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Archivio del Tag ‘testimonianze’

  • Bartlett: Assad difende i siriani, falsi anche i video nei Tg

    Scritto il 24/12/16 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Ci sono sicuramente giornalisti onesti, nel mondo estremamente compromesso dei media. Organizzazioni internazionali sul posto? Quali organizzazioni internazionali sono sul campo ad Aleppo Est? Ok, rispondo io: nessuna. Nessuna. Queste organizzazioni si appoggiano all’Osservatorio Siriano per i Diritti umani (Sohr) che ha la sua sede a Coventry, nel Regno Unito, ed è formato da una sola persona. Si appoggiano a gruppi compromessi come i Caschi Bianchi, che sono stati fondati nel 2013 da un ex ufficiale inglese, sono stati fondati con un accordo da 100 milioni di dollari tra Stati Uniti, Regno Unito, Europa e altri Stati. Sostengono di soccorrere i civili ad Aleppo Est e a Idlib, ma nessuno ad Aleppo Est ha mai sentito parlare di loro e dico “nessuno” avendo ben presente che adesso il 95% delle aree di Aleppo Est sono state liberate. I Caschi Bianchi sostengono di essere neutrali, eppure sono stati visti girare armati e in piedi sui corpi di soldati siriani morti e i loro filmati video mostrano perfino bambini “riciclati” per differenti testimonianze. Puoi trovare una bambina di nome Aya che appare in una testimonianza, per esempio, ad agosto, e poi torna di nuovo fuori il mese successivo in due posti diversi.
    Non sono credibili. Neanche il Sohr è credibile. Gli “attivisti anonimi” non sono credibili. Una volta o due, forse. Ma ogni volta? Non è credibile. Quindi di fonti vostre sul posto, non ne avete. Per quel che riguarda il programma di alcuni grandi media, è il programma di rovesciare il regime. Come possono il “New York Times” e “Democracy Now” sostenere ancora oggi che questa è una guerra civile in Siria? Come possono continuare a sostenere che le proteste erano disarmate e non violente fino, diciamo, al 2012? Questo non è assolutamente vero. Come possono sostenere che il governo siriano sta attaccando i civili ad Aleppo quando tutti quelli che escono da queste zone occupate dai terroristi dicono il contrario?
    Come quantifico il sostegno del popolo siriano? Le elezioni. Nel 2014 in Siria si sono tenute le elezioni. Quello che è emerso è che la gente sostiene in maniera schiacciante il presidente Assad. Ci sono persone che vogliono un cambio di governo, non stiamo facendo finta che non vogliano il cambiamento. Tutti vogliono un cambiamento. Ma se valutiamo il sostegno al governo, il punto è che non vedono il presidente Assad come un problema. Vedono il problema del terrorismo, vedono elementi problematici nel sistema che hanno, ma il presidente Assad non è visto come un problema. Lo sostengno in maniera preponderante. Quindi, io mi baso sulla loro scelta del loro leader e sui miei rapporti con le persone in Siria.
    (Eva Bartlett, “La fabbrica delle notizie sulla guerra in Siria”, testimonianza della giornalista canadese durante una conferenza stampa organizzata dall’Onu sulla guerra in Siria, ripresa da YouTube e tradotta da “Voci dall’Estero” il 20 dicembre 2016).

    Ci sono sicuramente giornalisti onesti, nel mondo estremamente compromesso dei media. Organizzazioni internazionali sul posto? Quali organizzazioni internazionali sono sul campo ad Aleppo Est? Ok, rispondo io: nessuna. Nessuna. Queste organizzazioni si appoggiano all’Osservatorio Siriano per i Diritti umani (Sohr) che ha la sua sede a Coventry, nel Regno Unito, ed è formato da una sola persona. Si appoggiano a gruppi compromessi come i Caschi Bianchi, che sono stati fondati nel 2013 da un ex ufficiale inglese, sono stati fondati con un accordo da 100 milioni di dollari tra Stati Uniti, Regno Unito, Europa e altri Stati. Sostengono di soccorrere i civili ad Aleppo Est e a Idlib, ma nessuno ad Aleppo Est ha mai sentito parlare di loro e dico “nessuno” avendo ben presente che adesso il 95% delle aree di Aleppo Est sono state liberate. I Caschi Bianchi sostengono di essere neutrali, eppure sono stati visti girare armati e in piedi sui corpi di soldati siriani morti e i loro filmati video mostrano perfino bambini “riciclati” per differenti testimonianze. Puoi trovare una bambina di nome Aya che appare in una testimonianza, per esempio, ad agosto, e poi torna di nuovo fuori il mese successivo in due posti diversi.

  • Mazzucco: l’11 Settembre spiegato ai pompieri, a casa mia

    Scritto il 31/8/16 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Questa mattina abbiamo dovuto chiamare i vigili del fuoco, per un piccolo incidente domestico. Si era rotta la serratura della porta d’ingresso, ed eravamo rimasti chiusi in casa. Hanno dovuto entrare dal balcone per venire a “liberarci”. Mentre i suoi colleghi lavoravano per smontare la porta, io ho fatto due chiacchiere con il caposquadra. Aveva gli occhi sottili come due fessure, la pelle bruciata dal sole, e la fronte imperlata di sudore. Mi domandavo come facessero a lavorare, d’estate, con quei pesantissimi pantaloni e quegli stivaloni di gomma. Abbiamo iniziato a parlare degli incendi estivi, e lui mi ha spiegato che sono quasi tutti dolosi, ma che non c’è una intenzione particolare di creare dei disastri. «Di solito – mi spiegava – sono gli stessi contadini che danno fuoco ai loro prati ormai seccati, perché l’erba fresca che ricresce produce nelle capre un latte migliore e meno amaro. Ogni tanto la cosa gli scappa di mano, e noi dobbiamo intervenire». A quel punto ho provato a spostare l’argomento sull’11 Settembre. «Ogni volta che vedo i vigili del fuoco in azione – ho detto – mi vengono in mente quei poveracci morti nelle Torri Gemelle».
    «Quelli sono stati proprio sfortunati», ha detto lui, con un sospiro: «Gli è crollato tutto addosso, mentre cercavano di spegnere le fiamme». «Veramente non è andata proprio così»,  ho detto io: «Quelle torri non dovevano crollare». «Come no?», ha replicato lui: «Lì il calore ha sciolto la struttura, ed è venuto giù tutto». «Ma scusi – gli ho suggerito io – la struttura era in acciaio, e l’acciaio fonde a 1500°, giusto?». Giusto. «Il cherosene [combustibile degli aerei] però sviluppa al massimo 800°, quando brucia». «Ah già, è vero. Non ci avevo mai pensato», ha detto lui: «Ma allora, scusi, perché sono venute giù?». «Sono venute giù perché le hanno tirate giù», ho detto io: «Con gli esplosivi». «Con gli esplosivi? E chi li ha messi gli esplosivi?». «Li hanno messi loro, gli americani. Quelli del Pentagono. Avevano bisogno di creare un disastro, per dare la colpa a bin Laden e andare a fare la guerra in Afghanistan». A quel punto le fessure delle palpebre si sono aperte, e ho visto due grandi occhi azzurri, completamente persi nel vuoto.
    E’ rimasto in silenzio per qualche secondo, poi ha chiamato i suoi colleghi: «Vincenzo, Salvatore, venite un po’ qua. Sentite cosa ha da dire questo signore». E così ho iniziato a parlare della struttura delle Torri Gemelle, dell’amianto che contenevano, delle 80.000 tonnellate di struttura sana sotto il livello di impatto, di caduta libera, di dozzine di testimonianze sulle esplosioni, del fatto miracoloso che due aerei siano riusciti a far crollare tre grattacieli nello stesso giorno, ecc. ecc. Poi è arrivato il momento più delicato, quando gli ho detto: «I vostri fratelli non sono morti fra le macerie per semplice sfortuna. Sono morti perché ce li hanno mandati, a morire. Li hanno mandati lì dentro, pur sapendo che poco dopo le torri sarebbero crollate. Avevano bisogno di martiri, per scatenare l’indignazione popolare e andare a fare la guerra in Afghanistan». Loro mi guardavano stupefatti. Uno era rimasto letteralmente con la bocca aperta e il cacciavite in mano.
    Non dev’essere facile, per gente che è abituata a rischiare la vita per gli altri, sentirsi dire che qualcuno li ha ammazzati apposta per farsi i propri porci comodi. Hanno finito il lavoro in silenzio, senza più parlare. Poi, prima di andarsene, il comandante mi ha chiesto: «Ma scusate, com’è che noi di queste cose non ne sappiamo niente?». Io una risposta l’avrei avuta, ma sarebbe stata troppo lunga e troppo complicata. Ho preferito regalargli una copia di “Inganno Globale”, dicendogli: «Guardate questo, passatevelo fra voi e decidete da soli quello che è successo. Poi se un giorno volete fare due chiacchiere, io sono sempre qui. Passate di qui quando volete, e ci beviamo un bel caffè». «Lo faremo sicuramente», mi ha risposto il comandante, mentre scendevano silenziosi le scale.
    (Massimo Mazzucco, “Vigili del fuoco e 11 Settembre”, dal blog “Luogo Comune” del 21 agosto 2016).

    Questa mattina abbiamo dovuto chiamare i vigili del fuoco, per un piccolo incidente domestico. Si era rotta la serratura della porta d’ingresso, ed eravamo rimasti chiusi in casa. Hanno dovuto entrare dal balcone per venire a “liberarci”. Mentre i suoi colleghi lavoravano per smontare la porta, io ho fatto due chiacchiere con il caposquadra. Aveva gli occhi sottili come due fessure, la pelle bruciata dal sole, e la fronte imperlata di sudore. Mi domandavo come facessero a lavorare, d’estate, con quei pesantissimi pantaloni e quegli stivaloni di gomma. Abbiamo iniziato a parlare degli incendi estivi, e lui mi ha spiegato che sono quasi tutti dolosi, ma che non c’è una intenzione particolare di creare dei disastri. «Di solito – mi spiegava – sono gli stessi contadini che danno fuoco ai loro prati ormai seccati, perché l’erba fresca che ricresce produce nelle capre un latte migliore e meno amaro. Ogni tanto la cosa gli scappa di mano, e noi dobbiamo intervenire». A quel punto ho provato a spostare l’argomento sull’11 Settembre. «Ogni volta che vedo i vigili del fuoco in azione – ho detto – mi vengono in mente quei poveracci morti nelle Torri Gemelle».

  • Craig Roberts: i media sanno che la verità ufficiale è falsa

    Scritto il 12/3/16 • nella Categoria: segnalazioni • (13)

