia con una scelta che non dovrebbero esser costretti a fare: tra l’appartenenza all’Eurozona e la prosperità economica. Un timido e inesperto governo greco ha scelto di rimanere nell’unione monetaria. Il risultato è stato stagnazione. Nel 2015 il Pil del paese era crollato del 25% rispetto al livello pre-crisi. Da allora, si è appena mosso.L’Italia ha l’opportunità di fare una scelta diversa. In assenza di riforme significative, i benefici di lasciare l’euro sono chiari e considerevoli. Un cambio più basso le consentirebbe maggiori esportazioni. I turisti troverebbero il paese una destinazione ancor più attraente. Tutto ciò stimolerebbe la domanda e aumenterebbe le entrate del governo. La crescita aumenterebbe e l’alto tasso di disoccupazione (11,2%, con il 33,1% di disoccupazione giovanile) diminuirebbe. Ci sono, naturalmente, molte altre ragioni per il malessere italico, e queste saranno tutt’al più parzialmente risolte lasciando l’euro. Governi come quelli di Trump o di Berlusconi – dominato da corrotti cercatori di rendite, senza comprensione delle vere basi della crescita sostenibile a lungo termine – non forniscono la leadership politica necessaria per una crescita forte e sostenibile. Allo stesso tempo, tuttavia, la crescita lenta ed iniqua che l’Italia ha vissuto come risultato dell’euro fornisce terreno fertile a partiti populisti. Ci sarebbero anche ulteriori vantaggi politici. Un’Italia più prospera avrebbe maggiori probabilità di cooperare in altri settori chiave in cui l’Europa ha bisogno di lavorare insieme: migrazione, una forza di difesa europea, sanzioni contro la Russia, politica commerciale.Le politiche commerciali o migratorie producono benefici per l’intero paese, ma ci sarebbero anche dei perdenti – e i vincoli fiscali imposti dalla zona euro hanno reso quasi impossibile fornire una tutela adeguata a chi perde. Un’Italia al di fuori dell’Eurozona sarebbe in una posizione migliore per condividere i benefici delle proprie politiche internazionali, mitigando al contempo il dolore ad esse associato. La sfida, ovviamente, sarà trovare un modo per lasciare la zona euro in modo da minimizzare i costi economici e politici. Una massiccia ristrutturazione del debito, fatta con particolare attenzione alle conseguenze per le istituzioni finanziarie nazionali, è essenziale. Senza di essa, l’onere del debito denominato in euro salirebbe, controbilanciando forse gran parte dei potenziali guadagni. Tali ristrutturazioni sono una parte fisiologica di grandi svalutazioni. A volte viene fatto di nascosto – come quando gli Usa abbandonarono il gold standard. A volte apertamente, come in Islanda ed Argentina. Tali ristrutturazioni del debito dovrebbero però essere viste come un rischio intrinseco dell’investimento transnazionale, una delle ragioni per le quali le obbligazioni “straniere” spesso danno un premio per il rischio.Da un punto di vista economico, la cosa più semplice da fare sarebbe che le entità italiane (governi, aziende e privati) semplicemente ridenominino i debiti dall’euro alla nuova lira. A causa però di complessità giuridiche all’interno dell’Ue, e degli obblighi internazionali del paese, potrebbe essere preferibile adottare una super-legge sul fallimento, sul modello del Chapter 11 americano. Questa permette un rapido ricorso alla ristrutturazione del debito a qualsiasi entità per la quale la nuova valuta presenta gravi problemi economici. Le leggi sulla bancarotta restano un’area di competenza di ciascuno degli Stati nazionali dell’Ue. L’Italia potrebbe persino scegliere di non annunciare che sta per lasciare l’euro. Potrebbe semplicemente emettere, ad esempio, titoli di Stato, che dovrebbero essere accettati come pagamento per qualsiasi obbligo di debito in euro. Una diminuzione del valore di queste obbligazioni equivarrebbe a una svalutazione. Ciò allo stesso tempo ripristinerebbe l’efficacia della politica monetaria italiana: cambiamenti nella politica della banca centrale inciderebbero sul valore delle obbligazioni.Si leverebbe naturalmente un polverone da parte degli altri membri. Introdurre una moneta parallela, ancorché in modo informale, violerebbe quasi certamente le regole della zona euro e sarebbe certamente contro il suo spirito. In questo modo però l’Italia lascerebbe decidere gli altri membri se espellerla. Roma potrebbe scommettere sul fatto che i membri più irritabili dell’Unione non compieranno mai un’azione così forte, che confermerebbe la sfilacciamento della zona euro. L’Italia avrebbe allora ottenuto due risultati con