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Fascismo? Ci vuole orecchio, per smontare chi odia Salvini
«Roberto Saviano ha invitato a rompere il silenzio sulla politica e la retorica sostanzialmente fasciste di Matteo Salvini». Lo scrive il giovane storico dell’arte Tomaso Montanari, 46 anni, autore (con Antonello Caporale) del libro “Matteo Salvini, il ministro della paura”, ovvero: “Come il leader della Lega ha conquistato gli italiani”. Per le edizioni del Gruppo Abele, Montanari ha inoltre scritto “Cassandra muta. Intellettuali e potere nell’Italia senza verità”. Parafrasando Enzo Jannacci, su “Micromega” il professore spiega che «ci vuole orecchio, per battere Salvini». Sempre Montanari – proprio a causa dell’alleanza gialloverde con la Lega – ha rifiutato la propoposta avanzatagli da Luigi Di Maio, che lo voleva ministro dei beni culturali. Vincitore nel 2016 del Premio Giorgio Bassani di Italia Nostra, tre anni prima Montanari era stato insignito, da Giorgio Napolitano, dell’onorificenza di commendatore «per il suo impegno a difesa del nostro patrimonio». E sempre nel 2013 – sotto il disastroso governo Letta – era stato membro della commissione per la riforma del Mibac, istituita dal ministro Massimo Bray. Su “Micromega”, a proposito di Salvini, Montanari cita il filosofo Norberto Bobbio: «Non lasciare il monopolio della verità a chi ha già il monopolio della forza». Quale monopolio? Non vede, Montanari, che il governo Conte è assediato a reti unificate da tutti i media mainstream e da tutti i poteri che contano, italiani ed europei?Dal Quirinale a Confindustria, dalla magistratura a Bankitalia, da Macron a Juncker: ha solo nemici, quello che Montanari definisce il “ministro della paura”. Nemici così potenti da riuscire a impedire – in modo rocambolesco, grazie al solito Berlusconi alleatosi col Pd – l’elezione di un giornalista di razza come Marcello Foa alla presidenza della Rai, bloccata (secondo il massone Gianfranco Carpeoro) da una triangolazione telefonica tra il francese Jacques Attali (mentore di Macron), Giorgio Napolitano (membro della stessa superloggia, la “Three Eyes”, secondo Gioele Magaldi) e Antonio Tajani, massone anche lui. Dov’è il monopolio della forza di cui parla Montanari? Abbagli colossali, sia pure da un eminente intellettuale innamorato del patrimonio artistico italiano? «Ho indicato proprio in Saviano – scrive sempre Montanari su “Micromega” – uno dei non molti intellettuali liberi, e disposti a schierarsi». Salviano chi? L’autore di “Gomorra”, condannato a vita a recitare la parte della vittima sotto scorta, per la gioia del suo marketing editoriale? Allude, Montanari, allo stesso Saviano che in Italia spara a man salva sul leader della Lega ma, appena si volge verso il Medio Oriente, si schiera con Israele senza mai una parola sulle brutalità che lo Stato ebraico guidato da Netanyahu infligge ai “negri” della situazione, cioè ipalestinesi?Affacciandosi sul Paese delle Meraviglie, Tomaso Montanari è comunque capace di stupirsi: evidentemente, per lui, il “ministro della paura” non è l’unico imputato. «Come si fa a chiedere agli italiani sommersi e sfruttati – scrive – di stringersi intorno ai valori della Costituzione proprio mentre Sergio Mattarella, massimo garante della Carta e del suo primo articolo, si genuflette di fronte a un Sergio Marchionne?». Già. Ma dov’era, Montanari, quando Mattarella faceva il ministro nel governo D’Alema, l’esecutivo che “regalava” la rete autostradale italiana ai Benetton? Se ne riparla oggi, dopo l’immane tragedia del crollo a Genova del viadotto Morandi, con il governo Conte deciso a imporre ad Autostrade per l’Italia la revoca della concessione. Non vede come stanno realmente le cose, il professor Montanari? «Come possiamo pensare che gli italiani in difficoltà ascoltino i nostri appelli antifascisti se essi sono sostenuti dallo stesso establishment che esalta Marchionne, il quale non ha voluto restituire all’Italia, e a ciò che resta del suo stato sociale, nemmeno i soldi delle tasse sul proprio gigantesco patrimonio?». Le domande di Montanari, che appare sinceramente disorientato, sembrano rivolte all’interlocutore sbagliato. Cosa si aspetta, Montanari, da un potere-ombra così ipocrita e marcio da usare all’occorrenza le bandiere della sinstra per varare, in Italia, il neoliberismo più selvaggio?Equivoci, probabilmente figli della “santa alleanza” contro il falso bersaglio – Berlusconi – che ha permesso ai veri dominus di agire indisturbati per vent’anni, graniticamente supportati (senza chiasso, né olgettine) dal centrosinistra dei Prodi e dei D’Alema, degli Amato e dei Padoa Schioppa. L’impegno civile di Tomaso Montanari è cristallino: nel marzo 2017 è diventato presidente del cartello “Libertà e Giustizia”, succedendo a Nadia Urbinati. Nel giugno 2017, con Anna Falcone, è stato fra i promotori di “Alleanza Popolare per la Democrazia e l’Uguaglianza”, giornalisticamente ribattezzata come “percorso del Brancaccio”, dal nome dell’omonimo teatro romano dove si riunirono le prime 1.500 persone. Obiettivo: creare una lista civica nazionale della sinistra. Progetto poi naufragato a meno di sei mesi dalle elezioni, visto anche lo stato confusionale della sinistra stessa, reduce da due decenni di antiberlusconismo militante spacciato per progressismo. Si tratta della stessa sinistra che preferì sparare sul Cavaliere piuttosto che sul pareggio di bilancio inserito da Monti nella Costituzione con l’appoggio di Bersani, così come oggi – pur con i suoi dubbi – Montanari preferisce colpire Salvini, piuttosto che un establishment che aveva ridotto l’Italia a Cenerentola politica d’Europa, prona a qualsiasi diktat, incluso quello di tenersi i migranti salvati nel Mediterraneo dalla marina tricolore.Montanari è uno di quegli intellettuali italiani che non esitano a utilizzare la parola “fascismo” per connotare l’azione di Salvini, cioè del leader più rappresentativo del primo e unico governo – dopo tanti anni – formatosi a furor di popolo, sotto la spinta squisitamente democratica degli elettori, ansiosi di metter fine a una lunga sequela di “governi dell’orrore”, pronti a precipitare il paese (loro sì) nella paura: la paura di perdere tutto e di sprofondare in un’Italia senza futuro. «Tutto l’establishment che chiama al conflitto contro Salvini – riconosce Montanari – è quello che diceva e dice che non è possibile alcun conflitto sociale: che è invece lo strumento per creare giustizia sociale, ed è stato disinnescato proprio dal Partito Democratico e dai suoi sostenitori». Quando Salvini dice “prima gli italiani”, per il professore «nessuna risposta è credibile se non afferma la necessità di un conflitto invece “tra gli italiani”», ovvero tra i poveri e i ricchi, che notoriamente «non vogliono le stesse cose», per citare lo storico britannico Tony Judt. Quand’anche: perché Montanari spara su Salvini, che non ha alcuna responsabilità nella catastrofe della Seconda Repubblica, evitando di usare il termine “fascismo” per i decisivi collaborazionisti del “nazismo tecnocratico”, ai cui “successi” si deve, oggi, la vasta popolarità del leader della Lega?«Alla sinistra dei politici, professori, giornalisti paghi di appartenere alla ristretta cerchia dei salvati, disinteressati a cambiare il mondo e capaci solo di parlare di “austerità” e “responsabilità” – aggiunge Montanari – è subentrata una destra con una visione terribile e propagandistica, sanguinosa e fasulla». Sempre secondo il professore, «Salvini sa benissimo che non potrà cambiare in meglio la vita degli italiani: ed è per questo che accende la miccia della caccia al nero». C’è un che di vertiginoso, nel ricorrente abuso dei termini: il fascismo si impose in modo strisciante con le violenze delle camicie nere, incoraggiato dall’élite e ignobilmente tollerato dallo Stato liberale, monarchia in primis. Crede davvero, il professor Montanari, che l’ex anarchico ed ex socialista Mussolini abbia potuto marciare su Roma in solitudine, senza l’appoggio dei poteri forti attraverso il network discreto della massoneria? Crede che abbia potuto guidare svariati governi senza il sostegno decisivo del Vaticano, accanto a quello dei latifondisti e della grande industria?E perché mai spendere ancora, impunemente, nel 2018, la parola “fascismo”? Non vede, Montanari, da quale pulpito democratico vengono le lezioncine impartite all’Italia sui diritti umani? Non sa, Montanari, da quale scuola proviene l’illustre burattino francese Macron? Non vede quali onori gli sono stati tributati, in Vaticano, dall’uomo che la dottrina cattolica considera il vicario di Dio in terra? Conosce un altro fascismo, Montanari, che oggi sia più feroce di quello con cui la Germania e la Bce hanno ridotto la Grecia come un paese del terzo mondo? «Bisogna saper vedere, e saper dire, che Salvini è il sintomo terribile, e finale, della malattia che ha devastato questo paese anche “grazie” a ciò che chiamavamo “sinistra”», sostiene Montanari. Ma, anziché attaccare a testa bassa il tumore, lo storico dell’arte si accanisce su quello che considera il sintomo, come se i buoi non fossero già scappati dalla stalla. E questa incredibile miopia, probabilmente, mette fuori gioco molta parte dell’intellettualità italiana: se Salvini sarà sempre di più il nuovo leader del paese, con i suoi toni spesso così indigesti, lo si dovrà anche e soprattutto a chi vede l’autoritarismo dove non c’è, senza averlo visto – in tempo utile – là dove c’era, e dove sta tuttora, esercitando il suo immenso potere, ogni giorno, contro l’Italia e l’avvenire degli italiani.«Roberto Saviano ha invitato a rompere il silenzio sulla politica e la retorica sostanzialmente fasciste di Matteo Salvini». Lo scrive il giovane storico dell’arte Tomaso Montanari, 46 anni, autore (con Antonello Caporale) del libro “Matteo Salvini, il ministro della paura”, ovvero: “Come il leader della Lega ha conquistato gli italiani”. Per le edizioni del Gruppo Abele, Montanari ha inoltre scritto “Cassandra muta. Intellettuali e potere nell’Italia senza verità”. Parafrasando Enzo Jannacci, su “Micromega” il professore spiega che «ci vuole orecchio, per battere Salvini». Sempre Montanari – proprio a causa dell’alleanza gialloverde con la Lega – ha rifiutato la propoposta avanzatagli da Luigi Di Maio, che lo voleva ministro dei beni culturali. Vincitore nel 2016 del Premio Giorgio Bassani di Italia Nostra, tre anni prima Montanari era stato insignito, da Giorgio Napolitano, dell’onorificenza di commendatore «per il suo impegno a difesa del nostro patrimonio». E sempre nel 2013 – sotto il disastroso governo Letta – era stato membro della commissione per la riforma del Mibac, istituita dal ministro Massimo Bray. Su “Micromega”, a proposito di Salvini, Montanari cita il filosofo Norberto Bobbio: «Non lasciare il monopolio della verità a chi ha già il monopolio della forza». Quale monopolio? Non vede, Montanari, che il governo Conte è assediato a reti unificate da tutti i media mainstream e da tutti i poteri che contano, italiani ed europei?
