Archivio del Tag ‘Teheran’
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Dopo Kissinger, ecco Hillary: è la dea della prossima guerra
In caso dovessero persistere dubbi sul fatto che, una volta eletta presidente degli Stati Uniti, Hillary Clinton si comporterà, saggezza a parte, come una Minerva imbottita di steroidi, ecco la prova regina, tratta da una delle sue discussioni con Bernie Sanders prima della “Battaglia di New York”: «Resterò nella Nato. Resterò nella Nato, e continueremo a cercare missioni e altri tipi di programmi da sostenere. Non dimentichiamo che la Nato era dalla nostra in Afghanistan. La maggior parte dei paesi che ne fanno parte ha anche perso soldati e civili in Afghanistan. La Nato è accorsa in nostra difesa dopo l’11 Settembre. Questo significa molto. Vero, dobbiamo stabilire gli aspetti finanziari della cosa, ma teniamo a mente ciò che realmente accade. Ora che la Russia si fa più aggressiva, con azioni intimidatorie di ogni genere nei confronti dei paesi Baltici; abbiamo potuto assistere a ciò che ha fatto nell’Ucraina orientale e sappiamo che vuole cambiare la faccia dell’Europa. Questo non è nel nostro interesse. Dobbiamo pensare a quanto costerebbe se l’aggressione russa non fosse scoraggiata dal fatto che la Nato è lì, in prima linea, a dimostrare che la Russia non si può spingere oltre».Tracciando un abile collegamento tra l’11 Settembre e “l’aggressione russa”, che presumibilmente sta cambiando la faccia dell’Europa, qui c’è tutto, incluse due delle cinque principali minacce all’esistenza degli Usa secondo il Pentagono: la prima (la Russia) e l’ultima (il terrorismo); le altre sono la Cina, la Corea del Nord e l’Iran (si noti che Hillary ha sempre accusato Teheran di “terrorismo”). “Continueremo a cercare missioni” dovrebbe essere decrittografato come “altre guerre” e implica, senza – mai – ammetterlo che la Libia e la Siria sono stati notevoli disastri nella politica estera degli Usa. In effetti, Hillary si spinge persino oltre, affermando di non aver finito con il Medio Oriente e di essere pronta a continuare la sua “missione” di imporre la democrazia con qualsiasi mezzo necessario, dai droni alla R2P (“responsibility to protect” [responsabilità di proteggere])… grazioso eufemismo per imperialismo umanitario. È inutile che i cittadini europei manifestino choc e timore reverenziale; in fin dei conti, hanno a che fare con un falco della guerra che è arrivato ad ammettere, ufficialmente, per la prima volta durante la sua campagna presidenziale, di essere realmente un falco della guerra. Per quanto riguarda la “nazione indispensabile” (copyright del mentore di Hillary, Madeleine Albright), sarà come al solito un affare… come la ricerca di guerre senza fine. Quindi, basta con l’immagine, coltivata con cura dai pr, di una gentile, innocua, vecchia nonnina: qui abbiamo piuttosto Hillary che apre l’argine al Kissinger che ha dentro di sé.Il consolato americano di Bengasi era essenzialmente la copertura di una linea clandestina usata dalla Cia per contrabbandare armi ai “ribelli moderati” che si battevano contro Damasco. Seymour Hersh è stato tra coloro che lo hanno rivelato: «L’amministrazione di Obama non ha mai ammesso pubblicamente il proprio ruolo nella creazione di quella che la Cia chiama la “linea dei ratti“, un canale clandestino che portava dritto in Siria. La “linea dei ratti”, autorizzata agli inizi del 2012, era usata per convogliare armi e munizioni all’opposizione partendo dalla Libia e passando per la Turchia fino ad attraversare il confine con la Siria. Molti dei siriani che alla fine ricevevano le armi erano jihadisti, alcuni dei quali collegati ad al-Qaeda». Ora, immaginate il segretario di Stato Hillary Clinton che agevola la spedizione di missili antiaerei terra/aria Sa-7 e di granate a propulsione missilistica a dei jihadisti collegati ad al-Qaeda. È decisamente qualcosa che non si può volere nel proprio curriculum, soprattutto nel mezzo di una feroce campagna presidenziale.Hillary sta già combattendo una battaglia per la credibilità per quanto riguarda il suo server sotterraneo di e-mail. Celate nella sua crociata personale per la privatizzazione di dati dal Dipartimento di Stato degli Usa, ci potrebbero essere almeno tre gravissime infrazioni: distruzione, alterazione, o falsificazione di documenti; convertire a proprio uso proprietà di un Dipartmento degli Usa; raccogliere, trasmettere o perdere dati relativi alla difesa. L’intera nazione attende di sapere se il procuratore generale degli Usa, Loretta Lynch, che risponde al suo capo, il presidente Obama, deciderà di perseguire l’ex segretario di Stato a causa di tali infrazioni. Come se la suspense non bastasse, l’ex capo della Cia, Robert Gates, fonte credibile e in buona fede, ha messo in discussione, pubblicamente, il “buon senso” di Hillary e la sua mancanza di investigazione e approfondimento dei dati nel disastro della Libia, praticamente dichiarando che Hillary è una mina vagante.Gates ha rivelato quello che nell’ambiente governativo è un segreto di Pulcinella: che Hillary era completamente concentrata su un cambiamento di regime in Libia: «Il presidente mi ha detto che si è trattato di una delle decisioni più difficili che si sia mai trovato a prendere, una specie di 51 a 49, e sono certo che non avrebbe preso quella decisione se il segretario di Stato Clinton non l’avesse sostenuta». Gates più tardi ha ricordato la domanda di Obama: «Posso portare a termine le due guerre in cui sono già coinvolto prima che voi ne andiate a cercare una terza?». Gates ha aggiunto che il colonnello Gheddafi «non rappresentava affatto una minaccia per noi. Rappresentava una minaccia per il suo popolo, tutto qui». Nemmeno essere il principale architetto di una Libia “liberata”, che si è trasformata in un covo di terrorismo aperto a tutti è una descrizione del proprio operato che si possa volere nel proprio Cv nel mezzo di una feroce campagna presidenziale.Le affermazioni di Gates riguardano fatti in qualche modo già trapelati nel marzo 2011: il famoso incontro notturno a Parigi tra Hillary e il “ribelle” libico Mahmoud Jibril. Uomo decisamente ammaliante, istruito negli Usa, Jibril aveva messo nel sacco Hillary dicendo «tutte le cose giuste sul fatto di sostenere la democrazia e l’inclusività e di creare istituzioni libiche, alimentando una certa speranza sul fatto che saremmo stati in grado di farcela», stando a Philip H. Gordon, uno degli aiutosegretari della Clinton. «Ci hanno detto quello che volevamo sentire. E si tende a voler credere». Ed ecco il punto conclusivo: si tratta di quello che un’amministrazione degli Usa “vuole credere”. Hillary ne era stata immediatamente convinta, senza minimamente far seguire la retorica a una stima, così come deve essere fatta secondo l’Abc dei servizi segreti americani.Questa versione, in quanto catalizzatore decisivo del cambiamento di regime in Libia, è più pertinente del fantasioso racconto francese sul fatto che il piccolo Napoleone Nicolas Sarkozy abbia preso il comando incitato da un patetico filosofo con l’immancabile camicia bianca aperta sul suo microscopico plesso solare. Così la Libia è diventata la guerra di Hillary, proprio come quella dell’Iraq nel 2003 era stata la guerra del regime neo-conservatore di Cheney. Obama, come presidente, incitato dal suo segretario di Stato, si è addentrato in Libia senza un piano B, senza un piano di azioni da intraprendere successivamente, senza nessuna meta strategica di politica estera a lunga scadenza. Eppure nessuno in Europa si dovrebbe aspettare che la dea della guerra spieghi le proprie mete strategiche… che siano portate avanti con l’uso di droni, sovversione, sanzioni, bombardamenti con fini liberatori o R2P. Che siano in Libia, o facciano parte di tutte queste “missioni” una volta che lei diventerà presidente.(Pepe Escobar, “Hillary Clinton, della della guerra”, da “Occhi della guerra” del 2 maggio 2016).In caso dovessero persistere dubbi sul fatto che, una volta eletta presidente degli Stati Uniti, Hillary Clinton si comporterà, saggezza a parte, come una Minerva imbottita di steroidi, ecco la prova regina, tratta da una delle sue discussioni con Bernie Sanders prima della “Battaglia di New York”: «Resterò nella Nato. Resterò nella Nato, e continueremo a cercare missioni e altri tipi di programmi da sostenere. Non dimentichiamo che la Nato era dalla nostra in Afghanistan. La maggior parte dei paesi che ne fanno parte ha anche perso soldati e civili in Afghanistan. La Nato è accorsa in nostra difesa dopo l’11 Settembre. Questo significa molto. Vero, dobbiamo stabilire gli aspetti finanziari della cosa, ma teniamo a mente ciò che realmente accade. Ora che la Russia si fa più aggressiva, con azioni intimidatorie di ogni genere nei confronti dei paesi Baltici; abbiamo potuto assistere a ciò che ha fatto nell’Ucraina orientale e sappiamo che vuole cambiare la faccia dell’Europa. Questo non è nel nostro interesse. Dobbiamo pensare a quanto costerebbe se l’aggressione russa non fosse scoraggiata dal fatto che la Nato è lì, in prima linea, a dimostrare che la Russia non si può spingere oltre».
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11 Settembre: l’uomo che condannò Moro accusa Israele
Accusa i neocon con nomi e cognomi: Paul Wolfowitz allora viceministro al Pentagono, l’israelo-americano Michael Chertoff, il rabbino Dov Zakheim (numero 3 al Pentagono) di essersi infiltrati nel governo Bush jr. e di aver organizzato, “su istigazione di Israele”, il mega-attentato dell’11 Settembre 2001. E non è un complottista marginale: è stato un alto funzionario del Dipartimento di Stato, da Nixon a Carter a Bush-padre, esperto in guerra psicologica, attore in operazioni coperte (come l’uccisione di Moro) per conto degli Stati Uniti. Membro fino al 2012 del Council on Foreign Relations, quindi dell’élite dell’establisment. Né lo si può accusare di avere come motivazione l’antisemitismo: i suoi genitori erano ebrei russo-polacchi fuggiti alla Shoah, lui ha scritto persino una biografia di sua “mamma yiddish”, Teodora. E’ Steve Pieczenik. Una vecchia conoscenza anche per l’Italia, come vedremo. Steve Pieczenik ha detto tutto il 21 aprile 2016, intervistato da Alex Jones, creatore del sito “InfoWars”.La video-intervista, di 47 minuti, è stata diffusa, probabilmente non a caso, nel pieno della campagna americana per incolpare la monarchia saudita del mega-attentato dell’11 Settembre, con la minaccia di pubblicare le 28 pagine del rapporto della Commissione Senatoriale sul 9/11, secretate da Bush jr. proprio perché mostrerebbero il coinvolgimento dei sauditi ai più alti livelli. Steve Pieczenik corregge: sì, c’è stata la cooperazione di “agenti sauditi”, ma il mandante principale è Israele, insiste nell’intervista. Egli si dichiara disposto a testimoniare sotto giuramento davanti a un tribunale federale e rivelare lì le sue fonti, fra cui (dice) “un generale”. L’importanza del testimone non può essere sottovalutata. Il dottor Pieczenik (è psichiatra) fu in Italia nel marzo del 1978 e per tutti i 55 giorni del sequestro di Aldo Moro da parte delle Br; speditovi dall’allora segretario di Stato Cyrus Vance, si inserì nel Comitato di Crisi allestito da Cossiga, allora ministro dell’interno (a fianco del criminologo Franco Ferracuti, l’esperto in difesa e sicurezza Stefano Silvestri, una grafologa e il magistrato Renato Squillante) ufficialmente per dare la sua esperta assistenza al salvataggio del politico italiano e negoziare con le Brigate Rosse. In realtà, come ha rivelato in un libro nel 2008, per assicurarsi che Moro non ne uscisse vivo: gli Usa avevano deciso che Moro doveva essere “sacrificato” per garantire “la stabilità dell’Italia” (nella Nato).Intervistato da “France 5” e poi da Gianni Minoli a “Mixer” nel novembre 2013, Steve Pieczenik ha confermato tutto: per esempio raccontando che silurò l’iniziativa di Paolo VI di raccogliere una grossa somma (pare di dieci miliardi di lire), per pagare un riscatto. «Stavamo chiudendo tutti i possibili canali attraverso cui Moro avrebbe potuto essere rilasciato. Non era per Aldo Moro in quanto uomo: la posta in gioco erano le Brigate Rosse e il processo di destabilizzazione dell’Italia». Chiese Minoli: «Sostanzialmente, lei fin dal primo giorno ha pensato e ha detto a Cossiga: Moro deve morire». «Evidente», rispose il consulente: «Cossiga se ne rese conto solo nelle ultime settimane. Aldo Moro era il fulcro da sacrificare attorno al quale ruotava la salvezza dell’Italia». Sic. Per questo la Procura di Roma, nel 2014, ha accusato l’americano di concorso in omicidio. E Gero Grassi, vicepresidente dei deputati Pd che voleva una nuova commissione d’indagine sul caso, disse: «Steve Pieczenik stava al ministero dell’interno per manipolare le Brigate rosse e arrivare all’omicidio di Aldo Moro».Non è stata la sua unica impresa. Nel Dipartimento di Stato, ai tempi di Reagan, il dottore è stato incaricato di architettare il “cambio di regime” a Panama, ossia il rovesciamento di Noriega (che lo accusò apertamente di essere “un assassino” che aveva ucciso vari suoi collaboratori). Ufficialmente capo-negoziatore in una quantità di prese di ostaggi e dirottamenti (ad opera di Farc colombiane, Abu Nidal, Idi Amin, Olp) ha contribuito a creare la Delta Force, il gruppo di teste di cuoio di intervento rapido in situazioni di crisi. Ha dato le dimissioni quando fallì il tentativo di liberare gli ostaggi americani nell’ambasciata di Teheran; decisione del presidente Carter, ma probabilmente scacco suo, del dottor Pieczenik. S’è rifatto però una carriera di successo ideando trame di thriller per Tom Clancy. Nel 2011 è tornato sotto i riflettori per denunciare che la “cattura di Bin Laden” messa a segno ad Abbottabad in Pakistan e passata come un grande successo del presidente Obama, era stata tutta una messinscena (ne abbiamo avuto tutti il sospetto): il vero Bin Laden, secondo lui, è morto fin dal 