Archivio del Tag ‘televisione’
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Finalmente in galera chi non vuole vaccinare i propri figli
L’Emilia Romagna è una terra ricca e fortunata. E tra le grandi fortune c’è quella di avere un assessore alla salute semplicemente illuminato e illuminante. Si tratta di tale Sergio Venturi. Anzi, del dottor Sergio Venturi, laureato in medicina e burocrate di lungo corso. Terrorizzato come è giusto che sia dal drastico calo delle vaccinazioni (poliomielite, malattia inesistente in Italia dal 1982, precipitata da una percentuale di copertura del 96,10% al 94,8%; difterite, di cui abbiamo avuto in Italia 5 casi tra il 1990 e il 2000 e poi più nulla, dal 96% al 94,72%; pertosse dal 95,78% al 94,44%, epatite B dal 95,78% al 94,49%) e dalle notizie della strage che sta facendo una malattia terribile come la pertosse, il dottor Venturi ha detto basta. Così in un articolo della giornalista Eleonora Capelli, superesperta dell’argomento tanto da aver scoperto l’esistenza della polioMELITE, probabilmente l’infiammazione cronica di molte mele, lo statista scienziato annuncia la sua intenzione di denunciare alla Procura della Repubblica quei genitori che non vaccinano i figli. Ecco: finalmente quei delinquenti faranno la fine che meritano.Intanto, qualcuno, magari informato in modo diverso di quanto non sia l’assessore Venturi, potrebbe proporre il carcere per chi fabbrica vaccini contaminati da pezzi piccini piccini di metallo; per chi mette in commercio i vaccini senza denunciarne tutti i componenti; per chi mette in circolazione vaccini senza aver fatto la sperimentazione che biologia comanda; per chi dà il permesso di commercializzazione senza aver completato tutti i controlli del caso; per i funzionari degli enti di controllo che hanno in mano documentazione imbarazzante sui vaccini e insabbiano il caso; per chi somministra quella roba inquinata; per chi vaccina senza aver valutato in modo esaustivo se il soggetto sia già immune dalla/e patologia/e; per chi pratica vaccinazioni in modo illegale (ad esempio, un’esavalente al posto della tetravalente); per chi, pur obbligato, non denuncia gli effetti deleteri delle vaccinazioni; per chi dà informazioni false o incomplete (esempio: illudendo il soggetto di essere protetto contro una malattia e non contro un solo ceppo della malattia o non dicendo che nessun vaccino è attivo su ogni soggetto); per chi vaccina soggetti che per età non potranno mai essere immunizzati in quel modo; per chi fa terrorismo distorcendo i dati reali (per esempio “morire DI morbillo” invece di “morire CON il morbillo”, e la pertosse non fa differenza) o favoleggiando di epidemie del tutto inesistenti (per esempio, fantasiose epidemie di meningite).Naturalmente potrei continuare con un elenco di situazioni che non vengono considerate reato semplicemente perché c’è chi lucra, e nemmeno poco, sulle vaccinazioni, e chi lucra sta, divano o sgabello che sia, nel salottino di chi conta. E, invece, si tratta di reati gravissimi e, mi si permetta, pure schifosi. Come ho sempre affermato, io non ho alcuna intenzione di condannare i vaccini in quanto tali. L’ho sempre affermato: l’idea è geniale, ma, come per ogni farmaco, bisogna farne un uso onesto e intelligente, due aggettivi che sono in qualche modo sinonimi. L’abuso è illegittimo, eticamente scorretto e non troppo di rado criminale. Insomma, sì ai vaccini a patto che questi siano prodotti come Dio comanda, vale a dire privi di qualunque componente che possa anche lontanamente danneggiare il soggetto, e vanno praticati solo a ragion veduta, con le modalità corrette e solo dopo che il ricevente è stato controllato in modo accurato.Noi non abbiamo bisogno di geni come l’assessore Venturi, di enti di controllo che tutto fanno tranne controllare, di giornalisti analfabeti, di trasmissioni radio vergognose come quelle che ci propina la Rai o quella recentissima di “Radio 24”, dove la nostra ministra della salute, candidamente priva di qualunque cultura specifica , spara sciocchezze mortificanti o dove una signora “scienziata” dice, in sintesi, che le persone non devono essere informate perché della loro salute si occupano geni come lei e tanto basti. Ciò di cui abbiamo bisogno è chiarezza e, se chi fa palate di quattrini con i vaccini dovrà rinunciare a qualche lusso, devo dire che non me ne importa un fico secco. Intanto, qualcuno provveda a praticare le cure del caso all’assessore Venturi che, se ne avrà la voglia e il coraggio, potrà confrontarsi con me e rispondere alle mie domande non a chiacchiere ma a fatti, il che significa con dati suoi e non quelli di chi ha tutto l’interesse a diffondere fandonie. La stessa cosa vale per i fari di scienza che illuminano le trasmissioni radio e Tv di regime.(Stefano Montanari, “Finalmente in galera chi non vaccina i figli”, dal blog di Montanari del 14 ottobre 2015. Laureato in farmacia con una tesi in microchimica, il dottor Montanari si occupa di ricerca applicata al campo della medicina. Autore di diversi brevetti – cardiochirurgia e chirurgia vascolare, pneumologia ed elettrofisiologia – ha diretto un progetto realizzare una valvola cardiaca biologica. Con la moglie Antonietta Gatti conduce ricerche sui biomateriali e dal 2004 dirige il laboratorio Nanodiagnostics di Modena, specializzato in nanopatologie, fonti inquinanti e polveri sottili).L’Emilia Romagna è una terra ricca e fortunata. E tra le grandi fortune c’è quella di avere un assessore alla salute semplicemente illuminato e illuminante. Si tratta di tale Sergio Venturi. Anzi, del dottor Sergio Venturi, laureato in medicina e burocrate di lungo corso. Terrorizzato come è giusto che sia dal drastico calo delle vaccinazioni (poliomielite, malattia inesistente in Italia dal 1982, precipitata da una percentuale di copertura del 96,10% al 94,8%; difterite, di cui abbiamo avuto in Italia 5 casi tra il 1990 e il 2000 e poi più nulla, dal 96% al 94,72%; pertosse dal 95,78% al 94,44%, epatite B dal 95,78% al 94,49%) e dalle notizie della strage che sta facendo una malattia terribile come la pertosse, il dottor Venturi ha detto basta. Così in un articolo della giornalista Eleonora Capelli, superesperta dell’argomento tanto da aver scoperto l’esistenza della poliomelite, probabilmente l’infiammazione cronica di molte mele, lo statista scienziato annuncia la sua intenzione di denunciare alla Procura della Repubblica quei genitori che non vaccinano i figli. Ecco: finalmente quei delinquenti faranno la fine che meritano.
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Segreto di Stato su Charlie Hebdo, killer armati dagli 007
I giudici non potranno indagare: il ministro degli interni francese, Cazeneuve, ha bloccato ogni ulteriore inchiesta sull’eccidio compiuto da Amedy Coulibaly, il 32enne nero che s’era asserragliato nel piccolo supermercato Hyper Casher di Porte de Vincennes, uccidendo cinque clienti e finendo crivellato dai colpi dei corpi speciali. Facendo valere – si noti – il segreto militare. Certamente ricordate. Era il 9 gennaio 2015; il 7, due terroristi, urlando “Allahu Akbar!”, avevano trucidato praticamente l’intera redazione del settimanale satirico “Charlie Hebdo”. Avevano agito da freddi professionisti: poi però nella Citroen che avevano abbandonato nel XIX Arrondissement scappando su un’altra vettura, uno dei due aveva dimenticato la carta d’identità; era il documento di Said Kouachi, il che aveva permesso di identificare senza alcun dubbio gli autori della strage con i fratelli Kouachi, Said e Chérif, già noti alla polizia come estremisti islamici. Mentre i due erano in fuga, Coulibaly si asserragliò deliberatamente nel supermercato kosher; perbacco, un attentato antisemita in piena Parigi!Tutte le tv del mondo si concentrarono davanti alle vetrine, e ripresero la tragica e spettacolare scena dell’uccisione di Coulibaly, cosa che per qualche ora fece dimenticare la fuga dei due fratelli Kouachi. Nessuno ha visto la loro morte, che ufficialmente è avvenuta dopo una sparatoria con gli agenti a Dammartin en Goele, a una settantina di chilometri dalla capitale, il 9, alla stessa ora del tardo pomeriggio in cui è stato ucciso, davanti alle tv, Coulibaly a Parigi. E’ stato lo stesso Hollande a ordinare che le due irruzioni avvenissero in contemporanea; dell’uccisione dei fratelli Koauchi è stato diffuso un video che mostra un bagliore nel buio: a gennaio, le cinque di sera è già notte. Ma torniamo a Coulibaly, il cui cadavere rimase per ore sul marciapiede. Era entrato in quell’Hyper Cocher armato di un mitra Skorpion, un fucile d’assalto Vz 58 (simile al Kalashnikov), due pistole Tokarev. Tutte armi di provenienza cecoslovacca. Armi da guerra, che in Francia non sono ovviamente in libera vendita. Dove se l’era procurate, Amedy?Era questa la domanda a cui stavano cercando risposte i giudici istruttori del tribunale di grande istanza di Lille: ed è sulla loro inchiesta che è calata la mannaia del segreto. Per ingiunzione del ministro dell’interno. Si cessi ogni ricerca: sécret défense. Perché è segreto “militare”? Perché i giudici erano troppo vicini alle verità nascoste dietro la tragedia di “Charlie Hebdo”, e al suo fondo che resta inspiegato. In breve – come già aveva rivelato a suo tempo il giornale di Calais “La Voix du Nord” sulla base di indiscrezioni degli inquirenti, quelle armi erano state fornite da «una rete costituita da forze dello Stato» che le comprava, attraverso intermediari pregiudicati ma collaborativi, per spedirle ai ribelli jihadisti in Siria. Forze dello Stato? Per la precisione, secondo il sito alternativo “Mediapart”, «poliziotti di Lille e uno dei loro informatori sono al centro del traffico d’armi con cui è stato armato Coulibaly… la loro posizione è abbastanza delicata da indurli a trincerarsi dietro il “sècret défense”»; il ministro Cazeneuve ha tolto quei suoi agenti dai guai, avallando la loro difesa: sì, ciò che hanno fatto è segreto. Militare.Praticamente,è ammissione che lo Stato è coinvolto nella selezione e nell’armamento di giovani francesi d’origine islamica da impiegare in Siria come terroristi. Si può indovinare che i fratelli Kouachi, e quasi certamente anche Coulibaly, erano stati arruolati di Parigi per andare in Siria. Come e perché siano stati invece dirottati, con quelle armi, a compiere la doppia strage di Parigi, è un mistero forse troppo profondo. Quel che hanno scoperto i giudici istruttori di Lille è però abbastanza. Pochi giorni dopo la strage, il 20 gennaio, «i dirigenti della Brigata penale della sotto-direzione anti-terrorismo” (Sdat; una specie di Digos), portano ai giudici la relazione tecnica sulle armi del delitto. Ma tacciono un fatto preciso: la loro provenienza. Eppure già dal 16 Europol aveva fornito allo Sdat le informazioni in suo possesso: le armi «sono state acquistate dall’azienda slovacca Agf Security da una ditta di Lille che fa capo a Claude Hermant».La ditta slovacca vende sul web armi da guerra decommissionate; Hermant è un confidente della polizia, mezzo agente e mezzo spia, di idee neofasciste. E non ha comprato solo le armi da fuoco usate da Coulibaly: dalla Agf ha acquistato 200 pezzi «poi rivenduti», e anche (ritengono i giudici) altre novanta fra pistole e mitragliatori d’assalto attraverso un intermediario belga di Charleroi. E’ evidente che queste armi da guerra non hanno potuto essere importate in Francia senza l’assenso delle cosiddette autorità di pubblica sicurezza. In specie, con la complicità dello Sdat. Quanto al contatto belga di Hermant, è risultato essere (anche lui) un detective di Charleroi; interrogato, ha detto che «Hermant era il mio cliente principale», che «mi comprava il 95% delle armi demilitarizzate provenienti dalla ditta slovacca Afg – decine e decine. Che cosa ne facesse in seguito, non lo so».La difesa di Hermant ha rigettato questa versione: le transazioni