    Gli americani vivono in una falsa realtà, creata con fatti inventati. «La maggior parte delle persone consapevoli e capaci di pensare hanno rinunciato a credere al sistema chiamato “media mainstream”». E le “presstitutes”, gli organi di stampa “prostituiti al potere” «hanno perso la loro credibilità pur di aiutare Washington a mentire», sostiene un autorevolissimo analista come Paul Craig Roberts, economista e politologo, già viceministro di Ronald Reagan. Il piano? Diffondere crescente insicurezza, in un vista di una svolta autoritaria. E’ un po’ uno schema che si va ripetendo, sia a livello nazionale che internazionale: le “armi di  distruzione di massa” di Saddam, il “nucleare iraniano”, e poi l’uso delle armi chimiche attribuito ad Assad e “l’invasione russa” dell’Ucraina”. Dai media, solo la versione ufficiale, su tutto: l’11 Settembre, le bombe sulla maratona di Boston, le «presunte sparatorie sulle masse, come Sandy Hook e San Bernardino». Nonostante «le incongruenze lampanti, le contraddizioni e i fallimenti dei sistemi di sicurezza che sembrano troppo improbabili per essere credibili – aggiunge Roberts – i media mainstream non si fanno domande e non indagano: si limitano a raccontare, come un dato di fatto, tutto quello che dicono le autorità».
    Il segno di uno Stato totalitario o autoritario, scrive Craig Roberts in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”, si ha quando i media non sentono più la responsabilità di dover indagare per cercare la verità, accettando invece il ruolo del propagandista. «Negli Stati Uniti la trasformazione dei giornalisti in propagandisti si è completata con la concentrazione di un sistema che era formato da parecchi media indipendenti in sei mega-società che ormai non sono più gestite da giornalisti». Di conseguenza, le persone più avvedute «fanno affidamento sempre più su media alternativi, quelli che si fanno domande, che seguono la logica dei fatti e che offrono analisi al posto di una linea ufficiale con storie incredibili». Il primo esempio fu l’11 Settembre, in cui la versione ufficiale è stata smontata da centinaia di esperti e tecnici. Nonostante ciò, grazie ai media, la versione ufficiale regge ancora: «Dobbiamo credere che alcuni sauditi, senza nessuna tecnologia che potesse andare oltre il coltellino da tasca e senza nessun appoggio dei servizi segreti di nessun governo, siano stati tanto abili da superare in astuzia la tecnologia di sorveglianza di massa creata dalla Darpa (Defense Advanced Research Projects Agency) e dalla Nsa (National Security Agency) e che siano stati capaci di affondare il colpo più umiliante mai subito da una superpotenza in tutta la storia umana».
    Invece di mettersi alla guida delle indagini su un fallimento tanto massiccio della sicurezza, la Casa Bianca ha continuato a resistere per più di un anno prima di cedere alle richieste delle famiglie delle vittime delle Torri Gemelle, e solo allora ha accettato di nominare una commissione d’inchiesta, che però «non investigò, ma semplicemente si insediò e scrisse la stessa storia che aveva raccontato il governo», anche se poi gli stessi protagonisti della commissione – presidente, co-presidente e consulenti legali – hanno scritto libri in cui si dichiara che ogni informazione era stata negata alla commissione, che i funzionari governativi avevano mentito e che la Commissione «era stata istituita per fallire». Eppure, le “presstitutes” ancora ripetono la stessa propaganda ufficiale, «e ci sono abbastanza americani che ci credono, tanto da evitare che debbano essere riconosciute le vere responsabilità». Continua Craig Roberts: «Qualsiasi storico competente sa che vengono usati degli eventi “false flag” per portare a compimento gli ordini del giorno che, altrimenti, non potrebbro essere raggiunti». L’11 Settembre? «Diede ai neocon, che controllavano l’amministrazione Bush, una nuova Pearl Harbor che, dicevano, era necessaria per lanciare le loro invasioni militari egemoniche sui paesi musulmani».
    E le bombe alla maratona di Boston? «Hanno permesso di testare la polizia americana», verificando «come si può isolare totalmente una grande città, mandando per le strade 10.000 soldati armati e squadre speciali con truppe che facevano perquisizioni casa per casa costringendo, con le armi, gli abitanti a lasciare le loro case». Una operazione senza precedenti, «giustificata come necessaria per trovare un ragazzino di 19 anni, ferito, che era chiaramente un capro espiatorio». In mezzo, un’infinità di anomalie, a cui nessuno si cura di dare una spiegazione. In un video, realizzato montando le copertine dei telegiornali, compare un uomo in lutto per la perdita del figlio. E’ la stessa persona che, in altre immagini, indossa l’uniforme delle squadre speciali Swat mentre è intenta a seguire la sparatoria di Sandy Hook. Si tratta di un attore conosciuto, scrive Roberts, che interpreta parti diverse: «Dobbiamo chiederci il perché di questo falso». I primi che dovrebbero farlo sono proprio i media, ma non lo fanno. Insieme a Mike Palecek, il professor Jim Fetzer ha scritto in un libro che Sandy Hook sarebbe stato un esperimento della Fema per promuovere il controllo delle armi. Si dice anche che non sia morto nessuno, a Sandy Hook. «Il libro era disponibile su Amazon, ma è stato improvvisamente vietato. Perché vietare un libro?».
    «Se le informazioni fornite da Fetzer sono corrette – aggiunge Craig Roberts – risulta chiaramente che il governo degli Stati Uniti sta mettendo in atto un’agenda di lavori autoritaria e che sta usando eventi orchestrati ad arte per mostre una falsa realtà agli americani, per raggiungere gli obiettivi della sua agenda». Fetzer «non può essere liquidato come un semplice folle: è uno che si è laureato con lode all’università di Princeton, ha un dottorato di ricerca dell’Indiana University ed è stato “distinguished professor” alla McKnight University del Minnesota fino al suo pensionamento nel 2006. Ha avuto una borsa di studio della National Science Foundation e ha pubblicato più di 100 articoli e 20 libri di filosofia della scienza. E’ esperto di intelligenza articiale e di “computer science”, ha anche fondato la rivista internazionale “Minds and Machines”».
    Per una persona di media intelligenza, continua Craig Roberts, sia la storia ufficiale dell’assassinio del presidente Kennedy che quella dell’11 Settembre semplicemente non sono credibili, perché le storie ufficiali non sono coerenti con le prove. «Quello che mi disturba è che nessuno, né tra le autorità né tra i media mainstream, mostra un minimo interesse a controllare i fatti. Invece, quelli che hanno tirato fuori delle questioni scomode vengono additati come teorici della cospirazione». Sappiamo dall’Operazione Gladio e dall’Operazione Northwoods che i governi «si invischiano in cospirazioni criminali contro i propri cittadini: pertanto, il vero errore è concludere che i governi non si impegnino nelle cospirazioni». Spesso, si sente qualcuno che obietta che se l’11 Settembre fosse stato un attacco “false flag”, qualcuno avrebbe parlato. «Perché avrebbero dovuto parlare? Dovrebbe sapere qualcosa solo chi ha organizzato la cospirazione. E allora perché dovrebbe far venire altri dubbi su quella che è stata una sua congiura?».
    Ricordiamoci di William Binney, l’uomo che sviluppò il sistema di sorveglianza utilizzato dalla Nsa. Quando si rese conto che il suo sistema veniva usato contro il popolo americano, Binney si mise a parlare. «Ma non si era preso nessun documento con cui poter provare le sue affermazioni, cosa che lo salvò dall’essere condannato ma che non gli permise di produrre nessuna prova su quanto diceva», scrive Roberts. «Questo è il motivo per cui Edward Snowden si è preso tutti i documenti e li ha resi pubblici. Tuttavia, molti vedono Snowden come una spia, come uno che ha rubato dei segreti sulla sicurezza nazionale, non lo vedono come uno che ha saputo avvertirci che la Costituzione – quella cosa che ci protegge – è stata ribaltata».
    Funzionari governativi di alto livello hanno smentito varie parti della storia ufficiale sia dell’11 Settembre che della versione ufficiale che lega l’attentato alle Twin Towers all’invasione dell’Iraq, attraverso la fiaba delle “armi di distruzione di massa”. Il segretario ai trasporti, Norman Mineta, smentì il vicepresidente Cheney e la tempistica della storia ufficiale dell’11 Settembre, ricorda Craig Roberts. E il segretario del Tesoro, Paul O’Neill, affermò che il rovesciamento di Saddam Hussein fu oggetto della prima riunione di gabinetto dell’amministrazione di George W. Bush, molto prima dell’11 Settembre. Lo scrisse in un libro e lo disse a “Cbs News”. Anche la Cnn e altri organi di stampa ne parlarono, ma la cosa non ebbe nessun effetto. Gli informatori – quelli veri – pagano un caro prezzo e molti finiscono in carcere. «Obama ne ha perseguito e incarcerato un numero record. Una volta che li hanno buttati in galera, la domanda diventa: “Chi avrebbe creduto a un criminale?”».
    Per quanto riguarda l’11 Settembre, aggiunge Craig Roberts, hanno parlato persone di ogni tipo: oltre 100 poliziotti, vigili del fuoco e altri soccorritori hanno riferito di aver nettamente percepito un gran numero di esplosioni nelle Torri. Il personale della manutenzione ha raccontato di enormi esplosioni avvenute negli scantinati appena prima che gli edifici fossero colpiti dagli aerei. Ma nulla da fare: «Niente di tutte queste testimonianze ha avuto qualche effetto né con le autorità che erano dietro la storia ufficiale, né con le “presstitutes”». Ci sono 2.300 architetti e ingegneri che hanno scritto al Congresso chiedendo di aprire una vera indagine, ma invece di accogliere la richiesta con il rispetto che meritano 2.300 professionisti, sono stati liquidati come “teorici della cospirazione”. E ancora: una tavola internazionale di scienziati ha segnalato la presenza di un potentissimo esplosivo come la nanotermite nelle polveri del World Trade Center. Hanno offerto dei campioni alle agenzie governative e agli scienziati, per ottenere conferma. Ma nessuno potrà toccare quei reperti. «Il motivo è chiaro: oggi i finanziamenti per la scienza sono fortemente dipendenti dal governo federale e dalle aziende private che hanno contratti federali. Gli scienziati sanno bene che tirare fuori qualcosa sull’11 Settembre significa la fine della carriera».
    Il governo americano, conclude Craig Roberts, ci ha reso proprio come voleva: impotenti e disinformati, completamente privi di strumenti per capire quello che sta realmente accadendo, sulla nostra pelle. «La maggior parte degli americani sono troppo ignoranti per essere in grado di comprendere la differenza tra un edificio che crolla per danni strutturali (per asimmetria) e edifici che invece saltano in aria. I giornalisti mainstream non possono fare domante o fare indagini e contemporaneamente mantenersi il posto di lavoro. Gli scienziati non possono parlare se vogliono continuare ad essere finanziati». E così., sintetizza amaramente l’ex viceministro di Reagan, «dire la verità è un compito che ormai si permettono solo i media Internet alternativi, tra i quali io scommetto che il governo sta gestendo dei siti che gridano selvaggiamente alle cospirazioni, con il vero scopo di screditare tutti gli altri siti, quelli scettici».

    Gli americani vivono in una falsa realtà, creata con fatti inventati. «La maggior parte delle persone consapevoli e capaci di pensare hanno rinunciato a credere al sistema chiamato “media mainstream”». E le “presstitutes”, gli organi di stampa “prostituiti al potere” «hanno perso la loro credibilità pur di aiutare Washington a mentire», sostiene un autorevolissimo analista come Paul Craig Roberts, economista e politologo, già viceministro di Ronald Reagan. Il piano? Diffondere crescente insicurezza, in un vista di una svolta autoritaria. E’ un po’ uno schema che si va ripetendo, sia a livello nazionale che internazionale: le “armi di  distruzione di massa” di Saddam, il “nucleare iraniano”, e poi l’uso delle armi chimiche attribuito ad Assad e “l’invasione russa” dell’Ucraina”. Dai media, solo la versione ufficiale, su tutto: l’11 Settembre, le bombe sulla maratona di Boston, le «presunte sparatorie sulle masse, come Sandy Hook e San Bernardino». Nonostante «le incongruenze lampanti, le contraddizioni e i fallimenti dei sistemi di sicurezza che sembrano troppo improbabili per essere credibili – aggiunge Roberts – i media mainstream non si fanno domande e non indagano: si limitano a raccontare, come un dato di fatto, tutto quello che dicono le autorità».

  • 11 Settembre, Umberto Eco e la verità degli imbecilli

    Scritto il 16/6/15 • nella Categoria: idee • (4)

    Gentile signor Eco, ho letto le sue recenti dichiarazioni, riportate dall’Ansa, nelle quali lei afferma che oggi «i social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. E’ l’invasione degli imbecilli». Sempre dall’Ansa leggo anche che «la sua lectio magistralis, dopo la laudatio di Ugo Volli, è dedicata alla sindrome del complotto, uno dei temi a lui più cari, presente anche nel suo ultimo libro “Numero zero”». Mi era peraltro già nota la sua avversione per i cosiddetti “complottisti”, per aver letto, in altre sedi, svariate sue dichiarazioni in merito. Ebbene, facendo due più due, sappia che io sono sia un “imbecille” secondo la sua definizione generale (scrivo molto in rete, e mi avvalgo del diritto di parola come se fossi “un premio Nobel”), sia un “complottista” in particolare, visto che sostengo da tempo la tesi dell’autoattentato riguardo all’11 Settembre. Lei invece, in questo caso, si è schierato sul fronte opposto, visto che ha firmato un intero capitolo del libro a più mani “11/9 La cospirazione impossibile”.
    Vorrei quindi cogliere questa occasione per farle sapere alcune cose che lei certamente non conosce (se le conoscesse, si sarebbe ben guardato dal partecipare alla stesura di quel libro): tutti coloro che sostengono la versione ufficiale dell’11 Settembre (che siano stati cioè 19 dirottatori islamici a compiere gli attentati) credono infatti, fra le altre cose: [...]
    - Che sia normale – e quindi credibile – che non esista una sola fotografia (o immagine video) datata e stampigliata che ritragga uno qualunque dei 19 dirottatori ai 3 aeroporti di partenza l’11 di settembre. Nei parcheggi, ai check-in, nei corridoi, nelle sale di aspetto, sulle scale mobili, nei bar dell’aeroporto, agli imbarchi, non esiste una sola foto di uno solo dei 19 dirottatori. (Lei ci crede davvero, signor Eco?)
    - Che sia normale – e quindi credibile – che a Ground Zero ben 4 scatole nere su 4 “non siano state ritrovate”, nonostante tutte le macerie asportate da Ground Zero dal primo all’ultimo giorno siano state passate al setaccio 3 volte, da 3 diverse squadre specializzate. Trovavano frammenti delle dita delle vittime, orologi e monetine, ma le scatole nere no. (Lei ci crede, signor Eco?)
    - Che dopo aver ricevuto decine di avvisi su un “imminente attacco terroristico con aerei dirottati” gli americani abbiano deciso di organizzare così tante “esercitazioni aeree” nello stesso giorno da lasciare soltanto 4 caccia in stato di allerta a difendere l’intero quadrante nord-orientale della nazione (New York e Washington, per intenderci).
    - Che sia normale che nessuno fra gli alti gradi militari sia stato punito nè richiamato per questo atto di incredibile leggerezza, ma anzi che tutti i responsabili di questo disastro collettivo siano stati promossi a gradi superiori.
    - Che un intero aereo da 100 tonnellate (United 93) possa venire inghiottito quasi per intero da una buca larga pochi metri, che si sarebbe completamente richiusa sull’aereo stesso prima ancora che arrivassero i soccorritori. (Non glielo dice “Mazzucco il complottista”, glielo dice la stessa Fbi, nel suo goffo tentativo di spiegare la scomparsa quasi totale dei rottami dell’aereo dal luogo dello schianto).
    - Che una decina di passeggeri abbia potuto effettuare svariate chiamate con i cellulari da un aereo che volava a 10.000 metri di quota, viaggiando a 6-800 Kmh. (Non è possibile oggi, figuriamoci nel 2001).
    - Che un edificio (Building 7) possa crollare alla velocità di caduta libera nonostante nessuna forza esterna intervenga a rimuovere la struttura sottostante. (Se questo accadesse, verrebbe violata una delle più fondamentali leggi della Fisica, quella della Conservazione di Energia). E’ come se le cascasse in testa un vaso di fiori, e questo vaso continuasse la sua corsa verso il basso senza minimamente rallentare, nonostante le stia sfracellando tutte le vertebre, una dopo l’altra. (Solo nei fumetti del Vil Coyote accadono queste cose).
    - Che gli oltre 2.000 architetti e ingegneri americani della associazione Architects & Engineers for 9/11 Truth “si sbaglino” nel sostenere che quanto descritto sopra sia, appunto, impossibile dal punto di vista delle leggi fisiche, e che si sia quindi trattato necessariamente di una demolizione controllata. (Tertium non datur, in questo caso).
    - Che oltre 100 fra poliziotti e pompieri “si sbaglino” nel testimoniare, come ha riportato il “New York Times”, di aver udito chiaramente una serie di forti esplosioni subito prima e durante i crolli delle Torri Gemelle.
    Potrei andare avanti, ma immagino che lei abbia già compreso il senso del mio intervento, e cioè: non c’è bisogno di essere un “marcio complottista” per farsi venire dei seri dubbi sulla versione ufficiale dell’11 Settembre. In realtà, dopo aver preso una accurata visione dei fatti, bisogna concludere che soltanto un cretino possa credere ciecamente a tutto quanto descritto sopra. E lei certamente un cretino non lo è (io sono cresciuto leggendo “Diario Minimo”, fra le altre cose). Deduco quindi, per non voler pensare ad una sua eventuale malafede, che sia semplicemente poco informato.
    La invito pertanto a dedicare un po’ del suo tempo a valutare più da vicino i fatti dell’11 Settembre, fino a potersi fare una opinione personale su quanto sia realmente accaduto quel giorno. Come può vedere più sotto, le informazioni sono tutte a sua disposizione: vedendo il mio film potrà valutare di persona, argomento per argomento, sia quello che dice il Movimento per la Verità sul 9/11, sia quello che dicono i difensori della versione ufficiale (le stesse persone con cui lei ha collaborato alla stesura del libro). E vedrà che alla fine le sue tante lauree honoris causa le verranno in aiuto, nel senso che preferirà mille volte sentirsi dare lei stesso del complottista (a ragion veduta), piuttosto che sentirsi dare del cretino a scatola chiusa. Cordialmente, Massimo Mazzucco (Ps: ovviamente, tutto quello che ho affermato nei paragrafi più sopra è ampiamente documentato nel film che la invito a visionare. Le scrivo anche, naturalmente, a nome di migliaia e migliaia di “imbecilli” che la pensano esattamente come me).
    (Massimo Mazzucco, “Lettera aperta a Umberto Eco”, dal blog “Luogo Comune” dell’11 giugno 2015. Mazzucco è autore del film “11 Settembre, la nuova Pearl Harbor” ed è un autore particolarmente apprezzato dalle associazioni che negli Stati Uniti si battono per la verità sull’attentato del 2001 alle Torri Gemelle).