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Gli italiani tifano per il governo, chi ha “rotto” l’Italia lo odia
Che bella cosa, ‘na jurnata ‘e sole (l’aria serena, dopo la tempesta). Chi l’avrebbe mai detto? L’Italia ha un governo italiano, interamente italiano, di cui gli italiani sembrano contenti se non addirittura orgogliosi, quando finalmente risponde a tono a quel villanzone di Macron, l’ex bankster di casa Rothschid che oggi ha la pretesa di parlare a nome dei francesi. Da quanto tempo non accadeva che gli italiani non fossero costretti a tollerare l’incolore governo in carica? All’epoca di Berlusconi, più della metà del paese si vergognava delle sortite quotidiane del primo ministro. Regnante il suo finto antagonista, Romano Prodi, i suoi stessi elettori ingoiavano, rassegnati, la delusione per le mancate riforme di segno progressista, sostituite regolarmente da spiacevolissimi “sacrifici” sempre imposti, con la collaborazione dei sindacati, agli strati più deboli della società. Poi finì anche quel tipo di spettacolo, e dalla commedia si passò alla tragedia (greca) con l’alto commissario Mario Monti, l’inviato speciale della Germania incaricato di mettere in ginocchio l’Italia, obbligandola ad accettare la crisi come condizione naturale, fisiologica, per un paese rappresentato come inguaribilmente latino, cioè corrotto e chiacchierone, incapace di autodiscipina.Era solo una recita, orrenda. Ma durò anche troppo: il tempo di devastare il Pil e azzoppare l’industria, far sparire il lavoro, far chiudere i negozi e massacrare le pensioni. Un terremoto: erosi i risparmi, crollato il valore degli immobili. Il futuro come incertezza e paura. Poi, dopo il macellaio, vennero i leader tipidi. Il loro compito: ripulire le strade dal sangue, e i telegiornali dalle immagini delle mense della Caritas affollate di esodati e disoccupati sessantenni. Il paese svenduto e smembrato, le serrande abbassate al ritmo di migliaia all’anno. Che poteva farci, il povero Enrico Letta – devoto, come il macellaio – alle stesse regole del rigore imposte dai medesimi poteri? E che altro poteva fare, se non chiacchiere, il suo ambiziosissimo ma vacuo pugnalatore Matteo Renzi? Non una parola, ad esempio, per ripulire la Costituzione dalla lordura del pareggio di bilancio, che umilia la democrazia italiana. Non una sillaba neppure sul Fiscal Compact, analoga punizione biblica inflitta all’Italia sempre dal macellaio e dai suoi tenebrosi mandanti europei, gente che non ha esitato a ridurre alla fame un paese come la Grecia, rimasta senza più neppure i medicinali salvavita per i bambini.Renzi? Fidatevi, annunciò con largo anticipo l’ex ministro socialista Rino Formica: al referendum finirà asfaltato dai “no”, e il suo successore a Palazzo Chigi sarà designato dal Vaticano. Ed ecco quindi Paolo Gentiloni, come previsto dal profeta Formica: l’impalpabile Gentiloni, i cui mormorii sono talmente piaciuti, agli elettori, da far dimezzare il consenso del suo partito, oggi completamente smarritosi tra le brume minacciose di un paese caduto tra le fauci dell’orco sovranista, il Moloch populista che turba i sonni degli eurocrati e dei loro patetici valletti nostrani. Hanno letteralmente sfasciato l’Italia, e accusano i 5 Stelle di velleitarismo pasticcione. Hanno spolpato e svenduto il paese, disarticolando la sua capacità produttiva: oggi in Italia i poveri assoluti sono 5 milioni, numero abnorme che racconta alla perfezione la tragedia di una società devastata, flagellata dalla piaga di una disoccupazione che non ha eguali nella storia della repubblica. Eppure, anziché tacere (ed eventualmente sparire per sempre, almeno dalla scena politica e mediatica) hanno la faccia di bronzo di dare del fascista a Matteo Salvini, il ministro che ha chiesto all’Europa di smetterla di accollare alla sola Italia l’immenso onere dell’accoglienza dei migranti mediterranei.Chissà come li avrebbe giudicati, gli sguaiati squadristi televisivi, un grande giornalista indipendente come l’ex partigiano Giorgio Bocca, regolarmenre fuori dal coro e mai allineato, nella sua lunga carriera, a nessun comodo mainstream. Certo, lo spettacolo racconta una dissonanza cognitiva sconcertante: il paese è a pezzi per colpa di un regime appena caduto, e la cosiddetta informazione spara addosso ai politici che si sono assunti l’onere della ricostruzione. L’eredità di Prodi e Berlusconi, Monti e Renzi rappresenta un disastro molto superiore alle capacità riparatorie di Salvini e Di Maio? Ma almeno questi due outsider hanno accettato la sfida: ci stanno provando. Falliranno? Difficile dirlo. Finiranno anch’essi fagocitati e manipolati dal potere-ombra, dal “pilota automatico” che ha sapientemente declassato l’Italia distraendo l’opinione pubblica dai crimini commessi contro la comunità italiana? Tutto, oggi, sembra dire il contrario. Tutto lascia sperare in un impegno serio e coraggioso per il recupero della sovranità perduta. E fa impressione il consenso di cui oggi gode il governo Conte: per la prima volta, dopo secoli, un esecutivo in carica è sostanzialmente incoraggiato dal 70% della popolazione. Al di là di come andrà a finire, non s’era mai vista una simile coesione nazionale, in tutti i 25 anni dell’infelice, ingloriosa, infame Seconda Repubblica.Che bella cosa, ‘na jurnata ‘e sole (l’aria serena, dopo la tempesta). Chi l’avrebbe mai detto? L’Italia ha un governo italiano, interamente italiano, di cui gli italiani sembrano soddisfatti se non addirittura orgogliosi, quando finalmente risponde a tono a quel villanzone di Macron, l’ex bankster di casa Rothschild che oggi ha la pretesa di parlare a nome dei francesi. Da quanto tempo non accadeva che gli italiani non fossero più costretti a tollerare l’incolore governo in carica? All’epoca di Berlusconi, più della metà del paese si vergognava delle sortite quotidiane del primo ministro. Regnante il suo finto antagonista, Romano Prodi, i suoi stessi elettori ingoiavano, rassegnati, la delusione per le mancate riforme di segno progressista, sostituite regolarmente da spiacevolissimi “sacrifici” sempre imposti, con la collaborazione dei sindacati, agli strati più deboli della società. Poi finì anche quel tipo di spettacolo, e dalla commedia si passò alla tragedia (greca) con l’alto commissario Mario Monti, l’inviato speciale della Germania incaricato di mettere in ginocchio l’Italia, obbligandola ad accettare la crisi come condizione naturale, fisiologica, per un paese rappresentato come inguaribilmente latino, cioè corrotto e chiacchierone, incapace di autodisciplina.
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La lebbra europea: quella del vomitevole, xenofobo Macron
La brutta notizia è che c’è ancora una parte di Italia (e di Francia) disposta a farsi prendere per i fondelli da un sinistro teatrante come Emmanuel Macron, ultimo erede di una famiglia di serial killer politici travestiti da statisti, pronti a indossare la maschera dell’orco (Van Rompuy, Schaeuble) o quella del pagliaccio finto-buono (Juncker, Prodi). L’Ogm Macron è una via di mezzo, un ibrido perfetto tra eleganza formale e trivialità sostanziale. Chiama i poveri “sdentati”, definisce l’attuale politica italiana “vomitevole”. E arriva a classificare “lebbra d’Europa” i movimenti democratici anti-establishment, dopo che Salvini e Di Maio hanno ridotto a carta straccia l’ultimo piano anti-Italia approntato per i migranti insieme ad Angela Merkel, altro fossile vivente di un’Europa orrenda e mascalzona, che in vent’anni non ha prodotto altro che crisi e paura, terrorismo, diffidenza e risentimenti fra nazioni che avrebbero dovuto essere “sorelle”. L’Italia ancora dormiente – ormai minoranza, a quanto pare, arroccata attorno al patetico mainstream cartaceo e radiotelevisivo – non ha ancora capito chi è il fantoccio Macron, chi ne muove i fili, da quale curriculum proviene l’ombra nera che si aggira per l’Eliseo, attorno al presidente che insulta e minaccia – né più né meno come un monarca, indispettito dalle sconcertanti pretese del popolo. Chi si credono di essere, questi pezzenti italiani?Parole che ricordano quelle del mentore di Macron, il tristemente celebre Jacques Attali: ma cosa crede, la plebaglia europea, che l’euro l’abbiamo creato per la loro felicità? Un grande economista francese, Alain Parguez, invitato a Rimini da Paolo Barnard per il primo, storico summit sulla sovranità monetaria, lavorò all’Eliseo – insieme ad Attali – con il presidente socialista Mitterrand, ai tempi in cui la Francia era ancora la Francia, e non un mero ingranaggio dell’euro-imbroglio. Insigne accademico, Parguez racconta dello smottamento “reazionario” dello stesso Mitterrand, fortemente propiziato dal potente gruppo di pressione incarnato proprio da Attali, che Parguez definisce «un monarchico, travestito da socialista». Avvertimenti: dopo l’omicidio del leader socialdemocratico Olof Palme in Svezia, Mitterrand deve aver intuito quale trattamento sarebbe stato riservato ai “ribelli”, ai leader contrari al nuovo ordine neoliberista in fase di insediamento, in Europa. Dopo la parentesi di Jacques Chirac, che tenne la Francia fuori dalla Guerra del Golfo, il potere “nero” conquistò direttamente l’Eliso, non più restando dietro le quinte ma piazzando il suo uomo – Nicolas Sarkozy – sulla poltrona presidenziale. Risultati tangibili: orrore e violenza, il Medio Oriente in fiamme, la nascita dell’Isis, la macelleria della Libia.Da Sarkozy – ora finalmente nei guai con la giustizia francese – lo stesso linguaggio da saloon esibito da Macron: «Ne avete abbastanza di questa feccia», disse, agli abitanti “bianchi” delle banlieues parigine “infestate” di migranti. «Ora ci penseremo noi a toglierli di mezzo». Poi venne il tempo del socialista incolore François Hollande, fotocopia (molto sbiadita) del repubblicano Chirac. Hollande, ha svelato Gioele Magaldi nel suo saggio “Massoni”, militava nella superloggia progressista “Fraternitè Verte”, a cui aveva promesso la fine del rigore socio-economico. Ma il suo governo è stato letteralmente travolto dall’emergenza terrorismo, dalla strage di Charlie Hebdo a quella del Bataclan, fino al massacro di Nizza. Sotto ricatto, con servizi segreti “colabrodo” e ministri sempre più “di destra” (fino all’esordiente Macron), Hollande ha tradito ogni promessa elettorale, imponendo ai lavoratori francesi l’harakiri della Loi Travail, il Jobs Act transalpino, destinato a favorire le aziende penalizzando i dipendenti. Contro l’ectoplasmatico Hollande, ennesimo politico di sinistra passato armi e bagagli al neoliberismo dell’ultra-destra economica, in Francia si è levata la protesta sovranista di Marine Le Pen, votata però alla sconfitta per via delle tare xenofobe del suo Front National. A quel punto, l’élite “nera” ben rappresentata da personaggi come Attali ha fatto la sua mossa, lanciando l’erede di Sarkozy: Emmanuel Macron.Un enfant prodige venuto dal nulla, lo presentarono i giornali, per i quali “il nulla” può essere, eventualmente, anche la filiale bancaria francese della famiglia Rothschild. Corressero il tiro: Macron, scrissero, almeno sul piano politico è un self-made assoluto. Falso, anche questo: il suo maestro Attali è stato (ed è) uno degli uomini di potere più influenti d’Europa. Milita saldamente ai vertici della massoneria sovranazionale di stampo oligarchico, abilissima nell’infiltrare la sinistra europea traviandone i leader, dall’anziano Mitterrand all’allora giovane D’Alema. Banche e multinazionali, con un’unica cabina di regia per le grandi operazioni politiche: una su tutte, l’Unione Europea senza democrazia e la moneta europea senza sovranità. Da quella scuola – la più pericolosa, per l’Europa – proviene Emmanuel Macron: è l’ennesimo avatar del potere nero, insinuatosi nelle istituzioni per svuotarle ulteriormente di democrazia, sulla rotta della privatizzazione universale. Una teologia funesta e spacciata per verità di fede, insieme al dogma dell’austerity – tagliare la spesa pubblica per impoverire la classe media, moltiplicando i profitti stellari dell’élite anche grazie al dumping salariale garantito dai migranti, a loro volta costretti a fuggire dai paesi d’origine, saccheggiati sempre dalla medesima oligarchia.Sarebbe un errore madornale equiparare Macron alla Francia o, peggio ancora, ai francesi come popolo: il piccolo monarca per conto terzi, insediato all’Eliseo dalla peggior risma di parassiti in circolazione in Europa, ha ormai contro la maggioranza dei suoi connazionali. Lo contestano i sindacati, la sinistra di Mélenchon, il Fronte Nazionale della Le Pen. L’elettore medio – operaio, impiegato, agricoltore, imprenditore – ha capito che Emmanuel Macron non è l’uomo che sembrava essere: non sta dalla parte dei francesi, è manovrato da padroni potenti che non amano nessuno e detestano tutti – i francesi, gli italiani, i greci e ogni altra “plebaglia europea”, per citare l’ineffabile Attali. E’ questa, fin fondo, la buona notizia: i popoli stanno cominciando a capire con chi hanno davvero a che fare. E in questa spettacolare procedura di sofferta autocoscienza ha un ruolo di primissimo piano proprio il neonato governo italiano, antropologicamente diversissimo dai predecessori: per i padroni occulti di Macron dev’essere un film dell’orrore, l’inaudito spettacolo dei ministeri italiani occupati da grillini e leghisti. Ringhia, Macron, perché è il cane da guardia di un palazzo oscuro che adesso comincia ad avere paura del popolo. Insulta e minaccia, Macron, perché – come i suoi padroni – sa che i popoli di tutta Europa (cominciando da quello francese) guardano l’Italia che sfida Bruxelles, e prendono nota. Il tempo dei Macron potrebbe finire prima del previsto.La prima a capirlo è stata Angela Merkel, sveltissima a indossare i panni improbabilissimi dell’amicona dell’Italia, paese che il suo governo ha letteralmente azzoppato a colpi di rigore: la sola operazione Monti, decisa tra Berlino e Francoforte nei santuari supermassonici frequentati da ex italiani come Mario Draghi, è costata al nostro paese la perdita di 400 miliardi di Pil e del 25% del potenziale industriale del “made in Italy”. Rideva, Angela Merkel – insieme al suo compagno di merende Sarkozy – quando i media italiani colonizzati dallo straniero bombardavano a tappeto il lebbroso di turno, l’inguardabile Berlusconi. Oggi alla Merkel (e al suo nuovo sodale, Macron) è passata di colpo la voglia di ridere: finalmente, l’Italia li preoccupa. «L’Italia traccia le strade», disse il l’esoterista rosacrociano Rudolf Steiner, pensando al Rinascimento: una quasi-profezia ben nota ai massoni reazionari del massimo potere, quali Sarkozy, Merkel, Macron e compagnia complottante.La loro paura è che la strada tracciabile oggi dall’Italia gialloverde, vera e propria incognita politica, sia quella di un’Europa da rivoltare da cima a fondo, sfrattando dai loro troni gli usurpatori regnanti, i piccoli boss del nuovo, deprimente Sacro Romano Impero costruito con l’imbroglio, la frode finanziaria, la menzogna economistica, il crimine sociale dell’ordoliberismo mercantilista post-capitalistico e parassitario. Un regime occulto, a cui i governi fanno da paravento istituzionale. Un sistema autoritario e privatistico, sleale, scorretto e bugiardo, governato nell’ombra da élite che detestano il popolo, la democrazia e la plebaglia europea nel suo insieme, mezzo miliardo di straccioni e lebbrosi, a cui oggi l’Italia potrebbe tracciare una nuova strada, meno lorda di sangue greco e africano, di strazio italiano inferto dai tagli – senza anestesia – su lavoro e pensioni, sanità e scuola. Il consenso democratico di cui oggi godono Salvini e Di Maio, almeno il 60% degli elettori, l’ometto Macron se lo può solo sognare. Infatti gracchia, stizzito come un qualsiasi dittatore pericolante, i suoi insulti razzisti e xenofobi – un regalo illuminante, per chi ancora non aveva capito chi fosse, davvero, il micro-napoleonico Emmanuel Macron.La brutta notizia è che c’è ancora una parte di Italia, insieme a una parte di Francia, disposta a farsi prendere per i fondelli da un sinistro teatrante come Emmanuel Macron, ultimo erede di una famiglia di serial killer politici travestiti da statisti, pronti a indossare la maschera dell’orco (Van Rompuy, Schaeuble) o quella del pagliaccio finto-buono (Juncker, Prodi). L’Ogm Macron è una via di mezzo, un ibrido perfetto tra eleganza formale e trivialità sostanziale. Chiama i poveri “sdentati”, definisce l’attuale politica italiana “vomitevole”. E arriva a classificare “lebbra d’Europa” i movimenti democratici anti-establishment, dopo che Salvini e Di Maio hanno ridotto a carta straccia l’ultimo piano contro l’Italia approntato per i migranti insieme ad Angela Merkel, altro fossile vivente di un’Europa mascalzona, che in vent’anni non ha prodotto altro che crisi e paura, insicurezza sociale, terrorismo, diffidenza e risentimenti fra nazioni che avrebbero dovuto essere “sorelle”. L’Italia ancora dormiente – ormai minoranza, a quanto pare, arroccata attorno al patetico mainstream cartaceo e radiotelevisivo – non ha ancora capito chi è il fantoccio Macron, chi ne muove i fili, da quale curriculum proviene l’ombra nera che si aggira per l’Eliseo, attorno al presidente che insulta e minaccia – né più né meno come un monarca, indispettito dalle sconcertanti pretese del popolo. Chi si credono di essere, questi pezzenti italiani?