saranno state «al massimo quattro-sei». Qualcuna delle armi comprate da Hermant è stata usata per altri misteriosi delitti commessi lo stesso giorno della strage di “Charlie Hebdo”: una poliziotta uccisa a Montreux e il tentativo di omicidio di un “jogger” a Fontenay-aux-Roses. Entrambi i delitti sono stati dalla polizia attribuiti a Coulibaly, che ormai defunto non poteva smentirli. Ma il “jogger”, sopravvissuto, non ha mai riconosciuto nella foto di Coulibaly il suo aggressore («Non era un nero»), e ha invece additato un nordafricano, che ha visto per caso durante un reportage televisivo sull’Hyper Cacher: tale Amar Ramdani. Personaggio cruciale: Ramdani, rapinatore, ricercato internazionale per spaccio, aveva stretto amicizia con Coulibaly in carcere; s’era atteggiato ad islamista voglioso di violenza, gli aveva dato appoggio logistico (le armi?) e sarebbe stato lui a scortarlo fino al negozio kosher alla Porte de Vincennes; certamente il cellulare di Coulibaly e quello di Ramdani hanno occupato la stessa “cellula” il 6, 7 ed 8 gennaio.Il punto è che questo pregiudicato Ramdani, come hanno scoperto gli agenti che lo hanno pedinato, entrava e usciva quando voleva dal centro operativo dei “servizi” francesi, a Rosny-sous-Bois. Poi è risultato – o è stato asserito – che lì andava a trovare la sua amante: Emanuelle C. (il cognome è ignoto) che è una agente dei servizi, che aveva preso una sbandata per lui tanto da “convertirsi all’Islam” in segreto, tanto da “indossare il velo” quando usciva dall’ufficio: un tipico travestimento per un’agente che vuole infiltrarsi in ambienti islamici. E poi: come può un ricercato entrare nel “Forte” (così chiamano la centrale d’intelligence) senza mostrare un documento, senza avere un badge che ne legittimi l’accesso? Il peggio è che quando Ramdani (su indicazione del blogger) è stato arrestato, Emmanuelle ha cercato di accedere ai fascicoli dell’inchiesta Coulibaly.Un’altra donna fatale è quella che ha fatto innamorare Coulibaly e l’ha reso – oltreché pazzo d’amore – un islamista pronto a tutto: si chiama Hayat Boumedienne, indicata dai media come “la moglie” del terrorista ucciso. Molte le foto, diffuse dopo, dove i due sono insieme e si addestrano ad usare pistole – lei è in chador nero. Altre foto però la mostrano in bikini, incollata voluttuosamente a Coulibaly. Il giorno 9, quando il nero si asserraglia nel negozio ebraico, qualcuno spiega subito ai giornalisti che la fanatica islamista Hayat Boumedienne è lì con lui, nel negozio. Così passano le ore e nessuno la cerca. Hayat non è affatto nel negozio; ha preso comodamente il largo. Poi si farà viva coi familiari e darà la sua versione, ovviamente ripresa dai media: “Sono in Siria a combattere con lo Stato Islamico contro Assad”. Lo Stato Islamico addirittura la intervista – il Califfo ha infatti anche una rivista patinata in francese, “Dar Islam” – e diffonde la sua versione. Lei si dichiara felice di vivere «in una terra dove vige la legge di Allah» e fa un elogio funebre del ‘marito’ Coulibaly (lo chiama Abu Baly al-Ifriki) che ha dato il buon esempio.Naturalmente, l’articolo è privo di foto della ragazza nella sua nuova incarnazione: sarebbe antislamico, perbacco. Il fatto è che addirittura l’Isis conferma la versione ufficiale. Poi, sono comparsi video in cui Coulibaly, ancor vivo, si dichiarava spontaneamente un seguace del Califfato. Una tv ebraica francese riuscirà ad intervistarlo mentre è asserragliato nel negozio: uno scoop. Come quelle immagini prese dal tetto che mostrano i due teroristi all’uscita dalla strage di “Charlie Hebdo”: immagini riprese, si disse, da un giornalista israeliano che si trovava per caso lì… versione poi cambiata. Facciamola breve. Insomma: qualcosa ci suggerisce una nostra versione, orribilmente complottista: il povero Coulibaly, reso scemo dal sesso la sua Hayat Boumedienne, che è una agente dei servizi, viene gestito da Ramdani, che lo arma con le armi fornite da Hermant per i servizi in gran quantità, perché solitamente destinate alla guerriglia in Siria (dove i francesi hanno una filiale di Al-Qaeda, fatta di militanti maghrebini nati in Francia); la fidanzata o moglie, e il Ramndani, lo convincono a compiere la grande impresa di alto valore mediatico.Il povero Coulibaly viene usato e sacrificato per qualche motivo, forse per distogliere l’attenzione dai fratelli Kouachi che in quelle ore sono in fuga? Per qualche altro motivo? In ogni caso, è abbastanza spiegabile come mai occorra seppellire questa sporca faccenda come “segreto di Stato”, segreto militare da sottrarre ai giudici. Chi vuole sviscerare tutti i particolari strani di questa vicenda, può – se sa il francese – consultare il sito “Panamza”. E’ una miniera di informazioni, risultato di indagini personali di un vero giornalista (che immagino non sia apprezzato dai media). Fra le altre, segnalo questa: fin dalle prime ore un importante giornale online americano, l’“International Business Time” (il terzo nel mondo fra i giornali economici sul web, per numero di contatti) dice: l’attentato di “Charlie” sembra una vendetta del Mossad contro la Francia. Un’ora dopo, il giornale online ritira il pezzo, e si scusa coi lettori.(Maurizio Blondet, “Su Charlie Hebdo piomba il segreto militare”, dal blog di Blondet del 12 ottobre 2015).I giudici non potranno indagare: il ministro degli interni francese, Cazeneuve, ha bloccato ogni ulteriore inchiesta sull’eccidio compiuto da Amedy Coulibaly, il 32enne nero che s’era asserragliato nel piccolo supermercato Hyper Casher di Porte de Vincennes, uccidendo cinque clienti e finendo crivellato dai colpi dei corpi speciali. Facendo valere – si noti – il segreto militare. Certamente ricordate. Era il 9 gennaio 2015; il 7, due terroristi, urlando “Allahu Akbar!”, avevano trucidato praticamente l’intera redazione del settimanale satirico “Charlie Hebdo”. Avevano agito da freddi professionisti: poi però nella Citroen che avevano abbandonato nel XIX Arrondissement scappando su un’altra vettura, uno dei due aveva dimenticato la carta d’identità; era il documento di Said Kouachi, il che aveva permesso di identificare senza alcun dubbio gli autori della strage con i fratelli Kouachi, Said e Chérif, già noti alla polizia come estremisti islamici. Mentre i due erano in fuga, Coulibaly si asserragliò deliberatamente nel supermercato kosher; perbacco, un attentato antisemita in piena Parigi!
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Rcs-Mondadori, nasce un regime. E nessuno dice niente
«La più potente, poderosa e importante battaglia politica per garantire la libera informazione in Italia e la possibilità di aumentare la diffusione della cultura nel nostro paese si è appena conclusa, nella più totale indifferenza da parte di ogni soggetto politico presente in Parlamento», inclusi «movimenti e associazioni al di fuori del Parlamento». A parlare è Sergio Di Cori Modigliani, e la “battaglia” è quella per contrastare l’affermazione del super-monopolio editoriale italiano, la fusione tra Mondadori e Rcs Rizzoli. «La battaglia non ha avuto oppositori», scrive Modigliani sul suo blog. E «chi avrebbe dovuto interpretare il ruolo dell’antagonista», in primis il M5S, è finito tra «coloro che scelgono di non voler combattere le battaglie che contano». Secondo il blogger, «c’è stata, e c’è tuttora, una persona soltanto che ha detto no. Un’unica azienda. Un unico marchio. Un unico individuo. Si chiama Roberto Calasso. La sua è un’azienda editoriale. Il suo marchio è Adelphi». Raffinato intellettuale, scrittore e editore, Calasso si è battuto in solitudine contro l’instaurazione di un regime che controllerà tutti i contenuti editoriali italiani.La Mondadori ha ufficialmente acquistato la Rizzoli Libri per 125,7 milioni di euro, nonostante l’offerta della Mondadori fosse stata di 138 milioni e la Rizzoli avesse accettato. Grazie a questo accordo, scrive Di Cori Modigliani, la “Mondazzoli” da oggi controlla il 40,4% del mercato. «Se a questo si assommano gli interessi incrociati societari dello stesso gruppo in altri settori mediatici (radio, televisioni private in chiaro, satellitari e pay, video-giochi, smartphone applications, quotidiani cartacei, settimanali, mensili, periodici) la Mondazzoli raggiunge il controllo complessivo di circa l’84% dell’intera produzione nazionale operativa sul territorio della Repubblica Italiana. Al massimo entro pochi mesi, temo, le piccole realtà operative in Italia verranno spazzate via senza pietà. Si tratta del più grande monopolio nel campo della cultura e in quel segmento editoriale, mai esistito in una nazione occidentale da quando Gutenberg ha inventato la stampa».Tutto è nato nel febbraio del 2015, otto mesi fa. La Rizzoli Libri (presidente Paolo Mieli, esponente di punta del centro-sinistra) in seguito al disastroso bilancio del 2014 aveva deciso di vendere. «Non ha neppure fatto in tempo a comunicare la decisione che si è presentata come unico acquirente la Mondadori, chiedendo un diritto in esclusiva facendo una offerta». Esteso al massimo il giorno della scadenza definitiva, oltre la quale veniva annullata la possibilità dell’accordo: il 30 settembre. «Presumo che il motivo che giustificava gli otto mesi di tempo era la preoccupazione che l’Authority responsabile di controllare ogni azione societaria, nel nome dell’anti-trust, avrebbe potuto mettere i bastoni tra le ruote. Bastava una interrogazione parlamentare, un gruppo politico italiano che avesse preteso un dibattito in aula, denunciando “la violazione di ogni regolamentazione atta ad impedire che nel mercato libero prevalgano i cartelli consociativi a danno della competizione e che si costituiscano e si costruiscano dei monopoli unici”».«Se qualcuno, alla Camera dei Deputati avesse fatto questo – continua Di Cori Modigliani – in qualche modo l’opinione pubblica si sarebbe allertata, se ne sarebbe parlato, ci sarebbero state discussioni, posizioni diverse, dibattiti, polemiche, e i diversi soggetti in campo sarebbero diventati pubblici, scoprendo ciascuno le proprie carte». Invece, tutti si sono attenuti al basso profilo: «L’intera stampa finanziata e sostenuta dal centro-destra ha eseguito l’ordine in maniera compatta: è un affare fondamentale per Silvio Berlusconi, è stato detto con una certa chiarezza, e meno se ne parla meglio è». Idem la stampa finanziata e sostenuta dal centro-sinistra: «E’ un affare fondamentale per Paolo Mieli e Carlo De Benedetti, è stato detto con altrettanta chiarezza, e meno se ne parla meglio è». Grillini e Sel? «Neppure una parola al riguardo, mai. Vien da chiedersi che cosa ci stiano a fare in Parlamento. O meglio, a non fare».Sarebbe bastato poco, insiste il blogger, perchè l’accordo «viola ogni legge antitrust», e l’authority che ne regola il funzionamento è un organismo che sembra «seguire le tendenze», ed è «notoriamente soggetto agli umori delle piazze, reali o virtuali». E’ possibile che interverrà l’Unione Europea nel 2016, «quando l’intera documentazione sarà stata rubricata, archiviata, formalizzata, e il commissario di Bruxelles la denuncerà. Nel frattempo Mondadori e Rizzoli, insieme, avranno la possibilità di pagare i loro debiti. O meglio, saremo noi a pagarli, come al solito, grazie alla malleveria dei due grandi partiti che andranno in soccorso della Mondazzoli con la consueta didascalia “difendiamo l’Italia che lavora” infilandola dentro la prossima legge di stabilità». Due maxi-aziende «entrambe decotte, senza un progetto industriale, senza un visione culturale, senza mercato», che «hanno accumulato debiti su debiti seguitando a pubblicare una caterva di libri (che nessuno legge) scritti per lo più da professionisti della cupola mediatica, per lo più con copertura politica, in un giro vizioso perverso che ha strozzato e sta strozzando ogni forma di libertà d’espressione. Da noi, funziona così».Unica contestazione, forte fin dall’inizio, quella di Roberto Calasso. «Gli autori, gli scrittori, romanzieri, narratori, saggisti che siano, tenuti fuori dal mercato perché pensanti e produttori di contenuti non monetizzabili non si lamentino. Sono, ahinoi, in ottima compagnia». Quanti conoscono Calasso? «Nel campo editoriale italiano, e non solo, è (giustamente) considerato il più poderoso e colto intellettuale-imprenditore ancora attivo», scrive Di Cori Modigliani. Nel mondo culturale è «addirittura un mito». E in otto mesi di battaglia solitaria, lui che – in teoria – avrebbe potuto avere a disposizione ogni tipo di platea mediatica, non ha rimediato «neppure una intervistina, un invito a un talk show, la possibilità di spiegare agli italiani che cosa stava accadendo». Calasso è un imprenditore-editore che «da solo ha scelto di andare verso la frontiera». Nel 2006, quando la Rizzoli manovrava per mangiarsi (come ha fatto) gli altri editori, da Fabbri a Bompiani, da Archinto a Marsilio, si è rivolta alla Adelphi con molto realismo, spiegando che non sarebbe stata in grado di sopravvivere se non all’interno di un solido gruppo antagonista della Mondadori.