    Gentile signor Eco, ho letto le sue recenti dichiarazioni, riportate dall’Ansa, nelle quali lei afferma che oggi «i social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. E’ l’invasione degli imbecilli». Sempre dall’Ansa leggo anche che «la sua lectio magistralis, dopo la laudatio di Ugo Volli, è dedicata alla sindrome del complotto, uno dei temi a lui più cari, presente anche nel suo ultimo libro “Numero zero”». Mi era peraltro già nota la sua avversione per i cosiddetti “complottisti”, per aver letto, in altre sedi, svariate sue dichiarazioni in merito. Ebbene, facendo due più due, sappia che io sono sia un “imbecille” secondo la sua definizione generale (scrivo molto in rete, e mi avvalgo del diritto di parola come se fossi “un premio Nobel”), sia un “complottista” in particolare, visto che sostengo da tempo la tesi dell’autoattentato riguardo all’11 Settembre. Lei invece, in questo caso, si è schierato sul fronte opposto, visto che ha firmato un intero capitolo del libro a più mani “11/9 La cospirazione impossibile”.

  • Insegnava a non avere paura, per questo Osho fu ucciso

    Scritto il 02/5/15 • nella Categoria: idee • (9)

    Osho Rajneesh fu assassinato dalla Cia mediante avvelenamento da tallio. Morì il 19 gennaio 1990, all’età di 60 anni. Faceva paura, perché insegnava a non avere paura di nulla. La morte, scrisse, va accolta con gioia: è come “addormentarsi in Dio”. «Che fu assassinato non lo dice un complottista come me», scrive Paolo Franceschetti. «Lo dice lui stesso, lo dicono i suoi allievi, e la storia del suo assassinio è narrata nel libro “Operazione Socrate”, che spiega anche le ragioni per cui venne avvelenato». Negli anni ‘80, i media lo presentavano come un guru spirituale così anomalo da viaggiare in Rolls Royce, a capo di un clan di appassionati di orge e fumatori di hashish. Non faceva nulla per allontanare da sé l’immagine di personaggio incongruente: secondo Gianfranco Carpeoro, esoterista e studioso di simbologia, il guru indiano emigrato negli Usa aveva capito perfettamente di essere sotto tiro, in pericolo di morte: aveva un enorme ascendente su milioni di giovani, e non voleva fare la fine di John Lennon. Meglio rischiare di passare per ciarlatano, pur di evitare l’omicidio?
    Osho era una potenza, con qualcosa come 400 titoli usciti a suo nome. Libri praticamente su tutto: vita e morte, religione, amore, denaro, depressione, felicità, etica. E politica. I suoi seguaci italiani? «Sembravano un po’ sciroccati», scrive Franceschetti sul suo blog. Convinti, i “Sannyasin”, che il Maestro se ne fosse semplicemente “andato” per sua scelta. «Dopo aver parlato con loro – confessa Franceschetti – mi convincevo che la storia del suo assassinio doveva essere una balla, prima di tutto perché nessuno dovrebbe aver interesse a uccidere il leader di un branco di sciroccati». La storia della Cia? «Una stupidaggine: quando non si sa a chi dare la colpa, si tira sempre fuori la Cia o gli extraterrestri». Le cose cambiarono quando Francheschetti, avvocato con alle spalle accurate indagini su alcuni dei più atroci casi insoluti della cronaca nera italiana, dal giallo di Cogne al Mostro di Firenze fino alle “Bestie di Satana”, prese in mano un libro di Osho, “La via delle nuvole bianche”. «Rimasi colpito dalla bellezza e della profondità del libro», racconta. «Poi ne lessi altri e via via mi convincevo che il suo pensiero era di una profondità fuori dal comune, che mal si attagliava all’immagine di orge e Rolls Royce che i media ne avevano tramandato».
    La data della sua morte era quanto meno sospetta, scrive Franceschetti, perché ai giorni nostri è difficile morire a sessant’anni per cause naturali, «specie se stiamo parlando di un uomo che viveva seguendo una dieta sana e principi anche spirituali sani». Osho aveva lavorato, e poi fondato una comunità spirituale, in India. Nel 1981 si trasferì in America e fondò una comunità nell’Oregon, ad Antelope: Raineeshpuram. Venne arrestato il 28 ottobre del 1985 a Charlotte, nella Carolina del Nord, e fu tenuto in stato di arresto per 12 giorni. Motivo del fermo: immigrazione clandestina. «Per quello che, in Oregon, è un semplice illecito amministrativo, Osho fu tenuto, illegalmente, 12 giorni in prigione». Poi gli fu comminata una pena di 10 anni di galera, con la sospensione condizionale, in aggiunta all’espulsione dagli Usa. «Venne accusato perché alcuni cittadini americani che frequentavano la comunità di Osho avevano contratto matrimoni di convenienza con degli stranieri, per far acquisire loro la cittadinanza americana. L’accusa poi era sicuramente falsa, perché Osho era il leader di una comunità che contava oltre 7.000 persone: difficile immaginare che fosse direttamente colpevole di questi reati».
    Osho venne sottoposto a «una serie di procedimenti illegali», e tenuto in stato di arresto per molti giorni in più rispetto a quella che sarebbe stata la normale procedura, senza che i suoi avvocati fossero avvisati dell’arresto. Venne trasferito in 12 giorni prigioni diverse, «senza motivo e senza una regolare procedura». In un carcere fu registrato col falso nome di David Washington: perché? Fu tradotto in un penitenziario di contea e non nel carcere federale, dove per giunta rimase 4 notti anziché una, come previsto in genere per i prigionieri in transito. Leggendo la sua biografia, e il libro che alcuni suoi discepoli hanno scritto sulla sua morte, saltano agli occhi poi alcune cose. Anzitutto la testimonianza di un detenuto in carcere per omicidio, Jonh Wayne Hearu, che al processo dichiarò di essere stato avvicinato per gettare una bomba sulla comunità di Osho. Furono addirittura insabbiate le testimonianze di alcuni agenti federali, che dichiararono che stavano indagando su un’altra bomba, destinata non alla comunità di Osho ma al carcere nel quale il leader spirituale era stato tradotto. Gli uomini dell’Fbi fecero capire che si trattava di «telefonate partite da centri istituzionali», ma «l’inchiesta su questa vicenda venne insabbiata e il funzionario che stava indagando venne trasferito».
    Il giorno dell’arresto, continua Franceschetti, erano pronti centinaia di militari che avevano circondato la comunità di Osho. Erano «in assetto da guerra e con elicotteri da combattimento». Il leader spirituale però «fu avvertito della cosa e quel giorno si fece trovare a casa di una sua seguace, dove si consegnò pacificamente». Per giunta, da giorni, i suoi legali chiedevano notizie circa l’eventuale possibile arresto di Osho «il quale, nell’eventualità, voleva consegnarsi spontanemente». Le autorità americane rassicuravano gli avvocati, ripetendo che non dovevano temere nulla. Eppure, «l’arresto fu effettuato a sorpresa e con la preparazione di un vero esercito». Motivo? «A mio parere – dice Franceschetti – avevano preparato una strage, che fu sventata dall’allontanamento di Osho dalla comunità». Probabilmente, «per il governo la cosa migliore sarebbe stato provocare un incidente per poter uccidere Osho direttamente il giorno dell’arresto». Giornali e televisione, che avevano sempre creato problemi alla comunità dipingendola come un covo di satanisti orgiastici, avrebbero liquidato l’aventuale massacro come l’inevitabile esito di un atto di ribellione da parte di fanatici fondamentalisti, una rivolta «repressa con le armi dall’eroico esercito americano».
    Altro fatto inspiegabile: Osho disse di essere stato in carcere per 11 giorni, quando invece i giorni erano stati 12. «In altre parole, per un giorno Osho perse la memoria. Non fu mai chiarito il perché e il come». Resta il fatto che al guru fu riscontrato un avvelenamento da tallio che lo portò alla morte in pochi anni. «Nei giorni successivi all’arresto, Osho fu trattenuto in carcere più del dovuto perché doveva prepararsi l’avvelenamento da tallio», che avvenne probabilmente «spargendo la sostanza nel letto dove Osho dormì». Era solito dormire su un fianco, e la parte del corpo che risultò agli esami maggiormente contaminata era proprio quella dove Osho aveva dormito. Una morte così sospetta, da mettere in allarme politici e intellettuali anche in Italia, firmatari di una denuncia scritta. Tra questi Lorenzo Strik Lievers, Luigi Manconi, Marco Taradash, Michele Serra, Giorgio Gaber, Lidia Ravera, Giovanna Melandri, Gabriele La Porta. «Il quadro dei fatti è impressionante», scrissero, «e gravissimi sono gli interrogativi che ne escono». Per cui, «se coloro cui spetta non vorranno o non sapranno dare risposte persuasive, saranno essi a legittimare come fondata la denuncia dei discepoli di Osho». I firmatari chiesero l’apertura di un’inchiesta internazionale, per «far luce su questa pagina oscura», e per sapere «se, ancora una volta nella storia, il “diverso” sia stato prima demonizzato e poi eliminato nell’indifferenza generale».
    Perché fu ucciso, Osho Rajneesh? I suoi allievi accusarono «i fondamentalisti cristiani, che vedono Satana in tutto ciò che non è cristiano». Secondo Franceschetti, erano completamente fuori strada. Tanto per cominciare, «Bush padre, come il figlio e come Reagan (presidente al tempo dell’arresto di Osho) non sono cristiani nel senso “cristiano” del termine». Il cristiano vero «dovrebbe essere tollerante e amorevole verso tutti, e non dovrebbe per nessun motivo uccidere». Loro? «Sono cristiani nel senso “rosacrociano”; fanno parte cioè di quel ramo dei Rosacroce deviato, l’Ordine della Rosa Rossa e della Croce d’Oro», e quando parlano di Dio e di Cristo «intendono questi termini in senso esattamente opposto al senso cristiano: non a caso in nome di Dio scatenano guerre uccidendo milioni di persone». Bush ha spesso ha ripetuto  che “Dio è con lui”. Già, ma «il Dio in nome del quale scatenano la guerra è il loro dio, Horus, non il Dio dei cristiani». Bush quindi «non è un cristiano», mentre Osho «è più cristiano di molti “cattolici”, in quanto seguiva alla lettera i principi di amore e tolleranza che sono scritti nei 4 Vangeli».
    Franceschetti indaga il profilo spirituale del crimine e la sua traduzione politica: «La comprensione e l’interiorizzazione dei principi su cui si basa la filosofia di Osho è idonea a scardinare proprio quei capisaldi su cui la massoneria rosacrociana basa la sua forza: ovvero il concetto della morte e il concetto del denaro». Di fatto, con i suoi scritti, «Osho incita a non temere la morte, e a viverla come uno stato di passaggio, in cui addirittura si vivrà meglio che nel corpo fisico». Quanto ai soldi, «nonostante girasse in Rolls Royce, non era attaccato al denaro: da giovane insegnava all’università ma rifiutò una promozione perché, disse, non voleva regalare ancora più soldi allo Stato con le tasse». Non si preoccupò mai del denaro, «perché sosteneva che nell’universo arriva sempre esattamente ciò di cui hai bisogno, nel momento giusto». Le Rolls Royce? «Arrivarono perché la sua comunità attirava anche gente ricca, e ciascuno metteva in comune ciò che aveva: gli avvocati gestivano gratis i problemi della comunità, i muratori costruivano, i medici curavano, i docenti di varie discipline insegnavano e, ovviamente, chi aveva soldi, donava soldi».
    Secondo Osho, «il denaro e il lusso sono un mezzo come un altro, possono esserci o meno, ma non devono intaccare la serenità interiore, che invece si acquista con altri mezzi». Insegnava ad amare la vita, ma non ne era attaccato. Lo dimostrano le testimonianze dei seguaci che raccontano la sua ultima notte: rifiutò l’assistenza del medico personale. «E’ il momento che me ne vada», disse. «Inutile forzare ancora le cose. Ormai soffro troppo, in questo corpo». Per Franceschetti, dunque, «Osho faceva paura perché il sistema massonico in cui viviamo si basa su due fondamenti, la paura della morte e la paura della perdita economica». Senza queste paure, il potere, che vive di minacce dirette o indirette (se ti opponi perderai il lavoro, perderai la vita, perderai l’onore perché ti infagheremo) non potrebbe resistere. Senza la paura della morte (tua e dei tuoi cari) svanisce anche il ricatto familiare che si riassume nella frase: non ti opporre al sistema, se tieni alla tua famiglia. A questo sistema la comunità di Osho contrapponeva un modello alternativo, basato sul mutuo aiuto: baratto e libero scambio di beni e competenze quotidiane, senza mercificazione.
    «Anche dal punto di vista religioso, Osho poteva far paura», conclude Franceschetti. «Non ha fondato una sua religione, né si ispirava ad una religione particolare. Nei suoi libri e nei suoi discorsi utilizzava il Vangelo quando parlava a persone cattoliche, i Sutra buddisti quando parlava a buddisti, i Veda indiani quando parlava a induisti, e attingeva da fonti ebraiche, sufi e chassidiche». Tra i tanti libri, scrisse anche “Le lacrime della Rosa mistica”, quella a cui si ispirano i Rosacroce. «Si possono leggere i suoi scritti, quindi, pur restando buddisti, cristiani, o ebrei. Ma dava una lettura dei testi sacri più moderna e al passo coi tempi, il che poteva far paura a coloro che ancora ragionano con schemi che risalgono a migliaia di anni fa, e che usano la religione come uno strumento per tenere sotto controllo le menti degli adepti». Osho, in altre parole, «fu ucciso per lo stesso motivo per cui furono uccisi altri leader spirituali famosi, come Gandhi e Martin Luther King». Soprattutto, «fu ucciso per la stessa ragione per cui vengono uccisi tutti quelli che si ribellano al sistema denunciandolo fin nelle fondamenta, dai cantanti, agli scrittori, ai registi, ai magistrati, ai giornalisti». Il potere aveva ragione di temerlo: «La diffusione delle idee di Osho poteva contribuire a scardinare il sistema». Se non altro, il suo pensiero non è andato perduto: lo testimonia la continua ristampa dei suoi libri, sempre più diffusi. «Per certi versi, Osho è più vivo che mai».