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Veri cattivi e finti buoni: a chi giova questo “golpe stupido”
L’uscita di Mattarella che blocca il governo di chi ha vinto le elezioni viene motivata ufficialmente con l’intenzione di impedire i danni finanziari prodotti dai “populisti sovranisti”, e di favorire gli interessi dei poteri finanziari ed europeisti dei quali lo stesso presidente appare come un’evidente espressione. Ma molti osservatori notano questa mattina giustamente che questa mossa ha una sola certa conseguenza: rafforza nell’opinione pubblica le posizioni proprio di quelli che sembrava voler bloccare. E potrebbe spingerli verso un successo elettorale ancora maggiore, scompigliando e indebolendo ancora di più i partiti tradizionali filo-sistema. È stupido, il presidente? Certamente no: è un uomo del sistema che fa bene gli interessi del sistema. Proprio per questo motivo lo hanno messo a fare il presidente. Ma allora che interesse ha il sistema trasnazionale oscuro e anticoscienza nell’ordinare una tale mossa apparentemente controproducente? Vediamo… Un presidente della Repubblica nomina i ministri su proposta del presidente del Consiglio incaricato, ma non può alterare o condizionare la linea politica emersa dal voto. Bloccare la nascita di un governo che esprime la volontà popolare, giusta o sbagliata che sia, e farlo per di più nel nome di quello che poteri forti trasnazionali, finanziari e politici, vogliono continuare a imporre ai cittadini italiani, appare ora a tantissimi italiani come un vero e proprio tradimento del popolo che rappresenta. Un vero e proprio golpe.La figura e le idee di Savona, proposto come ministro dell’economia e bloccato dal Quirinale, corrispondono perfettamente a quanto Lega e 5 Stelle hanno messo nel loro “contratto”. Corrispondono alla linea politica che questo governo era legittimato a portare avanti. Anzi, si può tranquillamente affermare che quel “contratto” è molto più moderato di quello che la maggioranza degli italiani aveva deciso di votare. In effetti occorre ricordare, proprio in mezzo a questa voluta esasperazione dei toni, che la maggioranza ha votato per i giallo-verdi perché quei partiti avevano promesso azioni forti nei confronti dell’euro e dell’Unione Europea, ben più dure di quelle poi manifestate nel processo di formazione del governo. Il “contratto” elaborato da leghisti e grillini si era in effetti ridotto ad una enorme frenata su questi temi: e questo già era un chiarissimo e sospetto mezzo tradimento dei voti che erano stati raccolti dagli italiani promettendo loro ben altro. A questo si aggiunge ora, con la mossa di Mattarella, un tradimento completo e totale. Ma in qualche modo proprio la evidente “cattiveria” del gesto di questo antipatico presidente fa in modo che gli italiani si sentano traditi da lui, invece che da chi avevano votato e che si accingeva a fare cose ben diverse dalle aspettative. I malumori di parte del movimento grillino per il tradimento dei programmi si sciolgono come neve al sole, “distratti” dal protervo attacco della finanza internazionale attraverso Mattarella.Nello scontro verbale che sta partendo, la gente avrá difficoltá a ricordare che già con certe proposte di ministri e con abbondanti modifiche dei programmi, il cosiddetto “governo del cambiamento” si accingeva a cambiare nei fatti poco e niente. E certamente non avrebbe disturbato la grande finanza, la Nato, i veri poteri mondialisti, l’euro, Big Pharma, le vaccinazioni, le multinazionali, le guerre, la chimica e i campi elettromagnetici ovunque, la deriva culturale… Avrebbe fatto il minimo indispensabile di riforme positive per compiacere i propri elettori, ma senza certamente intaccare i grandi interessi strategici dei poteri forti, dai quali Lega e 5 Stelle sono stati creati anni fa per cavalcare, incanalare e controllare il crescente dissenso della gente arrabbiata o “in risveglio”. Ma allora quale è il fine di questa intricata manovra? Di questo complesso gioco di specchi? Difficile dire quali saranno i prossimi passi, perché i passi fanno parte di strategie e tattiche che conoscono solo i poteri oscuri che certe manovre fanno. E quindi vedremo. Ma giá si intravedono delle linee, delle direttrici di fondo.La mossa presidenziale – facilitata dalla “strana” impuntatura di Salvini sul solo Savona (potevano metterci un fantoccio affiancato da Savona, se proprio volevano) – parte ovviamente da un ordine superiore, e non è detto che lo stesso Mattarella conosca tutte le implicazioni. Così come non le sanno nemmeno Di Maio o Salvini… veri e propri burattini di un gioco compiuto dietro le quinte da poteri enormemente più forti. Di certo il risultato è quello di rafforzare il consenso politico di Lega e Cinque Stelle tra i cittadini di fronte al manifesto abominio compiuto dai poteri forti attraverso Mattarella. Tanto che è già partita in tromba una facilissima campagna elettorale di fuoco, organizzata per rafforzare ulteriormente la tifoseria dei partiti del dissenso, consolidandone l’immagine antisistema al di là di quelle che poi certamente saranno le enormi frenate pro-sistema una volta andati al governo. Il teatrino drammatico serve in effetti a rafforzare nella gente in risveglio la fiducia in questi partiti come “salvatori della patria”, e quindi a rafforzare la loro possibilitá successiva di prendere in giro i propri elettori, dando delle briciole alla gente per poter continuare a mantenere in piedi ed ulteriormente rafforzare il sistema vero dei poteri forti mondiali.Avvalendosi proprio del supporto di una tifoseria ancora più addormentata dalla rabbia prodotta dalle “cattiverie” di Mattarella, della Merkel, dei ministri europei, dai commenti velenosi del “Financial Times” e dalle solite minacce delle agenzie di rating. E dall’altra imbambolata e fanatizzata dalla chiamata alle armi, dai toni guerreschi e dalle promesse mirabolanti dei giallo-verdi. Nel frattempo, nei prossimi mesi gente del tipo Cottarelli, uomo del criminogeno Fondo Monetario Internazionale, potrebbe guidare un governo senza maggioranza ma comunque capace – con l’appoggio del Quirinale – di compiere ulteriori nefandezze in nome di nuove emergenze prodotte ad arte contro di noi a livello internazionale. Mentre il consenso ai giallo-verdi, creati dagli stessi poteri per incanalare e silenziare il vero dissenso delle coscienze, crescerebbe comunque, in quanto gli italiani attribuiranno tutti i problemi dei prossimi mesi, perfino il caldo, la pioggia o le macchie solari, al fatto che è stato bloccato dai cattivi il governo del cambiamento. Il governo “buono” dei miracoli che comunque non avrebbe fatto. Tranne qualche briciola da distribuire veramente agli italiani per farli stare zitti e continuare a illuderli.Quale è allora in effetti il fine di tutta questa manovra? Smontare una opposizione vera al sistema, che – al di lá di Lega e M5S – è comunque veramente sentita nella maggioranza degli italiani, e legarla sempre di più a questi fidati partiti eterodiretti. Attraverso un teatrino tutto verbale, fatto di posizioni di contrapposizione strumentale, capaci di assorbire e incanalare il malcontento riducendolo a tifoseria accesa. In favore di volti nuovi ma appartenenti ai soliti vecchi ambienti, e che mai nei fatti intaccheranno veramente i grandi interessi dei poteri forti anticoscienza. Lo scontro tra sovranisti e mattarelliani europeisti non è altro che il gattopardesco gioco delle parti, fatto per non cambiare le cose. Lo dimostra il fatto che quando poi questi finti sovranisti si avvicinano veramente al potere annacquano i loro programmi in modo incredibile. E infarciscono le loro proposte di ministri con personaggi solo apparentemente nuovi, ma sempre comunque appartenenti al vecchio circuito di potere. Come Savona, uomo di Confindustria, del sistema bancario internazionale, ministro dell’orrido e nefasto governo Ciampi, da sempre splendidamente inserito nei circuiti internazionali oscuri. O come i finti nuovi professori “scoperti” dal Cinque Stelle, provenienti da università e ambienti di stampo tra il piduista e il gesuitico-massonico.Insomma un gran chiasso, perché la gente che si sta risvegliando, che è sempre di più, non si organizzi autonomamente in partiti e movimenti veramente liberi, ma venga presa dal tifo per una finta lotta di potere tra falsi buoni e veri cattivi. Quelli che sembrano “buoni” lo sono veramente? Sono dalla parte del popolo, delle coscienze, o servono solo a imbambolarci in un teatrino fasullo di accese tifoserie? Questi giorni dopo le elezioni lo hanno dimostrato. Questo schema di danza macabra sulla pelle degli italiani è stato ora rafforzato non casualmente da un uomo del potere come Mattarella. Cosa fare, subire? No, attivarsi, ma non nella direzione della delega a false scelte che alla fine derivano sempre dagli stessi poteri schiavizzanti. Non farsi prendere in giro, mantenersi interiormente liberi, non fidarsi di chi promette e non mantiene veramente. Non delegare a chi non si conosce, non fidarsi dei media. Non rinunciare ai propri ideali e alla propria voglia di bene, e organizzarsi per interagire orizzontalmente e positivamente con i nostri territori e le comunità locali. Là dove possiamo operare con la nostra voglia di bene e controllare direttamente con la nostra coscienza. Dal basso, nell’orizzontale, sorgerà la società etica ed amorosa del futuro. Non da questi fantasmi, spettri del potere. Dalla nostra coscenza direttamente operativa il futuro luminoso della società umana, non dalla fiducia e dalla delega al Gatto e alla Volpe, che fanno da sempre gli amici – cambiando maschere – solo per rubarci l’anima.(Fausto Carotenuto, “Il ‘golpe stupido’ di Mattarella e la danza macabra”, da “Coscienze in Rete” del 28 maggio 2018).L’uscita di Mattarella che blocca il governo di chi ha vinto le elezioni viene motivata ufficialmente con l’intenzione di impedire i danni finanziari prodotti dai “populisti sovranisti”, e di favorire gli interessi dei poteri finanziari ed europeisti dei quali lo stesso presidente appare come un’evidente espressione. Ma molti osservatori notano questa mattina giustamente che questa mossa ha una sola certa conseguenza: rafforza nell’opinione pubblica le posizioni proprio di quelli che sembrava voler bloccare. E potrebbe spingerli verso un successo elettorale ancora maggiore, scompigliando e indebolendo ancora di più i partiti tradizionali filo-sistema. È stupido, il presidente? Certamente no: è un uomo del sistema che fa bene gli interessi del sistema. Proprio per questo motivo lo hanno messo a fare il presidente. Ma allora che interesse ha il sistema trasnazionale oscuro e anticoscienza nell’ordinare una tale mossa apparentemente controproducente? Vediamo… Un presidente della Repubblica nomina i ministri su proposta del presidente del Consiglio incaricato, ma non può alterare o condizionare la linea politica emersa dal voto. Bloccare la nascita di un governo che esprime la volontà popolare, giusta o sbagliata che sia, e farlo per di più nel nome di quello che poteri forti trasnazionali, finanziari e politici, vogliono continuare a imporre ai cittadini italiani, appare ora a tantissimi italiani come un vero e proprio tradimento del popolo che rappresenta. Un vero e proprio golpe.