una sola mossa: rimarrebbe parte dell’Eurozona ma avrebbe compiuto una svalutazione. E se dovesse perdere la scommessa, l’onere politico dell’aver lasciato la zona euro cadrebbe ancor più chiaramente sui suoi “partner”. Sarebbero loro ad aver fatto la scelta finale. La Grecia si è arresa ad esser strangolata dalla Bce. Ma non doveva. Atene era infatti già ben avviata nella creazione di un sistema (un meccanismo di pagamento elettronico sotto la nuova dracma) che avrebbe facilitato una transizione dall’Eurozona. I progressi tecnologici degli ultimi tre anni rendono la creazione di sistemi di moneta elettronica sempre più semplice ed efficace. Se l’Italia decidesse di usarne uno, non dovrebbe nemmeno affrontare le difficoltà di stampare nuova valuta. Potrebbe anche alleviare il dolore della propria dipartita coordinando l’uscita con altri paesi in posizione simile.Il variegato gruppo di paesi che ora forma l’Eurozona è ben lungi da quella che gli economisti chiamano un’area valutaria ottimale. Ci sono troppe diversità, per farlo funzionare occorrono migliori assetti istituzionali, di quelli del tipo su cui la Germania ha posto il veto. Una zona meridionale sarebbe molto più vicina ad un’area valutaria ottimale. Ed anche se è difficile organizzare un’uscita coordinata in un breve periodo di tempo, se l’Italia dovesse avere successo, altri paesi quasi sicuramente seguiranno. Non bisogna ovviamente sottovalutare i costi di una grande svalutazione. Qualsiasi grande cambiamento in un prezzo-chiave in un’economia è una perturbazione significativa. Il prezzo del cambio estero è, ovviamente, fondamentale in qualsiasi economia aperta. Ha un effetto-domino sui prezzi di tutti i beni e servizi. Alcune – forse molte – aziende falliranno. Alcuni – forse molti – privati vedranno i propri redditi reali abbassarsi. È però altrettanto importante non sottovalutare i costi dell’attuale malessere italiano. Se la sua economia, nei 20 anni dalla creazione dell’euro, fosse cresciuta al tasso della zona euro nel suo insieme, il suo Pil sarebbe stato più alto del 18%.Il costo della disoccupazione persistente, specialmente tra i giovani, è enorme. I giovani tra i 20 e i 30 anni dovrebbero affinare le proprie abilità nella formazione sul posto di lavoro. Invece sono a casa oziosi, molti di loro a sviluppare un risentimento verso le élite e le istituzioni che incolpano per la propria situazione. La conseguente mancanza di formazione del capitale umano ridurrà la produttività anche per gli anni a venire. In un mondo ideale, l’Italia non dovrebbe essere costretta a lasciare l’Eurozona. L’Europa potrebbe riformare l’unione valutaria e fornire una migliore protezione a chi è danneggiato dal commercio e dalla migrazione. In assenza però di un cambio di direzione da parte dell’Ue nel suo insieme, l’Italia deve ricordare che ha un’alternativa alla stagnazione economica e che ci sono modi per lasciare la zona euro in cui i benefici probabilmente supererebbero i costi. Se il nuovo governo dovesse pilotare con successo tale uscita, l’Italia starebbe meglio. E così il resto d’Europa.(Joseph Stiglitz, “L’Italia ha ragione a voler lasciare l’euro”, da “Politico.Eu” del 25 giugno 2018, post tradotto fa Hmg per “Come Don Chisciotte”).Qual è il modo migliore per lasciare l’euro? Questa domanda è riaffiorata dopo che in Italia è salito al potere un governo euroscettico. Sì, i ministri chiave si sono formalmente impegnati a mantenere la valuta comune, ma quegli impegni non sono immutabili. Devono essere considerati nel contesto del più ampio potere di contrattazione italiano: il nuovo governo vuole chiarire che non si tratta solo di un parvenu. Preferirebbe rimanere all’interno dell’Eurozona, ma pretende dei cambiamenti. I nuovi leader italiani hanno ragione a dire che l’Eurozona ha un forte bisogno di riforme. L’euro è viziato sin dal suo concepimento. Per paesi come l’Italia, ha eliminato due meccanismi chiave di regolazione: il controllo dei tassi di interesse e di cambio. E invece di mettere qualcosa al loro posto, ha introdotto strette restrizioni su debiti e deficit – ulteriori ostacoli alla ripresa economica. Il risultato per la zona euro è stato una crescita più lenta, soprattutto per i paesi più deboli al proprio interno. L’euro avrebbe dovuto inaugurare una maggiore prosperità, che a propria volta avrebbe portato ad un rinnovato impegno per una maggior integrazione europea. Ha fatto esattamente il contrario – aumentare le divisioni all’interno dell’Ue, in particolare tra paesi creditori e debitori.