    Osho Rajneesh fu assassinato dalla Cia mediante avvelenamento da tallio. Morì il 19 gennaio 1990, all’età di 60 anni. Faceva paura, perché insegnava a non avere paura di nulla. La morte, scrisse, va accolta con gioia: è come “addormentarsi in Dio”. «Che fu assassinato non lo dice un complottista come me», scrive Paolo Franceschetti. «Lo dice lui stesso, lo dicono i suoi allievi, e la storia del suo assassinio è narrata nel libro “Operazione Socrate”, che spiega anche le ragioni per cui venne avvelenato». Negli anni ‘80, i media lo presentavano come un guru spirituale così anomalo da viaggiare in Rolls Royce, a capo di un clan di appassionati di orge e fumatori di hashish. Non faceva nulla per allontanare da sé l’immagine di personaggio incongruente: secondo Gianfranco Carpeoro, esoterista e studioso di simbologia, il guru indiano emigrato negli Usa aveva capito perfettamente di essere sotto tiro, in pericolo di morte: aveva un enorme ascendente su milioni di giovani, e non voleva fare la fine di John Lennon. Meglio rischiare di passare per ciarlatano, pur di evitare l’omicidio?

  • Medicina ribelle, contro Big Pharma che fabbrica malattie

    Scritto il 14/4/15 • nella Categoria: Recensioni • (8)

    “Big Pharma”, l’industria farmaceutica mondiale, impiega un terzo dei ricavi e un terzo del personale per collocare nuovi medicinali sul mercato. Pionieri di questo nuovo approccio verso la salute sono gli Stati Uniti, dove tra il 1996 e il 2001 il numero dei venditori di farmaci è cresciuto del 110%, passando da 42.000 a 88.000 agenti. Per promuovere i suoi nuovi prodotti, questo settore spende ogni anno da 8.000 a 13.000 euro per ogni singolo medico. Sono le cifre di un big business, che si trasforma in guerra ai pazienti: si specula sulla loro pelle. Lo scrive, senza giri di parole, un giovane giornalista come Andrea Bertaglio, nel suo ultimo libro, “Medicina ribelle”. Racconta gli abusi del sistema, ma anche le prime clamorose ribellioni. Come quella della dottoressa Patrizia Gentilini, oncologo di Forlì: «Sono un medico, ho lavorato per più di trent’anni in un reparto di oncologia. Sono qui avendo nel cuore la sofferenza, la disperazione, le lacrime – quelle versate e quelle nascoste – dei miei pazienti, delle mogli, dei mariti, dei figli e dei genitori». Domanda: «Perché tanto dolore? Era proprio ineluttabile? Davvero la ricerca e le terapie sempre più mirate e “intelligenti” risolveranno il problema del cancro?».
    No, purtroppo: «Ancora una volta abbiamo imboccato la strada sbagliata», sostiene la dottoressa. Perché la medicina ufficiale, quella degli ospedali, è tragicamente orientata dal mercato farmaceutico. Un sistema che inquina la conoscenza, a cominciare dalle università e dai centri di ricerca. E’ sempre “Big Pharma” a indirizzare gli investimenti, pensando ai profitti prima che alla salute e all’efficacia delle cure. Clamoroso il capitolo degli psicofarmaci: un mercato virtualmente senza limiti, rivelatosi particolarmente redditizio. «Secondo alcune stime – scrive Bertaglio – psichiatri e produttori di psicofarmaci hanno una fetta di mercato da cui incassano 80 miliardi di dollari ogni anno (sono più di 150.000 dollari al minuto)». Cifre da capogiro. «Le industrie farmaceutiche spendono a questo proposito oltre 22 miliardi di dollari all’anno per convincere ad aumentare le loro prescrizioni, un incredibile 90% del loro budget di marketing», conferma la “Citizens Commission on Human Rights”. Nel 1997, le lobby delle industrie farmaceutiche hanno fatto pressione sul Congresso degli Usa per permettere la pubblicità degli psicofarmaci nelle Tv americane, e questo ha aperto le porte a un torrente di pubblicità. Dai 595 milioni di dollari del 1996 ai 4,7 miliardi di dollari del 2009: un aumento di quasi il 700%.
    «Non sorprende, quindi, che i conglomerati dei media aborriscano l’idea di mordere la mano di chi li nutre», scrive l’autore di “Medicina ribelle”. «Dalla Seconda Guerra Mondiale in avanti, sempre negli Stati Uniti, il numero delle malattie psichiche diagnosticate è passato da 26 a 395». Psicofarmaci dati come caramelle anche ai bambini: «È bene ricordare come oltreoceano abbiano superato l’impressionante numero di 14 milioni i bambini in terapia con psicofarmaci per il controllo delle più svariate sindromi del comportamento: dal miglioramento delle performance scolastiche, al controllo dell’iperattività sui banchi di scuola, alle lievi depressioni adolescenziali». Un problema non solo americano, però: «In Germania, sono stati rilasciati lo scorso anno i dati dei bambini diagnosticati iperattivi e quindi probabilmente destinati a terapie farmacologiche: sono 750.000. E il problema non è solo tedesco: se nella vicina Francia quasi il 12% dei bimbi inizia la scuola elementare avendo già assunto una pastiglia di psicofarmaco, abbiamo un problema».
    La logica, continua Bertaglio, è la stessa che domina in generale nella società dei consumi. Dalla produzione di merci per il loro consumo non siamo forse passati al consumo fine a se stesso per continuare a produrre merci? Bene, allo stesso modo «si è passati dall’invenzione di nuove medicine per la cura delle malattie all’invenzione di nuove malattie per produrre nuovi farmaci». E fabbricare malattie rende moltissimo. «Il caso più eclatante si è probabilmente verificato nel 2004, quando una commissione di “esperti” negli Stati Uniti ha riformulato la definizione di “ipercolesterolemia”», cioè l’eccesso di colesterolo nel sangue. «In pratica, riducendo i livelli ritenuti necessari per autorizzare una terapia medica, hanno letteralmente triplicato da un giorno all’altro il numero di persone che potevano avere bisogno di cure farmacologiche». Dettaglio importante: «Otto dei nove membri di quella commissione lavoravano a quel tempo anche come relatori, consulenti o ricercatori proprio per le case farmaceutiche coinvolte nella produzione di farmaci ipocolesterolemizzanti». E questa, assicura Bertaglio, è solo la vetta dell’iceberg.
    Già nel 2002, infatti, secondo uno studio pubblicato sul “Journal of the American Medical Association”, l’87% degli autori delle linee-guida cliniche aveva conflitti d’interesse a causa di legami con l’industria farmaceutica. «Di questi, il 59% aveva rapporti diretti con i produttori dei farmaci relativi alle patologie per cui era chiamato a stilare le linee-guida». Qualcosa però sta cominciando a cambiare: a opporsi a “Big Pharma” c’è infatti un numero crescente di sanitari, protagonisti della “medicina ribelle” che rifiuta la logica industriale dei “fabbricanti di malattie”. «Sempre più medici iniziano a sentirsi stanchi di essere indotti a mettere il guadagno delle grandi case farmaceutiche davanti alla vita dei pazienti», sintetizza Bertaglio, in un libro che fotografa un diverso approccio con il concetto di salute. Il volume, inoltre, «si interroga su quello che ci può capitare con l’eccessiva americanizzazione (che va oltre la semplice privatizzazione) del sistema sanitario».
    “Medicina ribelle” non è ovviamente un manuale scientifico, né una mera raccolta di interviste, ma un insieme di punti di vista alternativi. Lungi dal rifiutare il progresso medico-farmacologico, «sarebbe altrettanto sbagliato non iniziare a reagire ai continui tentativi di venderci, a caro prezzo, un sacco di porcherie di cui non solo non abbiamo bisogno, ma che addirittura ci portano a vivere peggio». Anche in un sistema come il nostro, basato sul profitto, stanno aumentando i medici che non hanno più intenzione di sottostare a certe dinamiche di mercato. Questa è la loro storia, la loro missione. «Io sono qui per dire che rifiuto una “scienza” per la quale un veleno non è mai abbastanza veleno per essere dichiarato tale», dichiara la dottoressa Gentilini. «Sono qui perché rifiuto una medicina per la quale i morti che si contano non sono mai abbastanza per decidersi ad affermare che è il caso di prendere provvedimenti. E sono qui perché rifiuto un mondo accademico che celebra come grande epidemiologo sir Richard Doll, colui che trent’anni fa attribuì a cause ambientali solo il 2% dei tumori, dimenticando che Doll era sul libro paga della Monsanto».
    Non solo: Doll «era pagato in percentuale in base alla quantità di sostanze chimiche annualmente prodotte da tutta l’industria chimica mondiale». E oggi, «sia chiaro, nulla è cambiato». L’oncologa di Forlì “rifiuta” una scienza e una medicina che non hanno celebrato e ricordato un ricercatore come Lorenzo Tomatis, insigne scienziato sconosciuto al grande pubblico: ignorato dai media, «ha posto le basi scientifiche e metodologiche della cancerogenesi, identificando e classificando gli agenti inquinanti e le loro conseguenze per la salute umana». Per il medico romagnolo, Tomatis «rappresenta la vera faccia della scienza e della medicina: schierata, senza ambiguità alcuna, a difesa della salute e della dignità dell’uomo». Un uomo che si è sempre strenuamente battuto per la prevenzione primaria, ovvero per la tutela della salute pubblica attraverso la riduzione dell’esposizione (ambientale, professionale) a sostanze tossiche cancerogene o comunque nocive.
    Nel suo lavoro di ricercatore, ricorda Gentilini, Tomais incontrò inaudite difficoltà. Addirittura definì la prevenzione primaria del cancro come «una corsa a ostacoli, in cui l’identificazione di un agente fisico o chimico come cancerogeno viene troppo spesso vista con scetticismo, se non con aperta ostilità». Alcune sostanze sono ritenute cancerogene in alcuni paesi e non in altri. Quando riconosciute, i limiti consentiti variano a paese a paese, «come se il loro effetto cancerogeno potesse modificarsi passando i confini». Invitato in audizione sul problema dell’incenerimento dei rifiuti al Comune di Forlì il 24 novembre 2005, Tomatis esordì dicendo: «Le generazioni a venire non ci perdoneranno i danni che noi stiamo loro facendo», e spiegò che centinaia di sostanze chimiche, tossiche e pericolose, molte delle quali emesse anche dagli inceneritori, ormai si ritrovano nel cordone ombelicale. «Tutto ciò compromette non solo lo sviluppo fetale, ma comporta un crescente, inesorabile aumento nell’incidenza del cancro nell’infanzia nonché disturbi neuropsichici e cognitivi, e condiziona quello che sarà lo stato complessivo di salute anche da adulti, creando danni che addirittura possono trasmettersi, attraverso le cellule germinali, nelle generazioni successive».
    Giornalista freelance specializzato sui temi cruciali della sostenibilità ambientale, dopo anni di impegno al “Fatto Quotidiano”, ora Bertaglio collabora con “La Stampa”. Ha alle spalle una stretta collaborazione con Maurizio Pallante, nonché libri sul tema della decrescita, sulla scomparsa del futuro per i giovani, sul fardello inquietante delle scorie nucleari italiane di cui nessuno parla mai. Dalla salute dell’ambiente a quella della persona, il passo è breve. «Ho scritto questo libro – racconta Andrea – perché mi sono reso conto, nell’arco degli anni, di essere entrato in contatto con parecchi medici e realtà del settore sanitario molto a disagio con quello che è ormai diventato il loro campo». Con un certo stupore, Bertaglio si è accorto tempo fa che «ci sono sempre più medici che non hanno più intenzione di sottostare a certe dinamiche di mercato, che non sopportano più di vedere l’interesse economico venire prima della salute». Medici “ribelli”, «stanchi di dover mettere il guadagno delle grandi case farmaceutiche davanti alla vita dei pazienti, magari bambini».
    Così, Andrea Bertaglio ha raccolto le loro testimonianze, mettendo a fuoco «l’insano intreccio fra profitto e salute», in quest’Europa su cui incombe la progressiva e minacciosa “americanizzazione” del sistema sanitario. «Che cosa ho imparato? Moltissime cose, a partire dalla mole enorme di soldi che ruota intorno al settore farmaceutico», confessa. «Mi ha impressionato l’arbitrarietà con cui si decide se le persone sono malate o meno (cosa che avviene soprattutto in ambito psichiatrico). Mi ha disgustato la semplicità con cui, soprattutto negli Usa ma tendenzialmente anche in Europa, si preferisce dare uno psicofarmaco a un bambino, piuttosto che educarlo o amarlo. E mi ha colpito come molta gente, oggi, persa nel paradosso di una società che si crede molto informata, sia convinta di sapere anche più del proprio medico cosa sia opportuno prescrivergli».
    (Il libro: Andrea Bertaglio, “Medicina ribelle”, Edizioni L’Età dell’Acquario, 146 pagine, 12 euro).