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Giovagnoli: perché la Chiesa ci ha tolto gli alberi millenari
Solo questo, oggi, possiamo dirti: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo. Era il manifesto poetico e politico di Eugenio Montale, sotto il fascismo. Letteratura a suo modo eroica, da Premio Nobel: ermetismo, frammentismo. Bandire le convenzioni letterarie, le leziosità, i virtuosismi formali e accademici. La verità, innanzitutto. Da allora, la poesia si è frantumata in un “solve et coagula” decisamente alchemico, che a volte l’ha fatta anche risorgere, sotto mentite spoglie, persino nell’universo mercenario degli spot pubblicitari. Di alchimia si occupa un poeta dei nostri giorni, molto sui generis: si chiama Michele Giovagnoli e faceva la guida naturalistica sui monti delle Marche, tra le ultime foreste di cerro. Poi si è ammalato, ed è entrato in crisi. Un problema al colon: incurabile, per la medicina ufficiale – ma non per il bosco: «Sono entrato nel bosco di notte, e il bosco mi ha guarito», racconta, ai microfoni di “Border Nights”. «Già l’indomani, i medici hanno constatato la mia completa guarigione. Mi hanno chiesto se fossi stato a Lourdes: ma quello è l’ultimo posto dove sarei andato». Già, perché il poetico alchimista Giovagnoli – un folletto, dalla chioma che ricorda quella di Branduardi – ha intrapreso una battaglia personale contro il potere che, racconta, ha condannato a morte le foreste primordiali, quelle degli alberi millenari. Pochi lo sanno, ma fu proprio la Chiesa di Roma – nel nono secolo dopo Cristo – a decretare la distruzione sistematica degli alberi antichi, venerati dalla popolazione.Nelle catacombe della storia cristiana, con l’aiuto di archivisti, Giovagnoli ha scovato le carte dello sconosciutissimo Concilio Namnetense, vero e proprio “fantasma” persino su Google, prima che uscisse “La messa è finita”, libro-denuncia nel quale il Folletto marchigiano riesuma lo sconcertante anatema lanciato dal Vaticano contro gli alberi più vetusti, ovviamente associati a misteriosi dèmoni. Altrettanto sconcertante il trattamento che vescovi e preti medievali si impegnarono a riservare alle maestose piante: dovevano essere segate e abbattute, poi addirittura sradicate, fatte a pezzi e infine bruciate – come fossero eretici in carne e ossa, e non monumenti (viventi) del mondo vegetale. Il sommo Guido Ceronetti, scrittore atipico e coltissimo traduttore, ha spiegato cosa c’è nella testa del piromane, quando non è un semplice incendiario a pagamento, reclutato dalla mafia della speculazione edilizia. E’ vero, il maniaco del fuoco prova sempre un segreto piacere nel veder divampare le fiamme, preparandosi poi a godersi di nascosto l’altro “spettacolo”, quello dei soccorsi. Ma c’è altro, in fondo alla sua mente: e cioè il gusto (probabilmente inconsapevole) della dissacrazione, della profanazione sacrilega. Perché i boschi, da che mondo è mondo – ricorda Ceronetti – sono sempre stati la dimora dei dèi. Ovvero: il tempio naturale di una sorta di patto sacro, tra l’uomo e l’universo.Giovagnoli collega le cose in modo diretto, persino brutale: la stessa mano che ci ha privato degli alberi millenari, dice, è quella che ha incatenato il mondo occidentale per 1700 anni, inaugurando la raffinata schiavitù psicologica della fede. Come Machiavelli, lo scrittore-alchimista la considera un sopraffino “instrumentum regni”: la sottomissione spinge gli uomini a mettersi in ginocchio e a chiedere assurdamente perdono – a umanissimi burocrati della religione – per non si sa quali peccati. «Ai romani servivano le catene, ai cristiani bastò il crocifisso». Un simbolo potentissimo e onnipresente, persino sulle cime dei monti: in molte conferenze, ora disponibili su YouTube, Giovagnoli propone un impetoso parallelo tra l’emblema cristico scelto dai cattolici – l’uomo in agonia sulla croce, atrocemente torturato – e «l’altro modello cristico, il meraviglioso Uomo Vitruviano di Leonardo, con tutti i suoi “centri di potere” liberi di esprimersi: la testa non cinta dalla corona di spine, mani e piedi non trafitti da chiodi ma in contatto con terra e cielo, e poi il sesso – i genitali tranquillamente esposti, non “bannati” come quelli del Gesù cattolico, nascosti da un panno». Citando il drammaturgo Alejandro Jodorowsky e il filologo-esegeta Igor Sibaldi, Giovagnoli sintetizza: «L’eros è la nostra maggiore forza creativa, quella che ci rende capaci di ribellarci; imprigionarlo e mortificarlo significa voler produrre generazioni di servi».Nella veemente invettiva anticattolica di Giovagnoli – fiero di essersi “sbattezzato” – c’è spazio anche per le entusiasmanti frontiere scientifiche dell’epigenetica, che studia i mutamenti “alchemici” che avvengono nel corpo umano di fronte a particolari sollecitazioni emotive. «Recenti studi esaminano l’effetto deprimente del suono delle campane: a chi le ascolta, in ultima analisi, ricordano l’onnipresenza di un potere superiore, insuperabile. Sono le stesse campane, dal suono grave, che venivano suonate per ammonire i fedeli: stai attento e vedi di rigare dritto, se non vuoi fare la fine degli eretici o degli ultimi sacerdoti pagani, appesi ai loro alberi sacri e lasciati morire lentamente, con il ventre squarciato». Campane e crocifissi, libertà di pensiero: opinioni, interpretazioni. Ma gli alberi? «In tutte le culture del mondo, l’albero rappresenta da sempre un cardine imprescindibile della spiritualità, un punto di riferimento visivo e simbolico, un’espressione viva che unisce Terra e Cielo. In tutte, tranne che in quella cattolica». Baobab immensi in Africa, sequoie millenarie in America, foreste incontaminate in Asia. Niente di simile, purtroppo, in Europa: tranne rarissimi casi – come quello degli olivastri sardi, vecchi anche di tremila anni – da noi i grandi alberi generalmente non superano i 2-3 secoli di vita.Niente a che vedere con le maestose querce meravigliosamente raccontate da Plinio il Vecchio, nella sua “Naturalis Historia” scritta al seguito delle legioni romane: sul Baltico, le querce millenarie erano così immense da formare archi grandiosi, sotto i quali potevano transitare squadroni di cavalleria. Certo, ammette Giovagnoli, la rivoluzione industriale ha dato il colpo di grazia alle foreste madri europee. Ma la “guerra” contro i grandi alberi nasce prima, ed è squisitamente culturale: qualcosa di molto più sottile e profondo delle mere istanze economiche. Notare: «Più ci si allontana geograficamente dal fulcro del dominio cattolico, quindi da Roma, e maggiore è la probabilità di incontrare esemplari di dimensioni straordinarie», insieme a popoli «con tradizioni che riconoscono all’albero un potere super partes nel vissuto spirituale». Non è un caso, aggiunge, se l’Italia si è data una legge-quadro sui parchi naturali solo negli anni ‘90. C’è stata una «evidentissima reticenza politica» nel concedere al verde la propria naturale importanza, in un paese cresciuto al suono dei campanili. «Al Grande Parassita – scrive Giovagnoli, alludendo al cattolicesimo – la natura selvatica non è mai piaciuta tanto; anzi, l’ha sempre considerata un intralcio», forse anche perché «chi conosce la natura selvatica comprende meglio e più velocemente anche la propria».A lui è accaduto anni fa, racconta, quando era alle prese con un dramma: nessun medico sembrava in grado di curarlo. «Mi sono allora comportato da alchimista», dice a Fabio Frabetti di “Border Nights”: «Ho cercato volutamente lo stato di “nigredo”, la dissoluzione dell’Io, calandomi da solo nella cosa che più mi faceva paura: il bosco di notte». Scendere nel proprio buio: come Dante, che la sua resurrezione iniziatica la comincia proprio dalle tenebre dell’Inferno. «A un certo punto – racconta Michele – ho sentito un gran caldo alla pancia, e sono crollato in un pianto dirotto, fino all’alba. Tornato a casa, sono andato dal medico e ho scoperto che ero guarito». Come? Mistero: «Posso solo dire che l’albero è il nostro più grande alleato, sulla Terra». Inutile chiedere a un poeta di fare un disegno. Meglio assecondare la sua vena: «Un bosco ti sente, ti ascolta, percepisce la tua energia vibrazionale. Può anche mutare all’istante la sua composizione chimica, producendo acido acetil-salicilico. E’ qualcosa di prodigioso, che cambia la qualità dell’aria e può entrarti nella pelle, per osmosi». Alchimista autodidatta ed entusiasta, “miracolato” dai suoi alberi, Giovagnoli fa notare come sarebbe bello, se oggi avessimo a portata di mano quelle piante millenarie, oscenamente distrutte nel medievo. «Erano un pezzo della memoria vivente del mondo: avevano respirato la stessa aria di Gesù». E a proposito di aria: «Non potremmo vivere, senza gli alberi: sono loro a fabbricare l’ossigeno che ci tiene in vita».In tutte le tradizioni autenticamente esoteriche, inclusa quella ben conosciuta dal citato Leonardo, lo specchio è un simbolo principe: capovolgendo l’immagine, offre la visione integrata e complementare dell’insieme. Tradotto in “giovagnolese”: «Fateci caso: gli organi che respirano l’ossigeno prodotto dal bosco sono come alberi rovesciati: i polmoni la chioma, e sopra di loro i bronchi, le radici, ramificate in modo frattale esattamente come i rami delle piante». Serve altro, per capire come mai i grandi alberi erano sacri? «C’erano prima di noi, sono la storia della Terra. Sono stati i primi a uscire dall’acqua, creando un’atmosfera respirabile per gli esseri umani». Di più: «E’ come se gli alberi entrassero in noi, a partire dalla nascita: quella che respiriamo è la loro aria, il loro ossigeno». Gli alberi, poi, non conoscono frontiere: «Pensate a quando vanno in amore, in primavera: il polline di un noce greco può volare sul mare, per andare a “corteggiare” un noce cresciuto in Puglia». Aprite gli occhi, ripete Giovagnoli: «Non c’è una croce a congiungerci con l’universo: c’è un albero. Per questo, chi ha diffuso croci ha voluto abbattere gli alberi. E il più delle volte, le chiese sono state erette proprio là dove prima sorgevano alberi millenari». Teologia: la visione trascendente “sfratta” la divinità dal mondo: Dio c’è, ma è altrove. Non è immanente, nella natura. «Tutto falso», assicura il Folletto. «Non ci credete? Provate. Il bosco vi aspetta. Ed è pronto ad aiutarvi, come ha fatto con me».(Il libro: Michele Giovagnoli, “La messa è finita. Come liberarsi dal più subdolo dei parassiti. Gli acutissimi strumenti di dominio in dotazione al clero”, Uno Editori, 174 pagine, euro 12,90. Giovagnoli ha inoltre scritto “Alchimia selvatica. La via del riveglio attraverso le arti magiche del bosco”, Macro Edizioni, mentre con Uno Editori ha appena pubblicato “Imparare a parlare con gli alberi. Manuale pratico per comunicare, evolvere e guarire con il bosco”).Solo questo, oggi, possiamo dirti: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo. Era il manifesto poetico e politico di Eugenio Montale, sotto il fascismo. Letteratura a suo modo eroica, da Premio Nobel: ermetismo, frammentismo. Bandire le convenzioni letterarie, le leziosità, i virtuosismi formali e accademici. La verità, innanzitutto. Da allora, la poesia si è frantumata in un “solve et coagula” decisamente alchemico, che a volte l’ha fatta anche risorgere, sotto mentite spoglie, persino nell’universo mercenario degli spot pubblicitari. Di alchimia si occupa un poeta dei nostri giorni, molto sui generis: si chiama Michele Giovagnoli e faceva la guida naturalistica sui monti delle Marche, tra le ultime foreste di cerro. Poi si è ammalato, ed è entrato in crisi. Un problema al colon: incurabile, per la medicina ufficiale – ma non per il bosco: «Sono entrato nel bosco di notte, e il bosco mi ha guarito», racconta, ai microfoni di “Border Nights”. «Già l’indomani, i medici hanno constatato la mia completa guarigione. Mi hanno chiesto se fossi stato a Lourdes: ma quello è l’ultimo posto dove sarei andato». Già, perché il poetico alchimista Giovagnoli – un folletto, dalla chioma che ricorda quella di Branduardi – ha intrapreso una battaglia personale contro il potere che, racconta, ha condannato a morte le foreste primordiali, quelle degli alberi millenari. Pochi lo sanno, ma fu proprio la Chiesa di Roma – nel nono secolo dopo Cristo – a decretare la distruzione sistematica degli alberi antichi, venerati dalla popolazione.