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Dugin: Italia, l’inizio della rivoluzione che cambierà il mondo
Oggi la democrazia liberale si definisce come il potere delle minoranze non elette sulla maggioranza dei cittadini. Quelle fanno i colpi di Stato contro la Costituzione, le maggioranze reagiscono allora votando i Salvini, i Di Maio, le Marine Le Pen, o i Kurz. Destra o sinistra, non conta più. È una rivolta di popolo contro le élite, cioè contro le minoranze che vogliono difendere apertamente gli interessi delle minoranze. Se questa è la nuova forma della democrazia, ecco, al popolo non piace. In tutto questo però ci sono anche i migranti, spesso al centro di questo scontro. È il punto simbolico più grande. I migranti sono il caso in cui una questione tecnica e marginale, cioè la gestione dell’immigrazione, rivela un contrasto ideologico insanabile: l’ideologia liberale dominante si fonda sull’assimilazione dell’uomo con il cittadino. È, in altre parole, l’effetto dell’ideologia dei diritti dell’uomo. Secondo questa visione, ogni essere umano gode di particolari diritti universali. Questa posizione ideologica ha come conseguenza che gli Stati siano obbligati a trattare tutti, anche gli stranieri e gli immigrati, come se fossero loro cittadini. Ma questa è solo l’applicazione pratica di un’ideologia più ampia, che invece vuole distruggere e assimilare le tradizioni, le culture e le storie dei popoli.E allora il popolo ha una reazione: sarà pure viscerale, sarà organica, ma va al punto perché ha una sua origine politica, ideologica, metafisica. Resiste, anzi combatte questa ideologia. E allora succede che il semplice migrante, la semplice nave che li trasporta – elementi che di per sé non avrebbero alcun interesse sociale – diventano in questo campo di battaglia qualcosa di più grande: il segno della grande scelta di radicalità di questa civiltà. I liberali insistono in questa ideologia di forte ostilità al popolo. Per loro il popolo è una cosa negativa, perché è rischioso e incontrollabile e, se male indirizzato, potrebbe portare all’instaurarsi della dittatura o al governo di un leader forte. Allora la lotta che oggi viene fatta dalle élite contro Salvini, Di Maio e Orban altro non è che la lotta contro l’idea che l’identità sia una cosa positiva. Per i liberali difendere il valore dell’identità di un cittadino o difendere l’identità nazionale costituisce il peggior male possibile, una cosa da distruggere. Ma distruggere l’identità significa distruggere il popolo: e da qui nasce il populismo, che altro non è che l’accusa fatta al popolo di essere popolo.Noi stiamo vedendo, di fronte a questa repressione, la reazione dei sovranisti: ebbene, questo è l’inizio della grande rivoluzione anti-liberale. Non è una correzione del liberalismo, no: è l’inizio della grande lotta sistematica dei popoli contro le élite liberali, contro le ideologie portate avanti dai Clinton, da Obama, da Soros, contro la promozione della globalizzazione sociale e politica. Non – e sia chiaro – non contro il controllo dell’immigrazione. E’ il popolo o è l’élite a governare? Si può dire che ci siano, in realtà, due governi: quello del popolo, rappresentato legittimamente in Italia, in Ungheria e in Austria, e quello europeo, che decide ogni volta in senso opposto. Questo è interessante. È l’inizio della lotta politica della nuova generazione, anzi della politica stessa della nuova generazione che – secondo me – dovrà portare alla creazione del populismo integrale. Un populismo che non sia né di destra né di sinistra, ma rappresentativo del popolo.Oggi in Italia assistiamo a una novità politica importante, un primo passo, cioè un’alleanza tra destra e sinistra. Già questo è notevole: cosa sarebbe successo se Marine Le Pen si fosse alleata con Jean-Luc Mélénchon? Il caos. O Donald Trump con Bernie Sanders? Sarebbe scoppiato tutto il sistema. O se Syriza si fosse unita ad Alba Dorata? Avrebbero cacciato la Grecia da tutto, sia dall’euro che dall’Unione Europea. E invece, ecco: in Italia è successo. Per la prima volta si supera la divisione destra-sinistra. Ha vinto Salvini, che con le sue felpe e le sue magliette ha contribuito a far smetter di demonizzare il populismo, e anche Di Maio. Insieme a loro ha vinto anche il popolo, in questa nuova lotta contro le élite per ritrovare la propria identità. Ma dove si trova l’identità di un popolo? Nella sua cultura. È una questione aperta. Per me il Rinascimento italiano è la forma culturale assoluta. Ha avuto effetti grandissimi su tutti gli altri popoli, anche su noi russi. Io adoro il Rinascimento e credo che l’identità italiana (poi magari mi sbaglio) sia nella sua radice un’identità rinascimentale, non medievale. Credo anche che il Risorgimento sia la continuazione del Rinascimento in un altro ciclo storico.(Alexander Dugin, dichiarazioni rilasciate a Dario Ronzoni per l’intervista “L’Italia è l’inizio della grande rivoluzione populista che cambierà il mondo”, pubblicata da “Linkiesta” il 23 giugno 2018. Filosofo, Dugin è presentato come “controverso ma notevole personaggio dell’estrema destra russa”).Oggi la democrazia liberale si definisce come il potere delle minoranze non elette sulla maggioranza dei cittadini. Quelle fanno i colpi di Stato contro la Costituzione, le maggioranze reagiscono allora votando i Salvini, i Di Maio, le Marine Le Pen, o i Kurz. Destra o sinistra, non conta più. È una rivolta di popolo contro le élite, cioè contro le minoranze che vogliono difendere apertamente gli interessi delle minoranze. Se questa è la nuova forma della democrazia, ecco, al popolo non piace. In tutto questo però ci sono anche i migranti, spesso al centro di questo scontro. È il punto simbolico più grande. I migranti sono il caso in cui una questione tecnica e marginale, cioè la gestione dell’immigrazione, rivela un contrasto ideologico insanabile: l’ideologia liberale dominante si fonda sull’assimilazione dell’uomo con il cittadino. È, in altre parole, l’effetto dell’ideologia dei diritti dell’uomo. Secondo questa visione, ogni essere umano gode di particolari diritti universali. Questa posizione ideologica ha come conseguenza che gli Stati siano obbligati a trattare tutti, anche gli stranieri e gli immigrati, come se fossero loro cittadini. Ma questa è solo l’applicazione pratica di un’ideologia più ampia, che invece vuole distruggere e assimilare le tradizioni, le culture e le storie dei popoli.