    “Big Pharma”, l’industria farmaceutica mondiale, impiega un terzo dei ricavi e un terzo del personale per collocare nuovi medicinali sul mercato. Pionieri di questo nuovo approccio verso la salute sono gli Stati Uniti, dove tra il 1996 e il 2001 il numero dei venditori di farmaci è cresciuto del 110%, passando da 42.000 a 88.000 agenti. Per promuovere i suoi nuovi prodotti, questo settore spende ogni anno da 8.000 a 13.000 euro per ogni singolo medico. Sono le cifre di un big business, che si trasforma in guerra ai pazienti: si specula sulla loro pelle. Lo scrive, senza giri di parole, un giovane giornalista come Andrea Bertaglio, nel suo ultimo libro, “Medicina ribelle”. Racconta gli abusi del sistema, ma anche le prime clamorose ribellioni. Come quella della dottoressa Patrizia Gentilini, oncologo di Forlì: «Sono un medico, ho lavorato per più di trent’anni in un reparto di oncologia. Sono qui avendo nel cuore la sofferenza, la disperazione, le lacrime – quelle versate e quelle nascoste – dei miei pazienti, delle mogli, dei mariti, dei figli e dei genitori». Domanda: «Perché tanto dolore? Era proprio ineluttabile? Davvero la ricerca e le terapie sempre più mirate e “intelligenti” risolveranno il problema del cancro?».

  • Cia e sauditi, la premiata ditta dei tagliatori di teste

    Scritto il 03/3/15 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Non fanatici, ma mercenari. Traslocati in mezzo mondo – Afghanistan, Balcani, Medio Oriente – per scatenare il terrore, fornendo l’alibi per la “guerra infinita” degli Usa. Al-Qaeda e Isis sono due maschere dello stesso network, organizzato dai sauditi sotto la regia di Washington. «Dalle viscere del carcere di massima sicurezza statunitense di Florence (Colorado), il componente di Al-Qaeda Zacarias Moussaui, condannato all’ergastolo, fa luce su quello che certamente è il segreto più sporco della “guerra al terrore”», scrive Pepe Escobar. «In più di 100 pagine di testimonianze rese nei giorni scorsi in una corte federale di New York, Moussaui fa “esplodere” delle autentiche bombe legate alla “Casa di Saud”». Tra i più importanti finanziatori di Al-Qaeda prima dell’11 Settembre compaiono i principali esponenti del potere saudita, alleato di Washington. Le prime avvisaglie dello scandalo esplodono adesso, spiega Escobar, perché gli Usa ricattano l’Arabia Saudita: guai se Riyadh si sfilasse dall’alleanza, cessando di sostenere sottobanco il network del terrore, che oggi si chiama Califfato, o a scelta Isis, Isil o semplicemente Daesh. E guai se smettono di pompare petrolio, facendone crollare il prezzo per colpire Putin.
    Nelle rivelazioni dell’ergastolano Moussaui, scrive Escobar in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, troviamo nientemeno che l’ex capo dell’intelligence saudita, il principe Turki al-Faisal, già grande amico di Osama Bin Laden, insieme un personaggio come il principe Bandar Bin Sultan, detto “Bandar Bush”, già ambasciatore saudita negli Stati Uniti «e mancato sponsorizzatore di jihadisti in Siria». Turki e Bandar sono in compagnia «di un caro amico dei mercati occidentali (e di Rupert Murdoch)», cioè il principe Al-Waleed Bin Talal, e con lui «tutti i maggiori “chierici” wahhabiti dell’Arabia Saudita». In altre parole, «nessuno di loro è nuovo a chi segue fin dai tempi dell’Afghanistan degli anni ’80 le sporche vicende degli jihadisti finanziati dai wahhabiti sauditi». Le informazioni, aggiunge Escobar, assumono maggiore importanza se messe in relazione al prossimo libro di Michael Springmann, ex capo della sezione visti a Jeddah, in Arabia Saudita. In “Visto per al-Qaeda”, svelando «tutti gli sdoganamenti della Cia che hanno sconvolto il mondo»,  Springmann descrive in dettaglio le mosse dell’armata del terrore messa in piedi dagli Usa.
    Negli anni ’80, la Cia reclutò e addestrò «agenti musulmani» per contrastare l’invasione sovietica in Afganistan. «Più tardi, la Cia avrebbe spostato questi agenti dall’Afganistan ai Balcani, poi in Iraq, in Libia e in Siria, facendoli viaggiare con visti statunitensi illegali». Questi guerriglieri addestrati dagli Usa «si sarebbero poi riuniti in un’ organizzazione che è sinonimo di terrorismo jihadista: Al-Qaeda». Lo scopo politico di queste rivelazioni, dal punto di vista di Washington, secondo Springmann «è di esercitare pressioni sulla Casa di Saud per continuare a pompare le loro eccedenze petrolifere: i recenti rimbalzi petroliferi stanno provocando l’isterismo a Washington, poiché potrebbero essere il segnale di un ripensamento dei sauditi sulla loro guerra dei prezzi del petrolio contro, prima fra tutti, la Russia». Dunque, verso la metà degli anni ’80, “Al-Qaeda” era solo un database in un computer collegato al dipartimento delle comunicazioni del segretariato della Conferenza Islamica, scrive Escobar. «A quel tempo, quando Osama Bin Laden non era che un agente “delegato” Usa che operava a Peshawar, l’intranet di Al-Qaeda era un ottimo sistema di comunicazione per lo scambio di messaggi in codice tra i guerriglieri».
    “Al-Qaeda” non era un’organizzazione terrorista – ovvero un esercito islamico – e neanche proprietà privata di Osama Bin Laden. «In seguito, verso la metà degli anni 2000 in Iraq, Abu Musab al-Zarqawi – il precursore giordano di Isis/Isil/Daesh – stava reclutando giovani militanti-fanatici-arrabbiati, senza un diretto input da parte di Bin Laden. La sua copertura era Aqi (Al-Qaeda in Iraq)». Quindi, continua Escobar, Al-Qaeda era e resta un marchio di successo. «Non è mai stata un’organizzazione; piuttosto era un elemento operativo essenziale di un’agenzia di intelligence. Da qui l’imperativo categorico: Al-Qaeda è essenzialmente una derivazione dell’intelligence saudita». La miglior prova è il ruolo oscuro, fin dall’inizio, del principe Turki, ex direttore generale per lungo tempo del Mukhabarat, l’intelligence della Casa di Saud («ma Turki non parla, e mai lo farà»).  L’intelligence turca, per parte sua, «non ha mai creduto al mito dell’“organizzazione” Al-Qaeda». Le rivelazioni di Moussaui, aggiunge Escobar, «diventano davvero esplosive quando si collegano tutti i punti tra l’ideologia politica della Casa di Saud, la piattaforma politica di Al-Qaeda e l’abbozzo ideologico del falso Califfato di Isis/Isil/Daesh. La matrice di tutti questi è il wahhabismo del 19° secolo – e la sua interpretazione/appropriazione medievale dell’Islam. Tutti usano metodi diversi, alcuni più rumorosi di altri, ma tutti hanno lo stesso fine: il proselitismo wahhabita».
    La differenza fondamentale, secondo Escobar, è che Al-Qaeda e Isis/Isil/Daesh «sono dei rinnegati wahhabiti che intendono, alla fine, prendere il posto della Casa di Saud – fantoccio comandato dall’Occidente – instaurando in modo ancora più intollerante il potere salafita e/o del Califfato». Per cui, «quando questa “bomba” ancora segreta verrà fuori dal vaso di pandora arabico, crolleranno i presupposti che reggono quel dono che viene continuamente elargito dagli Usa, la “Guerra al Terrore” (guerra infinita)». Non è rassicurante nemmeno il nuovo capo della Casa di Saud, il principe Salman, che «negli anni ’90 era uno strenuo sostenitore del salafismo e del Jihad», inclusa la pratica Bin Laden. Più tardi, come governatore di Riyadh, «si distinse nell’avversione più totale verso gli sciiti, che poi si espandeva nell’odio verso l’Iran nel suo complesso – per non parlare poi del suo odio per qualsiasi cosa che lontanamente ricordasse la democrazia all’interno dell’Arabia Saudita». Assurdo aspettarsi che Salman sia un “riformatore”, «come è assurdo aspettarsi che l’amministrazione Obama interrompa una volta per tutte la sua storia d’amore con i suoi “bastardi preferiti” del Golfo Persico».
    Ma ora, aggiunge Escobar, c’e’ un nuovo elemento chiave: «La Casa di Saud è disperata. Non è un segreto a Riyadh e in tutto il Golfo che il nuovo Re e i suoi consiglieri ammaestrati dall’Occidente stiano letteralmente perdendo la testa. Si ritrovano circondati dall’Iran – che, per giunta, è sul punto di concludere un accordo nucleare con il Grande Satana l’estate prossima». La situazione non è allegra: i sauditi «vedono il falso Califfato di Isis/Isil/Daesh che controlla gran parte del “Siraq” – e con gli occhi già puntati verso la Mecca e Medina. Vedono gli sciiti Houthi pro-Iran che controllano lo Yemen. Vedono gli sciiti della maggioranza in Bahrein repressi con grandi difficoltà dalle forze mercenarie. Vedono disordini sciiti diffusi nelle province orientali dell’Arabia Saudita, dove c’è il petrolio. Sono sparsi in tutto il Medio Oriente ancora in preda alla psicosi “Assad deve andarsene” (mentre lui non va da nessuna parte). Hanno bisogno di finanziare la “junta” militare al potere in Egitto con miliardi di dollari (l’Egitto è al verde). E oltre a tutto questo, si sono bevuti la storia America-contro-Russia, impegnandosi in una guerra dei prezzi del petrolio che sta consumando il loro budget».
    Non ci sono prove che Salman sia deciso a compiere lo sforzo di cooperare con il governo di maggioranza sciita a Baghdad, né che tenterà di raggiungere un compromesso con Teheran: «Al contrario, regna la paranoia, poiché nel momento in cui l’Iran riaffermasse la sua supremazia nucleare, una volta concluso l’accordo atteso per l’estate prossima, i sauditi si ritroveranno emarginati ideologicamente e politicamente». Soprattutto, conclude Escobar, non ci sono prove che l’amministrazione Obama abbia la capacità di riconsiderare le relazioni coi sauditi. «Ciò che è certo è che il più sporco segreto della “guerra al terrore” resterà off-limits. Tutto il “terrore” che stiamo vivendo, sia quello reale sia quello costruito a tavolino, proviene da un’unica fonte: non è “l’Islam”, ma l’intollerante e demente wahhabismo», irresponsabilmente incoraggiato, organizzato e finanziato con la piena collaborazione della Cia. Stesso film: dalla strage di americani innocenti l’11 Settembre alla ricomparsa dei “tagliatori di teste” in Siria, in Iraq e ora in Libia.