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Magaldi: Siria, smascherare il potere dei massoni terroristi
«Hanno fatto la loro “bombardatina” teatrale, naturalmente previo avviso ai russi (onde evitare che se la prendessero troppo). Per poi scivolare addirittura nel ridicolo, con la Casa Bianca che smentisce Macron: “Mai promesso ai francesi di restare in Siria”, dice Trump, confemando che i militari statunitensi lasceranno la regione». Per la prima volta, pur demifisticando la retorica dell’ennesimo “strike” occidentale motivato dall’uso presunto di armi chimiche, Gioele Magaldi ammette di essere preoccupato dalla possibile escalation della crisi. Attorno al dramma umanitario della Siria, infatti, si scontrano potentissime oligarchie in lotta fra loro. Acuto analista geopolitico, Magaldi è autore del bestseller “Massoni” sui retroscena occulti del vero potere. Spesso profeticamente cauto su “fuochi d’artificio” come quelli della Corea del Nord («è solo spettacolo, pilotato dalla Cina»), stavolta il presidente del Movimento Roosevelt, ai microfoni di “Colors Radio”, ammette: la situazione potrebbe diventare più grave di quanto non lasci credere la “recita” dei missili, sparati per ora su un bersaglio insignificante e peraltro in gran parte intercettati dalla contraerea siriana, risalente all’era sovietica. Come se ne esce? In un solo modo: «Smascherando le oligarchie massoniche reazionarie che si stanno facendo la guerra, l’un l’altra, sulla pelle dei siriani».Impossibile “leggere” correttamente il raid del 15 marzo su Damasco senza avere sott’occhio le puntate precedenti. Una su tutte: «L’annuncio congiunto dei leader della Russia, dell’Iran e della Turchia, che si sono riuniti per dire: la guerra in Siria l’abbiamo vinta noi». Di qui i missili “dimostrativi” targati Trump, May e Macron: «E’ come se avessero tenuto a precisare: ricordatevi che in Siria ci siamo anche noi». Un attacco dell’Occidente? Magaldi non ci sta: «La nozione di Occidente non è riducibile a un singolo gesto di tre leader, ciascuno dei quali peraltro alle prese con terribili problemi di politica interna». La Germania, per dire, si è tenuta in disparte. «E il persino il diafano Gentiloni, evitando di concedere le basi italiane a supporto l’attacco, è riuscito a rinnovare la migliore tradizione morotea, orientata verso una politica di mediazione nel Mediterraneo: quello è il ruolo che dovrebbe competere all’Italia, non a caso il paese più danneggiato dalla guerra contro la Libia di Gheddafi». E la Siria di Assad? Anche se i media evitano di ricordarlo, «si tratta di uno dei pochi paesi laici della regione, con aspetti di pluralismo, dove le donne godono degli stessi diritti degli uomini: un paese avanzato, governato da un regime autoritario ma ispirato dal nazionalismo arabo socialisteggiante del partito Baath».Come trasformare la Siria in un cumulo di macerie? «E’ bastato cavalcare alcune legittime istanze iniziali, sorte nel tentativo di democratizzare il paese, per poi deviarle immediatamente verso lo jihadismo più feroce». Com’è che, poi, i paladini della democrazia si mettono a finanziare, armare e proteggere i tagliagole dell’Isis da scatenare contro Assad, facendo strage della popolazione siriana? E’ noto che le formazioni “radicali” insorte contro il governo di Damasco sono state sciaguratamente messe in piedi dall’amministrazione guidata da Barack Obama, che secondo Magaldi è un esponente della superloggia “Maat”. Il grande difensore di Assad, Vladimir Putin, sempre a detta di Magaldi milita invece nella “Golden Eurasia”, altra influente formazione supermassonica, mentre il ras turco Edogan è affiliato alla “Hathor Pentalpha”, di gran lunga la più pericolosa delle Ur-Lodges oligarchiche, alla quale sarebbe stato iniziato lo stesso “califfo” Abu Bakr Al-Baghdadi, leader del sedicente Isis. «Il vero problema? Nessuno degli attori sul campo – né in quota all’Occidente, né all’Oriente – fa quello che dovrebbe fare, ovvero: gettare le basi per una pace giusta, fondata sui diritti democratici. Obiettivo al quale, attualmente, non è interessato proprio nessuno. Né si può contare sulle Nazioni Unite, ridotte all’ombra di se stesse».Più volano missili, intanto, e più cresce il pericolo di un incidente irrimediabile, senza una politica alternativa al massacro permanente che ha traformato la Siria e l’intero Medio Oriente in un cimitero dal quale scappare. A meno che, prima o poi, non si riesca a smascherare la vera natura dei contraenti: dietro alle varie bandiere, dice Magaldi, si nascondono quasi sempre «interessi inconfessabili, verminosi». Affari e logiche di clan, contese regolate in ambito supermassonico – ove possibile con accordi segreti o, appunto, con il ricorso alla più spietata guerra per bande, senza risparmio di colpi. Lo scenario è ormai così confuso e caotico da lasciare virtualmente spazio anche all’ipotesi peggiore: l’errore imperdonabile, cioè il confronto diretto e pericolosissimo, militare, tra russi e americani. Buio fitto, peraltro, dai media: anche stavolta hanno largamente accreditato la storiella delle “armi di distruzione di massa”, ignorando il report ufficiale – datato 13 marzo – nel quale l’agenzia Onu per la probizione delle armi chimiche ha escluso che il centro Barzah, quello colpito dai missili, potesse produrre gas letali (armamenti di cui, peraltro, proprio gli Usa sono il massimo detentore mondiale). Finzioni pericolose, sanguinose e regolarmente impunite, almeno fino a quando non verrà smascherata la massoneria “terrorista” che sta trasformando il Medio Oriente nella polveriera del mondo.«Hanno fatto la loro “bombardatina” teatrale, naturalmente previo avviso ai russi (onde evitare che se la prendessero troppo). Per poi scivolare addirittura nel ridicolo, con la Casa Bianca che smentisce Macron: “Mai promesso ai francesi di restare in Siria”, dice Trump, confermando che i militari statunitensi lasceranno la regione». Per la prima volta, pur demifisticando la retorica dell’ennesimo “strike” occidentale motivato dall’uso presunto di armi chimiche, Gioele Magaldi ammette di essere preoccupato dalla possibile escalation della crisi. Attorno al dramma umanitario della Siria, infatti, si scontrano potentissime oligarchie in lotta fra loro. Acuto analista geopolitico, Magaldi è autore del bestseller “Massoni” sui retroscena occulti del vero potere. Spesso profeticamente cauto su “fuochi d’artificio” come quelli della Corea del Nord («è solo spettacolo, pilotato dalla Cina»), stavolta il presidente del Movimento Roosevelt, ai microfoni di “Colors Radio”, ammette: la situazione potrebbe diventare più grave di quanto non lasci credere la “recita” dei missili, sparati per ora su un bersaglio insignificante e peraltro in gran parte intercettati dalla contraerea siriana, risalente all’era sovietica. Come se ne esce? In un solo modo: «Smascherando le oligarchie massoniche reazionarie che si stanno facendo la guerra, l’un l’altra, sulla pelle dei siriani».
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Cabras: Siria, solo bugie. Per annullare le elezioni italiane?