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Via la Troika, la Grecia non esiste più: le hanno rubato tutto
E finalmente la Troika lascia la Grecia. Spremuta fino all’osso e dissanguata. Una guerra avrebbe fatto meno danni. Era arrivata perché la Grecia non aveva fatto i compiti e aveva un debito troppo elevato. La Grecia è entrata nel 2010 nel “programma di aiuti” Ue col rapporto debito/Pil al 146%. Tutti a dire “Grecia sprecona”. Oggi è al 180%: gli imperscrutabili successi della Troika. La Grecia è un paese devastato. Neppure una guerra avrebbe prodotto tanti danni. Il potere d’acquisto dei greci è crollato del 28,3% dal 2008 mentre la bolletta fiscale è salita da 49 a 50 milioni. Le famiglie che vivono in estrema povertà sono il 21% (dati Eurostat), il doppio del 2010. L’importo delle pensioni – tagliate 13 volte – è calato in media del 14% e a inizio 2019 è prevista un’altra sforbiciata. Il settore pubblico ha perso 200.000 posti di lavoro in otto anni. Nel 2017 ben 133.000 persone (+333%) hanno rinunciato all’eredità perché non avevano i soldi per pagare le tasse. La Grecia è una entità astratta. Solo geografica. Come un corpo abbandonato in un vicolo dal vampiro che lo ha prosciugato dell’ultima goccia di sangue. Tale e quale.La Grecia impiegherà decenni per riprendersi, perché non ha più beni. Né pubblici né privati. Tutto venduto. Svenduto. Francia e soprattutto Germania hanno acquisito a prezzi da Eurospin. La Grecia ha “goduto” di tre tranche di “aiuti” per un totale di circa 240 miliardi di euro usciti dai bilanci di 19 paesi. Sono serviti esclusivamente a mettere in sicurezza le banche tedesche e francesi dall’esposizione in titoli di Stato greci. Intanto emerge che la Germania è stata un grande beneficiario del “programma di salvataggio” della Grecia e ha guadagnato dal 2010 al 2017 in totale 2,9 miliardi dagli interessi, come è emerso dalla risposta del governo tedesco ad un’interrogazione del partito dei verdi. Evviva! Ma non finisce qui. La Troika lascia la Grecia con l’ultimo monito. Oltre a un ulteriore taglio delle pensioni a partire dal 2019 e a ulteriori privatizzazioni (non si sa cosa ci sia ancora da privatizzare) la Grecia deve mantenersi in avanzo primario. Fino al 2060 (per altri 42 anni!!) deve mantenere un avanzo primario del 2%.(Stefano Alì, “La troika lascia la Grecia: evviva, ma la Grecia non esiste più”, dal blog “Il Cappello Pensatore” del 24 giugno 2018. Mentre i media mainstream salutano la “fine della crisi” per Atene, con la cessazione del commissariamento formale – che la Troika Ue ora affida in esclusiva al governo Tsipras, la Grecia ha perso completamente il controllo su tutte le infrastrutture statali, ha falcidiato salari e pensioni, ha ridotto la popolazione la fame, ha lasciato i bambini senza i necessari medicinali, neppure negli ospedali. Porti e aeroporti non sono più in mani greche, ma straniere. E tutte le reti di servizi, ieri statali, oggi sono private. Tecnicamente, la Grecia “fuori pericolo” non esiste più, come Stato. «Se la Germania avesse dovuto passare ciò che ha passato la Grecia – scrive Efthymis Angeloudis in un post ripreso da “Gli Stati Generali” – una pensione di 1200 euro sarebbe ora ridotta a 750 euro, ad esempio; ci sarebbero 14 milioni di disoccupati, e negli ospedali i pazienti sarebbero costretti a portarsi le bende da casa»).E finalmente la Troika lascia la Grecia. Spremuta fino all’osso e dissanguata. Una guerra avrebbe fatto meno danni. Era arrivata perché la Grecia non aveva fatto i compiti e aveva un debito troppo elevato. La Grecia è entrata nel 2010 nel “programma di aiuti” Ue col rapporto debito/Pil al 146%. Tutti a dire “Grecia sprecona”. Oggi è al 180%: gli imperscrutabili successi della Troika. La Grecia è un paese devastato. Neppure una guerra avrebbe prodotto tanti danni. Il potere d’acquisto dei greci è crollato del 28,3% dal 2008 mentre la bolletta fiscale è salita da 49 a 50 milioni. Le famiglie che vivono in estrema povertà sono il 21% (dati Eurostat), il doppio del 2010. L’importo delle pensioni – tagliate 13 volte – è calato in media del 14% e a inizio 2019 è prevista un’altra sforbiciata. Il settore pubblico ha perso 200.000 posti di lavoro in otto anni. Nel 2017 ben 133.000 persone (+333%) hanno rinunciato all’eredità perché non avevano i soldi per pagare le tasse. La Grecia è una entità astratta. Solo geografica. Come un corpo abbandonato in un vicolo dal vampiro che lo ha prosciugato dell’ultima goccia di sangue. Tale e quale.