2001, di sindrome di Marfan.Non può esser casuale il fatto che adesso, a 72 anni e a 15 dal mega-attentato, il vecchio agente del Dipartimento di Stato con le mani in pasta in tante storie oscure di destabilizzazione e sovversione, esca ad accusare Israele mentre tutta la grancassa politico-mediatica sta additando gli spregevoli sauditi. Una campagna a cui partecipa stranamente anche Seymour Hersh, il grande giornalista investigativo con “gole profonde” nel settore militare, che ha condotto inchieste scomode per lo “stato profondo” americano. Pochi giorni fa, intervistato da “Alternet”, Hersh ha raccontato: nel 2011 «i sauditi hanno pagato i pakistani perché non ci dicessero [che Bin Laden si trovava ad Abbottabad, sotto la loro protezione] perché non volevano che noi (americani) interrogassimo Bin Laden perché ci avrebbe parlato – è la mia ipotesi – del loro coinvolgimento [nell’11 Settembre]». Ma quale Bin Laden nascondevano i pakistani nel 2011, se Pieczenik dice (confermando versioni solide del tempo) che è morto nel 2001, pochi mesi dopo l’attentato alle Towers e al Pentagono?Può esserci una lotta di informazione e contro-informazione all’interno stesso dello “Stato profondo” americano? Certo è che i media americani sono scatenati in esibizioni di spregio verso i monarchi wahabiti: “Royal Scum”, feccia regale, titolava il “New York Daily News” qualche giorno fa. Tanto insolito “coraggio” deve essere autorizzato. Naturalmente la “rivelazione” delle 28 pagine colpisce anche il presidente Bush jr., e la sua amministrazione, perché è evidente che, se hanno coperto la parte avuta dai sauditi, sono colpevoli. Lo scandalo anti-saudita va accuratamente controllato, perché è facile che debordi e i suoi liquami schizzino a colpire proprio gli israeliani o con doppio passaporto che erano al Pentagono ai tempi di Bush jr., e additati dall’agente Pieczenik: Paul Wolfowitz, rabbi Dov Zakhiem (e il terzo, ebreo anche lui, era Douglas Feith) più Michael Chertoff, capo dell’Homeland Security e grande insabbiatore-depistatore delle indagini.Questo scontro interno è senza dubbio in relazione con l’ascesa del candidato imprevedibile, Donald Trump, nella lizza presidenziale. Dopo il suo discorso sul suo programma in politica estera – liquidato con rabbia dal “New York Times” perché propone fra l’altro un accordo con Putin e la fine dell’interventismo – «gli americani sentono di avere, per la prima volta dopo molto tempo, una alternativa sobria e basata sull’interesse nazionale alle disastrose politiche dei neocon», ha detto Jim Jatras, l’ex consigliere repubblicano del Senato. Con grande dispetto dell’establishment, Trump non raccoglie voti solo tra i rozzi arretrati operai bianchi di basso reddito che odiano gli immigrati messicani e lo sentono volgare come loro. Negli exit poll delle primarie in Pennsylvania, Maryland, Delaware, Connecticut e Rhode Island – dove ha trionfato – s’è visto che hanno scelto lui la metà degli elettori repubblicani con alto titolo di studio e con reddito di 100 mila dollari annui: il suo discorso di politica estera ha convinto proprio la classe media benestante. Questo per l’elettorato repubblicano. Quanto a quello democratico: «Continuo a incontrare gente che non sa decidere se votare Bernie Sanders oppure Donald Trump», ha confessato al “Baltimore Sun” Robert Reich, ex ministro del lavoro sotto Bill Clinton e uomo molto di sinistra (nella misura statunitense). L’elettorato di “sinistra”, quello che ha favorito Sanders il “socialista”, sta pensando di votare Trump, non Hillary. Forse è proprio la grande liberazione da Israel….(Maurizio Blondet, “11 Settembre, l’uomo di Washington accusa Israele”, dal blog di Blondet del 29 aprile 2016).Accusa i neocon con nomi e cognomi: Paul Wolfowitz allora viceministro al Pentagono, l’israelo-americano Michael Chertoff, il rabbino Dov Zakheim (numero 3 al Pentagono) di essersi infiltrati nel governo Bush jr. e di aver organizzato, “su istigazione di Israele”, il mega-attentato dell’11 Settembre 2001. E non è un complottista marginale: è stato un alto funzionario del Dipartimento di Stato, da Nixon a Carter a Bush-padre, esperto in guerra psicologica, attore in operazioni coperte (come l’uccisione di Moro) per conto degli Stati Uniti. Membro fino al 2012 del Council on Foreign Relations, quindi dell’élite dell’establisment. Né lo si può accusare di avere come motivazione l’antisemitismo: i suoi genitori erano ebrei russo-polacchi fuggiti alla Shoah, lui ha scritto persino una biografia di sua “mamma yiddish”, Teodora. E’ Steve Pieczenik. Una vecchia conoscenza anche per l’Italia, come vedremo. Steve Pieczenik ha detto tutto il 21 aprile 2016, intervistato da Alex Jones, creatore del sito “InfoWars”.
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I sauditi rischiano di fallire, per questo cercano la guerra
E’ fuor di dubbio che sia di Riad la responsabilità della gravissima crisi con l’Iran. Quando si annuncia l’esecuzione in un sol giorno di 47 persone, diverse delle quali sciite, tra cui un imam reo soltanto di aver promosso una manifestazione di protesta quando aveva 19 anni, non sono necessarie analisi sofisticate per capire che si tratta di una provocazione deliberata. Ma a quali fini? Facciamo un passo indietro. L’Arabia saudita è da sempre in cima alla lista nera dei paesi che violano i diritti umani, ma ha sempre beneficiato di uno statuto speciale da parte degli Stati Uniti e di conseguenza dei loro alleati. La ragione la conosciamo tutti: è il principale produttore di petrolio al mondo. Ed è più che valida per indurre Washington a chiudere per quarant’anni entrambi gli occhi. Negli ultimi due anni, però, il quadro è cambiato. Lo sfruttamento del cosiddetto shale oil, l’olio di scisto, di cui l’America è ricca, ha reso meno importante il regime saudita.I prezzi del greggio hanno iniziato a scendere e Riad ha reagito tentando il tutto per tutto: siccome i giacimenti di shale oil sono redditizi solo oltre un certo prezzo al barile, il regime saudita anziché tentare di contrastare la caduta dei prezzi con il taglio della produzione, come sarebbe stato logico, ha percorso la via inversa: l’ha aumentata nella speranza di far fallire i produttori americani. Scommessa in buona parte persa per ragioni mai esplicitate ufficialmente ma che sono facilmente intuibili: quello dell’olio di scisto, sebbene molto inquinante, ha un valore strategico per il governo degli Stati Uniti che ha fatto e farà di tutto per non vanificarlo. A tremare finanziariamente, invece, ora è proprio Riad, dove quest’anno è esploso il deficit pubblico e che vede compromessa a medio termine la propria stabilità economica. Un gigante che appariva incrollabile ora scopre di essere strutturalmente fragile e teme per il proprio avvenire.L’Iran cosa c’entra? C’entra, c’entra. Perché i sauditi sono sunniti e loro sciiti in un dissenso paragonabile, per intenderci, a quello che a lungo ha opposto cattolici e protestanti in Europa. Ma soprattutto perché l’Iran proprio quest’anno è stato sdoganato dagli Stati Uniti, grazie allo storico accordo sul nucleare. Quegli Usa che, però, assieme ai sauditi, ai turchi e agli Emirati fino a ieri hanno armato e finanziato l’Isis nel tentativo di rovesciare Assad, ovvero il leader di un paese da sempre amico proprio di Teheran. La fine delle sanzioni ha peraltro spinto ulteriormente al ribasso il prezzo del petrolio, accentuando le difficoltà dell’Arabia Saudita. Aggiungete il fatto che Riad ha speso cifre enormi in armamenti e la criticità della situazione apparirà evidente.Riad sta fallendo su tutti i fronti. L’offensiva lanciata nello Yemen contro gruppi sciiti vicini a Teheran e che ha provocato una guerra terribile ignorata dall’Occidente, non ha dato i risultati sperati. Da quando Putin ha cominciato a bombardare massicciamente, l’Isis ha perso terreno e tutti hanno capito che Assad resterà al potere ancora a lungo. E’ così svanito il sogno dei sauditi di creare uno Stato Islamico a nord (nell’area tra Siria e Iraq), che avrebbe dovuto chiudere a tenaglia l’Iran. La Russia appare più forte, l’America, in un anno elettorale, più debole mentre il prezzo del petrolio continua calare. I governanti della Casa Regnante non brillano certo per acume strategico: per quanto ricchi restano dai capi tribali imbevuti di fanatismo religioso. Il timore è che abbiano scelto la via peggiore per tentare di uscire dai guai: quella di approfittare della propria supremazia militare per provocare una guerra con l’Iran che faccia salire il prezzo del petrolio e che si concluda con il dominio sunnita anche a Teheran e, di conseguenza, a Baghdad. Un delirio, che pone l’Occidente di fronte alle proprie responsabilità storiche. Un delirio da fermare ad ogni costo.(Marcello Foa, “I sauditi rischiano di fallire, per questo cercano la guerra”, dal blog “Il Cuore del Mondo” su “Il Giornale” del 5 gennaio 2016).E’ fuor di dubbio che sia di Riad la responsabilità della gravissima crisi con l’Iran. Quando si annuncia l’esecuzione in un sol giorno di 47 persone, diverse delle quali sciite, tra cui un imam reo soltanto di aver promosso una manifestazione di protesta quando aveva 19 anni, non sono necessarie analisi sofisticate per capire che si tratta di una provocazione deliberata. Ma a quali fini? Facciamo un passo indietro. L’Arabia saudita è da sempre in cima alla lista nera dei paesi che violano i diritti umani, ma ha sempre beneficiato di uno statuto speciale da parte degli Stati Uniti e di conseguenza dei loro alleati. La ragione la conosciamo tutti: è il principale produttore di petrolio al mondo. Ed è più che valida per indurre Washington a chiudere per quarant’anni entrambi gli occhi. Negli ultimi due anni, però, il quadro è cambiato. Lo sfruttamento del cosiddetto shale oil, l’olio di scisto, di cui l’America è ricca, ha reso meno importante il regime saudita.
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Volkswagen, scandalo made in Usa: guai se Berlino scappa
Anno movimentato per il gruppo Volkswagen: prima un bilancio dagli utili record ed il traguardo da primo produttore mondiale in vista, poi la notizia delle centraline manipolate che nel giro di pochi giorni brucia metà della capitalizzazione in borsa. Ad innescare lo scandalo è la statunitense Environmental Protection Agency che accusa i diesel tedeschi di emettere ossidi d’azoto oltre i limiti consentiti: le teste dei vertici di Wolfsburg cadono e l’affidabilità teutonica incassa un duro colpo. Scrupolosità ambientalistica delle agenzie americane? Sgambetto industriale? «No. Come lo scandalo Fifa, la “scoperta” di illeciti su cui si è sempre chiuso un occhio, ha finalità politiche. Berlino, nonostante la gestione di Angela Merkel, è per gli americani l’incognita dirimente», scrive Federico Dezzani. «Se la Germania si sganciasse dal blocco atlantico, Washington perderebbe il teatro europeo e, di conseguenza, l’egemonia globale». Per questo, sostiene Dezzani, è inevitabile individuare una precisa regia statunitense nell’esplosione dello scandalo che sta demolendo la credibilità di una Germania che si è fatta detestare per il trattamento riservato alla Grecia.Ein Volk, ein Wagen, ein Skandal: diesel e Germania fanno un distico, scrive Dezzani sul suo blog. «Se si volesse una terzina, allora sarebbe Diesel, Germania e Volkswagen». È nella febbricitante Germania guglielmina, apripista della seconda rivoluzione industriale, che Rudolf Diesel inventa un motore basato sulla compressione dell’aria: l’impiego non tarda nell’industria bellica ma bisogna attendere gli anni ’30 perché una vettura di lusso, la Mercedes-Benz W138, monti un pesante e costoso motore a gasolio. «Quando Adolf Hitler affida al geniale Ferdinand Porsche la progettazione di un’auto per la motorizzazione di massa, la scelta cade non a caso su un più economico motore a benzina: sono le versioni da 1,1-1,6 litri che monta la Volkswagen Typ 1, meglio nota come il “Maggiolino”. Per abbattere i costi di produzione e rendere il prezzo abbordabile, si adottano le più moderne tecniche fordiste e si erigono fabbriche ex-novo: attorno a loro nasce la cittadina di Wolfsburg, sede dell’attuale gruppo Volkswagen».La casa tedesca segue da subito le fortune della Germania: gli impianti, convertiti ad uso bellico, crollano sotto le bombe alleate del ’44-’45. Le forze d’occupazione inglesi, resistendo alle pressioni di chi vuole “ruralizzare” la Germania sconfitta, acconsentono ad un rapida ripresa dell’attività: esportare, per i tedeschi, significa tornare a vivere, nell’immediato dopoguerra. E il mito felice del Maggiolino si afferma solo col “miracolo economico”. Il decollo però coincide con l’inizio della parabola discendente per la Fiat e passa per la prima Golf del 1974, disegnata da Giorgetto Giugiaro. «Protetta dalla “legge Volkswagen” che ne impedisce le scalate ostili e blindata dai pacchetti azionari in mano al land della Bassa Sassonia ed i discendenti di Porsche – continua Dezzani – la casa di Wolfsburg fa da polo aggregante per l’industria meccanica, inglobando marchi (Audi, Seat, Skoda, Bentley, Bugatti, Lamborghini, Porsche, Ducati, Scania, Man) che consentono una diversificazione per prodotto, fascia di prezzo e paese».Sono le proprio le vetture di lusso e la trentennale presenza in Cina (oggi secondo mercato per il gruppo) a regalare un bilancio 2014 da record: un fatturato da 200 miliardi di euro, 14 miliardi di utili e il traguardo come primo produttore mondiale in vista. Quando nel marzo 2015 è presentato il bilancio consolidato, le azioni Volkswagen sono scambiate a 250 euro: «La casa di Wolfsburg è all’apice del successo, specchio di una Germania sempre più sicura della propria forza economica e dell’influenza politica derivante». Man mano che dalla Cina giungono segnali di rallentamento, le azioni Vw danno segnali di malessere, attestandosi a 170 euro a metà settembre. «Poi ha inizio il bagno di sangue, un assalto speculativo in grande stile che ricalca le recenti ondate ribassiste contro il rublo e la borsa cinese». Lunedì 21 settembre le azioni perdono il 20% del valore, bruciando 14 miliardi, e nell’arco di una settimana la capitalizzazione in borsa è pressoché dimezzata, con le azioni scambiate il 30 settembre a 95 euro. A innescare il crollo è la notizia che l’agenzia statunitense per la protezione dell’ambiente (Epa) ha individuato un software nelle centraline delle Volkswagen che spegne il controllo delle emissioni durante la guida e lo riaccende per i test. Il gruppo tedesco, minaccia l’Epa, rischia una multa fino a 18 miliardi, 37.500 dollari per ognuna delle 480.000 auto turbodiesel incriminate.Immediata la campagna mediatica sul fallimento del sistema-paese della Germania, piuttosto che sui presunti danni all’ambiente: trascurando il fatto che i diesel ammontino solo al 24% delle vendite Volkswagen negli Usa e che l’inquinamento prodotto dal veicolo medio americano sia di gran lunga maggiore, viene «sferrato un tale bombardamento mediatico da obbligare la casa automobilistica a correre ai ripari: l’amministratore delegato Martin Winterkorn rassegna le dimissioni ed è annunciato uno “spietato repulisti” nell’azienda». Il Credit Suisse stima tra i 25 e i 75 miliardi di euro il costo dello scandalo, paventando la necessità di un aumento di capitale per la casa di Wolfsburg. La multa da 18 miliardi minacciata dall’Epa? «Un importo talmente alto da far pensare ad una provocazione, utile ad alimentare la tempesta mediatica». E’ la stessa somma appena pagata alle autorità americane dalla British Petroleum per il disastro ambientale della piattaforma Deepwater Horizon che nel 2010 causò la più grande fuoriuscita di petrolio della storia nel Golfo del Messico, con 500.000 tonnellate di greggio sversate in mare.