Usare l’intervento occidentale nella crisi siriana per giustificare in Italia un governo che annacqui i risultati del 4 marzo? «Nulla è come appare nel grande groviglio siriano», premette Pino Cabras, coordinatore del blog “Megachip” e ora neoeletto parlamentare 5 Stelle. La Siria? E’ l’ombelico di un intrico ancora più grande, che si propaga sul mondo. Primo guaio: la narrazione dei mass media dominanti. «E’ la risultante di infinite manipolazioni», al punto che «per chi la accetta passivamente è impossibile capire la realtà». Quella narrazione, poi, in Italia «si intreccia con le eterne pressioni che si scaricano da sempre sulla politica italiana». Cabras segue da molti anni la crisi siriana, che il riflesso di una crisi più vasta, in cui «certi equilibri cambiano ogni giorno, mentre certi cliché non cambiano mai». Prima notizia: il bombardamento della notte del 14 aprile tecnicamente non ha avuto nessun impatto strategico-militare reale. «Del centinaio di missili lanciati il 70% è stato abbattuto dall’antiaerea siriana che usa vecchi sistemi sovietici. Il rimanente 30% ha colpito perlopiù edifici abbandonati privi di qualsiasi interesse strategico e un laboratorio dove si producevano farmaci». Il raid missilistico avrebbe colpito una fabbrica di armi chimiche? Notizia ridicola, interamente falsa.Molti missili, spiega Cabras, sono stati lanciati contro il centro di ricerca e sviluppo di Barzah, ritenuto colpevole, secondo le dichiarazioni ufficiali, di “produrre clorina e Sarin”. Solo che il 22 novembre scorso, aggiunge, l’Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche (Opcw) aveva ispezionato proprio il centro di Barzah e aveva escluso che producesse armi chimiche. I risultati sono stati riconfermati il 23 e il 28 febbraio di quest’anno, come documentato da un report del 13 marzo. «In pochi minuti – scruve Cabras su “Megachip” – le forze armate statunitensi hanno mandato in fumo proprie dotazioni per un valore di duecento milioni di dollari e i fornitori di missili si sono sfregati le mani perché saranno loro a ricostituire le scorte. Mi pare chiaro – aggiunge – che a Washington non abbiano nemmeno lontanamente voluto sfidare la vera capacità di risposta dell’alleato di Damasco, la Russia, che disponeva sia di sistemi antimissile di trent’anni più avanzati rispetto a quelli delle forze armate siriane, sia di capacità di rappresaglia in grado di annichilire tutti i punti di lancio dei missili (navi o altro)». Questo, secondo Cabras, significa che all’interno dell’amministrazione Trump «quelli che volevano una guerra di grandi proporzioni sono stati gentilmente accompagnati a un vicolo cieco, almeno per ora».Altra deduzione: «C’erano canali di comunicazione fra le capitali occidentali e Mosca per assicurarsi che la costosissima e rischiosissima rappresentazione teatrale non generasse equivoci ed escalation». Risultato: «Alla fine tutti salvavano la faccia». Nondimeno, «fa impressione che dentro questa consapevolezza in qualche misura “collaborativa” sul limite da non oltrepassare (dove comunque i russi erano in massima allerta), la pièce dovesse comunque svolgersi con tutti i suoi sviluppi obbligati, dalle esplosioni alle indignazioni ai titoloni alle riunioni Onu. Tutto dannatamente teatrale, eppure autentico». Le armi di distruzione di massa? Fantasma evocato poche settimane prima a Londra, con il presunto “gas” impiegato contro l’ex spia in pensione Sergeij Skripal. «Vengono richiamate come un feticcio, un’allusione a un tabù storico che fa oltrepassare una “linea rossa”: laddove si allude a un gas si allude a un qualche nuovo Hitler da strapazzare. Per chi spinge alla guerra, le prove non contano più nulla: conta solo un’opinione sul gas, non importa se sia cloro, Sarin, o il misteriosissimo gas “di consistenza gelatinosa” di cui parla l’imprenditore mediatico Roberto Saviano», unitosi al coro russofobo (non si sa in basi a quali informazioni e competenze).«Si prendono per oro colato notizie inverificabili provenienti da ambienti compromessi con l’oscurantismo jihadista e le si usa per una rapida hitlerizzazione di un qualche governante da abbattere con i mezzi della guerra totale in un contesto alle soglie della guerra atomica, come se i disastri e le menzogne delle aggressioni all’Iraq e alla Libia non avessero insegnato nulla», sottolinea Cabras. «Di fronte a rischi così forti risulta essere un gravissimo errore intellettuale e politico (purché non si tratti di malafede) il sollecitare nel pubblico reazioni emotive incontrollate ed esasperate, basate su dicerie rilanciate da un circuito politico-mediatico gravato da pessimi precedenti che lo rendono inattendibile». Se non alro, aggiunge il neo-parlamentare, è confortante notare che in questo contesto difficoltoso, in cui le pressioni sono molto intransigenti, emergano prese di coscienza ragionate come quella dell’ex ambasciatore britannico in Siria, Peter Ford, che punta il dito sull’ultimo “caso gas” in Siria, da lui visto come «l’ennesima creazione della premiata ditta jihadista per giustificare il pretesto per una guerra totale». E comunque, per quanto il bombardamento del 15 aprile fosse sostanzialmente “contraffatto”, gli Stati Uniti, il Regno Unito e la Francia hanno violato in modo “vero” la legalità internazionale, eccome.«Si è trattato di un’aggressione – l’ennesima – a carico di un paese sovrano che fa parte dell’Onu, con effetti indiretti in grado di generare comunque pericolose ripercussioni». Ad esempio, aggiunge Cabras, non è la prima volta che in occasione di aggressioni dirette delle potenze occidentali a danno delle forze armate siriane, i tagliagole dell’Isis lancino delle offensive con qualche successo: anche in questa circostanza, infatti, l’esercito siriano – in vista dell’attacco annunciato – ha dovuto lasciare sguarnite certe aree contese con l’Isis, che ne ha approfittato all’istante. «Non va mai dimenticato che chi ha retto l’urto dell’Isis fino a infliggergli sconfitte decisive è stata la Siria, con l’aiuto decisivo della Russia. È imperdonabile oggi voler offrire altre chances all’Isis». Usa, Gran Bretagna e Francia sono, al tempo stesso, membri del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite con diritto di veto e membri del “club nucleare”: «In questa veste si sono ripreso ancora una volta il ruolo abusivo di potenze sciolte dal vincolo di dover sottostare a importantissime norme internazionali». Con queste azioni, «fanno valere un peso speciale che comprime le alleanze sovranazionali di cui fanno parte, soggette costantemente a subire la loro preponderanza».Nella Nato e nella Ue, questi paesi sono “animali più uguali degli altri”, per usare la metafora orwelliana. «Dispongono di mezzi diplomatici fortemente orientati a far valere questa preponderanza», e quindi «presidiano abilmente l’ordine del giorno dei principali media per stabilire l’agenda delle notizie e condizionare le mosse degli attori internazionali nonché il sentimento medio dell’opinione pubblica». E così facendo «zavorrano gli spazi di manovra delle personalità politiche nazionali con lacci e lacciuoli». In Italia, nella scorsa legislatura, la commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro «ha messo agli atti alcune importanti scoperte sulle dinamiche che hanno condizionato nel corso dei decenni la sovranità italiana per via del peso di alleati che da un lato ci sono amici, dall’altro ci investono con mille pressioni e azioni ostili e perfino golpiste», ricorda Cabras. «Non è solo materia sanguinosa di una storia passata, è ancora carne viva e dolente della politica italiana attuale: vi saremo ancora dentro finché non rinunceremo ad esercitare un ruolo nel Mediterraneo e nel Medio Oriente». Per uscirne, dovremmo smettere di «appaltare tutta la nostra politica estera a potenze straniere», e cessare di concepire le alleanze «come meri vassallaggi, anziché come partecipazioni più equilibrate».Ognuno degli attori politici attuali, aggiungeil neo-deputato Cabras, sa perfettamente di affrontare «una perenne corrente di influenze esterne profondamente radicate nel sistema», influenze «a cui non par vero di sfruttare ogni spiraglio generato da una crisi di governo difficilissima come quella di oggi». Per cuio, se “nulla è come appare”, ogni parola spesa per risolvere la crisi di governo «nasce in un contesto che non ammette semplificazioni». Il quadro degli accordi di governo possibili in Italia, ammette Cabras, «è gravemente condizionato dal fatto che pezzi significativi del sistema politico (e molti apparati) hanno un’abitudine ormai rodata a sottomettersi a coloro che dicono “fate presto”». Lo spiega bene Debora Billi su “ByoBlu”: «I media come sempre fanno la loro parte, che è poi quella del leone. Remano con forza nella direzione del governo “responsabile”, con la speranza che le leve del comando siano riconsegnate a chi le ha tenute saldamente finora, tradendo così la volontà popolare del 4 marzo. Ma anche molti media alternativi sul web – forse non volontariamente – contribuiscono allo stesso “frame”, pretendendo a gran voce dai politici più in vista dichiarazioni adamantine contro la guerra, contro la Nato, contro gli alleati, e stigmatizzando come servo e zerbino chi non ottempera all’istante».I social fanno il resto – aggiunge la Billi – alimentando tra gli stessi cittadini quella battaglia ideologica, «e chiudendo così il cerchio destinato a legare inestricabilmente il futuro governo agli eventi di questi giorni in Siria». Molti stanno inconsapevolmente lavorando, come si usa dire, per il Re di Prussia. E rischiano di far sì che si abbiano «i missili sulla Siria come movente perfetto per cancellare con un colpo di spugna la scomoda volontà popolare: sta quindi a noi non cadere nella trappola, e continuare a reclamare un governo che rispecchi ciò che è accaduto il 4 marzo e non ciò che è accaduto il 14 aprile». Per Cabras, è importante risolvere la partita del governo senza farsi vincere dalla fretta, anche in materia di politica estera. Il programma esteri con cui il Movimento 5 Stelle si è presentato alle elezioni – sostiene Cabras – offre spunti «decisivi» per costruire assieme ad altre forze parlamentari «un accordo di governo grazie al quale la Repubblica Italiana possa recuperare il proprio importante ruolo di grande mediatore del Mediterraneo, con un governo in grado di vantare un approccio profondamente iscritto nella vocazione storica dell’Italia democratica». Un approccio «molto più equilibrato rispetto a quello imposto da chi in questi anni ha usato la guerra per nuove avventure neocoloniali, tutte dannose anche per la nostra repubblica».Usare l’intervento occidentale nella crisi siriana per giustificare in Italia un governo che annacqui i risultati del 4 marzo? «Nulla è come appare nel grande groviglio siriano», premette Pino Cabras, coordinatore del blog “Megachip” e ora neoeletto parlamentare 5 Stelle. La Siria? E’ l’ombelico di un intrico ancora più grande, che si propaga sul mondo. Primo guaio: la narrazione dei mass media dominanti. «E’ la risultante di infinite manipolazioni», al punto che «per chi la accetta passivamente è impossibile capire la realtà». Quella narrazione, poi, in Italia «si intreccia con le eterne pressioni che si scaricano da sempre sulla politica italiana». Cabras segue da molti anni la crisi siriana, che il riflesso di una crisi più vasta, in cui «certi equilibri cambiano ogni giorno, mentre certi cliché non cambiano mai». Prima notizia: il bombardamento della notte del 14 aprile tecnicamente non ha avuto nessun impatto strategico-militare reale. «Del centinaio di missili lanciati il 70% è stato abbattuto dall’antiaerea siriana che usa vecchi sistemi sovietici. Il rimanente 30% ha colpito perlopiù edifici abbandonati privi di qualsiasi interesse strategico e un laboratorio dove si producevano farmaci». Il raid missilistico avrebbe colpito una fabbrica di armi chimiche? Notizia ridicola, interamente falsa.
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Sangue arabo: la regina Elisabetta discende da Maometto
Scontro di civiltà? Ma mi faccia il piacere! Mentre i missili del Regno Unito cadono sulla Siria, il settimanale marocchino “Assahifa Al-Ousbouia” avverte: la regina inglese Elisabetta II è una discendente del sommo profeta Maometto, fondatore dell’Islam. A dire il vero, ricorda il “Corriere della Sera”, la teoria era stata già suggerita una trentina di anni fa dal “Burke’s Peerage”, la guida genealogica all’aristocrazia britannica: la linea di discendenza dei Windsor consente di risalire ai re musulmani medievali di Spagna e per quella via fino a Maometto, vissuto in Arabia nel sesto secolo. La scoperta risale agli anni ‘80, quando l’allora direttore del “Peerage”, Harold Brooks-Baker, scrisse alla premier Margaret Thatcher raccomandando di incrementare la sicurezza della regina: «È poco noto al pubblico britannico che il sangue di Maometto scorre nelle vene della sovrana. Tuttavia, tutti i leader religiosi musulmani sono orgogliosi di questo fatto». Oggi, la stampa inglese riprende con enfasi la notizia, rimbalzata dal Marocco: un filo diretto unisce Buckingham Palace alla Mecca? “Assahifa Al-Ousbouia” corrobora l’ipotesi, fornendo un albero genealogico completo. Eil giornale maghrebino saluta la scoperta come «un ponte fra le due religioni e i due regni».«Ne è seguita curiosità ed eccitazione in diversi paesi musulmani, oltre all’interesse della stampa britannica», scrive Luigi Ippolito sul “Corriere”. In prima fila il “Times”, che cita lo storico David Starkey, secondo cui l’ipotesi del legame fra Elisabetta e Maometto è affascinante e «non del tutto fuori luogo», anche se non è stato ancora dimostrato con certezza. Ciò che è «sicuro come la roccia», afferma lo storico britannico, è la discendenza dell’attuale casa regnante da Riccardo di Conisburgh, conte di Cambridge e nonno di re Riccardo III, vissuto in Inghilterra a cavallo fra il XIV e il XV secolo. Il conte era figlio di Isabella di Castiglia, a sua volta nata da Pietro “il Crudele”, re di Castiglia e Leon fino al 1369. «A partire da questo personaggio – aggiunge il “Corriere” – si può risalire ad Abu al-Qasim Muhammad ibn Abbad, sovrano musulmano di Siviglia morto nel 1042, il quale a sua volta discendeva da Hasan ibn Ali, nipote di Maometto in quanto figlio di Fatima, la figlia più giovane del Profeta». Sempre secondo lo storico Starkey, è indubbio che «i monarchi medievali spagnoli e le case reali islamiche erano molto vicine e completamente mescolate».L’anello di congiunzione tra mondo islamico e corona cristiana sarebbe Zaida, una principessa musulmana vissuta nell’anno Mille che scappò da Siviglia per diventare la moglie (o l’amante) di re Alfonso VI di Castiglia: la loro discendenza avrebbe poi sposato Riccardo di Conisburgh, l’avo di Elisabetta. «L’origine di Zaida è meno certa, ma sarebbe lei la discendente diretta di Maometto che connette Londra all’Arabia, in quanto probabile figlia di al-Mutamid ibn Abbad, re musulmano di Siviglia fino al 1091», scrive Ippolito. E’ il caso di dire “Allah salvi la regina?”. Certo non è facile accettare l’idea che siano “parenti” di Maometto i reali inglesi, a capo di un paese che – con Tony Blair – inventò le “armi di distruzione di massa” per avviare la devastazione del Medio Oriente, partendo dall’Iraq tuttora disastrato. Inglesi e arabi “amici”? C’è il precedente del mitico tenente colonnello Thomas Edward Lawrence, 007 di Sua Maestà: all’inizio del ‘900, Lawrence d’Arabia sposò la causa del nazionalismo arabo, guidando – dalla Giordania – la rivolta degli arabi contro l’Impero Ottomano all’inizio del ‘900.Un altro filo – sottilissimo, quasi invisibile – lega la Gran Bretagna all’Oriente musulmano attraverso la musica pop: merito di Freddie Mercury, cantante dei Queen, nato a Zanzibar nel ‘46 come Farrokh Bulsara da genitori appartenenti all’etnia “parsi”, la stessa degli attuali patron del gruppo Tata, colosso automobilistico indiano. Di religione zoroastriana, i “parsi” (nome che in India designa la popolazione proveniente dalla Persia) sono tra i 200.000 seguaci dell’antichissima fede madzea fondata da Zoroastro, considerata “madre” delle religioni successive, dal Cristianesimo all’Islam: sarebbero sacerdoti mazdei i Re Magi dell’adorazione di Beltemme. In modo cifrato, Freddie Mercury (ucciso dall’Aids nel ‘91) rivela una misteriosa connessione tra la sua origine orientale e il trono britannico: il nome Queen scelto per il gruppo musicale viene da Elisabetta I, ultima monarca della dinastia Tudor. Regnò nel ‘500 difendendo l’autonomia della Chiesa d’Inghilterra dal potere vaticano. La sua epoca, denominata “età elisabettiana”, fu un periodo di straordinaria fioritura artistica e culturale: durante il suo regno vissero personaggi del calibro di William Shakespeare, Christopher Marlowe, Ben Jonson, Edmund Spenser.Il filosofo Francis Bacon scrisse “La Nuova Atlantide”, uno dei caposaldi della cultura “rosacrociana” che tra ‘500 e ‘600 propose un nuovo orizzonte per l’umanità, basato sulla fratellanza universale. Il racconto, pubblicato postumo nel 1627, fa parte del genere letterario utopico, lo stesso di opere coeve come “La Città del Sole” di Tommaso Campanella e “Utopia” di Thomas More, anch’esse frutto del pensiero “rosacrociano” espresso a fine ‘500 da Giordano Bruno. Bacone prende spunto dal mito di Atlantide, narrato da Platone nel “Crizia”. Platone a capo del suo Stato aveva posto i filosofi, mentre Campanella sceglie un sacerdote. A questi, Bacone preferisce gli scienziati, «dotati di un sapere pratico capace di trasformare la realtà e assicurare una vita migliore all’umanità». Nume tutelare del nuovo progresso umanistico? Elisabetta I, che si fa ritrarre in celebri quadri con al collo monili contrassegnati dai simboli della fratellanza Rosacroce, il Pellicano e la Fenice. Proprio quel Pellicano – che “resuscita” i suoi pulcini nutrendoli col suo stesso sangue (citato da Dante e da Leonardo) – viene scelto come simbolo dei Queen da Freddy Mercury, icona gay degli anni ‘80. Un inglese atipico, di origine mediorientale, che in incognito disegnò una linea diretta capace di collegare idealmente il trono inglese a mondi lontanissimi solo in apparenza, se è vero che un po’ del sangue di Maometto scorre nelle vene della famiglia Windsor.Scontro di civiltà? Ma mi faccia il piacere! Mentre i missili del Regno Unito cadono sulla Siria, il settimanale marocchino “Assahifa Al-Ousbouia” avverte: la regina inglese Elisabetta II è una discendente del sommo profeta Maometto, fondatore dell’Islam. A dire il vero, ricorda il “Corriere della Sera”, la teoria era stata già suggerita una trentina di anni fa dal “Burke’s Peerage”, la guida genealogica all’aristocrazia britannica: la linea di discendenza dei Windsor consente di risalire ai re musulmani medievali di Spagna e per quella via fino a Maometto, vissuto in Arabia nel sesto secolo. La scoperta risale agli anni ‘80, quando l’allora direttore del “Peerage”, Harold Brooks-Baker, scrisse alla premier Margaret Thatcher raccomandando di incrementare la sicurezza della regina: «È poco noto al pubblico britannico che il sangue di Maometto scorre nelle vene della sovrana. Tuttavia, tutti i leader religiosi musulmani sono orgogliosi di questo fatto». Oggi, la stampa inglese riprende con enfasi la notizia, rimbalzata dal Marocco: un filo diretto unisce Buckingham Palace alla Mecca? “Assahifa Al-Ousbouia” corrobora l’ipotesi, fornendo un albero genealogico completo. E il giornale maghrebino saluta la scoperta come «un ponte fra le due religioni e i due regni».