    Non fanatici, ma mercenari. Dirottati in mezzo mondo – Afghanistan, Balcani, Medio Oriente – per scatenare il terrore, fornendo l’alibi per la “guerra infinita” degli Usa. Al-Qaeda e Isis sono due maschere dello stesso network, organizzato dai sauditi sotto la regia di Washington. «Dalle viscere del carcere di massima sicurezza statunitense di Florence (Colorado), il componente di Al-Qaeda Zacarias Moussaui, condannato all’ergastolo, fa luce su quello che certamente è il segreto più sporco della “guerra al terrore”», scrive Pepe Escobar. «In più di 100 pagine di testimonianze rese nei giorni scorsi in una corte federale di New York, Moussaui fa “esplodere” delle autentiche bombe legate alla “Casa di Saud”». Tra i più importanti finanziatori di Al-Qaeda prima dell’11 Settembre compaiono i principali esponenti del potere saudita, alleato di Washington. Le prime avvisaglie dello scandalo esplodono adesso, spiega Escobar, perché gli Usa ricattano l’Arabia Saudita: guai se Riyadh si sfilasse dall’alleanza, cessando di sostenere sottobanco il network del terrore, che oggi si chiama Califfato, o a scelta Isis, Isil o semplicemente Daesh. E guai se smettono di pompare petrolio, facendone crollare il prezzo per colpire Putin.

  • Martin Luther King e Charlie Hebdo, stesso killer: Gladio

    Scritto il 22/2/15 • nella Categoria: idee • (1)

    Il 19 gennaio è  stato il Martin Luther King Day, festa nazionale. King era un leader per la difesa dei diritti civili assassinato il 4 aprile 1968, 47 anni fa, all’età di 39 anni. James Earl Ray fu condannato per l’omicidio. Inizialmente Ray si proclamò colpevole, seguendo, a quanto detto, il consiglio del suo avvocato per evitare la pena di morte, ma Ray ritrattò la sua confessione e richiese inutilmente un processo con giuria. I documenti ufficiali sulle indagini rimarranno segreti fino al 2027. Come riporta Wikipedia, “la famiglia King non crede che Ray abbia a che fare con l’omicidio di Martin Luther King”. “La famiglia King e altre persone credono che l’assassinio sia stato portato avanti da una cospirazione da parte del governo americano e che James Earl Ray sia stato un capro espiatorio. Questa conclusione è stata confermata da una giuria in un processo civile del 1999 contro Loyd Jowers e cospiratori anonimi”. Il dipartimento americano di giustizia concluse che la testimonianza di Jower, che influenzò la giuria civile durante il processo, non era attendibile.
    Dall’altra parte non vi è alcuna soddisfacente spiegazione del perché alcuni documenti sulle investigazioni su Ray furono messe sotto chiave per 59 anni. Ci sono molti punti oscuri sulla storia dell’assassinio di King, così come ce ne sono per l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy e di Bobby Kennedy. Non sono abbastanza i sospetti e le informazioni per cambiare le storie ufficiali. I fatti non contano abbastanza per cambiare le storie ufficiali. Molti americani continueranno a credere che, visto il fallimento del governo nell’averlo etichettato come comunista e donnaiolo, la classe dirigente decise di eliminare un leader emergente e scomodo, assassinandolo. Molti neri americani continueranno a credere che il giorno di festa nazionale sia il modo in cui il governo ha voluto coprire il suo crimine, incolpando il razzismo per l’omicidio di King. Di sicuro il governo non avrebbe dovuto fomentare il sospetto accordandosi con un patteggiamento per un omicidio del genere. Ray era un evaso da un penitenziario di Stato ed è stato arrestato all’aereoporto londinese di Heathrow mentre stava cercando di fuggire in Africa. Sembra improbabile che stesse mettendo a rischio la sua fuga per andare a sparare a King con delle motivazioni razziali.
    Dovremmo tenere a mente i numerosi dettagli in sospeso sull’assassinio di Martin Luther King con cui siamo stati bombardati dai media, con quelli che Finian Cunningham definisce «politici emotivamente dinamici che stupiscono il pubblico facendo domande necessariamente dure», i dettagli sugli omicidi di “Charlie Hebdo”, e inoltre quelli del bombardamento alla maratona di Boston, e tutti gli altri attentati che sono risultati essere molto convenienti ai governi. Questi ingenui cittadini che credono che «i nostri governi non ucciderebbero mai la propria gente», devono informarsi di più su cose come l’Operazione Gladio e il Progetto Northwoods, argomenti sui quali sono presenti molte informazioni nella rete, investigazioni parlamentari e documenti segreti resi pubblici. Il Progetto Northwoods fu presentato al presidente Kennedy dallo stato maggiore americano. È stato portato in appello per la sparatoria contro civili per le strade di Washington e Miami, per aver abbattuto aerei di linea americani (reali o simulazioni) e aver attaccato navi di rifugiati che arrivavano da Cuba al fine di creare un terribile caso contro Castro, che avrebbe assicurato il supporto dell’opinione pubblica per una invasione che avrebbe portato al cambio del regime a Cuba.
    Il presidente Kennedy non accettò la teoria del complotto e fece rimuovere il capo dello stato maggiore, un provvedimento che alcuni ricercatori pensano abbia portato al suo assassinio. L’Operazione Gladio fu invece rivelata dal primo ministro italiano nel 1990. Si trattava di un’operazione segreta coordinata dalla Nato in cooperazione con la Cia e i servizi segreti britannici. Investigazioni parlamentari in Italia, Svizzera e Belgio, insieme a testimoni dei servizi segreti, hanno stabilito che la Gladio, originariamente costituita come un esercito segreto per resistere all’invasione sovietica, era utilizzata per portare a termine bombardamenti sulle popolazioni europee, in particolare contro donne e bambini, con il fine di incolpare i comunisti ed evitare che questi ultimi ottenessero maggiorepotere politico in Europa durante il periodo della Guerra Fredda. Rispondendo all’interrogatorio dei giudici a proposito della strage alla stazione centrale di Bologna del 1980, dove vi furono 85 morti, Vincenzo Vinciguerra disse: «In Italia è presente una forza armata parallela a quella dell’esercito, composta da civili e militari. Una grande organizzazione con un grande rete di comunicazione, armi ed esplosivi che portano a termine azioni omicide in nome della Nato e prevengono una caduta a sinistra nell’equilibrio politico del paese. Questo è quello che hanno fatto, con l’appoggio dei servizi segreti, della classe politica e delle forze armate».
    In un’intervista al “Guardian”, Vinciguerra disse che «ogni singolo attentato avvenuto dopo il 1969 rientra in un unico grande contesto, mobilitato per una battaglia contro la strategia comunista, non creata con organizzazioni devianti dalle istituzioni del potere, ma dall’interno degli Stati stessi, in particolar modo all’interno degli ambiti delle relazioni tra gli Stati dell’Alleanza Atlantica». Non vi è alcun dubbio sull’esistenza dell’Operazione Gladio. La Bbc nel 1992 ha realizzato un documentario di due ore e mezza sull’organizzazione terroristica della Nato. Oltre alle investigazioni parlamentari e a testimonianze dei partecipanti, ci sono molti libri, articoli e resoconti sul tema. C’è ragione di credere che, sebbene siano stati scoperti, Gladio sia ancora in attività e sia dietro ad attacchi terroristici in Europa, come quello a “Charlie Hebdo”. Ovviamente oggigiorno Washington ha il totale controllo sull’Europa, quindi non vi saranno investigazioni parlamentari analoghe a quelle che vi sono state per l’Operazione Gladio.
    Con la documentata e ufficiale ammissione dell’esistenza delle tante cospirazioni governative contro le proprie popolazioni e la conseguente morte di molte persone, solo agenti governativi consapevoli e inconsapevoli rispondono alle osservazioni sui sedicenti attacchi terroristici, cercando di mettere a tacere coloro che ricercano la verità. L’obbiettivo di mettere a tacere i sospetti sulle storie ufficiali è stato portato a termine in maniera egregia dai principali mezzi di comunicazione del mondo occidentale, stampa e tv. Alla prostituzione dei mezzi di comunicazione si è unita quella dei tabloid del web, come “Salon” ad esempio, e altri siti web che in questa maniera ottengono guadagni e vantaggi. I soldi arrivano a chi appoggia la classe dirigente. Molti siti Internet contribuiscono involontariamente al potere di quell’1% che controlla le spiegazioni, e screditano chi ricerca la verità. Questa è la principale funzione della sezione dei commenti sui siti Internet, creati appositamente da persone pagate per “trollare”.
    Alcuni studi hanno portato alla conclusione che la maggior parte della popolazione si sente troppo insicura per prendere una posizione diversa dai propri simili. La maggior parte degli americani non ha sufficienti informazioni per sentirsi abbastanza sicura da assumere un’opinione autonoma. Seguono la massa e si fidano dei loro simili che dicono loro cosa è meglio pensare. Chi crea i “troll” è assunto con lo scopo di denigrare e formulare degli attacchi personali a chi non è d’accordo con l’opinione comune. Per esempio, nella sezione dei commenti del mio sito, vengo continuamente attaccato in termini personali da individui che si nascondo dietro un nome o un nickname. Altri assumono persone che odiano Ronald Reagan o gli ideali di sinistra per screditarmi su un piano che solo persone deboli e perfide possono fare. Molte delle persone che mi screditano, baciano il pavimento dove cammina Hillary Clinton. Oggigiorno nelle cosiddette “democrazie occidentali” è permesso essere politicamente scorretti nei confronti dei musulmani, o evocare parole di disprezzo e denigrazione nei loro confronti, ma non è permesso criticare il governo di Israele per gli attacchi omicidi indiscriminati contro i cittadini palestinesi.
    La posizione della lobby israeliana e la sua obbediente e minacciata “stampa della prostituzione”, è quella che qualsiasi critica ad Israele sia un sintomo di antisemitismo e il segnale che l’opinione pubblica voglia un nuovo Olocausto. Questo sforzo di mettere a tacere tutte le critiche sulle politiche di Israele viene applicato anche sugli israeliani e sugli stessi ebrei. Gli israeliani e gli ebrei che leggitimamente criticano le politiche israeliane con la speranza di far cambiare direzione allo Stato sionista, di portarlo lontano dall’autodistruzione, vengono etichettati dalla lobby israeliana come persone che odiano gli stessi ebrei. La lobby ha dimostrato il suo potere distruggendo la libertà accademica, arrivando all’interno delle università cattoliche private e quelle statali, bloccando e ritirando le nomine di ruolo dei candidati, ebrei e non, che non avevano ottenuto l’approvazione della lobby israeliana.
    Vedo Martin Luther King come un eroe. Qualsiasi siano stati i suoi fallimenti familiari, se ce ne sono stati, ha sempre combattuto per la giustizia e per la sicurezza di ogni razza e genere nel rispetto della legge. King credeva veramente nel sogno americano e voleva che si realizzasse per il bene di tutti. Sento di aver esaminato la vita di King con occhio critico; avrebbe preso in considerazione il mio caso e avrebbe risposto onestamente, a prescindere dal potere che poteva avere su di me. Non posso aspettarmi la stessa considerazione da nessun governo occidentale o dalle persone che “trollano” i miei commenti con la speranza di fomentare i propri lettori. I creduloni e gli ingenui sono incapaci di difendere la propria libertà. Sfortunatamente queste sono le caratteristiche principali delle popolazioni occidentali. La libertà occidentale sta crollando davanti ai nostri occhi, e ciò rende assurdo il desiderio degli oppositori russi di Vladimir Putin di integrarsi al collasso degli Stati occidentali.
    (Paul Craig Roberts, “Martin Luther King, un eroe americano: dov’è il sostituto?”, da “Global Research” del 20 gennaio 2015, tradotto da “Come Don Chisciotte”).

    Il 19 gennaio è  stato il Martin Luther King Day, festa nazionale. King era un leader per la difesa dei diritti civili assassinato il 4 aprile 1968, 47 anni fa, all’età di 39 anni. James Earl Ray fu condannato per l’omicidio. Inizialmente Ray si proclamò colpevole, seguendo, a quanto detto, il consiglio del suo avvocato per evitare la pena di morte, ma Ray ritrattò la sua confessione e richiese inutilmente un processo con giuria. I documenti ufficiali sulle indagini rimarranno segreti fino al 2027. Come riporta Wikipedia, “la famiglia King non crede che Ray abbia a che fare con l’omicidio di Martin Luther King”. “La famiglia King e altre persone credono che l’assassinio sia stato portato avanti da una cospirazione da parte del governo americano e che James Earl Ray sia stato un capro espiatorio. Questa conclusione è stata confermata da una giuria in un processo civile del 1999 contro Loyd Jowers e cospiratori anonimi”. Il dipartimento americano di giustizia concluse che la testimonianza di Jower, che influenzò la giuria civile durante il processo, non era attendibile.