«L’inflessibilità delle autorità americane e l’accanimento dei media sono poi doppiamente sospette se paragonate ad uno scandalo che ha recentemente coinvolto un’altra casa automobilistica, la General Motors», aggiunge Dezzani. Nel febbraio del 2014, Gm è stata costretta a richiamare 800.000 auto per un difetto al blocchetto d’accensione, che aveva provocato almeno 13 incidenti mortali. Per risparmiare pochi centesimi, la casa di Detroit aveva montato una molla difettosa che poteva ruotare la chiave sulla posizione di spegnimento ad auto in corsa, «spegnendo il motore, bloccando il servosterzo e disattivando gli airbag». Reazioni in Borsa? Nessuna. E una multa di appena 35 milioni di dollari. Fatte le debite proporzioni, la sanzione ipotizzate dall’Epa contro la Volkswagen equivarrebbero a «500 morti per avvelenamento da ossido d’azoto, peggio di una testata chimica su un centro abitato». Di certo non si ricorda un attivismo pari a quello prodigato oggi da Parigi e Londra sul caso dell’auto tedesca: il governo francese che invoca un’inchiesta europea, quello britannico definisce «inaccettabili le azioni di Vw», il “Financial Times” che alza il tiro, scrivendo che a casa di Wolfsburg è impunita, nell’Unione Europea sotto il tallone tedesco.«Lo scandalo Vw è una rappresaglia americana contro Berlino, che su troppi dossier, dall’eurocrisi alla Russia passando per il Medio Oriente, pecca di “eccesso di sicurezza”», scrive Dezzani, che denuncia anche la «strisciante retorica anti-tedesca», diffusa anche in Italia «dai media ossequiosi alle direttive d’Oltreoceano». Ovvero: «Man mano che l’eurocrisi evolveva differentemente da come preventivato, il marcescente estabilshment italiano è stato ben felice di scaricare su Berlino (a mezzo stampa) parte delle tensioni accumulate durante l’interminabile crisi economica». Dezzani invoca «un minimo di verità storica». E ricorda: «La Germania esce sconfitta dall’ultima guerra insieme all’Italia e al Giappone, e alla stregua di una potenza occupata è trattata: dispiegamento permanente di forze armate statunitensi, subalternità dell’apparato di sicurezza a quello angloamericano, pesanti limitazioni alla politica estera ed economica (vedi l’ostilità di Henry Kissinger alla Ostpolitik e gli accordi di Plaza del 1985 che, imponendo la rivalutazione del marco sul dollaro, misero a dura prova l’economia tedesca nel decennio successivo)».A differenza dell’Italia, continua Dezzan, la Germania è dotata di una classe dirigente «compatta, istruita e conscia degli interessi del paese». Mentre gli anni di piombo hanno messo in crisi l’Italia con lo smantellamento dell’economia mista, «tra bombe e assalti speculativi», la Germania è emersa nei primi anni ’90 con un manifatturiero accresciuto e «risorse tali da comprarsi la Ddr». Poi la Germania «subisce sì l’euro», ma mantiene una posizione di dominio sulla Bce. E ora «dispone di un mercato europeo senza barriere e di un enorme sistema a cambi fissi (l’euro) che consente di tosare le quote di mercato dei concorrenti (Italia in primis) ed accrescere l’attivo della bilancia commerciale». Perché gli Usa non solo acconsentono all’operazione ma addirittura la guidano? «Innanzitutto la Germania resta un paese militarmente occupato e le figure apicali dello Stato sono accuratamente selezionate in base ai criteri di Washington, poi la moneta unica non avrebbe dovuto essere fine a se stessa, bensì fonte presto o tardi di una crisi (quella attuale) che avrebbe dovuto sfociare negli Stati Uniti d’Europa, alter ego di Washington».«L’euro, come prevedibile, rende più ricca e sicura di sé la Germania, che almeno in tre riprese tenta di strappare agli angloamericani un nuovo status, non più potenza sconfitta e subalterna ma potenza alla pari», continua Dezzani. Prima, Deutsche Börse tenta di acquistare l’americana Nyse Euronext. Poi, nel 2003, Berlino cerca (senza riuscirci) di entrare nel super-esclusivo club di spionaggio “Five Eyes”, che riunisce i paesi anglosassoni (Usa, Uk, Nuova Zelanda, Australia e Canada). Infine c’è il tentativo, anch’esso fallito, da parte dell’editore tedesco Axel Springer (di provata fede atlantica) di acquistare nell’estate 2015 il pacchetto di controllo del “Financial Times”. «Il messaggio che gli angloamericani inviano alla Germania è chiaro: al tavolo con noi non vi sedete, restate nel mucchio con gli altri europei e pensate a risolvere la crisi dell’euro». Gli Usa restano scontenti di Berlino: approvano la svolta neoliberista dell’Ue, ma sanno che la moneta unica «è presto o tardi destinata a spezzarsi, se Berlino non accetta la condivisione dei debiti pubblici, la nascita di un Tesoro europeo e, a ruota, di un governo federale».Invece di imboccare la via delle federazione continentale, la Germania prima rifiuta gli eurobond nel 2011, poi si asserraglia sull’austerità che scarica tutto il peso dell’euro-regime sulla periferia: tagli ai salari e inasprimento fiscale per uccidere l’import e riequilibrare le bilance commerciali. «Quando Alexis Tsipras, che gode del palese appoggio di Washington e Londra, minaccia di rifiutare le politiche d’austerità, i falchi di Berlino non esitano a dire: bene, la porta è quella, esci dall’euro! Solo il clamoroso retromarcia di Alexis Tsipras (testimoniando quali interessi si celano dietro i vari Syriza e Movimento 5 Stelle) evitano che la Grecia abbandoni l’Eurozona, sancendo la reversibilità della moneta unica». Per Dezzani è sintomatico l’atteggiamento di Romano Prodi, il padre italiano dell’euro, che «da posizioni filo-tedesche ed anti-americane ai tempi della guerra in Iraq del 2003, si è riposizionato durante l’eurocrisi di 180 gradi ed abbraccia ora una linea anti-tedesca e filo-americana». In una recente intervista ad Eugenio Scalfari, dichiara: «I tedeschi non soltanto non credono negli Stati Uniti d’Europa, ma non li vogliono. Vogliono una Germania sola. Hanno accettato l’euro perché lo considerano soprattutto la loro moneta, il marco che ha cambiato nome, tant’è vero che la Bundesbank, la Banca centrale tedesca, si oppone alla politica di Draghi che invece considera l’euro come la vera moneta europea».Draghi, aggiunge Prodi, è uno dei pochissimi che vogliono gli Stati Uniti d’Europa, e utilizza gli strumenti a sua disposizione per spingere su quella strada. Lo stesso Prodi rincara la dose in un’intervista all’“Huffington Post”: «Il potere tedesco è arrogante. Quando arrivi a un livello di sicurezza, chiamiamola anche di arroganza, così forte, i freni inibitori sono a rischio. In Germania non c’è contraddittorio tra i vari attori sociali, c’è un sistema molto compatto. Oggi con il caso Dieselgate emerge una crisi di un sistema, molto più complicata di una crisi politica che interessa solo la Merkel. Non a caso le irregolarità legate alla Volkswagen sono state scoperte da un’autorità americana. La cosa è stata messa fuori da una struttura non europea». Come gli americani, anche Prodi «sa che l’euro è un aereo in stallo, sorretto solo dall’allentamento quantitativo di Mario Draghi e destinato a schiantarsi non appena verranno meno gli acquisti di titoli di Stato da parte della Bce (cui peraltro Berlino ha imposto che l’80% del debito acquistato finisse in pancia alle rispettive banche centrali nazionali)». Aggiunge Dezzani: «Quale investitore sano di mente acquisterebbe un Btp a 10 anni che rende l’1,6%, quando il paese flirta con la deflazione, ha un rapporto debito/Pil del 140% e istituti bancari appesantiti da 200 miliardi di crediti inesigibili?».Ma i motivi di tensione tra Berlino e Washington non si esauriscono qui e spaziano dalla questione del surplus commerciale tedesco all’Ucraina, passando per il Medio Oriente. Il primo a dissociarsi dall’appoggio garantito da Angela Merkel al cambio di regime a Kiev è stato il potentissimo mondo dell’industria, «che ha interessi da difendere a Mosca ben di più che a Kiev». Poi, continua Dezzani, è stato lo stesso governo tedesco a criticare i crescenti toni bellicistici contro la Russia del generale Philip Breedlove, responsabile del comando delle forze armate americane in Europa, con sede a Stoccarda. Non va meglio in Medio Oriente «dove la Germania, su posizioni sempre meno atlantiche e sempre più vicine ai Brics, prima si dichiara contro l’intervento militare in Libia (con la clamorosa astensione sulla risoluzione Onu 1973 che impone la “no-fly zone”) poi, è storia di questi giorni, quando la Russia opta per un intervento militare risolutivo in Siria, Berlino capovolge la politica finora seguita e afferma che Bashar Assad (la cui caduta è agognata da Washington e Tel Aviv sin dal 2011) è un interlocutore imprescindibile».Per Washington, occorre quindi “riportare all’ordine” la Germania. Come? «Ad agosto è aperta la via balcanica che, attraverso Macedonia, Serbia ed Ungheria, riversa in Austria e Germania decine di migliaia di persone nel lasso di poche settimane: benché Angela Merkel si dica pronta a ricevere 800.000 immigrati all’anno (esternazione che la fa precipitare nei sondaggi) il paese dà forti segnali di stress sotto l’improvvisa ondata migratoria (270.000 persone solo a settembre, più che nell’intero 2014). Non solo si moltiplicano gli attacchi dei gruppi di estrema destra contro le strutture d’accoglienza, dove peraltro aumenta la tensione tra immigrati, ma l’intero sistema di ricezione dei profughi si avvicina al punto di ebollizione: il presidente Joachim Gauck è costretto a rettificare le parole della cancelliera, chiarendo che c’è un limite all’accoglienza». Infine, arriva lo scandalo Volkswagen, «un vero attacco al sistema-paese». Domanda: «Basteranno queste rappresaglie a “riportare l’umiltà” in Germania?».Con l’attuale situazione internazionale, sempre più dinamica (l’intervento militare russo in Siria e il saldarsi dell’asse Mosca-Teheran-Baghdad-Damasco) la Germania «è il peso determinante, ovvero la potenza che sbilanciandosi verso uno schieramento (gli angloamericani e quel che resta della Francia) o l’altro (russi e cinesi) ne determina la vittoria». Se la Germania si saldasse con Russia e Cina, sostiene Dezzani, gli Usa sarebbero espulsi dall’Eurasia, e perderebbero la “testa di ponte” per proiettarsi nell’Hearthland. L’intervento di Putin in Siria «assegna, al momento, l’intero teatro mediorientale alla Russia, che spinge la propria influenza a latitudini così basse da stabilire un nuovo record». È molto difficile che Washington incassi in silenzio la sconfitta. «Più probabile, invece, è un contrattacco in Ucraina tramite le forze nazionaliste, con lo scopo di sottoporre Mosca al logorio di due fronti, oppure imboccare la via dell’escalation militare». Dalla risoluzione del dilemma di Berlino tra Mosca e Washington, conclude Dezzani, dipenderà l’esito del conflitto, che si sta spostando rapidamente dalla Borsa e dalla stampa ai teatri operativi.Anno movimentato per il gruppo Volkswagen: prima un bilancio dagli utili record ed il traguardo da primo produttore mondiale in vista, poi la notizia delle centraline manipolate che nel giro di pochi giorni brucia metà della capitalizzazione in borsa. Ad innescare lo scandalo è la statunitense Environmental Protection Agency che accusa i diesel tedeschi di emettere ossidi d’azoto oltre i limiti consentiti: le teste dei vertici di Wolfsburg cadono e l’affidabilità teutonica incassa un duro colpo. Scrupolosità ambientalistica delle agenzie americane? Sgambetto industriale? «No. Come lo scandalo Fifa, la “scoperta” di illeciti su cui si è sempre chiuso un occhio, ha finalità politiche. Berlino, nonostante la gestione di Angela Merkel, è per gli americani l’incognita dirimente», scrive Federico Dezzani. «Se la Germania si sganciasse dal blocco atlantico, Washington perderebbe il teatro europeo e, di conseguenza, l’egemonia globale». Per questo, sostiene Dezzani, è inevitabile individuare una precisa regia statunitense nell’esplosione dello scandalo che sta demolendo la credibilità di una Germania che si è fatta detestare per il trattamento disumano riservato alla Grecia.
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Obama fa pace con l’Iran. Smetterà di sostenere l’Isis?