«Forse Calasso conosceva i propri polli e sapeva già dove la cosiddetta sinistra intendesse andare a parare», scrive il blogger, e così accettò ponendo due condizioni: primo, accettava cedendo però soltanto il 45% delle sue azioni, di cui avrebbe mantenuto la maggioranza; secondo, chiese una clausola che gli consentiva un diritto di scelta nel caso, un giorno, la Rizzoli decidesse di vendere (o svendere, come in questo caso) la sezione libri a un soggetto terzo, pretendendo la libertà di essere in disaccordo e quindi chiamandosi fuori, ritornando a essere totalmente indipendente senza pagare alcuna penale. Glielo concessero. E così, a febbraio del 2015, quando la Mondadori avanza l’offerta e Paolo Mieli dice sì, arriva il secco no di Calasso. Lì nascono problemi seri, continua Modigliani, perchè il catalogo della Adelphi è talmente ricco e polposo che gli investitori internazionali cominciano a manifestare perplessità. Si rimanda di mese in mese, ma non riescono a convincerlo. «E intanto la massa debitoria di Rizzoli e Mondadori aumenta a dismisura. E così, il 30 settembre la trattativa salta per “mancanza di ottemperanza nel rispetto dei tempi prestabiliti, come da legge, e come la normativa Consob prevede”. Ma siamo in Italia, paese dove le regole sono diverse a seconda del peso politico dei contraenti».La Reuters e “Milano Finanza” descrivono l’accordo «come se si trattasse di due aziende che vendono sapone in polvere o tondelli di ferro, senza minimanente far riferimento all’impatto devastante che la nascita della Mondazzoli avrà sulla vita culturale italiana: l’appiattirà, la cancellerà, spingendola al ribasso verso una marketizzazione priva di valori contenutistici». Chiunque covasse residue speranze in Renzi, vedendolo come rottamatore e riformatore, se le scordi, chiosa Di Cori Modigliani. E può cambiare idea anche «chiunque pensasse che in Italia esiste una solida opposizione politica (M5S, Sel e affini) agli accordi feudali di consociativismo medioevale tra la destra e la sinistra». Morale: «Pagheremo tra un anno la pesante penale europea e passerà tutto in cavalleria». Per il blogger, «si tratta della fine annunciata della libertà intellettuale in Italia, e il messaggio politico è molto chiaro, netto, distinto: decidiamo noi che cosa farvi leggere, come, e dove». Non stupiamoci se chiudono le librerie, se i piccoli editori seri falliscono, se l’Italia «segna il più avvilente e triste record dal 1946 a oggi: è il paese in tutto l’Occidente in cui si legge di meno, e nei primi sei mesi del 2015 gli indici di lettura denunciano un crollo verticale», conclude Sergio Di Cori Modigliani. «Siamo ormai considerati un paese di analfabeti funzionali». E dunque, «lunga vita a Roberto Calasso».«La più potente, poderosa e importante battaglia politica per garantire la libera informazione in Italia e la possibilità di aumentare la diffusione della cultura nel nostro paese si è appena conclusa, nella più totale indifferenza da parte di ogni soggetto politico presente in Parlamento», inclusi «movimenti e associazioni al di fuori del Parlamento». A parlare è Sergio Di Cori Modigliani, e la “battaglia” è quella per contrastare l’affermazione del super-monopolio editoriale italiano, la fusione tra Mondadori e Rcs Rizzoli. «La battaglia non ha avuto oppositori», scrive Modigliani sul suo blog. E «chi avrebbe dovuto interpretare il ruolo dell’antagonista», in primis il M5S, è finito tra «coloro che scelgono di non voler combattere le battaglie che contano». Secondo il blogger, «c’è stata, e c’è tuttora, una persona soltanto che ha detto no. Un’unica azienda. Un unico marchio. Un unico individuo. Si chiama Roberto Calasso. La sua è un’azienda editoriale. Il suo marchio è Adelphi». Raffinato intellettuale, scrittore e editore, Calasso si è battuto in solitudine contro l’instaurazione di un regime che controllerà tutti i contenuti editoriali italiani.
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Gender: facile da controllare, l’uomo senza identità sessuale
Verso il cosiddetto “nuovo ordine mondiale”, le élites starebbero tentando di “rielaborare” l’umanità a proprio piacimento, anche grazie la creazione dell’“uomo senza identità” che sarebbe fabbricato dall’ideologia gender, le cui strategie (e obiettivi) vengono messi a fuoco dal libro “Unisex” di Enrica Perucchietti, scritto a quattro mani con Gianluca Marletta. «Un libro che ancor prima di essere pubblicato ha scatenato forti polemiche da parte dei movimenti femministi e Lgbt, secondo i quali la cosiddetta “teoria gender” nemmeno esiste», scrive Riccardo Allione su “Vvox”. L’autrice però non ci sta: «L’ideologia di genere esiste e ha la sua storia: l’espressione è stata coniata da John Money, padre degli studi di genere insieme ad Alfred Kinsey. Dopo gli anni ’80 si arenò in seguito ai fallimenti degli esperimenti di Money e oggi è stata riesumata. È vero che esistono gli studi di genere, ma d’altra parte c’è il tentativo politico-mediatico di recuperare velleità dei padri del gender». Niente complottismi, dice la Perucchietti. Ma è evidente il «processo di globalizzazione spinto dalle lobby mondialiste che mira a spersonalizzare l’individuo, e questo processo si sta focalizzando sulla questione dell’identità sessuale, per rendere le nuove generazioni più facilmente manipolabili e omologate».Nel concreto, da un lato le multinazionali finanziano le campagne elettorali chiedendo in cambio di promuovere quelle politiche, e dall’altro c’è l’industria culturale: «Sempre più spesso, film e serie tv fanno passare l’idea di una sessualità fluida». Nel libro, la Perucchietti cita un serial di Mtv, “Faking it”, dove le protagoniste e i loro amici cambiano più volte orientamento sessuale nel corso della stagione. «C’è anche la musica: basta pensare a Miley Cyrus o Lady Gaga, che pur non essendo gay si fanno portavoce delle cause omosessuali, strumentalizzando il messaggio come strategia di marketing costruita a tavolino». Questo progetto avrebbe un duplice scopo: «I padri dell’ideologia gender sognavano una “democrazia sessuale” globale dove tutti gli orientamenti fossero leciti e legali, compresa la pedofilia. La seconda finalità è il controllo sociale: individui sempre più spersonalizzati e disorientati, senza un’identità definita, sono più facili da manipolare».Dietro l’intenzione di distruggere la famiglia tradizionale sostituendola con altri modelli c’è anche una questione economica: «Nel momento in cui vengono sdoganate le famiglie omogenitoriali, che per forza di cose non possono avere figli, si favorisce il business delle maternità surrogate e degli uteri in affitto». Tuttavia, spiega la Perucchietti, la questione non riguarda l’omosessualità in sé. «Nel libro contestiamo il fatto che si sta spingendo verso un’idea di sessualità culturale: non si nasce maschio o femmina per natura, ma lo si diventa per cultura. Un’idea contestata anche da Vladimir Luxuria durante una diretta radiofonica a cui ho partecipato. Eppure è questo ciò che insegnavano i fondatori dell’ideologia di genere. Il rischio è di sfociare nel trans-umanesimo, nel post-umano, e quello che preoccupa è che tale manipolazione avviene in maniera sempre più capillare e perfino violenta».Per contro, osserva Allione, si potrebbe controbattere che la difesa dei “valori tradizionali” è a sua volta propaganda dei poteri forti più conservatori, ad esempio la Chiesa. «Qualsiasi tesi portata avanti con il vessillo di un dogma rischia di diventare fanatismo o di essere strumentalizzata», taglia corto l’autrice. «Le difese a oltranza sono sbagliate, si finisce sempre in fazioni pro o contro, ma così non si dialoga. Non si può combattere un’ideologia con un’altra ideologia. Noi abbiamo cercato di curare un’inchiesta giornalistica storico-sociologica nel modo più obbiettivo possibile». Venendo all’attualità e al polverone alzato dal disegno di legge Fedeli sull’educazione di genere a scuola, «si è fatta molta disinformazione, però il ministro Giannini che dichiara che l’ideologia di genere è una bufala minacciando le vie legali, ricorda molto la “psico-polizia” di Orwell». Per quanto riguarda invece i libri per l’infanzia censurati a Venezia, per la giornalista torinese «l’idea dell’insegnamento gender all’asilo o alle elementari è assolutamente folle».A scuola, aggiunge la Perucchietti, non bisognerebbe parlare di certe tematiche a bambini così piccoli: «Non conosco tutti i libri, ma ne ho letti alcuni, come quello sulla maternità surrogata (“Perché hai due mamme?”, edito da “Lo Stampatello”), che mi è sembrato pazzesco. Perché bisogna spiegare queste cose a un bambino di quattro anni? Non si capisce, a me pare una strumentalizzazione per sdoganare la fecondazione eterologa». Per contrastare questa “mutazione antropologica” messa in atto dall’ideologia gender, l’unica strada passa dall’informazione. «Sia chi è contro il gender, sia i sostenitori, si sono formati un’idea sulla base di chiacchiere, per sentito dire. Molte delle critiche al nostro libro sono state fatte prima della sua pubblicazione. Come si fa a stroncare un libro non ancora uscito, sulla base della copertina? Ci vuole senso critico, dopodiché uno si forma un’idea, ma non sulla base di posizioni acritiche e fanatiche».(Il libro: Enrica Perucchietti e Gianluca Marletta, “Unisex – Cancellare l’identità sessuale, la nuova arma della manipolazione globale”, Arianna Editrice, 224 pagine, euro 11,80).Verso il cosiddetto “nuovo ordine mondiale”, le élites starebbero tentando di “rielaborare” l’umanità a proprio piacimento, anche grazie la creazione dell’“uomo senza identità” che sarebbe fabbricato dall’ideologia gender, le cui strategie (e obiettivi) vengono messi a fuoco dal libro “Unisex” di Enrica Perucchietti, scritto a quattro mani con Gianluca Marletta. «Un libro che ancor prima di essere pubblicato ha scatenato forti polemiche da parte dei movimenti femministi e Lgbt, secondo i quali la cosiddetta “teoria gender” nemmeno esiste», scrive Riccardo Allione su “Vvox”. L’autrice però non ci sta: «L’ideologia di genere esiste e ha la sua storia: l’espressione è stata coniata da John Money, padre degli studi di genere insieme ad Alfred Kinsey. Dopo gli anni ’80 si arenò in seguito ai fallimenti degli esperimenti di Money e oggi è stata riesumata. È vero che esistono gli studi di genere, ma d’altra parte c’è il tentativo politico-mediatico di recuperare velleità dei padri del gender». Niente complottismi, dice la Perucchietti. Ma è evidente il «processo di globalizzazione spinto dalle lobby mondialiste che mira a spersonalizzare l’individuo, e questo processo si sta focalizzando sulla questione dell’identità sessuale, per rendere le nuove generazioni più facilmente manipolabili e omologate».