  • Friaul, il nazi-Stato dei Cosacchi a insaputa dei friulani

    Scritto il 04/1/15 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Il Friuli si sarebbe chiamato Pfufferstaats Friaul, uno Stato-cuscinetto inserito nella “Grande Austria” per contribuire a isolare l’Unione Sovietica. A insaputa dei friulani, durante la Seconda Guerra Mondiale i nazisti spedirono 40.000 cosacchi tra i monti della Carnia: sarebbero stati il nerbo della nuova ipotetica nazione de-italianizzata, come ricorda Gaetano Dato rievocando l’epopea friulana dei cavalieri russi anti-sovietici. «Erano soldati e profughi arrivati in Friuli dal Don, dal Kuban, dall’Astrakahn, dalla Siberia, dal Caucaso e da tutte le altre terre cosacche. In rotta, insieme all’armata hitleriana, nel maggio del ‘45. «Oltre Timau, quando la salita verso il Plöckenpass comincia a stringersi e a fare tornanti sempre più stretti, i cadaveri dei cavalli, e pure di qualche cammello, punteggiavano la scarpata». Sul lago di Wörth, in Austria, speravano di ricevere un ordine che avrebbe potuto dar loro un nuovo incarico a guerra finita. «Ma innanzitutto dovevano sopravvivere agli agguati dei partigiani e comunque dovevano incontrarsi prima dell’arrivo degli inglesi, sempre che questi ultimi avessero preceduto gli jugoslavi in Carinzia».
    Il 7 maggio del ‘45, al castello di Hornstein, luogo dell’appuntamento, il “leiter” Franz Hradetzky parlò per l’ultima volta del Pfufferstaats Friaul, lo Stato che, se l’Asse avesse vinto la guerra, avrebbe dovuto proteggere i confini sud-occidentali dell’ex impero asburgico. La disposizione, ricorda Dato sul blog di Aldo Giannuli, era arrivata da Himmler. Dopo l’8 settembre del ‘43 e la costituzione del protettorato dell’Ozak (litorale adriatico), il capo delle SS aveva affidato a Hradetzky e ai suoi propagandisti del “Kommando Adria” un’operazione speciale: ridestare i «sentimenti nazionali nel popolo friulano», come premessa per l’istituzione del Friaul. Stretti i contatti tra le curie del Litorale e i funzionari agli ordini del comando nazista, decisivi per i rapporti coi sarcedoti sloveni e l’arruolamento forzoso della popolazione per costruire opere pubbliche per la difesa terrestre e antiaerea. Inoltre, «alcuni settori della Chiesa vedevano di buon occhio il progetto della Grande Austria», dopo che l’Armata Rossa «aveva ripreso controllo del mondo ortodosso e i soldati di Stalin e di Tito dilagavano negli Stati cattolici dell’Europa orientale e balcanica».
    Il principe arcivescovo di Salisburgo, Andreas Rohracher, insieme ad altri esponenti del Vaticano come Alois Hudal, tentò una disperata mediazione nell’aprile del ‘45, fra nazisti austriaci e servizi segreti inglesi e americani: «La Grande Austria – spiega Gaetano Dato – doveva comprendere anche la Slovenia, la Croazia, l’Ungheria e la Romania. Si trattava di un progetto con qualche saldatura col più vasto tentativo vaticano dell’Intermarium, una lega di Stati cattolici fra i mari Adriatico e Baltico capace di contenere il mondo sovietico». Vi guardavano con particolare attenzione il generale polacco Wladyslaw Anders e i suoi 100.000 soldati sparsi per l’Italia, in attesa di rientrare in patria e vendicare il massacro sovietico di Katyn. Naturalmente, né la Grande Austria né l’Intermarium poterono mai realizzarsi: «Il 1945 non era un tempo di restaurazioni. Il dominio dell’Europa era finito e il mondo non sarebbe stato più lo stesso. Usa e Urss avevano già spartito il pianeta in sfere di influenza, e al massimo potevano lasciare agli inglesi la patata bollente della guerriglia greca», guidata dal comunista Markos Vafiadis.
    Gli americani, continua Dato, si erano inoltre presi la briga, coi britannici, di sostenere ustaša e cetnici, per tenere sulle spine Tito in Jugoslavia, ma forse solo perché erano a loro volta rimasti impantanati a Trieste per via del Territorio Libero. «Ma questo era tutto. Non c’era spazio per il terzaforzismo cattolico, che riuscì soltanto a mettere in salvo alcuni capi e gerarchi nazifascisti». L’offerta che Hradetzky aveva pensato di fare ai sopravvissuti del “Kommando Adria”, al momento dell’incontro in quel 7 maggio, non si era dunque ancora concretizzata nei modi opportuni. «La speranza era che in tempi brevissimi la mobilitazione per la nuova Grande Austria potesse salvare ciascuno dalla prigionia. Nulla di più sbagliato. Poco tempo dopo, lo stesso “leiter” dei corrispondenti di guerra fu arrestato dagli jugoslavi, e processato a Lubiana», insieme a molti altri responsabili dell’Ozak. Tuttavia scampò alla pena capitale e, dopo 16 anni di lavori forzati, riuscì a tornare in Austria: «Così, le sue testimonianze a Pier Arrigo Carrier negli anni Settanta hanno riportato alla luce la breve storia dei tentati preparativi per la costituzione del Friaul», in quella “Grande Austria” che nei sogni del “partito degli austriaci” avrebbe dovuto prendere il sopravvento sui tedeschi del nord, assorbendo anche la Boemia e persino la Baviera.
    Sarebbero state concesse ampie autonomie a croati e sloveni, attraverso la costituzione di Stati autonomi, ma federati al Reich. Agli sloveni in particolare sarebbe stata tolta la regione della Stiria slovena, da germanizzarsi completamente, e sarebbe stato ricostituito il ducato di Carniola, che era tramontato con la fine degli Asburgo. Il Pfufferstaats Friaul sarebbe stato un altro degli Stati autonomi federati, uno Stato cuscinetto con lo scopo di isolare ogni possibile “infezione” dal lato italiano, specialmente in direzione delle terre giuliane, dalmate e del Quarnero, in cui il sentimento irredentista aveva una certa presa. A tale scopo il Pfufferstaats Friaul avrebbe tagliato ogni continuità territoriale tra queste aree e la penisola italiana. Il “ribaltone” italiano dell’8 settembre 1943 aveva spinto Himmler a includere il Friuli nei piani di ingegneria etnica che avrebbero dovuto rettificare l’Europa del Nuovo Ordine. In Friuli, per l’Ozak, gli italiani erano «una minoranza», cioè appena 100.000 su una popolazione di 700.000 persone, di cui 200.000 «sloveni» e il resto, la maggioranza, erano friulani, «appartenenti al gruppo retoromanzo», lo stesso che abita «i Grigioni in Svizzera» e che in Tirolo «costituisce il gruppo dei Ladini».
    Era dunque opportuno agire per tempo e far sorgere la voglia di indipendenza ai friulani ben prima della fine della guerra. Il capo delle SS contattò quindi Hradetzky nell’autunno del 1943. «Fu redatto un piano che prevedeva la forzata nazionalizzazione delle masse friulane, previa la distillazione delle loro tradizioni popolari, per essere loro riproposte attraverso mass media ed eventi pubblici». Un modello di nazionalizzazione congeniale ai nazisti, basato sul meccanismo della “invenzione della tradizione” secondo lo schema classico analizzato da Eric Hobsbawm. Così, Hradetzky mise in piedi un gruppo di studio sulle tradizioni popolari, in cerca di un “eroe nazionale” friulano. Ercole Carletti, segretario della Filologica Friulana, società culturale perseguitata dal fascismo, rifiutò di collaborare: la Filologica si ispirava a Graziadio Isaia Ascoli, linguista ebreo e patriota del Risorgimento che nella seconda metà dell’800 studiò estensivamente il friulano. I nazisti ripiegarono su Ermes Cavassori, giornalista de “Il Popolo del Friuli”, il quotidiano fascista di Udine, e su altri soggetti coinvolti dallo stesso Cavassori, a cominciare dallo zio, il maestro Luigi Garzoni.
    Fabbricare una narrazione nazionale: sul fronte degli studiosi austriaci fu reclutato Karl Felix Wolff, già membro della commissione culturale dell’Alpenvorland, il protettorato che occupava il Trentino Alto Adige. Insieme ai suoi collaboratori, scrive Dato, Wolff aveva lavorato soprattutto a una raccolta di fiabe friulane, che però non giunse mai alla stampa, a causa del precipitare degli eventi. Alcuni dei “racconti friulani” fecero in tempo a uscire su “La Voce di Furlania”, periodico fondato da Cavassori e Garzoni. Temi prevalenti del giornale: tradizioni popolari, lotta all’internazionalità e inviti alla popolazione a collaborare con i tedeschi. Il titolo della testata dava anche il nome a una rivista teatrale messa in scena settimanalmente a Udine. Furono inoltre fondati oltre 40 gruppi corali, mentre altre associazioni provvedevano alla riscoperta delle tradizioni folcloristiche, a cominciare dagli abiti tradizionali. «Pare che, secondo Hradetzky, la popolazione avesse entusiasticamente aderito a queste iniziative, mostrando così un certo consenso nei confronti dell’amministrazione nazista. Naturalmente queste notizie venivano accolte con apprensione dal governo della Repubblica di Salò, ma ormai Mussolini e i fascisti non potevano fare molto per opporsi ai progetti di Berlino per il Nuovo Ordine». Ma l’operazione restava debole: «Fu impossibile riuscire a individuare, nella storia friulana, dei precedenti storici la cui strumentalizzazione potesse veicolare la trasformazione di un movimento per il risveglio culturale, in un movimento indipendentista».
    Dopo la fine del patriarcato di Aquileia, nel 1492, e la conseguente fine dell’indipendenza dell’area della ladinità, non esisteva alcun episodio in cui la popolazione locale avesse cercato di riacquistare una qualche precedente e mitizzata autonomia. I friulani, scrive Dato, erano sempre stati sottomessi, prima a Venezia prima e poi agli austriaci. Accolti solo nel 1866 nella giovane nazione italiana, «mai i friulani si erano interessati a una propria questione nazionale». Spiazzati, i nazisti, anche dall’assenza di un eroe “nazionale” friulano, l’equivalente di uno Skanderbeg per l’Albania. «Il massimo che riuscirono a recuperare fu la vicenda di Padre d’Aviano, diplomatico presso gli Absburgo e molto conosciuto per la sua lotta contro l’invasione turca». Ma il tutto «non andò oltre alla cerimonia di deposizione di una lapide ad Aviano». E il progetto di Himmler e Hradetzky, come molti altri, fu interrotto dalla guerra. «Rimane il dubbio su cosa pensassero al riguardo i cosacchi, che insieme ai caucasici, in 40.000 avevano occupato la Carnia nell’estate del 1944. “La Voce di Furlania” aveva parlato dei cosacchi solo una volta, per pubblicizzarne, manco a dirlo, uno spettacolo folcloristico, che pare stesse riscuotendo un grande successo in tutto il Kűnstenland».
    Il progetto della Grande Austria, nei piani del Nuovo Ordine, andava integrato con quello di un cordone di sicurezza che avrebbe dovuto circondare e isolare la Russia. Hitler voleva promuovere una schiera di Stati sottomessi alla sovranità tedesca, grazie anche a un’attenta alchimia fra le varie minoranze, che un calcolato piano di deportazioni avrebbe messo in atto. I paesi coinvolti sarebbero stati Estonia, Lituania, Lettonia, Ucraina, la Nazione Tartara del bacino del Volga, una federazione di nazioni caucasiche, il Turkestan e infine uno Stato cosacco. Coinvolti da subito nell’invasione dell’Urss e pieni di speranze nel riuscire a vendicare le sconfitte della controrivoluzione del 1917-21, gli atamani cosacchi firmarono nel novembre del ‘43 un accordo col Reich che prevedeva una serie di garanzie. In primo luogo, l’affidamento di un vasto territorio da amministrare, oltre a un ruolo di primo piano nel governo della Russia. Tuttavia nell’accordo era prevista l’eventualità che, se l’andamento della guerra avesse impedito anche temporaneamente la consegna dei territori al governo cosacco (provvisoriamente insediato a Berlino), al “popolo della steppa” sarebbe stata riservata una regione in Europa occidentale.
    Nella primavera del 1944, poiché i partigiani friulani stavano rischiando di tagliare le comunicazioni fra i Balcani e il Reich, fu stabilito che quel territorio sarebbe stato proprio il Friuli. «Pertanto, nell’estate del 1944 un vasto contingente di soldati cosacchi, con le loro famiglie e i pope dalla lunga barba, si insediò a Tolmezzo e nel resto della Carnia». I tedeschi, ricorda Dato, presero a chiamare la zona “Kozakenland”, mentre per i nuovi arrivati la Carnia friulana era ormai “Cossackia”. Cominciarono persino a cambiare i nomi dei paesi e delle strade: Alesso, pressoché evacuato della sua popolazione autoctona, divenne Novočerkassk, come la città al cuore della controrivoluzione del Don, cosparsa di sangue dai massacri del 1920. «Ai friulani, intanto, non fu mai detto nulla di quell’accordo, che rimase a lungo segreto, anche se i cosacchi dicevano apertamente nei villaggi che quella terra era ormai diventata loro, almeno finché avessero potuto andarsene per tornare a invadere la Russia dei senzadio». Cosa sarebbe stato del Friuli, se avesse vinto l’Asse? «Forse – conclude Dato – sarebbe sorto un nuovo processo di etnogenesi, che avrebbe trasformato friulani e cosacchi in un nuovo popolo, in modo simile a quanto avvenuto in Europa con l’arrivo dei guerrieri della steppa nella tarda antichità. E del resto così li vedevano i friulani: come Unni giunti da lontano sul dorso dei cavalli, con i colbacchi pelosi e il pugnale sempre in vista».