«È sicuramente storico: la diplomazia forse ha vinto». Così anche Pepe Escobar saluta l’accordo tra Usa e Iran, dopo 35 anni di incomunicabilità e le tensioni continue dell’ultimo decennio. Un accordo “epocale”, nei termini del Nuovo Grande Gioco in Eurasia, con «conseguenti scosse tettoniche che riorganizzano la zona». In pratica, l’Iran, supportato da Russia e Cina , «ha finalmente, con successo, scoperto il bluff degli atlantisti – lungo, tortuoso e durato 12 anni – riguardo le proprie “armi nucleari”». Tutto ciò, continua Escobar, è accaduto solo perché l’amministrazione Obama ha bisogno di «almeno un successo di politica estera», nonché di un modo per «provare a influenzare la messa in opera del nuovo ordine geopolitico che ruoterà attorno all’Eurasia». Grande domanda, a questo punto: se gli Usa “sdoganano” Teheran, permettendole di svolgere appieno il suo ruolo di grande potenza regionale, questo significa che Washington si appresta ad abbandonare il sostegno occulto all’Isis, consentendo agli iraniani di sbaragliare sul campo i tagliagole jihadisti annidati in Siria e in Iraq sotto la protezione delle monarchie petrolifere del Golfo?Ci spera Vladimir Putin, super-negoziatore accanto all’Iran, secondo cui l’accordo contribuirà alla lotta al terrorismo in Medio Oriente. Il presidente russo parla di «miglioramento della sicurezza globale e regionale, dato dal rafforzamento dell’accordo di non-proliferazione del nucleare», fino alla eventuale «creazione, in Medio Oriente, di una zona libera da armi di distruzione di massa». Il vero problema, scrive Escobar in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, è iniziato quando il ministro degli esteri russo Sergeij Lavrov ha affermato che Mosca si aspetta la cancellazione del piano di difesa missilistica di Washington, dopo che l’accordo con l’Iran ha dimostrato che Teheran non è, e non sarà, una “minaccia” nucleare. «Ecco l’ostacolo. Il Pentagono semplicemente non vuole cancellare una parte della propria dottrina militare “Full Spectrum Dominance”», accampando banali ragioni “diplomatiche”. «Ogni analista di sicurezza non accecato dall’ideologia sa che la difesa missilistica non è mai stata rivolta all’Iran, ma alla Russia. L’ultima analisi militare del Pentagono menziona – non a caso – le maggiori figure asiatiche (Iran, Russia e Cina) come “minacce” alla sicurezza nazionale statunitense».Dal punto di vista delle relazioni Iran-Russia, aggiunge Escobar, il commercio è destinato ad aumentare, specialmente in nanotecnologie, componenti meccaniche e agricoltura. Sul fronte energetico, l’Iran sicuramente competerà con la Russia sui più importanti mercati come la Turchia e presto l’Europa occidentale, ma c’è ampio margine per Gazprom e l’iraniana Nioc (National Iranian Oil Company) per spartirsi le quote di mercato. Il capo di Nioc, Mohsen Qamsari, anticipa che l’Iran darà priorità alle esportazioni verso l’Asia e proverà a recuperare almeno il 42% del mercato che aveva in Europa prima delle sanzioni. «Piuttosto mediocre», secondo Escobar, reazione di Washington: «Obama ha preferito affermare – giustamente – che ogni percorso che portasse ad armi nucleari iraniane è stato impedito, e ha promesso di porre il veto a qualsiasi intervento del Congresso atto a bloccare l’accordo. Quando ero a Vienna, la settimana scorsa, ho avuto una conferma sicura – da fonte europea – che l’amministrazione Obama è fiduciosa di avere i voti necessari a Capitol Hill».Cosa succederà a tutto quel greggio iraniano? Tariq Rauf, ex capo delle politiche di sicurezza dell’Aiea, l’agenzia Onu per il controllo del nucleare, e ora direttore del programma di non-proliferazione e disarmo all’Istituto di Ricerca Internazionale sulla Pace di Stoccolma (Sipri), definisce l’intesa «il più importante accordo multilaterale sul nucleare degli ultimi vent’anni», dopo quello contro i test nucleari del 1996, al punto di proporre il Nobel per la Pace per il segretario di Stato John Kerry e il ministro degli esteri iraniano Javad Zarif. «Ricostruire la fiducia tra Iran e Usa, tuttavia, sarà una via lunga e pericolosa», spiega Escobar. Teheran ha acconsentito a una moratoria di 15 anni per limitare di due terzi la sua potenzialità di arricchimento dell’uranio. Entro il 15 dicembre, tutte le questioni ancora in sospeso – si parla di 12 punti – andranno chiarite, e l’Aiea farà una valutazione finale. «Uno dei punti più spinosi è stato risolto quando Teheran ha permesso agli ispettori dell’Onu di visitare potenzialmente tutti i siti». Non ci saranno ispettori statunitensi, ma solo di nazioni con relazioni diplomatiche in atto con l’Iran. Tuttavia, «l’implementazione dell’accordo richiederà almeno i prossimi 5 mesi», sicché «le sanzioni verranno tolte solo all’inizio del 2016».L’Iran diventerà una calamita per gli investimenti esteri, continua Escobar: «Le più grandi multinazionali occidentali e asiatiche sono già ai blocchi di partenza per iniziare a martellare questo mercato praticamente vergine, con più di 70 milioni di abitanti, tra cui una classe dall’educazione molto valida. Ci sarà un boom in settori come l’elettronica, l’industria dell’auto e il turismo e il tempo libero». Poi c’è, come al solito, il greggio. «L’Iran ha ben 50 milioni di barili conservati in porto – pronti ad essere buttati sul mercato globale. Il cliente preferito sarà, inevitabilmente, la Cina – dato che l’Occidente resta imbrigliato nella recessione. Il primo punto all’ordine del giorno iraniano è riacquisire le fette di mercato perse a vantaggio dei produttori del Golfo. Attualmente il trend dei prezzi del greggio è in discesa – quindi l’Iran non può contare su grandi profitti a medio-breve termine». E la “guerra al terrore”, finora solo promessa da Obama? Tanto per cominciare, «l’embargo ai danni dell’Iran per quanto riguarda le armi convenzionali resta in essere, per 5 anni: è assurdo, se paragonato ad Israele e alla Casa di Saud che continuano ad armarsi fino ai denti».Lo scorso maggio, ricorda Escobar, il Congresso Usa ha approvato un vendita di armi da 1,9 miliardi di dollari ad Israele. Comprende 50 bombe anti-bunker Blu-113 («per far cosa? Bombardare il sito iraniano di Natanz?») e 3.000 missili Hellfire. Per quanto riguarda l’Arabia Saudita, secondo il Sipri, la Casa di Saud ha speso ben 80 miliardi di dollari in armi lo scorso anno: più del potenziale nucleare di Francia e Gran Bretagna. L’Arabia Saudita «sta foraggiando una – illegale – guerra in Yemen», accusa il giornalista. «Il Qatar non sta indietro di molto. Ha raggiunto un accordo da 11 miliardi di dollari per acquistare elicotteri Apache e sistemi di difesa missilistica Patriot, e ha in programma di comprare un sacco di caccia F-15». Trita Parsi, presidente del Consiglio Nazionale Statunitense-Iraniano, va dritto al punto: «L’Arabia Saudita spende per la difesa 13 volte l’Iran, ma in qualche modo l’Iran, e non l’Arabia Saudita, è visto dagli Usa come un potenziale aggressore». Questa è la realtà: «Quindi, qualsiasi cosa succeda, aspettiamoci giorni duri», conclude Escobar, presente ai negoziati di Vienna.A un ristretto gruppo di giornalisti indipendenti, racconta Escobar, il ministro degli esteri Zafidha rivelato che le negoziazioni saranno un successo perché Usa e Iran si sono accordati sul «non umiliarsi a vicenda». Ha affermato di aver pagato «un alto prezzo domestico per non incolpare gli statunitensi» e ha elogiato Kerry come «un uomo ragionevole». Ma era molto sospettoso dell’establishment Usa, «fermamente intenzionato a non togliere le sanzioni». Zarif ha anche elogiato l’idea russa: in seguito all’accordo, sarebbe ora di creare una vera coalizione contro il terrorismo, unendo Stati Uniti, Iran, Russia, Cina ed Europa – anche se Putin e Obama hanno acconsentito a lavorare insieme per “questioni regionali”. «La diplomazia iraniana dava segnali del fatto che l’amministrazione Obama si è finalmente resa conto che l’alternativa ad Assad in Siria è l’Isis/Isil/Daesh, non il “libero” esercito siriano». Un tale grado di collaborazione, dopo il muro della diffidenza, deve ancora essere visto. Solo allora «sarà veramente possibile valutare chiaramente se l’amministrazione Obama avrà preso una decisione strategica e se la “normalizzazione” delle relazioni con l’Iran comporti più di quanto non stia alla luce del sole», compresa quindi la liquidazione dell’armata di tagliagole telecomandati che agisce in favore di telecamera.«È sicuramente storico: la diplomazia forse ha vinto». Così anche Pepe Escobar saluta l’accordo tra Usa e Iran, dopo 35 anni di incomunicabilità e le tensioni continue dell’ultimo decennio. Un accordo “epocale”, nei termini del Nuovo Grande Gioco in Eurasia, con «conseguenti scosse tettoniche che riorganizzano la zona». In pratica, l’Iran, supportato da Russia e Cina , «ha finalmente, con successo, scoperto il bluff degli atlantisti – lungo, tortuoso e durato 12 anni – riguardo le proprie “armi nucleari”». Tutto ciò, continua Escobar, è accaduto solo perché l’amministrazione Obama ha bisogno di «almeno un successo di politica estera», nonché di un modo per «provare a influenzare la messa in opera del nuovo ordine geopolitico che ruoterà attorno all’Eurasia». Grande domanda, a questo punto: se gli Usa “sdoganano” Teheran, permettendole di svolgere appieno il suo ruolo di grande potenza regionale, questo significa che Washington si appresta ad abbandonare il sostegno occulto all’Isis, consentendo agli iraniani di sbaragliare sul campo i tagliagole jihadisti annidati in Siria e in Iraq sotto la protezione delle monarchie petrolifere del Golfo?
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Cia e sauditi, la premiata ditta dei tagliatori di teste
Non fanatici, ma mercenari. Traslocati in mezzo mondo – Afghanistan, Balcani, Medio Oriente – per scatenare il terrore, fornendo l’alibi per la “guerra infinita” degli Usa. Al-Qaeda e Isis sono due maschere dello stesso network, organizzato dai sauditi sotto la regia di Washington. «Dalle viscere del carcere di massima sicurezza statunitense di Florence (Colorado), il componente di Al-Qaeda Zacarias Moussaui, condannato all’ergastolo, fa luce su quello che certamente è il segreto più sporco della “guerra al terrore”», scrive Pepe Escobar. «In più di 100 pagine di testimonianze rese nei giorni scorsi in una corte federale di New York, Moussaui fa “esplodere” delle autentiche bombe legate alla “Casa di Saud”». Tra i più importanti finanziatori di Al-Qaeda prima dell’11 Settembre compaiono i principali esponenti del potere saudita, alleato di Washington. Le prime avvisaglie dello scandalo esplodono adesso, spiega Escobar, perché gli Usa ricattano l’Arabia Saudita: guai se Riyadh si sfilasse dall’alleanza, cessando di sostenere sottobanco il network del terrore, che oggi si chiama Califfato, o a scelta Isis, Isil o semplicemente Daesh. E guai se smettono di pompare petrolio, facendone crollare il prezzo per colpire Putin.Nelle rivelazioni dell’ergastolano Moussaui, scrive Escobar in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, troviamo nientemeno che l’ex capo dell’intelligence saudita, il principe Turki al-Faisal, già grande amico di Osama Bin Laden, insieme un personaggio come il principe Bandar Bin Sultan, detto “Bandar Bush”, già ambasciatore saudita negli Stati Uniti «e mancato sponsorizzatore di jihadisti in Siria». Turki e Bandar sono in compagnia «di un caro amico dei mercati occidentali (e di Rupert Murdoch)», cioè il principe Al-Waleed Bin Talal, e con lui «tutti i maggiori “chierici” wahhabiti dell’Arabia Saudita». In altre parole, «nessuno di loro è nuovo a chi segue fin dai tempi dell’Afghanistan degli anni ’80 le sporche vicende degli jihadisti finanziati dai wahhabiti sauditi». Le informazioni, aggiunge Escobar, assumono maggiore importanza se messe in relazione al prossimo libro di Michael Springmann, ex capo della sezione visti a Jeddah, in Arabia Saudita. In “Visto per al-Qaeda”, svelando «tutti gli sdoganamenti della Cia che hanno sconvolto il mondo», Springmann descrive in dettaglio le mosse dell’armata del terrore messa in piedi dagli Usa.Negli anni ’80, la Cia reclutò e addestrò «agenti musulmani» per contrastare l’invasione sovietica in Afganistan. «Più tardi, la Cia avrebbe spostato questi agenti dall’Afganistan ai Balcani, poi in Iraq, in Libia e in Siria, facendoli viaggiare con visti statunitensi illegali». Questi guerriglieri addestrati dagli Usa «si sarebbero poi riuniti in un’ organizzazione che è sinonimo di terrorismo jihadista: Al-Qaeda». Lo scopo politico di queste rivelazioni, dal punto di vista di Washington, secondo Springmann «è di esercitare pressioni sulla Casa di Saud per continuare a pompare le loro eccedenze petrolifere: i recenti rimbalzi petroliferi stanno provocando l’isterismo a Washington, poiché potrebbero essere il segnale di un ripensamento dei sauditi sulla loro guerra dei prezzi del petrolio contro, prima fra tutti, la Russia». Dunque, verso la metà degli anni ’80, “Al-Qaeda” era solo un database in un computer collegato al dipartimento delle comunicazioni del segretariato della Conferenza Islamica, scrive Escobar. «A quel tempo, quando Osama Bin Laden non era che un agente “delegato” Usa che operava a Peshawar, l’intranet di Al-Qaeda era un ottimo sistema di comunicazione per lo scambio di messaggi in codice tra i guerriglieri».