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Franceschetti: perché il potere ha paura della spiritualità
Oppio dei popoli? Sì, quando la religione “perde l’anima” e si trasforma in struttura di potere basata su oscuri dogmi. Ma se si indaga su Buddha, Cristo e Maometto, sull’Ebraismo e sull’Induismo, si scopre che il messaggio fondamentale – la potenza assoluta della dimensione spirituale – è stato regolarmente neutralizzato e rimosso, specie in Occidente, perché mette in crisi il nostro sistema basato sul dominio: «Un individuo che vive la sua spiritualità è più libero dalle paure, quindi meno controllabile: ecco perché la spiritualità è stata così accanitamente combattuta, anche attraverso le stesse burocrazie religiose». Il giurista e saggista Paolo Franceschetti sostiene di averne avuto conferma studiando le grandi religioni. Dall’India al Medio Oriente, tutti i leader religiosi originari hanno trasmesso il medesimo credo, assolutamente positivo e destabilizzante: la divinità è già presente in noi, bisogna solo imparare ad “attivarla”. La rivelazione: è possibile trasformare radicalmente la propria vita, aprire gli occhi e superare ogni problema “trovando Dio” innanzitutto con la meditazione. Una verità che l’élite mondiale conosce da sempre e che ha cercato di tenere nascosta, sostiene Franceschetti. Ma ormai “i tempi stanno cambiando”, come cantava il giovane Dylan. E il “grande risveglio” è già cominciato.Avvocato e docente universitario, Franceschetti ha di recente abbandonato l’avvocatura per sfiducia nella giustizia: clamorosa la sua denuncia dei misfatti del potere occulto, contenuta nel suo seguitissimo blog e in libri come “Sistema massonico e Ordine della Rosa Rossa” (Uno Editori). La tesi: al vertice del potere si nasconde un clan oscuro, di formazione esoterica, dedito anche ad omicidi rituali come quelli del “Mostro di Firenze”, fino ai casi di cronaca più recenti, da Cogne a Yara Gambirasio, di cui i media omettono regolarmente i dettagli fondamentali che illuminerebbero il vero movente, quello dei sacrifici umani. Tutto cominciò quando Franceschetti venne chiamato, in carcere, da due giovani condannati all’ergastolo per il caso delle “Bestie di Satana”: «Avvocato, non pretendiamo di uscire di qui», gli dissero. «Vorremmo solo sapere perché siamo detenuti a vita, dal momento che non abbiamo mai ucciso nessuno». Dice Franceschetti: «Ho scoperto che le indagini erano state molto superficiali, e le condanne scaturite solo dall’ambigua confessione di uno dei presunti complici, in un contesto di fatti che non potevano reggere a una ricostruzione accurata».Frugando nelle cronache italiane, il legale ha intravisto un abisso: depistaggi, falsificazioni sistematiche, omissioni, capri espiatori, manovre coperte dal silenzio o dal chiasso mediatico. Domanda inevitabile: «Chi e perché agisce così? Cosa c’è nella mente di chi compie omicidi rituali, puntualmente spacciati per delitti ordinari, ancorché inspiegabili perché privi di un movente credibile?». I suoi molti lettori conoscono il coraggio e la generosità di Franceschetti, onnipresente sul web e in decine di conferenze lungo la penisola. Dopo la tragica perdita della compagna, si è impegnato persino sul difficile fronte della medicina democratica, con un blog – il primo in Italia – che presenta l’offerta esistente di cure alternative, tutte rivelatesi valide, per guarire dai tumori (il suo “testimonial” è stato un medico di Brescia, malato terminale, salvato in extremis dallo stesso Franceschetti che l’ha convinto a sottoporsi al Protocollo D’Abramo, basato sull’assunzione di vitamine e semplici biofarmaci naturali).Franceschetti pratica il buddhismo da molti anni, frequenta corsi di meditazione Yoga, è in intimità con religiosi cattolici. «La mia esperienza di avvocato poteva stroncarmi, sono stato minacciato, ho vissuto grandi pericoli. Ho rischiato la morte, e ho capito che – una volta rimossa quella paura – si diventa molto più forti». Proprio interrogandosi sul mistero dell’orrore quotidiano delle cronache, indagato con straordinaria tenacia per molti anni, Franceschetti è pervenuto a una conclusione spiazzante: «Chi uccide innocenti, in apparenza senza motivo, in realtà un suo movente ce l’ha: però è occulto e inconfessabile, di matrice esoterica. E il passo successivo è scoprire che quasi tutti i potenti della terra praticano la magia, la stessa magia che – in pubblico – sono sempre pronti a deridere. La loro è una spiritualità deviata, ma sono ben consci del potere della spiritualità vera: quella che ci nascondono con ogni mezzo, facendola sparire dai giornali, dalla televisione, persino dai telefilm: gli eroi della fiction lottano tra loro, scherzano, fanno sesso, ma nessuno mai che preghi, che esprima convinzioni religiose o almeno politiche. Non è un caso: gli egemoni vogliono che non ce ne occupiamo, dobbiamo restare completamente soli di fronte a Equitalia, al lavoro perduto, alle bollette che non sappiano come pagare. Il loro piano è semplice: ci vogliono sottomessi e prigionieri delle nostre paure, privi di soluzioni per raggiungere indipendenza, libertà, serenità e felicità».Una risposta illuminante, Franceschetti l’ha trovata nell’ispirazione originaria delle principali religioni del pianeta: ad esse è dedicato il suo ultimo libro, “Le Religioni”, che passa in rassegna le maggiori espressioni del pensiero religioso mondiale. Dal politeismo solo apparente dell’Induismo, dove la folla allegorica di divinità è in realtà sottoposta all’immanenza suprema del Brahman, fino alla più rarefatta manifestazione del perfetto monoteismo, l’Islam di Maometto, che – come anche l’Ebraismo – non ammette venerazioni intermedie come quelle dei santi cattolici, e dimostra un’insospettabile apertura universalistica: se Allah avesse voluto una sola religione, recita il Corano, solo quella ci sarebbe sulla Terra. Attraverso un approccio metodico, ricco di fonti e citazioni anche intensamente poetiche, come quelle dei grandi mistici di ogni provenienza, l’autore presenta in modo sistematico ciascun impianto religioso, le sue origini, il credo e le ritualità, ma si concentra sempre sul nocciolo essenziale di ogni espressione religiosa: cerca e trova il suo cuore mistico, spirituale. «E la sorpresa è questa: tutte le religioni, allo stato puro, esprimono la stessa verità».Inoltre, continua l’ex avvocato, ogni religione fornisce istruzioni precise per coltivare in modo concreto la pratica spirituale quotidiana, «capace di rafforzarci fino a risolvere ogni problema, grazie a un nuovo approccio non più succube della paura: proprio quel genere di strumento che la Chiesa cattolica, erede diretta dell’Impero Romano, ha accuratamente rimosso». Molto netta, nel libro, la denuncia della “manipolazione storica” operata dalla Chiesa di Roma, quella di Pietro e Paolo («non a caso: il primo rinnegò Cristo, il secondo non lo conobbe mai»), contro cui si batté per secoli il network segreto, “giovannita”, che in nome del “vero messaggio di Cristo” schierò i migliori intellettuali della cristianità – da Gioacchino da Fiore a Giordano Bruno, passando per Dante Alighieri e Leonardo da Vinci – in una sotterranea battaglia bimillenaria: San Bernardo e i Templari, San Francesco d’Assisi, San Benedetto da Norcia e gli amanuensi (accesso diretto alle fonti), i “Fidelis in Amore” e i Giordaniti, i Rosacroce, fino ai massoni. «L’amore che cita Dante, quello che “move il Sole e l’altre stelle”, è lo stesso a cui fa cenno Battiato, quando canta: “Tutto l’universo obbedisce all’amore”». Per Franceschetti, non è altro che «la legge universale dell’attrazione: siamo tutti parte di un unico organismo, il divino è in noi. Era il vero messaggio di Cristo, svelato nel Vangelo di Giovanni: siamo dèi dormienti, dobbiamo solo svegliarci». Già, ma come?Se ne occupa l’ultimo capitolo della vasta ricerca di Franceschetti, resa con agile taglio divulgativo: proprio la “spiritualità contemporanea” offre infiniti spunti e testimonianze su come migliorare il proprio stato vitale mettendo a frutto gli insegnamenti delle maggiori tradizioni religiose, rilette e reinterpretate da grandi maestri come il “messia riuttante” Jiddu Krishnamurti, e poi Mikhael Aivanhov, Georges Gurdjieff, Massimo Scaligero, Sri Aurobindo, oppure leader carismatici e scomodi, temutissimi e per questo assassinati mediante avvelenamento, come Osho e Rudolf Steiner, nonché il rosacrociano Paramahansa Yogananda (“Autobiografia di uno Yogi”). Franceschetti non disdegna neppure la vituperata “new age”, rivalutando bestseller come “The Secret”, di Rhonda Byrne, i libri di Joe Vitale e quelli di Esther e Jerry Hicks: «E’ vero, sono anche fenomeni commerciali, ma contribuiscono anch’essi a infondere coraggio e fiducia nel “risveglio”». Tutto è dunque nelle nostre mani? Non lo sostiene solo il “pensiero positivo” di Louise Hay, ma anche la “Profezia di Celestino” di James Redfield, senza contare le opere di ispirazione cristiana come le “Conversazioni con Dio” di Neal Donald Walsh e i volumi di Daniel Meurois-Givaudan, anch’essi ampiamente citati.Il libro di Franceschetti offre una panoramica trasversale e inedita dell’esperienza religiosa mondiale, da un punto di osservazione privilegiato: quello della spiritualità pura, al netto delle narrazioni culturali storiche e territoriali. Una lettura utile, per individuare sorprendenti punti di contatto tra mondi in apparenza lontanissimi o addirittura inconciliabili, come vorrebbe la vulgata attuale. In realtà, tutti raccontano la stessa storia: «Lo dimostra una volta di più l’assoluta coincidenza delle convinzioni su cui si incontrano, al vertice, l’ala mistica dell’Ebraismo, del Cristianesimo e dell’Islam, cioè i cabalisti Chassidim, i Rosacroce e i Sufi». Chi conosce Franceschetti e la sua onestà intellettuale non potrà che apprezzare il valore di questo libro: testimonia la passione dell’autore e l’evoluzione di una ricerca sincera, nata dal confronto con la più dura delle realtà – gli orrori della cronaca nera, il mestiere dell’avvocato – per trasformarsi in indagine non più solo sulle cause, ma sui principi che le innescano.Un lavoro editoriale dietro al quale si intravede il costante, proficuo scambio con personalità eclettiche e sorprendenti: da Gianfranco Carpeoro, studioso di simbologia e già “sovrano gran maestro” della massoneria di rito scozzese, a Fausto Carotenuto, già funzionario dei servizi segreti italiani, approdato alla via spirituale del network “Coscienze in Rete”. Il libro è un valido manuale per documentarsi su come i grandi maestri di ogni tempo hanno insegnato a pensare in modo libero, molto spesso a costo della propria vita. «Quello che ancora il potere ci nasconde – conclude Franceschetti – è l’immenso potenziale della nostra mente, se allenata e nutrita di spiritualità. E’ questo, in fondo, il grande segreto: dobbiamo smettere di avere paura. Ma non è certo un mistero: è una grande verità, declinata in infiniti modi, in ogni epoca. Oggi, grazie anche al web e alla propagazione universale della conoscenza, questa consapevolezza sta crescendo: siamo tutti dotati di un potere che, se esercitato, ci permette di liberarci dalla sofferenza, di guardare alla vita con più fiducia. E di sottrarci alla soggezione del potere, che si basa proprio sulla diffusione sistematica della paura». Dov’è l’inganno? «Ci fanno credere che con questa vita finisca tutto, mentre gli egemoni sono i primi a sapere che non è così».(Il libro: Paolo Franceschetti, “Le Religioni – Un percorso spirituale attraverso Induismo, Buddismo, Cristianesimo, Ebraismo, Islamismo e i maestri spirituali moderni”, 584 pagine, 33 euro. Il volume è acquistabile online su “Lulu”).Oppio dei popoli? Sì, quando la religione “perde l’anima” e si trasforma in struttura di potere basata su oscuri dogmi. Ma se si indaga su Buddha, Cristo e Maometto, sull’Ebraismo e sull’Induismo, si scopre che il messaggio fondamentale – la potenza assoluta della dimensione spirituale – è stato regolarmente neutralizzato e rimosso, specie in Occidente, perché mette in crisi il nostro sistema basato sul dominio: «Un individuo che vive la sua spiritualità è più libero dalle paure, quindi meno controllabile: ecco perché la spiritualità è stata così accanitamente combattuta, anche attraverso le stesse burocrazie religiose». Il giurista e saggista Paolo Franceschetti sostiene di averne avuto conferma studiando le grandi religioni. Dall’India al Medio Oriente, tutti i leader religiosi originari hanno trasmesso il medesimo credo, assolutamente positivo e destabilizzante: la divinità è già presente in noi, bisogna solo imparare ad “attivarla”. La rivelazione: è possibile trasformare radicalmente la propria vita, aprire gli occhi e superare ogni problema “trovando Dio” innanzitutto con la meditazione. Una verità che l’élite mondiale conosce da sempre e che ha cercato di tenere nascosta, sostiene Franceschetti. Ma ormai “i tempi stanno cambiando”, come cantava il giovane Dylan. E il “grande risveglio” è già cominciato.