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Telegraph: l’Ue non si illuda, la sfida italiana comincia oggi
Prepariamoci: al di là dei sorrisi e dello strano “ottimismo dei mercati”, la vera battaglia comincia solo adesso. Da una parte il governo “gialloverde”, costretto ad allentare l’austerity Ue per attuare il suo programma, e dall’altra il Quirinale, probabilissimo “custode” dello staus quo fondato sul rigore euro-tedesco. Lo sostiene sul “Telegraph” l’inglese Ambrose Evans-Pritchard, eminente analista politico-finanziario e attento osservatore della crisi italiana, vera propria cartina di tornasole dello stato di coma politico ed economico dell’Unione Europea. Il nuovo ministro dell’ecomomia, Giovanni Tria, «è un sostenitore della reflazione fiscale e dello stampare moneta per salvare gli Stati europei con un alto debito, fatto che lo porterà su una rotta di collisione con le élite politiche di Bruxelles e della Germania», afferma Pritchard. «Dopo settimane di politica che si potrebbe definire di rischio calcolato, il radicale M5S e i nazionalisti della Lega sono riusciti in gran parte a imporre la loro scelta euroscettica all’establishment politico italiano». Il professor Tria? «E’ un critico moderato ma tenace del Fiscal Compact, imposto dall’Eurozona e dall’apparato dell’Emu per accentuare l’austerità e deflazionare il debito». La sue idee in economia «potrebbero rivelarsi altrettanto minacciose, per Berlino e il regime politico dell’euro, di quelle del precedente candidato bloccato dal veto presidenziale, Paolo Savona», anche se Tria «non parla apertamente di “Piano B” per lasciare l’euro né definisce l’Unione Monetaria una “gabbia tedesca”».Mentre sostiene che «non ha senso» uscire dall’euro, Giovanni Tria dice anche che è insensato insistere con la moneta unica se i leader dell’Ue si rifiutano di renderla praticabile, scrive Evans-Pritchard in un articolo tradotto da “Come Don Chisciotte”. Il vero rischio per l’unione monetaria «è l’implosione, piuttosto che l’uscita». Per ora i mercati finanziari stanno reagendo in modo euforico all’accordo in extremis fra i partiti “ribelli” e il presidente Sergio Mattarella, finito nella bufera per il veto su Savona. L’accordo raggiunto (su pressione Usa, a quanto pare) evita la prospettiva di una protesta politica di massa «contro un “governo tecnico” che nessuno ha eletto, seguito da un voto in tempi rapidi che avrebbe probabilmente portato alla vittoria schiacciante dei due gruppi “ribelli” e alla distruzione totale del centro politico italiano». Lorenzo Codogno, ex capo economista del Tesoro, avverte che discesa dello spread potrebbe essere una falso indizio: Codogno «teme una lunga guerra di trincea tra il governo “ribelle” e il presidente Mattarella, sull’Europa e sulla disciplina fiscale». A sua volta, per Silvia Ardagna (Goldman Sachs) l’esuberanza del mercato è «fuori luogo». La Ardagna pensa che «i lunghi mesi di confronto sulle regole di spesa riapriranno la questione dell’Italexit e del futuro dell’euro».Le proposte della coalizione guidata da Conte, ricorda Evans-Pritchard, ammontano ad un allentamento di bilancio pari al 6% del Pil. E quindi «sono fondamentalmente incompatibili con l’attuale architettura monetaria, d’ispirazione tedesca». Il “contratto” di governo comprende infatti Flat Tax e reddito di cittadinanza, nonché un costoso rinnovo della riforma Fornero delle pensioni e l’inversione dell’aumento dell’Iva. Se ne occuperà in primis proprio Giovanni Tria, «da sempre un fustigatore del mercantilismo tedesco». Il nuovo ministro dell’economia, spiega Evans-Pritchard, sostiene che Berlino abbia effettivamente usato l’Unione Monetaria per garantirsi un vantaggio competitivo strutturale, che ha portato a un permanente e illegale avanzo di conto corrente [bilancio delle partite correnti] pari all’8,5% del Pil, a scapito dei partner dell’Eurozona. Il meccanismo di autocorrezione è bloccato, e gli Stati debitori del Sud Europa sono intrappolati in un circolo vizioso. Il presunto rimedio della svalutazione interna per recuperare redditività porta a una distorsione di tipo restrittivo [decrescita] per l’Eurozona nel suo complesso e ha una fatale contraddizione: soffoca il Pil nominale di quelle economie che sono già in difficoltà e distorce ulteriormente la traiettoria del debito. Alla lunga, è sicuramente autodistruttivo.Nel saggio “Ripensare il tabù della monetizzazione dei disavanzi per salvare l’euro”, il professor Tria scrive che il tentativo di ripristinare la sostenibilità del debito attraverso l’austerità è fallito: «L’unica via d’uscita è un forte stimolo fiscale per aumentare la domanda e colmare il divario di produttività, accompagnato da condizionati e temporanei finanziamenti monetari a livello europeo». Negli ambienti delle banche centrali, osserva Evans-Pritchard, questa politica è conosciuta come “helicopter money”, ed è un anatema per la Bundesbank e per la cultura ordoliberista tedesca. «Il saggio attinge pesantemente al lavoro del britannico Adair Turner, un campione a livello globale del finanziamento monetario e controllato dei deficit, per i paesi caduti in una trappola di liquidità». Che il professor Tria e l’alleanza Lega-M5S stiano attivamente spingendo