“Al-Qaeda” non era un’organizzazione terrorista – ovvero un esercito islamico – e neanche proprietà privata di Osama Bin Laden. «In seguito, verso la metà degli anni 2000 in Iraq, Abu Musab al-Zarqawi – il precursore giordano di Isis/Isil/Daesh – stava reclutando giovani militanti-fanatici-arrabbiati, senza un diretto input da parte di Bin Laden. La sua copertura era Aqi (Al-Qaeda in Iraq)». Quindi, continua Escobar, Al-Qaeda era e resta un marchio di successo. «Non è mai stata un’organizzazione; piuttosto era un elemento operativo essenziale di un’agenzia di intelligence. Da qui l’imperativo categorico: Al-Qaeda è essenzialmente una derivazione dell’intelligence saudita». La miglior prova è il ruolo oscuro, fin dall’inizio, del principe Turki, ex direttore generale per lungo tempo del Mukhabarat, l’intelligence della Casa di Saud («ma Turki non parla, e mai lo farà»). L’intelligence turca, per parte sua, «non ha mai creduto al mito dell’“organizzazione” Al-Qaeda». Le rivelazioni di Moussaui, aggiunge Escobar, «diventano davvero esplosive quando si collegano tutti i punti tra l’ideologia politica della Casa di Saud, la piattaforma politica di Al-Qaeda e l’abbozzo ideologico del falso Califfato di Isis/Isil/Daesh. La matrice di tutti questi è il wahhabismo del 19° secolo – e la sua interpretazione/appropriazione medievale dell’Islam. Tutti usano metodi diversi, alcuni più rumorosi di altri, ma tutti hanno lo stesso fine: il proselitismo wahhabita».La differenza fondamentale, secondo Escobar, è che Al-Qaeda e Isis/Isil/Daesh «sono dei rinnegati wahhabiti che intendono, alla fine, prendere il posto della Casa di Saud – fantoccio comandato dall’Occidente – instaurando in modo ancora più intollerante il potere salafita e/o del Califfato». Per cui, «quando questa “bomba” ancora segreta verrà fuori dal vaso di pandora arabico, crolleranno i presupposti che reggono quel dono che viene continuamente elargito dagli Usa, la “Guerra al Terrore” (guerra infinita)». Non è rassicurante nemmeno il nuovo capo della Casa di Saud, il principe Salman, che «negli anni ’90 era uno strenuo sostenitore del salafismo e del Jihad», inclusa la pratica Bin Laden. Più tardi, come governatore di Riyadh, «si distinse nell’avversione più totale verso gli sciiti, che poi si espandeva nell’odio verso l’Iran nel suo complesso – per non parlare poi del suo odio per qualsiasi cosa che lontanamente ricordasse la democrazia all’interno dell’Arabia Saudita». Assurdo aspettarsi che Salman sia un “riformatore”, «come è assurdo aspettarsi che l’amministrazione Obama interrompa una volta per tutte la sua storia d’amore con i suoi “bastardi preferiti” del Golfo Persico».Ma ora, aggiunge Escobar, c’e’ un nuovo elemento chiave: «La Casa di Saud è disperata. Non è un segreto a Riyadh e in tutto il Golfo che il nuovo Re e i suoi consiglieri ammaestrati dall’Occidente stiano letteralmente perdendo la testa. Si ritrovano circondati dall’Iran – che, per giunta, è sul punto di concludere un accordo nucleare con il Grande Satana l’estate prossima». La situazione non è allegra: i sauditi «vedono il falso Califfato di Isis/Isil/Daesh che controlla gran parte del “Siraq” – e con gli occhi già puntati verso la Mecca e Medina. Vedono gli sciiti Houthi pro-Iran che controllano lo Yemen. Vedono gli sciiti della maggioranza in Bahrein repressi con grandi difficoltà dalle forze mercenarie. Vedono disordini sciiti diffusi nelle province orientali dell’Arabia Saudita, dove c’è il petrolio. Sono sparsi in tutto il Medio Oriente ancora in preda alla psicosi “Assad deve andarsene” (mentre lui non va da nessuna parte). Hanno bisogno di finanziare la “junta” militare al potere in Egitto con miliardi di dollari (l’Egitto è al verde). E oltre a tutto questo, si sono bevuti la storia America-contro-Russia, impegnandosi in una guerra dei prezzi del petrolio che sta consumando il loro budget».Non ci sono prove che Salman sia deciso a compiere lo sforzo di cooperare con il governo di maggioranza sciita a Baghdad, né che tenterà di raggiungere un compromesso con Teheran: «Al contrario, regna la paranoia, poiché nel momento in cui l’Iran riaffermasse la sua supremazia nucleare, una volta concluso l’accordo atteso per l’estate prossima, i sauditi si ritroveranno emarginati ideologicamente e politicamente». Soprattutto, conclude Escobar, non ci sono prove che l’amministrazione Obama abbia la capacità di riconsiderare le relazioni coi sauditi. «Ciò che è certo è che il più sporco segreto della “guerra al terrore” resterà off-limits. Tutto il “terrore” che stiamo vivendo, sia quello reale sia quello costruito a tavolino, proviene da un’unica fonte: non è “l’Islam”, ma l’intollerante e demente wahhabismo», irresponsabilmente incoraggiato, organizzato e finanziato con la piena collaborazione della Cia. Stesso film: dalla strage di americani innocenti l’11 Settembre alla ricomparsa dei “tagliatori di teste” in Siria, in Iraq e ora in Libia.Non fanatici, ma mercenari. Dirottati in mezzo mondo – Afghanistan, Balcani, Medio Oriente – per scatenare il terrore, fornendo l’alibi per la “guerra infinita” degli Usa. Al-Qaeda e Isis sono due maschere dello stesso network, organizzato dai sauditi sotto la regia di Washington. «Dalle viscere del carcere di massima sicurezza statunitense di Florence (Colorado), il componente di Al-Qaeda Zacarias Moussaui, condannato all’ergastolo, fa luce su quello che certamente è il segreto più sporco della “guerra al terrore”», scrive Pepe Escobar. «In più di 100 pagine di testimonianze rese nei giorni scorsi in una corte federale di New York, Moussaui fa “esplodere” delle autentiche bombe legate alla “Casa di Saud”». Tra i più importanti finanziatori di Al-Qaeda prima dell’11 Settembre compaiono i principali esponenti del potere saudita, alleato di Washington. Le prime avvisaglie dello scandalo esplodono adesso, spiega Escobar, perché gli Usa ricattano l’Arabia Saudita: guai se Riyadh si sfilasse dall’alleanza, cessando di sostenere sottobanco il network del terrore, che oggi si chiama Califfato, o a scelta Isis, Isil o semplicemente Daesh. E guai se smettono di pompare petrolio, facendone crollare il prezzo per colpire Putin.
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Sorpresa, ora i sauditi impongono agli Usa di mollare l’Isis
La situazione nel Levante rischia di evolversi rapidamente, in parte a causa della crisi di autorità a Washington e in parte a causa dell’ascesa del principe Salman al trono saudita. Questa evoluzione potrebbe essere facilitata da un’alternanza politica in Israele. In primo luogo, la crisi di autorità che paralizza gli Stati Uniti continua a mobilitare la classe dirigente. Dopo l’appello del presidente onorario del Council on Foreign Relations (Cfr) affinché il presidente Obama si circondi di personalità sperimentate di entrambe le parti, il “New York Times” ha dedicato un editoriale a un rapporto pubblicato nel mese di ottobre dalla Rand Corporation. Il principale think-tank dedicato alle questioni militari ha fatto una inversione ad U nel giro di un anno. A suo parere, la vittoria della Repubblica araba siriana è ormai «l’opzione più desiderabile» per gli Stati Uniti, mentre la sua caduta sarebbe «il peggiore dei risultati». I gruppi armati hanno perso ogni sostegno tra la popolazione urbana, le defezioni si sono fermate da più di un anno e l’esercito siriano continua la sua liberazione del paese.Inoltre, continua la Rand, la vittoria siriana non andrà a vantaggio dell’Iran finché Daesh (l’Isis, ndr) sarà presente in Iraq. L’istituto prevede che gli Stati che hanno fin qui alimentato gli jihadisti smetteranno di farlo. Essi, infatti, non possono sperare di sconfiggere la Siria in questo modo e ora temono che gli jihadisti si rivoltino contro di loro. Pertanto, ha concluso la Rand, non vi sarà alcuna soluzione negoziata con gli Stati sponsor, bensì una netta vittoria del “regime”, alla quale gli Stati Uniti dovrebbero essere associati. Si osserverà il cambiamento radicale della posizione del complesso militare-industriale. Un anno fa, la Rand preconizzava di bombardare la Siria come la Libia, e di condurvi un’azione limitata a terra con la creazione di aree protette amministrate dai “rivoluzionari”. Oggi, ammette implicitamente che non c’è mai stata una rivoluzione in Siria e, dopo un lungo momento di esitazione sul suo futuro, la maggioranza sunnita sostiene nuovamente la Repubblica laica.L’atmosfera a Washington oggi assomiglia a quella all’inizio del 2006, quando l’esercito era impantanato in Afghanistan e in Iraq, mentre Donald Rumsfeld tentava di nascondere la sconfitta. All’epoca, il Congresso istituì la Commissione Baker-Hamilton. Questa, dopo otto mesi di lavoro, concluse che le forze Usa non sarebbero state in grado di stabilizzare il paese che occupavano senza l’aiuto dell’Iran e della Siria. Il quadro della situazione militare che disegnò era così spaventoso che gli statunitensi sanzionarono George W. Bush nelle elezioni di medio termine. Il presidente a quel punto sacrificò Rumsfeld e lo sostituì con un membro della Commissione, Robert Gates. Il nuovo segretario della Difesa concluse degli accordi sul campo con Teheran e Damasco, acquistò i principali gruppi della resistenza irachena (la carota) e aumentò il numero dei soldati lì schierati (il bastone) fino a stabilizzare la situazione.In secondo luogo, in Arabia, il nuovo re Salman ha dapprima cercato di destituire tutti gli ex sostenitori del suo predecessore, arrivando perfino a congedare il principe Miteb e il segretario generale del palazzo due ore dopo la morte di re Abdullah. Poi è ritornato sulle sue decisioni dopo aver ricevuto le condoglianze del suo Signore statunitense. In ultima analisi, Miteb sarà l’unico sopravvissuto dell’era precedente, mentre il principe Bandar è stato licenziato. Ora, Bandar foraggiava Daesh con l’aiuto della Cia, al fine di fare pressione sul re Abdullah nell’interesse del clan dei Sudeiri. La sua cacciata, pretesa dal presidente Obama, segna probabilmente la fine del predominio saudita sul terrorismo internazionale. Questa volta – la quarta – dovrebbe essere quella buona: nel 2010, il principe era stato bandito per aver tentato di organizzare un colpo di Stato, ma era ritornato grazie alla guerra contro la Siria; nel 2012, era stato vittima di un attacco in rappresaglia per l’uccisione di membri del Consiglio di sicurezza nazionale siriano, ma era di nuovo al lavoro un anno dopo, debole e ossessivo; nel 2014, John Kerry ha preteso ancora una volta il suo licenziamento, ma è tornato nuovamente in scena grazie alla crisi egiziana; è stato appena sacrificato dal suo stesso clan, che non gli lascia alcuna prospettiva di ritorno né a breve né a medio termine.In terzo luogo, l’attacco a Hezbollah da parte di Israele, cui è seguita la risposta di Hezbollah contro Israele, evidenzia paradossalmente la debolezza di Benjamin Netanyahu in pieno periodo elettorale. Il primo ministro uscente sperava che la resistenza libanese non fosse in grado di rispondere all’aggressione e che lui uscisse così coronato da questo confronto. Il suo errore di calcolo potrebbe costargli il posto, per la gioia della Casa Bianca che non nasconde più da molto tempo la propria esasperazione per il suo fanatismo. In base agli sviluppi in corso a Washington, a Riyadh e forse presto a Tel Aviv, è ragionevole concludere che, nei prossimi mesi, gli Stati Uniti concentreranno i loro sforzi per escludere Daesh dal Levante per proiettarlo, fuori della loro area di influenza, contro la Russia e la Cina.Da parte sua, l’Arabia Saudita dovrebbe cercare sia di salvare la sua autorità presso i vicini Bahrein e Yemen, fornendo assistenza al gran perdente della guerra contro la Siria, il presidente Recep Tayyip Erdoğan, che il Stati Uniti hanno deciso di abbandonare. Questo sviluppo sarà più o meno lungo a seconda dei risultati elettorali a Tel Aviv. Mentre gli jihadisti sono diventati una minaccia per la stabilità di tutti gli stati nel Levante, compreso Israele, Netanyahu potrebbe continuare a mettere la sua aviazione e i suoi ospedali al loro servizio. Ma non si può immaginare che persisterà quando tutti gli altri Stati della regione li combatteranno. Al contrario, nel caso che il primo ministro perda le elezioni, il suo successore darà immediatamente una mano agli Stati Uniti contro gli jihadisti. Ancora una volta, Damasco, la più antica città abitata del mondo, sarà sopravvissuta ai barbari che volevano distruggerla.(Thierry Meyssan, “Sconvolgimento degli interessi Usa nel Levante”, da “Megachip” del 1° febbraio 2015).La situazione nel Levante rischia di evolversi rapidamente, in parte a causa della crisi di autorità a Washington e in parte a causa dell’ascesa del principe Salman al trono saudita. Questa evoluzione potrebbe essere facilitata da un’alternanza politica in Israele. In primo luogo, la crisi di autorità che paralizza gli Stati Uniti continua a mobilitare la classe dirigente. Dopo l’appello del presidente onorario del Council on Foreign Relations (Cfr) affinché il presidente Obama si circondi di personalità sperimentate di entrambe le parti, il “New York Times” ha dedicato un editoriale a un rapporto pubblicato nel mese di ottobre dalla Rand Corporation. Il principale think-tank dedicato alle questioni militari ha fatto una inversione ad U nel giro di un anno. A suo parere, la vittoria della Repubblica araba siriana è ormai «l’opzione più desiderabile» per gli Stati Uniti, mentre la sua caduta sarebbe «il peggiore dei risultati». I gruppi armati hanno perso ogni sostegno tra la popolazione urbana, le defezioni si sono fermate da più di un anno e l’esercito siriano continua la sua liberazione del paese.