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Magaldi: cari Di Maio e Salvini, tocca a voi sfidare Bruxelles
Mettete Keynes nei vostri cannoni (politici), e avrete «posti di lavoro, pace sociale e una vastissima platea di consumatori». Si chiama “piena occupazione”: vale più del reddito di cittadinanza o della Flat Tax. Primo passo: inserire il diritto al lavoro nella Costituzione. Obiettivo: non lasciare più a casa nessuno. Un appunto, che Gioele Magaldi segnala ai vincitori del 4 marzo. A proposito: ma perché Salvini e Di Maio non ci dovrebbero provare, a formare un governo? «Se la giochino fino in fondo, la partita: hanno vinto loro. Lo stesso Berlusconi è del tutto propenso a far parte del gioco: non ha mai detto di volersene stare sull’Aventino, come invece il suo amico (e falso nemico) Renzi». Semmai è il Movimento 5 Stelle che ha un po’ paura di lasciarsi contaminare da quello che Beppe Grillo chiamava “lo psiconano”, ma lo stesso Grillo ora ha iniziato a elogiare Salvini. «E’ un incontro politico legittimo e auspicabile, quello tra Lega e 5 Stelle, insieme a chiunque altro ci stia – purché serva a prendere decisioni concrete e urgenti». Per Magaldi, ai microfoni di “Colors Radio”, siamo davanti a un bivio: «Più che i nomi del premier e dei ministri, bisognerà osservare molto bene il programma operativo, gli atti concreti del futuro governo. Bisogna dimostrare subito, al popolo sovrano, che si ha intenzione di cambiare qualcosa».Di Maio e Salvini potrebbero imboccare «una strada coraggiosa, coerente con quello che gli elettori hanno loro chiesto». Ovvero: «Tener ferme certe posizioni rispetto ai gestori di questa Unione Europea e di questa Eurozona». Attenzione: sarebbe davvero un’impresa «titanica, eroica», contro la quale infatti «si stanno già muovendo molte forze per sterilizzare qualunque istanza innovativa». Se Lega e 5 Stelle terranno duro, dice Magaldi, il Movimento Roosevelt (da lui presieduto, con accanto un economista come Nino Galloni) è pronto a fornire supporto, in termini di risorse, idee e know-how. Il punto centrale, ovviamente, è proprio «la volontà politica di inaugurare un nuovo corso». Si può sperare che accada davvero qualcosa di buono? Magaldi “promuove” a pieni voti l’economista Alberto Bagnai, candidato dalla Lega: «Credo sia una delle persone migliori elette in questo Parlamento. E’ vero, aveva profetizzato il crollo dell’Eurozona (che non è crollata), forse mancandogli una completa visione delle forze politiche e metapolitiche, palesi e occulte, che fanno in modo che l’Eurozona perduri, al di là del fallimento economico ben evidenziato da Bagnai». In ogni caso, il professore «è un eccellente post-keynesiano: ha una visione lucida, sa bene in cosa va criticata l’Eurozona e sa demistificare i dogmatismi che hanno puntellato il paradigma neoliberista nella versione europeista, quindi sarebbe senz’altro un eccellente ministro».Magaldi propone un approccio laico e pragmatico, per non sprecare l’esito delle urne e le grandi aspettative espresse dagli elettori. Uno sguardo disincantato, a cominciare dalle nuove presidenze di Camera e Senato. «Un affronto a Berlusconi, la nuova presidenza del Senato? Errore: la Casellati era stata individuata da tempo, ben prima che scoppiasse la pantomima dello scontro con Salvini», rivela Magaldi. «Come al solito, nel “back office” si decidono cose che poi vengono rappresentate in termini teatrali, a beneficio dell’opinione pubblica. L’elezione della Casellati non crea la minima difficoltà a Berlusconi, che ha invece iniziato a mettere “a riposo” alcuni personaggi ormai inadeguati». Elisabetta Casellati è una berlusconiana di ferro, «probabimente anche più gestibile di Paolo Romani». Tutt’altro che sconfitto, il Cavaliere: «Da tempo Forza Italia vuole ringiovanire i testimonial e puntare sulle donne». Le dichiarazioni a caldo contro Salvini? «Solo teatro». La neoeletta, in realtà, era la vera candidata fin dall’inizio. «Credo che gestirà il Senato senza infamia né lode. Del resto il suo predecessore è stato Grasso: non è che queste cariche trasformino i ronzini in purosangue. Semmai – insiste Magaldi – in questo asse tra 5 Stelle e Lega che ha portato all’elezione di Casellati e Fico c’è una chance: declinare un paradigma diverso, nel rapporto con l’Europa e l’economia, riguardo al benessere di milioni di italiani. Vedremo».Certo, «Berlusconi gioca su più tavoli, come al solito». E nel teatrino inscenato dopo la bocciatura di Romani, ampiamente prevista, è riuscito a dire tutto e il contrario di tutto, nel giro di 24 ore. Il Cavaliere «non vuole il “partito unico” del centrodestra, che ormai sarebbe egemonizzato dalla Lega, e adesso giura di fidarsi di Salvini, a cui lascia semmai l’onere del tradimento dell’alleanza». Ma non è neppure quello, il problema: il vero scoglio, per Magaldi, è la disponibilità del Movimento 5 Stelle a convivere con un Berlusconi ancora abbastanza “visibile”, nell’eventuale intesa governativa con il centrodestra. Quanto ai grandi vecchi, l’ultimo passaggio parlamentare ha regalato l’ennesimo minuto di gloria mediatica all’ineffabile Napolitano. «Ha avuto la responsabilità degli ultimi (pessimi) governi italiani, e l’ha scaricata sugli altri – come se lui fosse stato nell’Empireo – ergendosi come al solito ad accusatore che punta il dito, con atteggiamento ierocratico. Ineffabilità e, come al solito, indisponibilità all’autocritica, pur con l’amarezza di aver sbagliato anche lui le previsioni sull’esito delle sue manovre degli anni scorsi».Napolitano? «Un avversario, di cui non condivido nulla», dice Magaldi. «Gli riconosco una grande capacità di durata: è un uomo che ha vissuto sempre per il potere, che ha cambiato mille volte ideologia apparendo sempre granitico nel sostenere le idee che, di volta in volta, cambiava». Gli si può augurare lunga vita, «se non altro per meditare sui suoi tanti errori, sulla sua incorenza e sulle conseguenze così negative, per l’Italia, che il suo operato ha prodotto». Desta comunque ammirazione, aggiunge Magaldi, la sua capacità di stare in scena: «E’ un altro grande teatrante, al pari di Berlusconi. Dietro il teatro, però, c’è una sostanza spregiudicata e indifferente al copione – purché, appunto, ci sia la scena». L’ultima partita persa da Napolitano probabimente si chiama Matteo Renzi: è il vero, grande perdente del 4 marzo. «Si è sconfitto da solo, in modo stolto, con una vocazione al “cupio dissolvi” sin dai tempi del referendum costituzionale: la sua strampalata coerenza non aveva contenuti tali da passare alla storia. E anche dopo – aggiunge Magaldi – ha continuato a insistere su una narrazione astratta, non realistica, del tipo “va tutto bene, madama la marchesa”. E’ stato vittima di se stesso: convinto di aver ben governato, pensava che il popolo italiano avrebbe dovuto riconoscerlo».Certo, i 5 Stelle e la Lega hanno saputo senz’altro convincere un elettorato mobile, che prima aveva creduto nella narrativa renziana. Uno tsunami da cui lo stesso Berlusconi esce fortemente ridimensionato, come “capostipite” dell’infelice Seconda Repubblica, il cui ultimo epigono è stato proprio Renzi. «Con la differenza che Berlusconi ha sette vite (come i gatti) e quindi potrà ancora recitare un ruolo, mentre Renzi subirà un’inevitabile resa dei conti nel Pd». E anche adesso, invece di fare autocritica ammettendo i propri errori, «si propone dinnanzi a tutti come una sorta di bambino malmostoso che si porta via il pallone perché gli hanno segnato troppi goal». Oggi il Pd è fuori gioco «per colpa di Renzi, accecato dalla sventura che lui stesso ha prodotto per insipienza e arroganza». Per dire: poteva giocare di sponda, fin dall’inizio, coi 5 Stelle. E invece manca un leader, nel Pd sequestrato da Renzi, che si è circondato di mezze calzette: «Renzi ha eliminato dei catafalchi, ed è stato il suo unico merito: i “rottamati” erano anche peggio di lui, pur avendo almeno una fisionomia politica». Non resta che il deserto, per ora: «Nessuno in vista, a quanto pare, che sia capace di ergersi sugli altri e tentare una rotta diversa».Un naufragio, quello del centrosinistra, che coinvolge anche i sindacati: «Anacronistica la battaglia sull’articolo 18, che tutela solo chi già lavora». La sfida, oggi, sta nel creare lavoro per chi non ce l’ha: e lo si può fare, insiste Magaldi, costituzionalizzando il diritto al lavoro. «In un mondo che non ha mai prodotto tanta ricchezza come oggi, e che però la gestisce malissimo (mai come oggi è grande il divario tra i pochi ricchi e i moltissimi cittadini in difficoltà economiche) si può tranquillamente rendere costituzionale il diritto al lavoro». Il reddito di cittadinanza? «Una misura che in Italia che si può adottare». Ma il cittadino italiano, aggiunge Magaldi, «deve nascere con il diritto a poter lavorare in base alle proprie capacità». Come? «Bisogna istituire un’alta autorità per la piena occupazione, che in base alla formazione e al talento dirotti i futuri lavoratori in ambito pubblico o privato: nessuno può essere lasciato senza un lavoro». Magaldi ci crede: «Sarebbe una misura rivoluzionaria e al tempo stesso social-liberale, coerente con l’economia di mercato, capace di assicurare prosperità al sistema nel suo complesso». Ottimismo: «Prima o poi vinceremo», scommette Magaldi, che pensa al nuovo partito democratico-progressista, il Pdp, da mettere in campo per fare forza al “cambio di paradigma” a cui già il prossimo governo potrebbe inziare a dare corso, se Di Maio e Salvini avranno il coraggio di non piegarsi agli oligarchi dell’Unione Europea.Mettete Keynes nei vostri cannoni (politici), e avrete «posti di lavoro, pace sociale e una vastissima platea di consumatori». Si chiama “piena occupazione”: vale più del reddito di cittadinanza o della Flat Tax. Primo passo: inserire il diritto al lavoro nella Costituzione. Obiettivo: non lasciare più a casa nessuno. Un appunto, che Gioele Magaldi segnala ai vincitori del 4 marzo. A proposito: ma perché Salvini e Di Maio non ci dovrebbero provare, a formare un governo? «Se la giochino fino in fondo, la partita: hanno vinto loro. Lo stesso Berlusconi è del tutto propenso a far parte del gioco: non ha mai detto di volersene stare sull’Aventino, come invece il suo amico (e falso nemico) Renzi». Semmai è il Movimento 5 Stelle che ha un po’ paura di lasciarsi contaminare da quello che Beppe Grillo chiamava “lo psiconano”, ma lo stesso Grillo ora ha iniziato a elogiare Salvini. «E’ un incontro politico legittimo e auspicabile, quello tra Lega e 5 Stelle, insieme a chiunque altro ci stia – purché serva a prendere decisioni concrete e urgenti». Per Magaldi, ai microfoni di “Colors Radio”, siamo davanti a un bivio: «Più che i nomi del premier e dei ministri, bisognerà osservare molto bene il programma operativo, gli atti concreti del futuro governo. Bisogna dimostrare subito, al popolo sovrano, che si ha intenzione di cambiare qualcosa».