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Sanità da medioevo, solo per ricchi: l’infame modello Renzi
Che cosa rende una visita, un esame clinico, inutile? Il fatto che il paziente non abbia nulla. Che cosa lo rende particolarmente inutile? Il fatto che questo esame sia stato prescritto solo in via precauzionale, magari proprio solo per escludere il rischio malattia e tranquillizzare il paziente. Questi esami inutili, se passa il provvedimento legislativo annunciato dal governo, non si potranno più fare, pena sanzioni contro il medico che li prescrive. Quindi saranno utili solo gli esami clinici che riscontrino effettive patologie, magari irrecuperabili. Ci rendiamo conto della mostruosità di questa misura, naturalmente giustificata con la necessità del rigore nei conti dello Stato? Naturalmente i soliti pifferai liberisti spiegheranno che si tratta di eliminare sprechi, definendo standard validi per tutti, senza danni per nessuno. Mi pare che abbiano annunciato come esempio che gli esami sul colesterolo dovrebbero farsi ogni cinque anni. Immaginiamo una persona che improvvisamente abbia sintomi di malanni che il medico giudichi dovuti a cause di scompensi nel metabolismo, da sottoporre ad analisi. Se il paziente ha oltrepassato i tempi standard dall’ultimo controllo il medico potrà fare la prescrizione, se invece così non è dovrà aspettare. Oppure rischiare di finire sotto procedura di controllo e sanzione.Si dice che in questo modo si risparmieranno 13 miliardi che potranno essere spesi meglio. Tutti i tagli alla spesa pubblica son giustificati così da sempre, e da sempre sappiamo che questo non è vero. La sostanza è che si ridurrà la prevenzione sulle malattie, solo i ricchi potranno continuare a permettersela mentre i poveri si ammaleranno e moriranno prima. Ma forse questo è proprio ciò che si vuole. Il sistema pensionistico dalla riforma Dini si fonda sull’aspettativa di vita. Più questa statisticamente sale, più si deve andare in pensione ad età elevate. Per questo le tabelle già prevedono la pensione a 70 anni di età nei prossimi decenni. Immaginiamo allora che i tagli alla sanità blocchino o addirittura abbassino questa aspettativa di vita. Sarebbe un doppio guadagno per le casse dello Stato, da un lato risparmi sulla spesa sanitaria, dall’altro su quella pensionistica perché pur andando in pensione più tardi si morirebbe prima. Tempo fa una giornalista televisiva parlando del sistema pensionistico si lasciò scappare che i costi crescevano perché “purtroppo” si viveva più a lungo. Ecco, con quel purtroppo la giornalista era in perfetta sintonia con le intenzioni dei governanti liberisti.I medici sono giustamente in rivolta contro questa legge, perché verrebbero sottoposti ad uno standard di regole e comportamenti di modello aziendalistico. È evidente infatti anche in questa “riforma” il modello Marchionne, il nume ispiratore a cui Renzi vorrebbe fare un monumento. Come nella scuola con i presidi caporali, anche nella sanità ci saranno strutture e poteri burocratici che avranno il compito di decidere sui comportamenti. Il modello aziendale fondato sul profitto è quello che da tempo si sta imponendo nei servizi pubblici, in questo modo trasformando le persone ed i loro diritti costituzionali in oggetti di mercato. Ancora più infame è poi la partita di scambio che viene offerta ai medici per compensarli della distruzione della loro libertà. Il governo intende impedire le cause dei cittadini per malasanità. Così come ha fatto con il decreto Ilva, che ha garantito impunità ai manager che inquinano nell’esercizio delle loro funzioni, il governo offre la stessa protezione ai medici. I pazienti saranno meno immuni da malattie gravi, ma i medici verranno immunizzati dalle cause dei pazienti.L’Italia è il paese di Cesare Beccaria, che alla cultura medioevale contrappose quella illuminista delle pene: meglio un colpevole libero che un innocente in prigione. Con lo stato sociale questo principio di civiltà si era esteso ai diritti sociali. Meglio spendere 13 miliardi in visite anche per chi non ne ha bisogno, che negare le cure a chi invece ne necessita. Ora con le politiche di austerità il governo abbandona i principi illuministi per tornare a quelli medioevali, meglio che un malato muoia prima piuttosto che spendere dei soldi in più. L’autorità pubblica ha così potere di vita e di morte e il principio che la ispira è quello del mercato, rispetto alla cui suprema autorità, come nel Medio Evo, le persone normali non hanno più diritti personali indisponibili. Quella dell’austerità è prima di tutto una cultura di morte.(Giorgio Cremaschi, “La sanità modello Marchionne”, da “Micromega” del 24 settembre 2015).Che cosa rende una visita, un esame clinico, inutile? Il fatto che il paziente non abbia nulla. Che cosa lo rende particolarmente inutile? Il fatto che questo esame sia stato prescritto solo in via precauzionale, magari proprio solo per escludere il rischio malattia e tranquillizzare il paziente. Questi esami inutili, se passa il provvedimento legislativo annunciato dal governo, non si potranno più fare, pena sanzioni contro il medico che li prescrive. Quindi saranno utili solo gli esami clinici che riscontrino effettive patologie, magari irrecuperabili. Ci rendiamo conto della mostruosità di questa misura, naturalmente giustificata con la necessità del rigore nei conti dello Stato? Naturalmente i soliti pifferai liberisti spiegheranno che si tratta di eliminare sprechi, definendo standard validi per tutti, senza danni per nessuno. Mi pare che abbiano annunciato come esempio che gli esami sul colesterolo dovrebbero farsi ogni cinque anni. Immaginiamo una persona che improvvisamente abbia sintomi di malanni che il medico giudichi dovuti a cause di scompensi nel metabolismo, da sottoporre ad analisi. Se il paziente ha oltrepassato i tempi standard dall’ultimo controllo il medico potrà fare la prescrizione, se invece così non è dovrà aspettare. Oppure rischiare di finire sotto procedura di controllo e sanzione.
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Usa, i media in mano a 6 aziende (trent’anni fa erano 50)
Vale la pena di ripetere più e più volte che la maggior parte degli Stati Uniti i mainline media sono controllati da sole 6 aziende. Questo, naturalmente, significa che non si può consapevolmente evitare questi media come fonti a lunga percorrenza, allora la maggior parte delle notizie e di intrattenimento che appaiono sul vostro schermo e nella vostra mente arrivano da un piccolo pool di fonti aziendali, le quali giocano importanti ruoli nel diffondere la propaganda, la programmazione sociale e perpetuano narrazioni di crisi al pubblico. I conglomerati sono: General Electric, News Corp., Disney, Viacom, Time Warner e la Cbs. Tutte le società hanno le proprie losche storie, trattative con operatori sospetti. Disney è ampiamente considerata impresa occulta, volta a deformare le menti dei bambini con inquietanti immaginari subliminali. Una di queste aziende è tra i 12 più grandi appaltatori della difesa militare negli Stati Uniti, quindi non c’è da stupirsi che gran parte dei nostri centri di intrattenimento siano fatti in funzione della glorificazione della guerra e della violenza.Con il rilevamento di ciò che è disponibile al consumo dei mass media, è facile comprendere che tipo di società stanno aiutando a costruire queste 6 aziende. Esse hanno il potere di deformare la realtà chiamando gli spettacoli messi in scena come spettacoli di “realtà”. Idee che non supportano narrazioni tradizionali e l’ordine del giorno dei consumatori vengono omessi, e storie di persone indipendenti che superano conflitti, prive di dipendenza dal governo, non sono quasi mai sostenute. La promozione dei valori superficiali, materialistici, egocentrici, e la evidente stupidità di basso livello della popolazione americana è stata portata e fatta crescere da queste 6 aziende. Queste sono le aziende che glorificano il consumo, l’obbedienza, l’ignoranza, l’iper-sessualizzazione della giovinezza, la glorificazione della guerra e della sorveglianza del governo, e così via.Gli inserzionisti che supportano queste aziende hanno un enorme influenza, le aiutano a controllare la percezione del pubblico. La linea di fondo è che i media aziendali sono colossi di interessi particolari e controllori mentali. Così gran parte della storia umana è omessa in questo capitalismo, lo schema è lo scopo del lucro sull’ambiente, è il motivo per cui oggi più che mai ci fa apprezzare i media alternativi e indipendenti, che sono un gioiello per il genere umano. Nel 1983, l’industria era gestita da circa 50 società di media indipendenti. Con tale enorme portata globale in tutte le forme di comunicazione mediatica, queste aziende contribuiscono a plasmare il nostro mondo, fornendo una copertura della nostra vita, le analisi del nostro mondo, l’intrattenimento su come passare il nostro tempo e ispirare la nostra mente, e anche la distrazione e l’occupazione per i nostri figli.(Estratto da “L’illusione della scelta, il 90% dei media statunitensi sono controllati da 6 corporations”, dal blog “Sa Defensa”, agosto 2015).Vale la pena di ripetere più e più volte che la maggior parte degli Stati Uniti i mainline media sono controllati da sole 6 aziende. Questo, naturalmente, significa che non si può consapevolmente evitare questi media come fonti a lunga percorrenza, allora la maggior parte delle notizie e di intrattenimento che appaiono sul vostro schermo e nella vostra mente arrivano da un piccolo pool di fonti aziendali, le quali giocano importanti ruoli nel diffondere la propaganda, la programmazione sociale e perpetuano narrazioni di crisi al pubblico. I conglomerati sono: General Electric, News Corp., Disney, Viacom, Time Warner e la Cbs. Tutte le società hanno le proprie losche storie, trattative con operatori sospetti. Disney è ampiamente considerata impresa occulta, volta a deformare le menti dei bambini con inquietanti immaginari subliminali. Una di queste aziende è tra i 12 più grandi appaltatori della difesa militare negli Stati Uniti, quindi non c’è da stupirsi che gran parte dei nostri centri di intrattenimento siano fatti in funzione della glorificazione della guerra e della violenza.