per l’Italexit – o “Libertalia”, come alcuni preferiscono dire – è una discussione finanche oziosa, scrive l’analuista inglese. «Entrambi accettano che in Italia un referendum sull’euro sia incostituzionale. Ma, avendo ben studiato ogni aspetto del fiasco in Grecia, sono passati a tattiche più sottili. Stanno preparando delle soluzioni per minare l’Unione Monetaria dall’interno, se l’Ue rifiutasse di accettare il fatto compiuto dei loro piani di bilancio». Il che sarebbe «un ricatto», secondo Clemens Fuest, direttore dell’istituto tedesco Ifo.Il piano Lega-M5S per la creazione di una valuta parallela, i Minibot, è ancora nel “contratto” per il governo. «La proto-lira può essere attivata in qualsiasi momento come mezzo di autodifesa qualora la Bce aumentasse la posta, limitando la liquidità del sistema bancario italiano o ricorrendo al pretesto delle garanzie collaterali per fermare il roll-over [rinnovo] dei titoli obbligazionari italiani». Il momento in cui il governo Conte emetterà questa valuta parallela «sarà quello della fine dell’euro», avverte il professor Costas Lapavitsas dell’università di Londra. Gli ottimisti pro-Europa hanno interpretato il consenso sui ministri da parte di Mattarella come un passo indietro della Lega e dei 5 Stelle, «ma potrebbe anche essere visto come una dissimulata marcia indietro dello stesso presidente, un residuo non eletto della “vecchia casta”, che stava operando in una zona grigia della sua autorità costituzionale», scrive Evans-Pritchard. «Si era ben presto reso conto, dalle reazioni viscerali che aveva causato, che stava giocando con il fuoco. Prima mettendo il veto al professor Savona e poi cercando d’imporre un regime tecnocratico privo del sostegno del Parlamento, impegnato in politiche espressamente rifiutate a marzo dalla grande maggioranza degli elettori italiani. Come ha detto Savona in una e-mail che è trapelata, il presidente non capiva che la nazione era “in ribellione”. Ma ora senz’altro l’ha capito».Per l’analista inglese, resta comunque «una strana ingenuità, fra gli insider dell’Ue e gli investitori stranieri, sull’identità politica dei ribelli Lega-Grillini». Pensano che Giancarlo Giorgetti sia un lealista pro-euro? Lo scorso settembre, in televisione, spiegava perché l’Italia dovrebbe abbandonare la moneta unica, «per evitare di essere ridotta a un deindustrializzato guscio vuoto». Lo stesso Di Maio, a dicembre, aveva accusato l’austerità imposta dalla Merkel per la chiusura di 573 aziende al giorno nel Sud. «Se non ci liberiamo dell’euro il Mezzogiorno italiano, diventerà una terra desolata e spopolata». Secondo Evans-Pritchard, «è un’ipotesi molto coraggiosa scommettere che l’alleanza Lega-grillini possa cambiare, come ha fatto Syriza in Grecia, abbandonando le sue fondamentali promesse elettorali per mantenere l’Italia nell’euro. L’Ue dovrebbe poterli incontrare a metà strada, se vuole evitare il disastro, accettando la fine del Fiscal Compact. Ma se lo fa – aggiunge il notista del “Telegraph” – rischia di perdere il consenso politico tedesco per il progetto dell’euro». Un gruppo di 154 economisti tedeschi avverte che la scivolata dell’Eurozona verso una “unione del debito” sta minando i poteri di bilancio del Bundestag e costituisce una crescente minaccia per la democrazia tedesca. L’Istituto Ifo vuole un meccanismo legale per permettere ad un qualsiasi paese di lasciare l’euro: e il presupposto è che la stessa Germania possa averne bisogno. «Se l’Ue consente agli italiani di fare ciò che vogliono sulla spesa, i tedeschi non lo accetteranno», prevede Lapavitsas: «L’euro morirebbe comunque, ma in un modo diverso. Sarebbe solo una morte più lenta».Prepariamoci: al di là dei sorrisi e dello strano “ottimismo dei mercati”, la vera battaglia comincia solo adesso. Da una parte il governo “gialloverde”, costretto ad allentare l’austerity Ue per attuare il suo programma, e dall’altra il Quirinale, probabilissimo “custode” dello staus quo fondato sul rigore euro-tedesco. Lo sostiene sul “Telegraph” l’inglese Ambrose Evans-Pritchard, eminente analista politico-finanziario e attento osservatore della crisi italiana, vera propria cartina di tornasole dello stato di coma politico ed economico dell’Unione Europea. Il nuovo ministro dell’ecomomia, Giovanni Tria, «è un sostenitore della reflazione fiscale e dello stampare moneta per salvare gli Stati europei con un alto debito, fatto che lo porterà su una rotta di collisione con le élite politiche di Bruxelles e della Germania», afferma Pritchard. «Dopo settimane di politica che si potrebbe definire di rischio calcolato, il radicale M5S e i nazionalisti della Lega sono riusciti in gran parte a imporre la loro scelta euroscettica all’establishment politico italiano». Il professor Tria? «E’ un critico moderato ma tenace del Fiscal Compact, imposto dall’Eurozona e dall’apparato dell’Emu per accentuare l’austerità e deflazionare il debito». La sue idee in economia «potrebbero rivelarsi altrettanto minacciose, per Berlino e il regime politico dell’euro, di quelle del precedente candidato bloccato dal veto presidenziale, Paolo Savona», anche se Tria «non parla apertamente di “Piano B” per lasciare l’euro né definisce l’Unione Monetaria una “gabbia tedesca”».