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Dope, squallore tossico: così Pinocchio si trasforma in asino
L’uomo è bravissimo a crearsi l’Inferno. Lo vediamo già nell’intimità del singolo: il suo grado di felicità dipende direttamente dagli influssi che lascia entrare o che lascia crescere nel teatro della mente. Lo percepiamo ancora di più nella collettività: quando stati mentali simili si uniscono vengono create gabbie di concretezza. Il tema “droga” esemplifica appieno quanto stiamo dicendo. Chi l’assume decide consciamente o inconsciamente di scendere nel suo proprio inferno, di perdersi in una degenerazione progressiva. E anche quando confonde l’eccitazione con la lucidità, non fa altro che dileguare il suo senso animico dietro le coltri dell’apparenza, fino a quando la trasformazione asinina non è completa (si torni a leggere Pinocchio). Anche a livello collettivo il teatro-droga genera inferni di cui potremmo tranquillamente fare a meno. Eppure diventano così concreti e pressanti da incidere come uno scalpello nel tessuto di interi popoli, di intere generazioni. E il tutto è un ologramma di cui non ci sarebbe, umanamente, alcuna necessità.“Dope”, Netflix. Un documentario a episodi che andrebbe mostrato nelle scuole: lo squallore del mercato della droga e di chi ne fa uso, la distruzione del tossicodipendente, l’ottusità della polizia, la criminalità del mercato. Il tutto in una guerra che da decenni miete milioni di vittime. Una guerra che potrebbe terminare domani legalizzando e informando. Ma la guerra alla droga è soprattutto teatro, una pantomima che genera i fondi neri indispensabili per i deep state celati dietro i governi ufficiali. L’idea di trasformare in qualcosa di figo l’uso degli stupefacenti è la ciliegina sulla torta che fa leva sulla facile suggestionabilità di ogni essere umano.In “Dope” si sta lontani dalla mitizzazione epica creata da serie come “Breking Bad”, “Narcos” o “The Ozark”. Là non si vedono quasi mai gli effetti, si disquisisce della tenzone, del confronto guerresco tra bande o tra personalità. “Dope” è invece un documentario che mostra i drogati sulle strade, ne mostra l’abbruttimento e la progressiva disumanizzazione. Gli stessi poliziotti ammettono che è una guerra che nessuno potrà vincere. È un gioco che viene tenuto in piedi, c’è chi deve fare la guardia e chi deve fare il ladro, la gente muore, i ruoli vengono interpretati da nuovi attori e tutto procede. Chi tiene al futuro della nostra società dovrebbe fare un unico atto per essere davvero un rivoluzionario: smettere di farsi.(Paolo Mosca, “Dope, lo squallore tossico”, dal blog “Mosquicide”, gennaio 2018).L’uomo è bravissimo a crearsi l’Inferno. Lo vediamo già nell’intimità del singolo: il suo grado di felicità dipende direttamente dagli influssi che lascia entrare o che lascia crescere nel teatro della mente. Lo percepiamo ancora di più nella collettività: quando stati mentali simili si uniscono vengono create gabbie di concretezza. Il tema “droga” esemplifica appieno quanto stiamo dicendo. Chi l’assume decide consciamente o inconsciamente di scendere nel suo proprio inferno, di perdersi in una degenerazione progressiva. E anche quando confonde l’eccitazione con la lucidità, non fa altro che dileguare il suo senso animico dietro le coltri dell’apparenza, fino a quando la trasformazione asinina non è completa (si torni a leggere Pinocchio). Anche a livello collettivo il teatro-droga genera inferni di cui potremmo tranquillamente fare a meno. Eppure diventano così concreti e pressanti da incidere come uno scalpello nel tessuto di interi popoli, di intere generazioni. E il tutto è un ologramma di cui non ci sarebbe, umanamente, alcuna necessità.
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Bernays: vi guideremo come pecore, sarete ai nostri ordini
Annoverato dall’autorevole rivista americana “Life” tra i 100 uomini più potenti del XX Secolo, acclamato unanimemente come il creatore dell’ingegneria del consenso, Edward Louis Bernays è un nome poco familiare al pubblico europeo. Conosciuto forse a qualche curioso per la sua parentela con il padre della psicoanalisi, dello zio Freud il giovane Louis assimila velocemente e rielabora brillantemente la teoria di rivoluzionaria conoscenza dell’inconscio. Di estrazione ebraica e borghese si trasferisce giovanissimo nella New York dei primi del Novecento dove, abbandonata la strada prestabilita della prosecuzione dell’attività paterna, muove i primi passi nel mondo del giornalismo, per affermarsi in una veste di comunicatore del tutto inedita per i tempi. Dopo i fasti registrati dall’industria manifatturiera a servizio della produzione bellica della Prima Guerra Mondiale, gli Stati Uniti si trovano a dover affrontare il più spaventoso degli spettri del mercato: il rischio di sovrapproduzione. Il “brain storming” di illustri banchieri e influenti imprenditori porta a centrare la soluzione in modo deciso e inequivocabile: occorre traghettare il cittadino americano dalla cultura dei bisogni a quella dei desideri, rendendo le persone bramose di soddisfare necessità sempre nuove, gravose come impellenti bisogni.La logica economica, dopo aver asservito l’industria bellica per accrescere la propria produzione, si avvicina così alla neonata scienza della psicoanalisi. Ma come fare a convincere i cittadini a consumare nuovi prodotti non avendo esaurito i vecchi acquistati? Per Bernays, la risposta è semplice: basta «inquadrare l’opinione pubblica così come un esercito inquadra i suoi soldati». Lo zio Sigmund aveva dato luce alla parte oscura che muove il desiderio spinto dall’inconscio: attraverso il meccanismo di compensazione dei desideri, l’individuo sposta l’orizzonte del suo desiderio represso e non ammissibile verso la sfera esterna della materialità per poterlo soddisfare. Appresa la lezione, Bernays offre la sua preziosa consulenza nella campagna della American Tobacco Company per abbattere il tabù dell’America del primo dopoguerra verso la pratica del fumo da parte delle donne. Nel 1929 inscena la parata delle “fiaccole della libertà”: ingaggia una decina di suffragette che, nel pieno di una manifestazione pasquale, accendono in modo teatrale l’oggetto del desiderio manifesto allora proibito, le sigarette, che nell’inconscio femminile rappresentavano il pene. La notizia fa il giro del mondo, veicolata come gesto di libertà e emancipazione femminile, intaccando fortemente il tabù puritano.L’individuo, dunque, è disposto ad assumere comportamenti irrazionali, orientati al consumo di prodotti non solo inutili per la sua vita, ma addirittura dannosi, pur di sentir soddisfatti alcuni sui aneliti inconfessabili e inappagati, pur di veicolare all’esterno un’immagine che lo gratifichi e lo faccia sentire apprezzato dagli altri. E proprio perché in preda a forze inconsce gli essere umani vanno controllati, «come un gregge di pecore va guidato». Alle minoranze più intelligenti spetta il compito di fare proselitismo e indirizzare le masse indisciplinate e irrazionali. Una sorta di compito morale degli eletti: «Solo così si può coniugare l’interesse individuale con quello collettivo per favorire lo sviluppo e il benessere dell’America» (“Propaganda”, 1928). L’elenco dei clienti di Bernays è un pullulare di nomi del gotha economico e politico americano: Procter & Gamble, l’American General Electric, la General Motors, il presidente Usa Eisenhower sono solo alcuni dei nomi presenti nello sterminato portfolio di Bernays, capace di camuffare da colpo di Stato il golpe guatemalteco del 1953 per favorire, al fianco della Cia, gli interessi della United Fruit Company. La sua fama arriverà oltreoceano, conquistando con le sue teorie il ministro della propaganda nazista Goebbels, suo dichiarato fan. E’ a lui che devono la paternità tutte le attuali figure “professionali”, come gli spin doctor, che hanno fatto della propaganda l’arma del consenso sociale.(Ilaria Bifarini, “Il padre della propaganda: Edward Bernays”, da “Scenari Economici” del 21 settembre 2017. Economista, la Bifarini è autrice del saggio “Neoliberismo e manipolazione di massa, storia di una bocconiana redenta”).Annoverato dall’autorevole rivista americana “Life” tra i 100 uomini più potenti del XX Secolo, acclamato unanimemente come il creatore dell’ingegneria del consenso, Edward Louis Bernays è un nome poco familiare al pubblico europeo. Conosciuto forse a qualche curioso per la sua parentela con il padre della psicoanalisi, dello zio Freud il giovane Louis assimila velocemente e rielabora brillantemente la teoria di rivoluzionaria conoscenza dell’inconscio. Di estrazione ebraica e borghese si trasferisce giovanissimo nella New York dei primi del Novecento dove, abbandonata la strada prestabilita della prosecuzione dell’attività paterna, muove i primi passi nel mondo del giornalismo, per affermarsi in una veste di comunicatore del tutto inedita per i tempi. Dopo i fasti registrati dall’industria manifatturiera a servizio della produzione bellica della Prima Guerra Mondiale, gli Stati Uniti si trovano a dover affrontare il più spaventoso degli spettri del mercato: il rischio di sovrapproduzione. Il “brain storming” di illustri banchieri e influenti imprenditori porta a centrare la soluzione in modo deciso e inequivocabile: occorre traghettare il cittadino americano dalla cultura dei bisogni a quella dei desideri, rendendo le persone bramose di soddisfare necessità sempre nuove, gravose come impellenti bisogni.
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EastMed: Israele “ruba” il gas del mare palestinese di Gaza
«Non esiste ancora una pipeline così lunga e così profonda», esulta il ministro dell’energia israeliano, Juval Steinitz. L’Italia e la Grecia (ma soprattutto l’Italia) gli costruiranno il gasdotto, che costerà 6 miliardi e sarà completato nel 2025: pomperà gas e greggio del grande giacimento davanti a Gaza, «che ovviamente i sionisti si sono accaparrati, rubandolo ai palestinesi, in condominio con Cipro (che ne ha perfettamente diritto, perché il giacimento è nelle sue acque territoriali)», rileva Maurizio Blondet. Il memorandum è stato appena firmato a Nicosia dall’ambasciatore italiano a Cipro e dai ministri dell’energia di Israele, Cipro e Atene, più il commissario europeo Miguel Arias Cañete. «E’ probabile che sarà la Ue a pagare il progetto, perché l’eurocrazia persegue instancabilmente la strategia di svincolare l’Europa dalla “dipendenza energetica da Mosca” (oltre a quella di fare regali allo Stato razziale mediterraneo)». In altre parole: volendo, ecco l’ennesima spiegazione sulla perdurante assenza di uno Stato palestinese. L’Anp, che neppure controlla Gaza, è ovviamente fuori gioco: non avrà parte, nel business.