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Mazziati e contenti, come vuole l’industria della felicità
I padroni non vogliono dai loro subalterni solo quello che riescono a estorcere con il lavoro, ne pretendono anche l’anima. Poco importa se le condizioni lavorative stanno ormai retrocedendo a forme ottocentesche. Le scienze sociali, arruolate alle esigenze dell’impresa, da tempo rilevano come in tempi di crisi sia necessario che i lavoratori e i consumatori vendano la propria anima – e non solo la forza lavoro e i loro redditi – al mercato. Si chiama Happyness Industry, l’industria della felicità. Diffondere ottimismo nella società e sentimenti positivi dentro le imprese sta diventando uno strumento indispensabile per far ripartire l’economia in quei paesi a capitalismo avanzato che hanno subìto più duramente le torsioni dell’ultima fase della crisi capitalistica. E’ interessante quanto riporta su questo tema un ampio servizio de “La Repubblica”, che pure è un giornale di prima linea dentro questo meccanismo. Il saggio del sociologo britannico William Davis descrive come «le aziende oggi stanno investendo così tante risorse nel renderci felici che chi non si mostra entusiasta di tutto ciò viene visto come un sabotatore da tenere d’occhio».In alcune selezioni aziendali, ad esempio, se ne colpisce uno per educarne nove a mostrarsi felici del lavoro chiamati a svolgere. Chi fa il musone viene licenziato o non assunto. Non solo. E’ stata istituita la figura dirigenziale dell’addetto alla felicità dei dipendenti – lo Chief Happyness Officer – uno che deve saper fare squadra, mettere il naso nella loro vita privata e assicurare che il clima aziendale non accumuli in modo pericoloso focolai di malumore che possono diventare altro. Questa ennesima diavoleria di derivazione anglosassone è stata importata anche in Italia. Prima come forma della pubblicità e adesso come modello di governance da parte di Renzi e del suo stuolo di ladylike e goldenboys. A fare dell’ottimismo un veicolo pubblicitario, non a caso, è uno dei “prenditori amici” più ascoltati da Renzi: Oscar Farinetti. Suo era stato l’uso dello scrittore romagnolo Tonino Guerra per la pubblicità della sua Unieuro all’insegna dell’ottimismo. Ereditata dal padre Paolo Farinetti, la catena di elettrodomestici Unieuro è stata gestita dal figlio, Oscar appunto, dal 1978 al 2003. Poi fu venduta ad una società britannica. Gli slogan e gli spot sull’ottimismo iniziano nel 2001.Una volta che Renzi “è stato messo lì”, come ebbe a dire Marchionne, Farinetti è diventato quasi una musa ispiratrice del premier, il quale infatti se la prende con i gufi, i piagnoni, i pessimisti mentre lui ostenta con fare da piazzista risultati positivi smentiti dai fatti. In compenso realizza la tabella di marcia voluta da Confindustria e banche su ogni aspetto: dall’abolizione dell’articolo18 alla aziendalizzazione della scuola, dal decreto “Sblocca Italia” alla destrutturazione dell’amministrazione pubblica. Declinare in ogni conferenza stampa, Twitter o dichiarazione che «le cose stanno andando bene, cieco è solo chi non le vede» – potendo contare su un servilismo dei mass media che fa rimpiangere Berlusconi – è un modo di “fare produttività”. O almeno di comunicare che la produttività c’è anche se non si può vedere. Ma se poi la gente non ci crede perchè non vede? Scatta allora la demonizzazione e la malevolenza pubblica che addita chi osa dire le cose come stanno: disfattista, gufo, antitaliano. Un linguaggio che somiglia sempre più a quello del regime fascista. La felicità e l’ottimismo non devono più essere categoria dell’anima, ma comportamenti da omologare. Il bicchiere deve essere sempre visto come mezzo pieno, anche quando è quasi completamente vuoto.Vengono in mente le parole di una canzone resa nota da Dario Fo ed Enzo Jannacci: “E sempre allegri bisogna stare, che il nostro piangere fa male al re; fa male al ricco e al cardinale, diventan tristi se noi piangiam!”. Oggi, purtroppo, molte lavoratrici e molti lavoratori resistono a questa arroganza padronale e governativa che non ha precedenti nel dopoguerra solo con lo “sciopero del cuore”. Accettano la situazione e, nella migliore delle ipotesi ricorrono alla “egreferenza”, cioè alla negazione della deferenza verso il padrone e i suoi pagliacci. Questi ultimi se ne sono accorti e sanno bene che quando si accumulano sentimenti ostili, anche se non manifesti, prima o poi possono ridiventare odio di classe e allora finisce la (loro) festa. Per questo hanno messo in moto gli scienziati sociali per imprigionare anche l’anima e non solo le condizioni di vita delle classi subalterne. La felicità, quando diventa fenomeno genuino e collettivo, non può essere messa in vendita come una merce, neanche nei divertimentifici artificiali o nelle politiche aziendali. Il rumore di fondo che ancora non diventa rabbia organizzata tra la nostra gente va coltivato e ben orientato. Dilatare questa contraddizione, trasformare lo sciopero del cuore in conflitto sociale, connetterlo e coordinarlo, rimane la convinta ragione di esistenza di questo giornale.(Sergio Cararo, “L’industria della felicità”, da “Contropiano” del 5 agosto 2015).I padroni non vogliono dai loro subalterni solo quello che riescono a estorcere con il lavoro, ne pretendono anche l’anima. Poco importa se le condizioni lavorative stanno ormai retrocedendo a forme ottocentesche. Le scienze sociali, arruolate alle esigenze dell’impresa, da tempo rilevano come in tempi di crisi sia necessario che i lavoratori e i consumatori vendano la propria anima – e non solo la forza lavoro e i loro redditi – al mercato. Si chiama Happyness Industry, l’industria della felicità. Diffondere ottimismo nella società e sentimenti positivi dentro le imprese sta diventando uno strumento indispensabile per far ripartire l’economia in quei paesi a capitalismo avanzato che hanno subìto più duramente le torsioni dell’ultima fase della crisi capitalistica. E’ interessante quanto riporta su questo tema un ampio servizio de “La Repubblica”, che pure è un giornale di prima linea dentro questo meccanismo. Il saggio del sociologo britannico William Davis descrive come «le aziende oggi stanno investendo così tante risorse nel renderci felici che chi non si mostra entusiasta di tutto ciò viene visto come un sabotatore da tenere d’occhio».
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Cambiare economia, o addio a 60 milioni di posti di lavoro
Nei paesi più sviluppati del mondo, Usa e Ue, che da soli producono circa la metà del Pil globale, l’economia capitalistica ha imboccato da tempo un periodo di stagnazione che secondo molti esperti potrebbe durare anche cinquant’anni. In Usa, nel decennio degli anni 50 i trimestri in cui il Pil reale cresceva di almeno il 6 per cento l’anno sono stati 40. Negli anni 70 erano scesi a 25. Nei ’90, a meno di dieci. Infine nel periodo 2000-2013 sono stati in tutto tre. Sebbene sia difficile fare una stima aggregata del Pil dei paesi oggi membri della Ue, visto che in settant’anni hanno avuto storie politiche ed economiche diverse, si stima che l’andamento del Pil nella Ue sia stato all’incirca il medesimo. Al presente, un altro indicatore di stagnazione è il forte e prolungato rallentamento degli investimenti nell’economia reale. Essi rendono poco rispetto alle attività speculative svolte nel sistema finanziario, il quale peraltro all’economia reale non reca alcun beneficio (al punto che in realtà non ha nessun senso chiamarli “investimenti”).Risultato numero uno: si stima che circa il 70% dei capitali circolanti sia destinato alle seconde. Il capitalismo ha posto così le premesse per una sorta di suicidio al rallentatore. Mediante l’automazione ha ridotto drasticamente il numero dei produttori nell’economia reale (servizi compresi). Con la forsennata compressione dei salari reali, (in aggiunta alla riduzione dei produttori) ha ridotto il potere d’acquisto dei consumatori. Per investire l’impresa capitalistica deve poter stimare quanti sono quelli a cui venderà i suoi beni o servizi, e più o meno per quanto tempo. Nei nostri paesi si è messa in condizione di non poterlo più fare. La riduzione degli investimenti è anche dovuta al fatto che da decenni il capitalismo non inventa più nulla che possa diventare un consumo di massa. Al contrario di quanto asseriscono gli economisti neoclassici, il capitalismo non vive affatto di una continua innovazione endogena. Ha bisogno di robusti e ripetuti stimoli esterni.Negli anni 50 e 60 li hanno forniti, nei nostri paesi, i consumi di massa di auto, elettrodomestici, televisori. La diffusione in atto dei cellulari, dei tablets, dei Pc – tutti fabbricati in Asia – non ha avuto né potrà mai avere effetti paragonabili sulla crescita e sull’occupazione di un paese europeo. Inoltre tanto la produzione quanto il consumo dei beni e dei servizi proposti dall’attuale modello produttivo si fondano su energie tratte da risorse fossili, mentre gli scienziati del mondo intero avvertono che l’inversione dell’attacco all’ambiente, che presuppone una drastica riduzione di tali fonti energetiche, dovrebbe avvenire ormai entro breve tempo se si vuole evitare una catastrofe. In sintesi: l’idea di una ripresa paragonabile al passato – la famosa luce in fondo al tunnel – è una illusione priva di fondamento. E se mai dovesse verificarsi, sarebbe ancora peggio, perché avvicinerebbe il momento di un disastro ambientale irreversibile.Non basta. Il termine “automazione” si riferisce da cinquant’anni alla sostituzione di lavoro fisico da parte di macchine. Ma la microinformatica ha anche enormemente esteso sia le capacità delle macchine operatrici, sia le capacità dei computer di svolgere attività intellettuali che fino a pochi anni fa si sosteneva non fossero automatizzabili. Risultato numero tre: in Usa si stima che il 47 per cento degli attuali posti di lavoro, finora occupati da esseri umani a causa del loro contenuto intellettuale e professionale medio-alto, possano venire svolte entro pochi anni da una qualche combinazione di macchine, computer e programmi intelligenti. In altre parole potrebbero scomparire più di 60 milioni di posti di lavoro. Un processo analogo di sostituzione di esseri umani da parte dei computer è in corso anche in Europa. Una politica che non si occupi primariamente di questo problema, come avviene nella Ue e in modo ancor più marcato in Italia, non soltanto è da buttare per la sua inefficienza; è una minaccia per milioni di cittadini.Da quanto precede se ne trae che l’Italia dovrebbe progettare al più presto un piano pluriennale di transizione a un diverso modello produttivo, che abbia come caratteristiche principali l’essere fondato su progetti o settori ad alta intensità di lavoro; elevata qualificazione; tecnologie avanzate; consumi ridotti di energie fossili; elevata utilità pubblica; massima attenzione ai beni comuni. Esso dovrebbe inoltre prevedere il passaggio regolato di milioni di lavoratori dai settori in declino ai nuovi settori. Non è il caso per ora di inoltrarsi in un elenco di questi ultimi: si rimanda alla ragguardevole letteratura esistente sulla trasformazione industrial-ecologica dell’economia. Qui basti dire che il riassetto idrogeologico dell’intero territorio, il miglioramento del rendimento energetico delle abitazioni, gli interventi antisismici nelle zone più a rischio, la tutela dei beni culturali assorbirebbero da soli milioni di posti di lavoro. La complessità e l’ampiezza di un simile piano renderebbe necessario l’impiego delle migliori competenze tecniche ed economiche, pubbliche e private, di cui il paese disponga. E soltanto un governo totalmente rinnovato quanto a cultura politica e competenze professionali sarebbe capace di guidarne la realizzazione. Inutile aggiungere che un simile piano deve poter iniziare entro pochi mesi, per essere via via sviluppato e rettificato.(Luciano Gallino, estratto da “Europa: la crisi è strutturale, la soluzione è politica”, intervento pubblicato sul sito della Fiom-Cgil il 21 luglio 2015).Nei paesi più sviluppati del mondo, Usa e Ue, che da soli producono circa la metà del Pil globale, l’economia capitalistica ha imboccato da tempo un periodo di stagnazione che secondo molti esperti potrebbe durare anche cinquant’anni. In Usa, nel decennio degli anni 50 i trimestri in cui il Pil reale cresceva di almeno il 6 per cento l’anno sono stati 40. Negli anni 70 erano scesi a 25. Nei ’90, a meno di dieci. Infine nel periodo 2000-2013 sono stati in tutto tre. Sebbene sia difficile fare una stima aggregata del Pil dei paesi oggi membri della Ue, visto che in settant’anni hanno avuto storie politiche ed economiche diverse, si stima che l’andamento del Pil nella Ue sia stato all’incirca il medesimo. Al presente, un altro indicatore di stagnazione è il forte e prolungato rallentamento degli investimenti nell’economia reale. Essi rendono poco rispetto alle attività speculative svolte nel sistema finanziario, il quale peraltro all’economia reale non reca alcun beneficio (al punto che in realtà non ha nessun senso chiamarli “investimenti”).