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Il Telegraph: l’euro-golpe sta mettendo in pericolo l’Italia
Le élite italiane favorevoli all’euro si sono spinte troppo in avanti. Il presidente Sergio Mattarella ha creato lo straordinario precedente che nessun movimento politico, o coalizione di partiti, potrà mai prendere il potere se sfida l’ortodossia dell’Unione Monetaria. Senza rendersene conto, ha inquadrato gli eventi come se fossero una battaglia tra il popolo italiano e un’eterna “casta” fedele ad interessi stranieri, facendo il gioco dei ribelli grillini e dei nazionalisti antieuro della Lega. Per giustificare il suo veto all’euroscetticismo ha incautamente invocato lo spettro dei mercati finanziari ma, nell’insieme, le sue azioni hanno reso la situazione infinitamente peggiore. Lo spread sulle obbligazioni italiane a 10 anni è salito di quasi 30 punti base, fino al massimo di 235 (lunedì), quando gli investitori si sono resi conto delle terribili implicazioni dello spasmo costituzionale: una crisi che durerà tutta l’estate e che potrà concludersi solo con nuove elezioni, che non risolveranno nulla. Negli ultimi giorni si è fatto molto per ridurre il calo delle azioni bancarie, ma queste stanno ora cedendo in modo ancora più forte. Banca Generali è scesa del 7,2% e Unicredit del 5%.Che si tratti o meno di un “morbido colpo di Stato”, il territorio resta comunque assai pericoloso. Il presidente Mattarella ha apertamente dichiarato di non poter accettare come ministro delle finanze Paolo Savona, perché le sue passate critiche alla moneta unica “potrebbero provocare l’uscita dell’Italia dall’euro” e portare ad una crisi finanziaria. In un certo senso questo veto poteva essere previsto. Anche il governo Berlusconi fu rovesciato nel 2011 da Bruxelles e dalla Banca Centrale Europea. Qualche “informatore” ha rivelato di aver manipolato gli spread sui bond per poter esercitare la massima pressione. L’Ue aveva persino provato a reclutare Washington, che però si rifiutò d’intervenire. «Non possiamo sporcare di sangue le nostre mani», dichiarò il Segretario al Tesoro degli Stati Uniti, Tim Geithner. La novità è che la santità dell’euro dovrebbe amaramente essere formalizzata come imperativo costituzionale italiano!«Abbiamo un problema di democrazia, perché gli italiani sono sovrani e non possono essere governati dallo spread», ha detto Matteo Salvini, l’uomo forte della Lega, in forte ascesa. «È una questione molto seria il fatto che Mattarella abbia scelto i mercati e le regole dell’Unione Europea invece degli interessi del popolo italiano». «Perché non diciamo semplicemente che in questo paese il voto è inutile, visto che sono le agenzie di rating e le lobby finanziarie a decidere i governi?», ha dichiarato Luigi di Maio, leader del Movimento Cinque Stelle. La Costituzione italiana concede al presidente Mattarella alcuni poteri, per lo più non sperimentati e comunque posti in una zona grigia. Potrebbe anche sostenere che il blitz fiscale Lega-Grillini violi l’art. 80 della Costituzione e che comunque egli ha il dovere di salvaguardare i trattati dell’Ue. Tuttavia, non ha alcun mandato diretto conferito dal popolo. Egli fu scelto come compromesso di basso profilo nell’ambito di un accordo preso dietro le quinte. Non ha l’autorità per bloccare in eterno l’Italia nell’euro.L’onorevole Di Maio sta ora facendo richiesta d’impeachment, ai sensi dell’articolo 90. «Voglio che il presidente sia processato, voglio che questa crisi istituzionale venga risolta dal Parlamento per evitare che il malcontento popolare sfugga di mano», ha dichiarato. I ribelli, in effetti, hanno voti sufficienti per poterlo rimuovere. Ciò che è degno di nota è che le élite pro-euro hanno agito in modo veramente rozzo, spingendo la situazione verso un’impasse pericolosa. Il ministro delle finanze proposto, Paolo Savona, non è un testa calda. E’ stato funzionario della Banca d’Italia, ministro e presidente di Confindustria, oltre che direttore di un hedge-fund londinese. Aveva fatto dichiarazioni concilianti, lasciando cadere la suggestione che l’euro sia una “gabbia tedesca”. Aveva insistito sul fatto che il suo “Piano B” per uscire dalla moneta unica (2015) non era più operativo e che il suo vero obiettivo era tornare ad un euro più equo, radicato nell’art. 3 del Trattato di Lisbona, che prevede crescita economica, creazione di posti di lavoro e solidarietà. Le sue argomentazioni legali erano impeccabili.Con un po’ di furbizia, i “poteri forti” e i “mandarini” italiani avrebbero potuto collaborare con il signor Savona e trovare un modo per attenuare le posizioni della Lega e dei grillini. La spinta ad escluderlo del tutto – per cercare di soffocare la ribellione euroscettica, come avevano già fatto con Syriza in Grecia – proveniva da Berlino, Bruxelles e dalla struttura di potere dell’Ue. Il