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Boicottare Wall Street, il piano di Putin per un mondo libero
Nessuna delle tribù barbare alle frontiere dell’Impero Romano avrebbe potuto, individualmente, annientare la macchina da guerra rappresentata da quest’impero ed entrare vittoriosa a Roma. L’impero s’era fornito di più risorse e più cavalieri in vista della distruzione del suo nemico. I barbari erano divisi e si muovevano in modo scoordinato. Roma, infatti, cadde solamente quando le sue strutture di governo si decomposero e l’esercito cessò di esistere. L’impero, poco a poco, perse le sue province; privato delle sue risorse, si indebolì e perse i mezzi con cui opporsi agli invasori. Ciò significa che per vincere gli Usa, che si considerano come gli eredi dell’impero romano, bisogna: 1. Unirsi a coloro che si vogliono liberare del potere di Washington; 2. Indebolire dall’interno la “nuova Roma”; 3. Privarla di quante più risorse possibili. I paesi stanchi dell’egemonia degli Usa si sono uniti nel quadro dei Brics, dello Sco e dell’Unione Doganale Eurasiatica. Indebolire gli Usa dall’interno è molto complicato, perchè ciò richiede delle azioni specifiche: una preparazione di alto livello delle Ong e di specialisti delle “rivoluzioni colorate”, le quali non sono possedute né dalla Russia né dalla Cina.Tuttavia gli Usa non mancano di problemi interni, che ultimamente peggiorano e si espandono, vedasi l’affare Ferguson. In tal maniera, il mezzo più efficace di opporsi agli Usa è il privarli di risorse, rifiutando tutti i prodotti-chiave americani. Ciò andrebbe a scapito del dollaro, che è il mezzo con cui Washington opera la ridistribuzione delle risorse. Per trattare questo argomento bisogna allontanarsi dagli assalti dell’isteria mass-mediatica. Innanzitutto, bisogna smettere di comprare le obbligazioni Usa ed europee, che succhiano le riserve dei fondi russi. Dal primo gennaio, i fondi che erano utilizzati per l’acquisto di queste obbligazioni dei “partner occidentali” saranno utilizzati per i bisogni del Tesoro. In seguito, nelle strutture profonde del partito “Russia Unita” si prepara una rivoluzione economica a partire dai piani alti. In terzo luogo si persegue l’approccio con la Cina, sulla quale è utile soffermarsi in modo più preciso. Oltre che la messa in moto del memorabile progetto dell’oleodotto “Forza siberiana” si persegue un lavoro comune, determinato e coordinato, del rafforzamento dei mezzi militari, oltre che lo stabilizzare i partner dell’Asia centrale.Per esempio, la Cina appare essere uno degli investitori principali nel Tagikistan. Tutta una serie di progetti comuni tra Russia e Cina sono stati intrapresi, come l’inaugurazione d’un infrastruttura aeronautica comprende anche gli elicotteri. In relazione a ciò, sta venendo fatto pure un lavoro fondamentale di distacco dal dollaro americano negli scambi commerciali. È utile sottolineare che gli Usa, con le loro azioni ad Hong Kong, hanno decisamente irritato Pechino: il livello di sostegno della popolazione cinese è passato dal 47% al 66% in un solo anno, in seguito al suo confronto con l’Occidente. Durante la diciottesima sessione della commissione russo-cinese per la preparazione degli incontri governativi, il vicepremier ministro Wang Yang ha dichiarato come «sbagliate» le sanzioni occidentali contro la Russia e ha esortato sia la Russia che la Cina a dare una risposta appropriata ai paesi occidentali. Durante il forum economico russo-cinese, il presidente della banca centrale cinese, quinto istituto finanziario al mondo, ha dichiarato che «è indispensabile rafforzare la cooperazione in materia di tali operazioni e mettere fine al monopolio del dollaro». I meccanismi per disgregare l’egemonia del dollaro sono stati oramai concepiti.L’11 ottobre la stampa ha confermato che la Russia e la Cina hanno concluso un accordo sulle operazioni “swap” (ossia le operazioni di scambi) per le esportazioni in rubli e yen. Senza dubbio, dopo aver firmato quest’accordo “swap”, il numero dei candidati che intendono astenersi dal dollaro dovrebbe aumentare, perchè anche la Turchia ne é interessata. Intanto si rafforza l’approccio con l’Iran. Teheran e Mosca studiano una transazione nota come “petrolio in cambio di centrali elettriche”. Dato che l’Iran resta vincolato dalle sanzioni, le banche commerciali russe stanno inaugurando una serie di collaborazioni con la Persia, e sta venendo anche effettuato uno studio per stabilire una banca comune per il mutuo finanziamento dei progetti economici e commerciali. E tutto ciò senza parlare delle attività ininterrotte per l’inaugurazione dello spazio economico eurasiatico, al quale s’aggiunge anche l’Armenia e a cui prenderà parte anche il Kirghizistan prima della fine dell’anno. Insomma, il piano strategico di Putin, il cui fulcro è la cooperazione con coloro che sono stanchi dell’egemonia degli Usa, mira a privare gli Stati Uniti delle loro risorse e a rinforzare la propria economia evitando di ricorrere al dollaro per le transazioni. E tutto ciò senza che la Russia e la Cina rischino di incappare nei tranelli che sono tesi loro, sotto forma di “paracaduti gialli” o di prese di posizioni radicali nella guerra civile ucraina. La nuova Roma, senza dubbio, crollerà.(Ivan Lizin, estratti dall’intervento “Il diabolico manuale di Putin, piccolo manuale di combattimento contro l’impero mondiale”, pubblicato da “Reseau International” il 17 ottobre 2014 e tradotto da “Come Don Chisciotte”).Nessuna delle tribù barbare alle frontiere dell’Impero Romano avrebbe potuto, individualmente, annientare la macchina da guerra rappresentata da quest’impero ed entrare vittoriosa a Roma. L’impero s’era fornito di più risorse e più cavalieri in vista della distruzione del suo nemico. I barbari erano divisi e si muovevano in modo scoordinato. Roma, infatti, cadde solamente quando le sue strutture di governo si decomposero e l’esercito cessò di esistere. L’impero, poco a poco, perse le sue province; privato delle sue risorse, si indebolì e perse i mezzi con cui opporsi agli invasori. Ciò significa che per vincere gli Usa, che si considerano come gli eredi dell’impero romano, bisogna: 1. unirsi a coloro che si vogliono liberare del potere di Washington; 2. indebolire dall’interno la “nuova Roma”; 3. privarla di quante più risorse possibili. I paesi stanchi dell’egemonia degli Usa si sono uniti nel quadro dei Brics, dello Sco e dell’Unione Doganale Eurasiatica. Indebolire gli Usa dall’interno è molto complicato, perché ciò richiede delle azioni specifiche: una preparazione di alto livello delle Ong e di specialisti delle “rivoluzioni colorate”, le quali non sono possedute né dalla Russia né dalla Cina.
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Barack Osama e i ragazzi dell’Isis, reclutati dagli Usa
La drammatica e apparentemente inarrestabile ascesa dell’Isis ha riportato l’attenzione mediatica sul martoriato Iraq, caduto nel dimenticatoio dopo il ritiro delle truppe americane. I mezzi di informazione sono prodighi di informazioni nel descrivere le atrocità del Califfato, ma reticenti nel raccontare chi siano i suoi membri e quale sia la sua origine. Lo Stato Islamico di Iraq e Siria (questo il nome completo) non è una forza apparsa improvvisamente dal nulla, ma il figlio diretto delle politiche dell’imperialismo americano in Medio Oriente che ha le sue radici nel conflitto siriano e nel caos dell’Iraq post-Saddam, ricorda Riccardo Maggioni, secondo cui per capire meglio qual è il ruolo dell’Isis occorre fare un salto indietro di almeno trent’anni, dal momento che l’islamismo politico «è l’alleato oggettivo dell’imperialismo americano nel Medio Oriente» a partire dai lontani anni ‘80, quand’era il pretesto perfetto per consentire agli Usa di intervenire per aiutare i “buoni” e punire i “cattivi”.Negli anni ’80, durante la guerra fredda, l’Islam conservatore era l’alleato degli Usa nel contenere la diffusione del comunismo e dell’influenza dell’Urss nel mondo arabo, scrive Maggioni in un post ripreso da “Informare per Resistere”. Sotto la presidenza Reagan, gli Usa «armarono e addestrarono i Talebani in Afghanistan» per rovesciare la repubblica popolare afghana e contrastare il successivo intervento sovietico. «Al-Qaeda nasce qui, con i soldi e il supporto americano, tanto che lo stesso Bin Laden (ricordiamolo: proveniente da una famiglia di affaristi sauditi in stretti rapporti con gli Usa) combatteva in Afghanistan e veniva intervistato da quotidiani occidentali come “The Indipendent” i quali lo definivano “freedom fighter”». I Talebani, aggiunge Maggioni, «vennero addirittura glorificati in film come “Rambo 3”», mentre «vari leader islamisti afghani furono ricevuti alla Casa Bianca da Reagan, che li definì “leader con gli stessi valori dei Padri Fondatori”».La medesima strategia è proseguita negli anni novanta con Clinton, «che poté intervenire in Jugoslavia al fianco dei narcotrafficanti dell’Uck in Kosovo spacciati come difensori del proprio popolo da non meglio precisati genocidi». Con Bush la strategia cambia: complice l’11 Settembre, gli amici di ieri diventano i nemici di oggi. Scatta così una campagna propagandistica mondiale, secondo cui l’Islam ha dichiarato guerra alla civiltà occidentale e ci sono arabi dietro ogni angolo pronti a farsi esplodere. «Con questa scusa parte la cosiddetta “guerra al terrore”, grazie alla quale vengono eliminati gli ex-alleati Talebani ora sfuggiti al controllo e si invade l’Iraq». Una guerra «totalmente priva di senso anche per la logica di Bush», in teoria, considerato che il governo di Saddam Hussein «apparteneva alla corrente del baathismo laico e di tutto poteva essere tacciato tranne che di islamismo».Con Obama la strategia cambia ancora: non esiste più la minaccia islamica, ma gli Stati Uniti devono intervenire per difendere i giovani della “primavera araba” in lotta contro i “dittatori”, «termine indicante tutti i capi di Stato non graditi all’America». E Bin Laden, «tenuto in vita come spauracchio durante l’epoca Bush», viene «fatto fuori in un lampo, ovviamente prima che possa parlare dei suoi passati legami con gli Usa». Gli islamisti di oggi sono nuovamente alleati dell’America. E tutti i peggiori integralisti, dal Fronte Al-Nusra siriano ai Fratelli Musulmani, vengono trasformati dai media in giovani nonviolenti, in lotta contro la dittatura. «Con questa scusa, Obama arma delle milizie islamiste in Libia e interviene in loro supporto per eliminare Gheddafi: ora la Libia è un inferno a cielo aperto in preda a gang islamiche, mentre gli americani ne saccheggiano il petrolio».Il copione viene replicato in Siria, dove gli Usa appoggiano «animali assetati di sangue come Al-Nusra e il famigerato Isis», presentati però sempre come «studenti che manifestano per i diritti umani». Fallito l’assalto al regime di Assad, però, i “bravi ragazzi” tornano utili ugualmente, sotto forma di “cattivi ragazzi”. Vengono infatti presentati come terroristi: la vecchia propaganda sulla “minaccia islamista” viene riciclata da Obama per giustificare l’inizio di operazioni militari in Iraq. «La situazione fa quasi sorridere – sottolinea Maggioni – considerando che l’Isis sostanzialmente sono i ribelli siriani presentati come sinceri democratici e a fianco dei quali meno di un anno fa lo stesso Obama voleva intervenire militarmente. Le stesse persone, al variare degli interessi in gioco, passano da combattenti per la libertà a sanguinari terroristi, a seconda che si trovino ad ovest o ad est del confine tra Siria e Iraq».L’Isis? E’ un gruppo integralista sunnita, che si propone l’obiettivo di creare uno Stato islamico, il Califfato, che comprenda i territori di Siria e Iran per portare avanti la jihad contro lo sciitismo. Il terreno fertile per la sua espansione è stato creato dall’intervento militare americano in Iraq del 2003, continua Maggioni: il rovesciamento di Saddam ha causato la caduta di uno dei pochi Stati laici della regione e fatto saltare il delicato equilibrio interno tra la maggioranza sciita e la minoranza sunnita. Nel caos e nell’anarchia seguenti, l’islamismo politico è potuto tornare a operare alla luce del sole, con spazi di manovra di cui prima era privo. «I gruppi islamisti sono riusciti in breve tempo a raccogliere un ampio consenso all’interno delle minoranze etniche sunnite», in un Iraq a maggioranza sciita: «Il che ha portato, dalla caduta di Saddam in poi, all’affermazione di governi guidati da forze politiche sciite, quale quello del presidente Al-Maliki».A partire dal 2011, questo quadro si è incrociato con lo scenario della guerra civile siriana, con in primo piano le infami milizie dell’Isis, un “mostro” «che cresce e si sviluppa grazie al supporto economico, diplomatico e militare di Washington», espandendosi a macchia d’olio in Iraq, «dove si guadagna un consistente supporto tra la popolazione sunnita e inizia una guerriglia contro il governo del presidente Al-Maliki». L’Isis, insiste Maggioni, è funzionale agli interessi americani anche in Iraq: dopo la caduta del sunnita Saddam, il paese si è avvicinato ai correligionari dell’Iran e di conseguenza anche alla Siria, alleato storico di Teheran, «creando negli Usa il timore di perdere la propria influenza sul paese». Basta osservare una cartina geografica per capire che si verrebbe a creare in questo modo un asse sciita filo-iraniano che si estenderebbe con continuità territoriale nel cuore del Medio Oriente, da Teheran fino agli Hezbollah libanesi alle porte di Israele. «Questo scenario è ovviamente inaccettabile per la Casa Bianca».Avendo come obiettivo della sua “guerra santa” l’Iran e gli sciiti, l’Isis fa dunque il gioco degli Usa. E Washington, prosegue Maggioni, vorrebbe rendere controllabile l’Iraq balcanizzandolo in tre aree (sunnita, sciita e curda), come apertamente auspicato dal vicepresidente americano Joe Biden. «Per questo l’Isis è stato lasciato agire fino a mettere alle strette il governo di Al-Maliki». Con la scusa dell’avanzata del Califfato, gli americani hanno potuto rientrare militarmente in Iraq, rimettendo in equilibrio il governo di Baghdad e lo “Stato Islamico”. «Un intervento volutamente tardivo, che se ne ha fermato l’avanzata ha permesso al Califfato di consolidare le posizioni già conquistate». Poi, approfittando del drammatico genocidio delle minoranze da parte del Califfato, gli Usa hanno cominciato a rifornire di armi i curdi Peshmerga, alleati degli americani durante l’invasione del 2003 e animati da intenti secessionisti. «La scelta di bypassare il governo iracheno e fornire armi direttamente ai curdi non è casuale, ma ha lo scopo di creare nella regione una forza armata filoamericana e separatista nei confronti di Baghdad, indebolendo ancora di più la posizione del governo centrale iracheno».Il risultato di tutto ciò, conclude Maggioni, è un Iraq sostanzialmente diviso in tre parti: una frazione sciita, debole e alla mercé degli aiuti militari americani, una regione curda che vada a costituire una sorta di “gendarme” americano locale, e poi il Califfato islamico, «formalmente avversato da Washington ma in realtà tollerato», dal momento che «continua la sua guerra regionale contro due Stati sgraditi agli Usa», cioè Siria e Iran, «facendo il lavoro sporco al posto degli americani». I “bravi ragazzi” dell’Isis potranno funzionare da alibi per consentire agli Usa di intervenire militarmente anche in Siria, dove un anno fa furono fermati dall’opposizione russo-cinese. Intanto, per bocca del proprio leader, il califfo Al-Baghdadi, l’Isis ha già indicato la Cina come “Stato nemico dell’Islam”, promettendo in un prossimo futuro di fornire aiuto ai gruppi islamisti Uighuri dello Xinjiang. «Casualmente – chiosa Maggioni – il principale avversario geopolitico degli Usa rientra tra gli obiettivi degli islamisti», che tra parentesi «durante tutto il periodo dei bombardamenti a Gaza non hanno detto una sola parola contro Israele». Miracoli della geopolitica, sotto il regno di “Barack Osama”.La drammatica e apparentemente inarrestabile ascesa dell’Isis ha riportato l’attenzione mediatica sul martoriato Iraq, caduto nel dimenticatoio dopo il ritiro delle truppe americane. I mezzi di informazione sono prodighi di informazioni nel descrivere le atrocità del Califfato, ma reticenti nel raccontare chi siano i suoi membri e quale sia la sua origine. Lo Stato Islamico di Iraq e Siria (questo il nome completo) non è una forza apparsa improvvisamente dal nulla, ma il figlio diretto delle politiche dell’imperialismo americano in Medio Oriente che ha le sue radici nel conflitto siriano e nel caos dell’Iraq post-Saddam, ricorda Riccardo Maggioni, secondo cui per capire meglio qual è il ruolo dell’Isis occorre fare un salto indietro di almeno trent’anni, dal momento che l’islamismo politico «è l’alleato oggettivo dell’imperialismo americano nel Medio Oriente» a partire dai lontani anni ‘80, quand’era il pretesto perfetto per consentire agli Usa di intervenire per aiutare i “buoni” e punire i “cattivi”.