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Mini: è tutto falso, in questa guerra (mondiale) per bande
Abbiamo due armi formidabili: diffidenza e ironia. La prima serve a neutralizzare il monopolio dell’informazione. Significa cercare continuamente altre fonti e altri riscontri senza bere tutte le scemenze ufficiali. La seconda tende a ridimensionare anche quella che può sembrare la realtà. Perché la verità non è più la vittima del primo colpo di fucile: non esiste più. Oggi la guerra limitata non è più possibile neppure in linea teorica: gli interessi politici ed economici di ogni conflitto, anche il più remoto e insignificante, coinvolgono sia tutte le maggiori potenze sia le tasche e le coscienze di tutti. La guerra è diventata un illecito del diritto internazionale e non è più la prosecuzione della politica, ma la sua negazione, il suo fallimento. Nonostante questo (o forse proprio per questo) lo scopo di una guerra non basta più a giustificarla. E chi l’inizia, oltre a dimostrare insipienza politica, si assume la responsabilità di un conflitto del quale non conosce i fini e la fine. Con l’introduzione del controllo globale dei conflitti e della gestione della sicurezza (anche tramite le Nazioni Unite), tutti gli Stati e tutti i governanti sono responsabili dei conflitti. E tutti i conflitti sono globali, se non proprio nell’intervento militare, comunque nelle conseguenze economiche, sociali e morali.Quindi, a cominciare dalla guerra fredda che i paesi baltici hanno iniziato contro la Russia, dalla guerra “coperta” degli americani contro la stessa Russia, dai pretesti russi contro l’Ucraina, alla Siria, allo Yemen e agli altri conflitti cosiddetti minori o “a bassa intensità”, tutto indica che non dobbiamo aspettare un altro conflitto totale: ci siamo già dentro fino al collo. Quello che succede in Asia con il pivot strategico sul Pacifico è forse il segno più evidente che la prospettiva di una esplosione simile alla Seconda Guerra Mondiale è più probabile in quel teatro. Non tanto perché si stiano spostando portaerei e missili (cosa che avviene), ma perché la preparazione di una guerra mondiale di quel tipo, anche con l’inevitabile scontro nucleare, è ciò che si sta preparando. Non è detto che avvenga in un tempo immediato, ma più la preparazione sarà lunga, più le risorse andranno alle armi e più le menti asiatiche e occidentali si orienteranno in quel senso. E’ una tragedia annunciata, ma, del resto, abbiamo chiamato tale guerra condotta per oltre cinquant’anni “guerra fredda” o “il periodo di pace più lungo della storia moderna”.Stiamo vivendo un periodo di transizione storica molto importante: il sistema globale voluto dai vincitori della Seconda Guerra Mondiale sta scricchiolando, i blocchi sono scomparsi, molti regimi politici voluti dalle potenze coloniali sono in crisi, l’Africa si sta svegliando un giorno e regredendo il giorno successivo, le istanze economiche hanno il sopravvento su quelle politiche, sociali e militari, le periferie delle grandi potenze e i loro vassalli stanno cercando indifferentemente o maggiore autonomia o una servitù ancora più rigida. I conflitti attuali sono i segnali più evidenti di questo processo che porterà ad una nuova formulazione dei rapporti e degli equilibri internazionali. Tuttavia non è detto che questo passaggio porti al cosiddetto “nuovo ordine mondiale”. Le spinte al cambiamento e alla stabilità sono ancora flebili e rischiano di cronicizzare i conflitti e le situazioni, altrettanto pericolose, di post-conflitto instabile.Ci sono segnali di forte resistenza al cambiamento in senso multipolare da parte delle nazioni più ricche ed evolute come da parte di quelle più povere. Quelle più ricche si stanno di nuovo orientando verso una politica di potenza affidata soprattutto agli strumenti militari; quelle più povere si stanno orientando verso la rassegnazione alla schiavitù. Il cosiddetto “nuovo ordine” potrebbe essere quello vecchio del modello coloniale e le forze armate si stanno sempre di più orientando verso il sistema degli “eserciti di polizia” (constabulary forces). In molti paesi dell’Africa si parla da tempo di “nostalgia” del periodo coloniale o si accusano le potenze coloniali di averli abbandonati. La potenza e la schiavitù sono complementari. Un filosofo cinese diceva del suo popolo: «Ci sono stati secoli in cui il desiderio di essere schiavo è stato appagato e altri no».Le basi degli Usa in Italia non garantiscono la nostra sicurezza, ma la loro. Non servono i nostri interessi ma i loro e quindi non sono legalmente “occupanti”. Il fatto che si dichiarino basi Nato o facciano riferimento agli accordi di Parigi del 1963 è una foglia di fico che nasconde la realtà: alcune basi italiane sono aperte anche ai paesi Nato nell’ambito degli accordi dell’Alleanza, ma le basi americane più grandi sono precedenti agli accordi Nato e sono state concesse con accordi bilaterali in un periodo in cui l’Italia non aveva alcuna forza di reclamare autonomia; anzi andava cercando qualcuno da servire in America e in Europa. In queste basi decidono gli americani (e non la Nato) a chi consentirne l’uso temporaneo. Si ha così un doppio paradosso: molti italiani anche di alto lignaggio politico e militare tentano di giustificare le basi con la funzione di sicurezza che svolgono a nostro favore. E avallano la condizione di occupazione militare. Gli americani sono più espliciti, ma non meno paradossali: ogni anno il Pentagono invia una relazione al Congresso nella quale indica e traduce in termini monetari il contributo dei paesi ospitanti delle basi “agli interessi e alla sicurezza degli Stati Uniti”. Dovrebbe essere un accordo fra pari, ma si avalla la nostra condizione di tributari.La guerra si è evoluta nel corso dei secoli; adesso siamo giunti a teorizzare una guerra di quinta generazione o guerra senza limiti, una guerra cioè che non deve essere percepita come tale e che coinvolge anche mezzi finanziari. Possiamo dire di essere nel corso di una guerra di questo tipo? Senza dubbio. Ma anche questa quinta generazione sta trasformandosi nella sesta: la guerra per bande. Non essendoci più soltanto fini di sicurezza e non soltanto attori statuali, siamo nelle mani di “bande” con fini propri e senza alcuno scrupolo se non quello verso la propria prosperità a danno di quella altrui. Le bande si muovono senza limiti di confini e di mezzi, senza rispetto, solo all’insegna del profitto. Tendono ad eludere il diritto internazionale e la legalità, tendono a piegare gli stessi Stati ai loro interessi e a controllarne la politica e le armi. Oggi il problema degli eserciti e degli apparati di polizia non è quello di capire perché lavorano, ma per chi. Se lo Stato, per definizione, deve (o dovrebbe) pensare al bene pubblico, la banda pensa soltanto al bene privato, non statale e spesso contro lo Stato.Quando nel 2004 chiesero ad un colonnello americano che tipo di guerra stesse combattendo in Iraq, quello rispose candidamente: «E’ una guerra per bande e noi siamo la banda più grossa». Anche lui aveva capito che non stava lavorando per uno stato o un bene pubblico ma per qualcosa che esulava dal suo stesso “status” di difensore pubblico: era un mercenario, come tanti altri, al servizio di uno che pagava. E per questo si riteneva un “professionista” delle armi. La finanza è l’unico sistema veramente globale ed istantaneo e si avvale di mezzi leciti e illeciti: esattamente come fa ogni moderna banda di criminali. La struttura di comando delle bande ha due modelli di riferimento: il modello paternalistico e verticale e il modello comiziale e orizzontale. Quest’ultimo sta prevalendo sul primo anche se a certi livelli della gerarchia si ha comunque uno più forte degli altri. Il modello orizzontale è anche quello che meglio riesce a mascherare le guerre intestine e quelle esterne. Ci sono interessi contingenti che spesso portano gli avversari dalla stessa parte.La Grecia ha subito un’imposizione che piegando la volontà del governo e della stessa popolazione è senz’altro un atto di guerra. Ma il vero scandalo della Grecia non è nell’imposizione subita, ma nell’apparente lassismo in cui è stata lasciata proprio dagli organismi internazionali che ne avrebbero dovuto controllare lo stato finanziario. La guerra finanziaria alla Grecia è la guerra per bande quasi perfetta. Solo qualche sprovveduto può pensare veramente che la Grecia abbia alterato i propri bilanci senza che né Unione Europea, né Banca Centrale Europea, né Fondo Monetario, né Federal Reserve, né Banca Mondiale, né le prosperose e saccenti agenzie di rating se ne accorgessero. E’ molto più realistico pensare che al momento del passaggio all’Euro gli interessi politici della stessa Europa prevalessero su quelli finanziari e che gli interessi finanziari fossero quelli di far accumulare il massimo dei debiti a tutti i paesi membri più fragili.Abbiamo la memoria molto corta, ma ben prima del 2001 il dibattito sull’euro escludeva che molti paesi della periferia europea e quelli di futuro accesso (Europa settentrionale e orientale) potessero rispettare i parametri imposti. Non è un caso se proprio i paesi della periferia siano stati prima indotti a indebitarsi e poi a fallire, o ad essere “salvati” dalla padella per essere gettati nella brace. Irlanda, Gran Bretagna, Portogallo, Spagna, Italia e Grecia sono stati gli esempi più evidenti di una manovra che non è stata né condotta né favorita dagli Stati, ma gestita da istituzioni che si dicono superstatali e comunque sono improntate al sistema privatistico degli interessi del cosiddetto “mercato”.In ambito militare ogni operazione è aperta, condotta e accompagnata dalla guerra dell’informazione e da quella psicologica. In Kosovo ho dovuto raddrizzare una campagna d’informazione, condotta tramite materiale edito da Kfor, dopo aver constatato che una rivista non veniva distribuita ai kosovari ma nelle caserme. In pratica si faceva guerra psicologica sui nostri stessi soldati. Più professionali, ma meno centrate sugli scopi militari, sono le trasmissioni radio della Voa (Voce dell’America) che parla in molte lingue e perfino dialetti centro asiatici. La Russia è entrata nel mondo della moderna guerra dell’informazione con nuove reti di stampa, Internet, radio e televisione. I cinesi hanno interi canali dedicati all’informazione in varie lingue. Il programma “Confucio”, col quale s’insegna la lingua cinese all’estero, è ormai presente in tutto il mondo. Gli spin doctor del Pentagono avevano già immaginato nel 2011 come gestire la caduta di Bashar Assad in Siria e uno studio cinematografico ne stava realizzando il film. Il progetto è stato accantonato, ma il Pentagono spera che il film possa uscire nel 2016 (a Bashar Assad piacendo).Lo scopo di queste iniziative è difficilissimo perché la narrativa (la versione dei fatti) che si vuole fornire dovrebbe contrastare quella dell’avversario e della gente del luogo. In realtà nella comunicazione il messaggio più accettato è quello che conferma i fatti o le percezioni e non quello che le contrasta. La narrativa dell’avversario, pur non avvalendosi di mezzi sofisticati e basandosi sulla trasmissione orale, è molto più efficace anche perché racconta quello che si vede o ciò che qualcuno appartenente alla stessa comunità dice di aver visto. In Iraq, Afghanistan e altrove non è stato infrequente il grido di allarme dei vertici delle coalizioni occidentali: «Stiamo perdendo la guerra della narrativa». Fuori