tempo dirà se hanno preso una cantonata, cadendo in una trappola. «In un certo senso sono molto felice perché abbiamo finalmente sgombrato il tavolo dalle str…ate», ha dichiarato Claudio Borghi, portavoce per l’economia della Lega. «Ora sappiamo che si tratta di una scelta fra democrazia e spread. Devi giurare fedeltà al dio dell’euro per poter avere una vita politica, in Italia. E’ peggio di una religione. Quello che stiamo vedendo costituisce il problema fondamentale dell’Eurozona: non si può avere un governo che dispiaccia ai mercati o al ‘club dello spread’, la Bce e l’Eurogruppo li utilizzerebbero per annientare la vostra economia. Siete molto fortunati, nel Regno Unito, perché vivete ancora in un paese libero», ha aggiunto.Il presidente Mattarella ha scelto Carlo Cottarelli – veterano del Fmi e simbolo d’austerità – per formare un governo tecnico. Questo tentativo disperato non ha alcuna possibilità di ottenere un voto di fiducia nel Parlamento italiano. Sopravviverà in un limbo costituzionale. «È incredibile che stiano comunque cercando di farlo. Porterà a rivolte e a proteste politiche di massa. Alla stragrande maggioranza degli italiani non gliene frega niente dello spread», ha concluso Borghi. Il calcolo di coloro che circondano il presidente è che gli italiani da loro umiliati, davanti all’abisso finanziario e politico, possano cambiare idea e rinunciare all’insurrezione. La scommessa è che l’attrito politico possa ridisegnare il paesaggio entro ottobre, considerato il mese più probabile per un nuovo voto. Questo gioco può anche riuscire, ma è in ogni caso una supposizione pericolosa.La Lega di Matteo Salvini ha già guadagnato otto punti nei sondaggi, dopo le ultime elezioni. Si è impadronita degli eventi delle ultime 24 ore per capitalizzare l’umore nazionalista, come Gabriele d’Annunzio a Fiume nel 1919. «Non saremo mai servi e schiavi dell’Europa», ha detto Salvini. Ha già proclamato che il prossimo voto sarà un plebiscito sulla sovranità italiana e un atto di resistenza nazionale contro «Merkel, Macron e i mercati finanziari». Ma c’è un altro pericolo. La fuga di capitali ha una sua logica implacabile. È visibile nel crescente tasso di cambio con il franco svizzero. Esiste il rischio che i flussi in uscita accelerino e spingano gli squilibri interni Target2 della Bce verso il punto di rottura. I crediti Target2 della Bundesbank tedesca sono già a 923 miliardi di euro. È probabile che arriveranno ad 1 trilione di euro in breve tempo, provocando forti richieste da parte di Berlino perché siano congelati.L’Istituto Ifo, in Germania, ha già avvertito che devono esserci dei limiti. Ma qualsiasi mossa per limitare i flussi di liquidità significherebbe che la Germania è vicina a staccare la spina dell’Unione Monetaria e questo scatenerebbe un’inarrestabile reazione a catena. Il signor Mattarella affronterà un’estate estenuante. Rischia di andare a sbattere, fra quattro mesi, con la stessa alleanza Lega-Grillini, ma con una maggioranza ancora più ampia e un fragoroso mandato a favore del loro “governo del cambiamento”. Potrebbe seguire la strada del presidente legittimista francese Patrice de MacMahon che, sotto la Terza Repubblica, tentò d’imporre il suo “ordine morale” ad un’ostile Camera dei Deputati, negli anni ‘70 dell’Ottocento, invocando i suoi teorici poteri. Il tentativo fallì. Il Parlamento lo affrontò presentandogli un ultimatum: “Sottomettersi o dimettersi”. Prevalse la democrazia.(Ambrose Evans-Pritchard, “Il colpo di Stato europeo contro l’Italia segna uno spartiacque”, dal “Telegraph” del 28 maggio 2018; articolo tradotto da “Franco” per “Come Don Chisciotte”).Le élite italiane favorevoli all’euro si sono spinte troppo in avanti. Il presidente Sergio Mattarella ha creato lo straordinario precedente che nessun movimento politico, o coalizione di partiti, potrà mai prendere il potere se sfida l’ortodossia dell’Unione Monetaria. Senza rendersene conto, ha inquadrato gli eventi come se fossero una battaglia tra il popolo italiano e un’eterna “casta” fedele ad interessi stranieri, facendo il gioco dei ribelli grillini e dei nazionalisti antieuro della Lega. Per giustificare il suo veto all’euroscetticismo ha incautamente invocato lo spettro dei mercati finanziari ma, nell’insieme, le sue azioni hanno reso la situazione infinitamente peggiore. Lo spread sulle obbligazioni italiane a 10 anni è salito di quasi 30 punti base, fino al massimo di 235 (lunedì), quando gli investitori si sono resi conto delle terribili implicazioni dello spasmo costituzionale: una crisi che durerà tutta l’estate e che potrà concludersi solo con nuove elezioni, che non risolveranno nulla. Negli ultimi giorni si è fatto molto per ridurre il calo delle azioni bancarie, ma queste stanno ora cedendo in modo ancora più forte. Banca Generali è scesa del 7,2% e Unicredit del 5%.