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Brzezinski: spartizione Usa-Cina o Terza Guerra Mondiale
«L’enorme instabilità a livello mondiale non ha precedenti storici», perché «grandissime fette di territori sono governate da instabilità populista, rabbia e perdita del controllo statale». Zbigniew Brzezinski, consigliere strategico di Carter e storico “cervello” dell’egemonia mondiale statunitense, lancia l’allarme: «Non stiamo declinando verso una crisi per la sopravvivenza, ma stiamo perdendo il controllo dei nostri massimi livelli di abilità nell’affrontare sfide che, sempre più, molti di noi riconoscono essere fondamentali per il nostro benessere». Dura lezione, per gli Usa, i fallimenti a catena degli ultimi vent’anni: «Non possiamo arruolare forze o creare leadership per gestirle», e questo rende gli Usa «sempre più privi di volontà strategica e senso della direzione da intraprendere». Scenario: «Siamo di fronte a un mondo pieno di tumulti, frammentazione e incertezza: nessuna minaccia diretta per nessuno, ma molte differenti minacce praticamente per chiunque».Nella polveriera del Medio Oriente, dice Brzezinski in un colloquio con David Rothkopf ripreso da “Come Don Chisciotte”, si può contare davvero soltanto su pochi Stati, dotati di relativa stabilità: sicuramente la Turchia e l’Egitto, poi l’Iran – con cui gli Usa sono in stato di crisi – e ovviamente Israele, ma solo a patto che nasca una pace stabile, con la creazione di uno Stato autonomo dei palestinesi. All’appello manca l’Iraq: tragico errore, ammette Brzezinski, la guerra di George W. Bush per eliminare Saddam, che faceva da argine contro il jihadismo di Al-Qaeda. «Siamo intervenuti in Libia senza un piano a lungo termine, lasciando campo a forze destabilizzanti», dice Rothkopf. «Non abbiamo intrapreso azioni decise in Siria e, come conseguenza di ciò e della situazione in Iraq, si è diffuso il malcontento in Siria. I rischi sono ovunque e le forze stabilizzatrici maggiori al mondo – Usa, Ue e Cina – hanno desiderio di interventi costruttivi in ben poche di queste situazioni».Per Brzezinski, gli Stati Uniti non hanno più molte chances nella regione petrolifera. Ma non sono i soli a subire danni dal caos che dilaga: «Le due nazioni che potrebbero maggiormente essere danneggiate da questi sviluppi a lungo termine sono Cina e Russia, a causa dei loro interessi regionali, la vulnerabilità al terrorismo e gli interessi strategici sul mercato globale dell’energia». Di conseguenza, Pechino e Mosca dovrebbero «lavorare insieme a noi», evitando di lasciare solo agli Usa «la responsabilità di gestire una regione che non possiamo né controllare né comprendere». Rothkopf fa presente che gli Stati Uniti sono stati «spinti dagli eventi in Iraq per lo meno a collaborare attraverso qualche sorta di tacito accordo nei riguardi dell’Isis, o Stato Islamico», e c’è chi teme negoziati con l’Iran verso un disgelo tra Washington e Teheran. «Vedo l’Iran come un vero Stato-nazione», dice Brzezinski. «Quella identità reale gli dà la coesione di cui la maggior parte del Medio Oriente è priva».I problemi: la competizione coi sunniti e la ventilata minaccia di Teheran nei confronti di Israele, a cui Brzezinski però non crede. «Il punto della questione è che Israele ha un monopolio nucleare nella regione e ce l’avrà per lungo tempo», continua l’analista. «Una cosa che gli iraniani non faranno di sicuro è intraprendere una missione suicida nel momento in cui avranno una bomba. Quindi l’idea che è stata pubblicizzata negli Usa che potrebbe scaturire una folle corsa iraniana per avere la bomba in nove mesi a mio parere è insensata», anche perché «Israele ha un esercito molto forte e circa 150-200 bombe: ciò è sufficiente per uccidere ogni iraniano». Poi ci sono i tradizionali alleati Usa nella regione. Buio pesto: Brzezinski si dichiara «confuso» dalla tragedia della guerra civile siriana. «Non mi è chiaro – dice – cosa esattamente pensassero di ottenere i sauditi e i qatarioti scatenando una guerra settaria in Siria, e sono ancora più frastornato da cosa noi pensassimo avremmo potuto ottenere sostenendoli in una maniera tanto esitante e inconsistente». Ammette Brzezinski: «E’ dalla seconda guerra in Iraq che noi americani ci siamo squalificati come protettori e promulgatori di qualsivoglia sviluppo positivo», per cui «sarebbe meglio concludere qualche sorta di tacito accordo coi cinesi e i russi», sulla gestione della geopolitica in Medio Oriente.Sulla Russia, però, la visione di Brzezinski è brutalmente unilaterale: già anni fa, la sua “dottrina” suggeriva di amputare Mosca dell’Ucraina e in particolare della Crimea, privando i russi dello sbocco strategico sul Mar Nero. Oggi non ha cambiato idea: chiama “invasione” il recupero della Crimea votato a fuori di popolo. E imputa a Mosca – anziché a Washington – l’iniziativa in Ucraina, senza alcun commento sui neonazisti appoggiati dalla Nato che hanno gestito il golpe a Kiev, dato alle fiamme il palazzo dei sindacati a Odessa e cominciato a prendere a cannonate la popolazione civile russofona, per sfrattarla dell’Est del paese “prenotato” dalle grandi compagnie, come la Shell, interessate allo “shale gas” del sottosuolo ucraino. Brzezinski sogna relazioni privilegiate Usa-Cina escludendo la Russia, di cui non sopporta la crescente influenza internazionale anche in ambito Brics, ma sa benissimo che i cinesi non gradiscono un’ipotesi G2, fondata sulla leadership di Washington e Pechino.Quanto al Giappone, passi che si avvicini all’India per bilanciare l’espansionismo cinese, ma è bene che sappia che gli Usa non sosterranno Tokyo se tenterà un braccio di ferro militare con la Cina per le contese isolette del Pacifico. Grande assente, in ogni scenario geopolitico mondiale, il vecchio continente: «Dove sono i padri dell’Europa che davvero credono nell’identità europea? Alla fine, la Ue si è dimostrata essenzialmente una serie di accordi a Bruxelles, basati sul denaro e i quid pro quo, ma con molto poco senso di obiettivi comuni». Salvo ovviamente tentare – ancora – di proteggere i propri interessi post-coloniali in paesi africani in subbuglio, come Sudan, Somalia, Repubblica Centrafricana, Nigeria e Mali. L’anziano Brzezinski la vede così: nel futuro, ipotetico grande “condominio” americano e cinese, l’Europa resterà «un tentacolo» degli Usa, a patto che accetti accordi commerciali euro-atlantici come il Ttip: «Uniamo questi ultimi alla Nato, all’annessione dell’Ucraina all’Ue, che a sua volta dovrebbe attirare la Russia verso l’Europa, perchè l’ombra della Cina sta sempre più estendendosi sopra Mosca», e avremo un quadro che, secondo lo stratega americano, «potrebbe andare nella direzione di un beneficio collettivo».Riguardo all’ex “cortile di casa”, l’America Latina, Brzezinski è altrettanto sbrigativo: «Gli Usa stanno imparando ad essere tolleranti», sostiene. «Abbiamo imparato a convivere con Cuba, con il Nicaragua, con il Venezuela». La Cina? E’ sostanzialmente tollerante. Sicché, conclude Brzezinski, «allo stesso modo noi possiamo fare lo stesso per loro in Asia. Ovvero: tu ti risolvi i tuoi problemi nelle vicinanze, ma non spingerti oltre. Tolleriamo alcuni sprazzi di autonomia». Tolleranza “a sprazzi”, che Brzezinski definisce «bilateralmente sostenibile». Soprattutto per una ragione: «Loro», i cinesi, «non competono ideologicamente con noi». Riflessione storica: «L’assenza di un conflitto ideologico tra noi e i cinesi è la sostanziale differenza tra i conflitti con l’Unione Sovietica o con Hitler e la Germania. In entrambi i casi c’era forte antagonismo, in parte a causa di ragioni geopolitiche, ma in parte anche per profonde e conflittuali differenze ideologiche». Per Brzezinski, si tratta di «creare una sorta di intesa sulla base di come erano le relazioni tra Roma e Bisanzio: queste due città avevano molto in comune, erano estensioni dello stesso impero, ma avevano diversi centri di potere. Dobbiamo affrontare il fatto che probabilmente per il resto delle nostre vite – a meno che tutto non vada all’inferno, il che sarebbe molto peggio – gli Usa e la Cina sono destinati a cooperare se il mondo vuole avere un sistema efficace».Non sarà facile: l’esercito cinese, tanto per dire, è fortemente antiamericano. Brzezinski, al solito, semplifica: «Noi siamo una super-democrazia, loro una dittatura egocentrica». Ci sono i Brics, naturalmente, della cui crescente autonomia gli Usa hanno paura. L’Europa? Non pervenuta: «Chi sono gli europei? Se vai a Parigi o in Portogallo, o in Polonia, e chiedi “chi sei tu?” ti verrà risposto “Sono portoghese”, “Sono spagnolo”, “sono Polacco”. Quali sono le persone che sono veramente europee?». La speranza del vecchio stratega della Casa Bianca è di coltivare relazioni cooperative con la Cina, l’unica superpotenza paragonabile agli Stati Uniti, una nazione «che esiste da 5-6000 anni», sicura della propria identità e consapevole della sua forza. Una grande nazione, psicologicamente più affidabile degli Stati Uniti: «Noi possiamo facilmente venire troppo coinvolti emotivamente nei loro problemi interni, loro invece non si fanno prendere emotivamente dai nostri». Inoltre, secondo Brzezinski, «i cinesi non sono mai stati stupidi quanto i russi, che più di una volta sono venuti a dirci in faccia “Vi distruggiamo”».Sul futuro imminente, Brzezinski raccomanda prudenza. Obiettivo: evitare quella che molti chiamano Terza Guerra Mondiale. Vero, «ci sono similitudini con il 1914», ma allora «le maggiori potenze avevano una visione più ristretta del mondo», pensavano di risolvere i problemi «con l’uso della forza bruta». Non è più così. «Non vogliamo affondare nella crisi mediorientale. I russi preferirebbero di sì, ma restandone fuori. I cinesi giocano a starsene a guardare da lontano. Tutto ciò fornisce alcune rassicurazioni sul fatto che la situazione non esploderà e non andrà a finire come nel 1914». Cautela, dunque, nell’uso delle armi. Per riuscire a pacificare il Medio Oriente con l’aiuto di Turchia, Iran, Egitto e Israele, avendo «la Cina come socio paritario», fondamentale per «una sorta di stabilità globale», e perfino contando sulla Russia come alleato potenziale, «non appena avrà superato i dissidi con gli europei». Evaporata l’Onu e qualsiasi altra forma di governance istituzionale, Brzezinski propone una nuova Yalta: l’Occidente agli Usa e l’Asia alla Cina, con uno status speciale per India e Giappone. «Questo è il meglio che si possa fare e penso che dovremmo lavorare su queste basi nel corso di questo secolo. Sarà dura. Sarà pericolosa e distruttiva, ma non penso che stiamo scivolando verso una nuova guerra mondiale. Penso che stiamo invece scivolando in un’era di grande confusione e caos dominante».«L’enorme instabilità a livello mondiale non ha precedenti storici», perché «grandissime fette di territori sono governate da instabilità populista, rabbia e perdita del controllo statale». Zbigniew Brzezinski, consigliere strategico di Carter e storico “cervello” dell’egemonia mondiale statunitense, lancia l’allarme: «Non stiamo declinando verso una crisi per la sopravvivenza, ma stiamo perdendo il controllo dei nostri massimi livelli di abilità nell’affrontare sfide che, sempre più, molti di noi riconoscono essere fondamentali per il nostro benessere». Dura lezione, per gli Usa, i fallimenti a catena degli ultimi vent’anni: «Non possiamo arruolare forze o creare leadership per gestirle», e questo rende gli Usa «sempre più privi di volontà strategica e senso della direzione da intraprendere». Scenario: «Siamo di fronte a un mondo pieno di tumulti, frammentazione e incertezza: nessuna minaccia diretta per nessuno, ma molte differenti minacce praticamente per chiunque».