dal contesto militare, la stessa crisi greca è un esempio attuale di guerra dell’informazione accomunata alla guerra delle percezioni e alle operazioni d’influenza. In Grecia, come altrove, l’eccesso di debito pubblico e internazionale di uno Stato non è di per sé un fattore fondamentale d’instabilità né d’insolvenza. E’ invece importante la credibilità che può ampliare a dismisura il credito. Per questo la guerra alla Grecia si è sviluppata sul piano della guerra psicologica con un’azione forte di discredito e di delegittimazione di tutto il paese.La delegittimazione che si è vista in maniera palese nel caso greco, non è avvenuta per altri paesi in via di fallimento, come il nostro; anzi, a dispetto dei dati oggettivi (debito, crescita, disoccupazione, investimenti), ci sono paesi che beneficiano di crediti oltre ogni ragionevole misura. Ogni volta che in Italia c’è un’asta di titoli pubblici, i media plaudono al “collocamento” di tutto il pacchetto sottacendo che in realtà si tratta di un aumento di debito. Anche il fatto che il debito di tale tipo sia “interno” viene manipolato e sottovalutato spacciandolo per una cosa senza valore. Come se il debito interno (quello nei confronti degli italiani che hanno acquistato titoli pubblici) non dovesse mai essere restituito ( e di fatto, così è), quasi che il rastrellamento costante del risparmio privato da parte dello stato non penalizzasse la disponibilità di denaro destinata agli investimenti produttivi. Oltre alle bande finanziarie internazionali, in Grecia, come in Italia e altrove, ci sono bande privatistiche interne che monopolizzano la finanza e la comunicazione. In Grecia, come altrove, queste bande hanno sperato e tuttora sperano in un ribaltone politico che le renda più potenti. E’ già successo, anche in maniera violenta.Pochi anni fa il fisico Emilio dei Giudice e il giornalista Maurizio Torrealta parlarono di armi nucleari estremamente miniaturizzate, di armi di nuova generazione che sarebbero state già impiegate sui campi di battaglia in Iraq e in medio Oriente, e il cui uso sarebbe stato nascosto dietro la radioattività dei proiettili all’uranio impoverito. Non mi risultano casi concreti, ma ho sentito le stesse storie in altri casi. Una caratteristica delle guerre moderne è anche la perdita di consapevolezza sulla verità. Di certo c’è che la moderna tecnologia, anche fuori dal campo sperimentale consente questo ed altro. Se tali armi sono state veramente impiegate, si tratta di una violazione del diritto internazionale e dei diritti umani delle vittime. Purtroppo, ogni violazione (anche del buon senso, come nel caso della tortura) è così frequente che non rappresenta più un ostacolo. C’è da sperare che lo abbiano fatto gli americani: almeno, tra trent’anni i segreti di Stato saranno derubricati e ci diranno la verità. Se le avessero usate i russi o altri paesi, come il nostro, non lo sapremmo mai. Dovremmo aspettare che diventasse un segreto di Pulcinella.(Fabio Mini, dichiarazioni rilasciate a Enzo Pennetta per l’intervista pubblicata su “Critica Scientifica” del 6 agosto 2015. Generale di Corpo d’Armata, già capo di stato maggiore della Nato, capo del comando interforze delle operazioni nei Balcani e comandante della missione in Kosovo, Fabio Mini è uno dei più grandi conoscitori delle questioni geopolitiche e militari. Il libro: Fabio Mini, “La guerra spiegata a.”, Einaudi, 171 pagine, 12 euro).Abbiamo due armi formidabili: diffidenza e ironia. La prima serve a neutralizzare il monopolio dell’informazione. Significa cercare continuamente altre fonti e altri riscontri senza bere tutte le scemenze ufficiali. La seconda tende a ridimensionare anche quella che può sembrare la realtà. Perché la verità non è più la vittima del primo colpo di fucile: non esiste più. Oggi la guerra limitata non è più possibile neppure in linea teorica: gli interessi politici ed economici di ogni conflitto, anche il più remoto e insignificante, coinvolgono sia tutte le maggiori potenze sia le tasche e le coscienze di tutti. La guerra è diventata un illecito del diritto internazionale e non è più la prosecuzione della politica, ma la sua negazione, il suo fallimento. Nonostante questo (o forse proprio per questo) lo scopo di una guerra non basta più a giustificarla. E chi l’inizia, oltre a dimostrare insipienza politica, si assume la responsabilità di un conflitto del quale non conosce i fini e la fine. Con l’introduzione del controllo globale dei conflitti e della gestione della sicurezza (anche tramite le Nazioni Unite), tutti gli Stati e tutti i governanti sono responsabili dei conflitti. E tutti i conflitti sono globali, se non proprio nell’intervento militare, comunque nelle conseguenze economiche, sociali e morali.
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Attenti all’America, quella vera: è povera, sola e disperata
Confesso: sono stato, in gioventù, un grande ammiratore degli Stati Uniti. Poi, da inviato speciale, ho iniziato a girare questo grande paese in lungo e in largo ma non nelle solite, note grandi città – New York, San Francisco, Boston, Washington – bensì nell’America profonda, quella, noiosissima, mai battuta dai turisti e dove i giornalisti si recano solo se costretti dai loro direttori. Un paio di anni fa con la mia famiglia abbiamo trascorso le vacanze negli Usa; lasciammo la Grande Mela per addentrarci nello Stato di New York, su verso Albany e Catskills Mountains, sedotti dalla descrizione, letta sulle guide turistiche, dei tipici, deliziosi villaggi, simbolo di una vecchia America. Bastarono poche decine di chilometri per restare sconcertati: i villaggi erano davvero vecchi ma tutt’altro che deliziosi. Erano angoscianti, costellati di case derelitte e talvolta piegate su se stesse; viaggiavamo su strade piene di buche da cui spuntavano erbacce che nessuno strappava più da tempo e intorno a noi vedvamo solo povera gente. I più fortunati vivevano in baracche di legno, gli altri vagavano trascinando i propri cenci nei carrelli della spesa.Scoprimmo, allora, l’altro volto dell’America, quello che i turisti non vedono mai sulla Fifth Avenue o nel centro di San Francisco, ed è un’America molto più numerosa di quanto si immagini, isolata, ignorata da tutti, abbandonata a se stessa. Capii allora che erano veritiere le denunce di un commentatore molto coraggioso l’economista Paul Craig Roberts; non uno qualunque, ma uno dei principali collaboratori del presidente Reagan, docente universitario, pluripremiato. Craig Roberts sostiene che parte dei dati concernenti gli Usa, a cominciare da quelli sulla disoccupazione, non sono attendibili, in quanto manipolati alla fonte. Per intenderci: è uno di destra, un liberale. Ma con gli occhi aperti e un’autentica passione civica al servizio del proprio paese. Ora, grazie alla segnalazione di un amico, scopro uno studio di due docenti americani, Hershey H. Friedman e Sarah Hertz, intitolato: “Gli Stati Uniti sono il miglior paese al mondo? Ripensateci”, basato su una serie di statistiche internazionali, da cui trova conferma il ritratto di un paese in fase di evidente involuzione sociale, politica ed economica.Qualche dato: nella classifica sulla percentuale della popolazione che vive in povertà, gli Usa sono al 35esimo posto su 153. Quella riguardante i bambini in povertà nei paesi occidentali è ancora più disastrosa: gli Usa sono 34esimi su 35, solo la Romania fa peggio. Sono il quarto paese al mondo con la maggior disuguaglianza reddituale, dietro a Cile, Messico e Turchia. E gli stessi americani non si sentono molto felici: sono appena al diciassettesimo posto della classifica mondiale. L’aspettativa di vita è bassa: gli Usa sono appena 42esimi, mentre battono tutti riguardo la popolazione carceraria: hanno 2,2 milioni di detenuti, molto più della Cina (1,6 milioni) che però ha una popolazione oltre 3 volte maggiore e della Russia dell’orribile Putin (600 mila). Secondo una fonte insospettabile, l’“Economist”, nemmeno Stalin raggiungeva queste cifre.Potrei continuare ma mi fermo qui. Intuisco lo sconcerto del lettore, che si chiede: ma come? Io pensavo che l’America… Già, lo pensavamo tutti, ma per valutare davvero questo Paese non ci si può limitare agli annunci ufficiali, che descrivono solo una parte della realtà, ignorando tutto quello che non collima con la verità ufficiale, con il mito che Hollywood e le tv continuano ad alimentare. Quanti film avete visto sui 45 milioni di americani in povertà? Quante denunce giornalistiche? Chi solleva questo tema nei dibattiti televisivi? La risposta è sempre la stessa: nessuno. Tutti pavidi e conformisti, tranne pochi commentatori coraggiosi come Paul Craig Roberts. That’s America. Purtroppo.(Marcello Foa, “Viva il modello americano! O forse no, questi dati dimostrano un’altra verità”, dal blog di Foa su “Il Giornale” dell’11 agosto 2015).Confesso: sono stato, in gioventù, un grande ammiratore degli Stati Uniti. Poi, da inviato speciale, ho iniziato a girare questo grande paese in lungo e in largo ma non nelle solite, note grandi città – New York, San Francisco, Boston, Washington – bensì nell’America profonda, quella, noiosissima, mai battuta dai turisti e dove i giornalisti si recano solo se costretti dai loro direttori. Un paio di anni fa con la mia famiglia abbiamo trascorso le vacanze negli Usa; lasciammo la Grande Mela per addentrarci nello Stato di New York, su verso Albany e Catskills Mountains, sedotti dalla descrizione, letta sulle guide turistiche, dei tipici, deliziosi villaggi, simbolo di una vecchia America. Bastarono poche decine di chilometri per restare sconcertati: i villaggi erano davvero vecchi ma tutt’altro che deliziosi. Erano angoscianti, costellati di case derelitte e talvolta piegate su se stesse; viaggiavamo su strade piene di buche da cui spuntavano erbacce che nessuno strappava più da tempo e intorno a noi vedevamo solo povera gente. I più fortunati vivevano in baracche di legno, gli altri vagavano trascinando i propri cenci nei carrelli della spesa.
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Giulietto Chiesa: è arrivata la bufera, a lungo annunciata
Alcuni mesi orsono, il giornalista e uomo politico Giulietto Chiesa ha pubblicato per i tipi di Piemme Edizioni il volume “E’ arrivata la bufera”. Quest’opera contiene la riproposizione del saggio intitolato “Invece della Catastrofe”, oltre ad un lungo articolo dedicato ai fatti parigini di inizio gennaio 2015, ovvero la strage presso la sede della redazione del periodico satirico Charlie Hebdo. A distanza di un anno e mezzo dalla prima pubblicazione, “Invece della catastrofe” torna dunque a proporsi quale indispensabile strumento cognitivo della modernità. Va colta prima di tutto una peculiarità di questo scritto: esso è inchiesta giornalistica, analisi, e proposta politica, che si pone l’obiettivo di abbracciare e racchiudere nel proprio sguardo partecipe la realtà nella sua globalità. A differenza di altri pur brillanti scritti di questi anni, il libro di Chiesa coglie nel loro stretto legame fenomeni quali il profilarsi di una crisi irreversibile dell’eco-sistema, l’agonia degli stati-nazione sotto la scure del debito di proprietà delle banche, il mutamento antropologico dell’uomo occidentale avulso, disancorato dalla realtà e schiavo dei moderni mezzi di comunicazione, lo spirare di nuovi venti di guerra da ovest, da quegli Stati Uniti d’America che non sanno accettare la perdita del ruolo di superpotenza in un nuovo mondo multi-polare.