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Mosul, dalla Siria con furore: l’Isil-Cia e il fantasma Blair
Tony Blair, il Fantasma dell’Opera – una tragedia infinita chiamata Medio Oriente. Per Pepe Escobar, il Fantasma è tornato, ispirando la guerriglia in Iraq. Il fatto che Blair «continui a gironzolare con la sua sequela di intricate menzogne, invece di starsene a marcire in qualche hotel di lusso», secondo il giornalista di “Asia Times” «ci sbatte in faccia tutto ciò che dobbiamo sapere circa le cosiddette “élite” occidentali, delle quali è un fedele, e ragguardevolmente ricompensato, servo». Tutto, nella regione, è precipitato con l’operazione “shock and awe”, la guerra del 2003 per uccidere Saddam Hussein sulla base di invenzioni (le armi di distruzioni di massa, inesistenti). Guerra promossa da Blair insieme a “Dubya” Bush. «Il Fantasma aveva sempre desiderato che l’amministrazione Obama bombardasse la Siria, così come aveva spinto affinchè “Dubya” distruggesse l’Iraq». La logica del Fantasma, continua Escobar, non aveva previsto che lo stesso Isil creato a Damasco (Stato Islamico dell’Islam e del Levante) ora si sarebbe spinto verso Baghdad.Proprio l’influente Blair, lo statista più amato da Renzi, continua a elargire lo stesso sanguinoso regalo, «la Guerra al Terrore, eternamente riciclata e riconfezionata, della quale il Fantasma è stato il primo sostenitore, che si tira dietro l’ultima moda Usa che bolla l’Isil come la personificazione di un nuovo 11 Settembre». Dato che Blair «sperava in Damasco come ripetizione del 2003 di Baghdad», se la logica dei bombardamenti avesse avuto la meglio in Siria, oggi Aleppo sarebbe una replica di Mosul, continua Escobar in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”. «Più ci si addentra, più il Fantasma sembra l’erede degli – altrettanto spiazzati – comandanti britannici nell’Afghanistan degli anni ’90». Escobar ricorda le involontarie conseguenze dei bombardamenti Usa del 2001 in Afghanistan, con Hazaras (sciiti afghani) fianco a fianco con gli iraniani, insieme all’esercito siriano di Bashar al Assad, contro i “ribelli” siriani «sostenuti dal Fantasma». Nemmeno Peter Mandelson, “signore dell’oscurità”, e mente politica del “New Labour” di Blair, «avrebbe potuto giustificare una cosa del genere».In ogni caso, prosegue Escobar, «il Fantasma è sempre stato convinto della “malvagità” dell’Iran, “avvertendo” costantemente che Teheran era sul punto di assemblare un’arma nucleare (vecchie abitudini – come per la sindrome di Saddam – dure a morire)». Stupito come Dick Cheney, il vecchio Blair, quando Washington e Teheran erano sul punto di discutere a Vienna una sorta di fronte comune per combattere l’Isil in Iraq e addirittura “super-falchi” come il senatore repubblicano Lindsey Graham affermare le impensabili parole «avremo probabilmente bisogno dell’aiuto [dell’Iran] per tenere Baghdad». Secondo Escobar, nonostante la pericolosità di Blair «non c’è alcuna strategia di fondo, nessun piano anglo-statunitense a lungo termine di politica estera in quello che il Pentagono chiama ancora “arco di instabilità”». O con noi o con i terroristi, era il motto di Bush. Peccato che in Libia e in Siria l’Occidente era schierato proprio coi terroristi islamici, secondo la filosofia del “divite et impera”.Washington, continua Escobar, ha ammesso di star inviando “assistenza” letale ai ribelli “moderati” in Siria (come, in teoria, i sicari del Fronte Islamico, non l’Isil o Jabhat al Nusra), «come se gli asset holliwoodiani della Cia non sapessero che queste armi saranno sicuramente vendute ai jihadisti più estremi – o rubate da loro». L’Isil nel deserto senza confini tra Siria e Iraq è già un proto-califfato. Armare i cosiddetti “moderati”? «Non ci sono “moderati”, come non c’erano Talebani “moderati”». Lo scenario sarà quindi ulteriormente destabilizzato: «Delle vittime fanno parte i curdi in Siria, Iraq, Turchia e Iran, i turkmeni in Iraq (come sta già avvenendo questa settimana) e ovviamente i cristiani in ogni nazione (come è già successo in Siria)». Il Fantasma? «Ora sta pregando gli Stati Uniti per un “intervento” in Iraq: prima li affami, poi li bombardi fino a una devastazione che chiamerai “democrazia” e li occupi, poi infesti il tutto di jihadisti, che poi scacci, poi gli jihadisti scatenano l’inferno (425 milioni di dollari rubati da una cassaforte governativa a Mosul, oltre a un sacco di soldi presi ai Wahabiti del Golfo per comparsi tutte quelle Toyota e quegli Rpg), poi li rioccupi lentamente. Questo è il regalo che continua ad essere distribuito».Altro scialo di retorica bugiarda, diffusa da Blair e dai neocon statunitensi: l’Isil «una minaccia per la sicurezza dell’Occidente», parole di Kerry. Ridicolo: «E’ uno scherzo enorme quanto la massa di satelliti incapaci di tracciare una colonna di Toyota bianche che avanzano nel bel mezzo del deserto iracheno – dirette verso la distruzione di quattro divisioni dell’esercito. Le hanno viste, le hanno seguite e hanno fatto finta di nulla, come insegna il libro degli schemi dell’impero del caos. Perchè non spingere il “divide et impera” tra sunniti e sciiti? Lasciamoli mangiare i cadaveri – e uccidersi tra di loro, come nella guerra pluriennale tra Iran e Iraq». La spinta dell’Isil è un remix della guerra civile tra sunniti e sciiti nel 2006 e 2007, i cui effetti, prima dell’invasione Usa, Escobar ha documentato nel reportage “Red Zone Blues”. «Il Fantasma, tuttavia, ha ottenuto ciò che voleva; l’Iraq è a pezzi, irrimediabilmente frammentato», e i curdi hanno preso il controllo del petrolio di Kirkuk.Conclude Escobar: «Il “medio oriente” – di fatto il sudest asiatico – è una finzione occidentale imposta dal potere coloniale alle popolazioni locali. Quello che il Pentagono descrive fin dagli anni 2000 come l’“arco di instabilità” è un sistema anarchico che si autoalimenta, con alcuni scampoli di “pace” rappresentati dalle petro-monarchie meglio conosciute come Consigli di Cooperazione del Golfo (dopotutto abbiamo bisogno del “nostro” petrolio). A seguire c’è il lento e inevitabile processo di integrazione eurasiatico, lungo la miriade di nuove vie della seta che fanno riferimento alla Cina. Questa è una maledizione per l’impero del caos e i suoi leccapiedi, per cui il sudest asiatico in perenne caos è più che apprezzato». E dato che c’è sempre di mezzo anche il Fantasma di Tony Blair, «l’arrogante ectoplasma», aspettiamoci pure un bell’aumento dei carburanti da aggiungere «a questo mescolone occidentale già abbastanza delirante».Tony Blair, il Fantasma dell’Opera – una tragedia infinita chiamata Medio Oriente. Per Pepe Escobar, il Fantasma è tornato, ispirando la guerriglia in Iraq. Il fatto che Blair «continui a gironzolare con la sua sequela di intricate menzogne, invece di starsene a marcire in qualche hotel di lusso», secondo il giornalista di “Asia Times” «ci sbatte in faccia tutto ciò che dobbiamo sapere circa le cosiddette “élite” occidentali, delle quali è un fedele, e ragguardevolmente ricompensato, servo». Tutto, nella regione, è precipitato con l’operazione “shock and awe”, la guerra del 2003 per uccidere Saddam Hussein sulla base di invenzioni (le armi di distruzioni di massa, inesistenti). Guerra promossa da Blair insieme a “Dubya” Bush. «Il Fantasma aveva sempre desiderato che l’amministrazione Obama bombardasse la Siria, così come aveva spinto affinchè “Dubya” distruggesse l’Iraq». La logica del Fantasma, continua Escobar, non aveva previsto che lo stesso Isil creato a Damasco (Stato Islamico dell’Islam e del Levante) ora si sarebbe spinto verso Baghdad.
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Sangue e Pil: una guerra mondiale per salvare la crescita
ita – crescita di tutto, compresi i veleni, i disastri, gli sprechi criminali. Lungi anche solo dall’ipotizzare un’economia non più fondata sulla crescita illimitata (non solo “impossibile” ma anche letale per la Terra) il professor Cowen, docente ultra-liberista della George Mason University, sostiene che il mondo di oggi non sia più visitato, come in passato, dalla favolosa opportunità rappresentata dal genocidio bellico.«Alcuni dei recenti titoli di giornale sull’Iraq o il Sud Sudan fanno sembrare il nostro mondo un posto molto cruento – premette Cowen – ma le vittime di oggi impallidiscono alla luce delle decine di milioni di persone uccise nelle due guerre mondiali nella prima metà del XX secolo». La stessa Guerra del Vietnam, aggiunge, ha avuto molti più morti di qualsiasi guerra recente che coinvolga un paese ricco. Ecco il punto: «Il maggior pacificismo del mondo può rendere meno urgente, e quindi meno probabile, il raggiungimento di alti tassi di crescita economica». Nel suo intervento, ripreso da “Zero Hedge” e tradotto da “Come Don Chisciotte”, Cowen sostiene che la semplice possibilità del precipitare verso la guerra «focalizza l’attenzione dei governi su come prendere correttamente alcune decisioni fondamentali», per esempio su come «investire nella scienza o semplicemente liberalizzare l’economia». E questa “attenzione”, di fatto, «finisce per migliorare le prospettive a più lungo termine di una nazione».«Può sembrare ripugnante trovare un lato positivo alla guerra in questo senso», ammette ancora Cowen, deciso però a “rivalutare” fino in fondo la prospettiva del conflitto come volano economico, come fossimo ancora agli albori dell’era del carbone e del petrolio: «Uno sguardo alla storia americana suggerisce che non possiamo respingere l’idea così facilmente». E spiega: «Innovazioni fondamentali come l’energia nucleare, il computer e l’aviazione moderna sono state tutte spinte da un governo americano desideroso di sconfiggere le potenze dell’Asse o, più tardi, di vincere la Guerra Fredda». La stessa rete Internet è stata progettata a scopo militare-strategico, e la Silicon Valley «deve le sue origini alle forniture militari, non alle start-up imprenditoriali di oggi». Tutto merito del lancio del primo Sputnik, il satellite con cui l’Urss sfidò gli Usa mettendosi in pole position nella conquista dello spazio. Proprio lo Sputnik «ha stimolato l’interesse americano nel campo della scienza e della tecnologia, a beneficio della conseguente crescita economica». Piccolo particolare: questo succedeva mezzo secolo fa, quando eravamo 1 miliardo e mezzo anziché 7 e il “terzo mondo” era ancora una sconfinata cassaforte da saccheggiare.La guerra, insiste Cowen, «porta con sé un’urgenza a cui i governi altrimenti non riescono ad appellarsi». Lo conferma la storia del Progetto Manhattan per l’atomica, realizzata in soli sei anni «partendo praticamente dal niente» e coinvolgendo lo 0,4% della produzione economica americana: «In questi giorni è difficile immaginare un risultato così rapido e decisivo». Il dogmatico Cowen cerca alleati, nella sua visione economico-bellicista così consonante con gli Usa di Obama, che provocano la Russia accerchiando la Cina. Secondo Ian Morris, professore di letteratura e storia a Stanford e autore del saggio “Guerra! A che cosa serve?”, che esamina il rapporto tra conflitto e progresso “dai primati ai robot”, la guerra ha sempre aiutato la crescita: prima sotto l’Impero Romano, poi col Rinascimento e infine con la nascita degli Stati Uniti. «Ci sono prove che l’intenzione di prepararsi alla guerra abbia spinto l’invenzione tecnologica e portato anche un certo maggior grado di ordine sociale».Un altro libro, “Guerra e oro, una storia di 500 anni di imperi, avventure e debito”, scritto da un altro conservatore, il deputato britannico Kwasi Kwarteng, si sostiene che la necessità di finanziare le guerre abbia portato i governi a sviluppare le istituzioni monetarie e finanziarie, consentendo l’ascesa dell’Occidente. Una terza indagine sul tema, dossier firmato dagli economisti Chiu Yu Ko, Mark Koyama e Tuan-Hwee Sng, si afferma che l’Europa si è evoluta in modo più frammentario rispetto alla Cina, costretta al centralismo di Pechino per evitare invasioni da ovest. L’accentramento avrebbe fatto arretrare il paese, mentre gli europei avrebbero investito di più in tecnologia e modernizzazione «proprio perché avevano sempre paura di essere conquistati dai vicini loro rivali». Se non altro, concede Cowen, «vivere in un mondo pacifico con una crescita del Pil del 2% ha alcuni grandi vantaggi che non si ottengono con una crescita del 4% e molti più morti in guerra».Per contro, dice ancora l’economista di destra, i nostri antenati non hanno probabilmente mai conosciuto una stagnazione come l’attuale. Errore: fu spaventoso il crollo in cui sprofondò l’Europa, economia compresa, dopo la caduta dell’Impero Romano. Qualcosa del genere potrebbe accadere oggi, se dovesse collassare l’impero americano. Cowen però non è uno storico, ma un economista: e la sua ideologia neoliberale, smentita dai fatti ma più che mai al potere, vede solo un futuro lineare e progressivo, proprio come la leggenda della crescita infinita e l’atroce fiaba dell’austerity espansiva. In attesa di scoprire se l’ipotetico colossale business chiamato Terza Guerra Mondiale sia davvero alle porte – magari innescato a Kiev contro Mosca, o da Israele contro Teheran – Cowen si limita a domandarsi «se la recente diffusione della pace è una semplice bolla temporanea che aspetta solo di essere fatta scoppiare», naturalmente a beneficio di un Pil finanziario ormai controllato da pochissimi super-padroni, forse pronti a lasciare sul terreno i 2 miliardi di morti che un attacco nucleare contro la Russia provocherebbe.L’economia occidentale è in stagnazione da troppo tempo? Niente di meglio che una bella guerra, magari mondiale, per “far ripartire la crescita”. Lo afferma, senza troppi giri di parole, l’economista statunitense Tyler Cowen, allievo della “scuola austriaca” di Friedrick Von Hayek cui si ispirano i famigerati professori europei del rigore, a cominciare dal non rimpianto Mario Monti. Sul “New York Times”, Cowen spiega che solo la guerra è il potente motore dell’economia, anche se purtroppo «il conflitto porta morte e distruzione». Il problema, però, è che la pace non aiuta il Pil, cioè il grossolano indicatore convenzionale di crescita – crescita di tutto, compresi i veleni, i disastri, gli sprechi criminali. Lungi anche solo dall’ipotizzare un’economia non più fondata sulla crescita illimitata (non solo “impossibile” ma anche letale per la Terra) il professor Cowen, docente ultra-liberista della George Mason University, sostiene che il mondo di oggi non sia più visitato, come in passato, dalla favolosa opportunità rappresentata dal genocidio bellico.