    Il Friuli si sarebbe chiamato Pfufferstaats Friaul, uno Stato-cuscinetto inserito nella “Grande Austria” per contribuire a isolare l’Unione Sovietica. A insaputa dei friulani, durante la Seconda Guerra Mondiale i nazisti spedirono 40.000 cosacchi tra i monti della Carnia: sarebbero stati il nerbo della nuova ipotetica nazione de-italianizzata, come ricorda Gaetano Dato rievocando l’epopea friulana dei cavalieri russi anti-sovietici. «Erano soldati e profughi arrivati in Friuli dal Don, dal Kuban, dall’Astrakahn, dalla Siberia, dal Caucaso e da tutte le altre terre cosacche. In rotta, insieme all’armata hitleriana, nel maggio del ‘45. «Oltre Timau, quando la salita verso il Plöckenpass comincia a stringersi e a fare tornanti sempre più stretti, i cadaveri dei cavalli, e pure di qualche cammello, punteggiavano la scarpata». Sul lago di Wörth, in Austria, speravano di ricevere un ordine che avrebbe potuto dar loro un nuovo incarico a guerra finita. «Ma innanzitutto dovevano sopravvivere agli agguati dei partigiani e comunque dovevano incontrarsi prima dell’arrivo degli inglesi, sempre che questi ultimi avessero preceduto gli jugoslavi in Carinzia».

  • Magaldi: chi ha ucciso i nostri eroi, per dominare il pianeta

    Scritto il 16/12/14 • nella Categoria: Recensioni • (10)

    Tu chiamala, se vuoi, massoneria. Il che, per i libri di storia, significa al massimo Risorgimento, cioè lotta illuminista contro l’oscurantismo vaticano e l’assolutismo monarchico. Per la stampa italiana del dopoguerra, la connotazione della “libera muratoria” è quasi sempre negativa: Licio Gelli e la P2, Berlusconi, opache trame e comitati d’affari. La fratellanza in grembiulino? Sempre elusiva, quindi fatalmente relegata nel ghetto narrativo della controinformazione, il cosiddetto complottismo che impazza sul web da quando la grande crisi sta minacciando miliardi di esseri umani. Le avvisaglie di quella che alcuni chiamano Terza Guerra Mondiale fanno da sfondo alle fragorose devastazioni dell’altra guerra, già in atto, da parte dell’élite tecno-finanziaria contro il 99% dell’umanità, i non eletti, i cittadini da retrocedere al rango di plebe a cui togliere i diritti democratici conquistati nei decenni del benessere, in virtù della poderosa combinazione messa in campo da Roosevelt e Keynes: economia per tutti, grazie al gigantesco investimento dello Stato, spesa pubblica in forma di deficit positivo. Tutto cancellato, come sappiamo, dagli oligarchi del rigore neoliberista e dai loro politici, economisti, propagandisti. Ma che c’entrano le logge?
    La massoneria è esattamente l’anello mancante, risponde Gioele Magaldi, “gran maestro” del Grande Oriente Democratico, affiliato alla “Thomas Paine”, super-loggia internazionale progressista nata a metà dell’800 negli Stati Uniti per allevare le migliori menti dell’economia democratica. Missione: coniugare sviluppo e benessere diffuso, ricchezza e giustizia, prosperità e diritti, secondo l’ispirazione del socialismo liberale che affonda le sue remote radici nella Rivoluzione Francese. Un orizzonte emblematizzato dalla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata all’Onu sulle macerie della Seconda Guerra Mondiale per volere della “libera muratrice” Eleanor Roosevelt. “Massoni, società a responsabilità illimitata”, clamorosa operazione editoriale firmata da Chiarelettere, si propone di squarciare il velo di segretezza che ha finora coperto e protetto il “back office” del vero potere, sempre bifronte: da una parte la “fratellanza bianca”, illuminata e democratica, e dall’altra i potentissimi antagonisti neo-feudali, supremi manovratori dell’élite oligarchica che oggi ha preso il sopravvento e da decenni ricatta il mondo con l’arma finale della finanza.
    Un’analisi radicale, quella di Magaldi, che si scosta dai toni apocalittici del “cospirazionismo” anti-sistema, anche perché innanzitutto ribadisce il ruolo-chiave del capitalismo nell’affermazione della modernità. In più – e qui sta la novità dirompente – Magaldi offre una rilettura interamente massonica della storia recente, sostenendo che in tutti i passaggi decisivi delle maggiori vicende internazionali c’era sempre un convitato di pietra, rimasto nell’ombra. Ad ogni grande evento che ha segnato il nostro passato – questa è la tesi – non corrispondono soltanto aspirazioni di popoli, correnti e partiti, dinamiche economiche e condizioni geopolitiche, ma anche persone in carne e ossa. Nomi e cognomi, individui responsabili di decisioni precise, di acuminate strategie affidate a singoli attori. In questo modo, sempre secondo Magaldi (che ha “blindato” archivi e testimonianze, da esibire all’occorrenza), nel retrobottega del massimo potere si sono prima confrontate e poi affrontate, senza risparmio di colpi, due opposte visioni del mondo, una democratica e l’altra oligarchica, nutrita cioè di autentico spirito aristocratico – quello di chi pensa che il popolo, semplicemente, non sia in grado di governarsi da solo. Due “fratellanze”, dunque, accomunate dalla medesima attitudine iniziatico-esoterica, ma profondamente divergenti nella concezione politica e quindi negli obiettivi da raggiungere.
    Il “filtro” massonico che Magaldi applica alla sua sorprendente rilettura dell’intera storia del Novecento – l’anello mancante, appunto – contribuisce a illuminare la profondità dell’origine di alcuni eventi, senza peraltro distorcene mai la verità storica accertata, né il senso politico generale, comunemente condiviso e acquisito. E’ una sorta di avvertimento, ai lettori ma anche agli storici: attenti, le cose sono andate così anche perché, oltre alle dinamiche socio-economiche da voi evidenziate, ci sono state riunioni cruciali, scelte e decisioni precise, tutte assunte – nella più totate segretezza – da uomini potentissimi, il cui ruolo emerge solo ora, per la prima volta, grazie agli sterminati elenchi presenti nelle 650 pagine di “Massoni”, che peraltro si conclude con uno stupefacente dibattito tra super-adepti progressisti e confratelli antagonisti “pentiti”, spaventati dalle conseguenze “golpiste” della globalizzazione neoliberista imposta a mano armata.
    Annunciato come il primo di una lunga serie, imbottita di rivelazioni esplosive, il libro è anche un dichiarato atto di guerra infra-massonico, contro le lobby avversarie: un guanto di sfida rivolto prima di tutto agli iniziati neo-aristocratici. Un’arma pubblica, per indebolire il fronte dei grandi oligarchi, i boss della privatizzazione universale, il cui club esclusivo – secondo Magaldi – è rappresentato da storiche super-logge onnipotenti come la “Three Eyes”, di cui farebbero parte personaggi come Kissinger, Brzezisnki, Mario Draghi e i titani di Wall Street. E naturalmente i Rotschild e i Rockefeller, cioè gli stessi che, attraverso la super-loggia dei “tre occhi”, hanno fondato il corrispettivo organismo paramassonico con “tre lati”, la famigerata Trilateral Commission, cupola dell’élite mondiale da cui diffondere il verbo neoliberista, la “morte” dello Stato che deve far posto al mercato, i diktat della destra economica che eredita il memorandum di Lewis Powell e lo sviluppa nella “Crisi della democrazia”, il saggio di Samuel Huntington, Michel Crozier e Joji Watanuki, secondo cui curare la democrazia con altra democrazia è folle, sarebbe come «tentare di spegnere un incendio gettando benzina sul fuoco». Basta democrazia, la ricreazione è finita.
    Il cuore del libro è concentrato sul punto di svolta della nostra storia del dopoguerra, cioè la fine degli anni ‘60 e l’avvento dei piani neo-aristocratici per fermare l’onda lunga della democrazia che, abbattuto il nazifascismo, aveva ricostruito l’Europa inaugurando la stagione irripetibile del boom economico, con l’inedito benessere per le classi popolari e la nuova frontiera civile incarnata dal welfare. Il mainstream, allora, era quello tracciato dal “fratello” Frankin Delano Roosevelt sulla base della strategia politico-economica del “fratello” John Maynard Keynes: se lo Stato fa spesa pubblica e deficit positivo, l’economia prospera e ne beneficiano tutti. Dottrina tradotta in pratica, in Europa, dal “fratello” George Marshall. Keynesismo “di sinistra”, certo, “ma anche massonico”, aggiunge Magaldi, preoccupato di “dare a Cesare”. Impossibile, insiste, trascurare questo dettaglio: tutti i grandi protagonisti del progressismo del dopoguerra erano affiliati a “Ur-Lodges” di sinistra, come la “Thomas Paine”. Organismi ultra-riservati, e per questo mai finiti al posto giusto nei libri di storia. Eppure, importantissimi. E spesso decisivi, nella loro funzione di suprema diplomazia, molto al di sopra degli esecutori nazionali, governi e partiti.
    La grande battaglia rievocata da “Massoni”, tutta giocata dietro le quinte ben prima che i fatti diventassero cronaca e poi storia, secondo Magaldi comincia con la scomparsa di Angelo Roncalli, il “Papa buono”, lo straordinario riformatore sociale del Concilio Vaticano II. Magaldi racconta che pure Giovanni XXIII era un “fratello”, associato a una prestigiosa super-loggia progressista in Turchia e poi a un cenacolo rosacrociano in Francia. Sincretismo, dunque: apertura a diverse tradizioni spirituali, per far convergere energia (sapienza) verso il progresso dell’umanità. Poco dopo, la tragica morte di John Fitzgerald Kennedy, l’uomo con troppi nemici. Chi l’ha ucciso? Quasi impossibile stabilirlo. Ma una cosa sembra ormai certa: Jfk era d’accordo con Khrushev per smilitarizzare il pianeta e quindi mettere fine alla guerra fredda entro il 1970. Dopo l’omicidio di Dallas, racconta Magaldi, le “Ur-Lodges” progressiste puntarono su un ticket formidabile: Bob Kennedy alla Casa Bianca con al suo fianco Martin Luther King, forse spendibile addiritttura per la vicepresidenza. Quello, sostiene l’autore di “Massoni”, è stato il momento fatale in cui abbiamo perso tutti: da allora, la democrazia sociale non ha fatto che perdere rovinosamente terreno, in tutto il mondo. Come sarebbe oggi il pianeta se l’America fosse stata governata da Robert Kennedy e da Martin Luther King?
    Il doppio omicidio dei due campioni dei diritti democratici scatena la guerra dei sospetti nel “back office” del supremo potere: da allora, democratici e neo-aristocratici scendono ufficialmente in guerra. Vincono i secondi: l’America va sempre più a destra, fa la guerra in Vietnam e poi afferma il neoliberismo definitivo con Reagan, mentre in Gran Bretagna è già stata costruita l’affermazione della “sorella” Margaret Thatcher. Nel frattempo, la “guerra coperta” è andata avanti senza risparmio. Prima il golpe dei colonnelli in Grecia, secondo Magaldi un test per saggiare la capacità di resistenza democratica in Europa di fronte a un’involuzione neofascista (Atene come possibile battistrada per abolire la democrazia anche in altri paesi europei). Poi, in risposta, la “rivoluzione dei garofani” in Portogallo, fatta scattare nel 1974 – non a caso il 25 aprile, come monito ai complottisti neo-feudali (il solito Kissinger) che cospiravano contro la democrazia italiana.
    Magaldi infatti accredita pienamente almeno tre tentativi di golpe in Italia, due affidati a Junio Valerio Borghese e uno a Edgardo Sogno, sistematicamente sventati dalla “fratellanza bianca”, coordinata dal sociologo e premio Pulitzer Arthur Schlesinger Jr,. infaticabile combattente e anima delle “Ur-Lodges” democratiche. Di fronte al fallimento del golpismo italiano, il cartello mondiale guidato dalla “Tree Eyes” allenta la presa sull’Europa e si concentra sul Sud America: l’Operazione Condor comincia dal Cile (omicidio Allende) e poi trasforma l’Argentina nell’inferno della giunta militare. Intorbidita ulteriormente da una scissione all’interno dell’ala destra (alla “Three Eyes” che puntava su George Bush senior si oppone la “White Eagle”, che riesce a imporre Reagan alla Casa Bianca), la “guerra segreta” finisce di colpo nel 1981, con due attentati cruenti ma non letali, contro il neo-presidente e contro il Papa. Reagan viene ferito gravemente. Un complotto ordito dalla super-loggia dei “tre occhi”? Poco dopo, la stessa sorte tocca al pontefice polacco, il cui massimo sponsor era stato Brzezinski, uno dei massimi leader della “Three Eyes”.
    Il terrorista turco Alì Agca ha sparato a Wojtyla alle ore 17,17 precise. Per Magaldi, è un indizio decisivo, sempre trascurato dagli investigatori: il 1717 è l’anno di rifondazione della massoneria, dunque si tratta di una “firma” inequivocabile. Ovvero: sarebbero stati i super-fratelli della “White Eagle” a “vendicare” l’attentato a Reagan, “avvertendo” Brzezisnki. Di lì a poco, sarebbe sbocciata la grande tregua sottoscritta con lo storico manifesto “United Freemasons for Globalization”, includente persino i “fratelli” dell’Urss e della Cina comunista, anch’essi collegati alle “Ur-Lodges” del super-potere mondiale, in vista di epocali trasformazioni: la perestrojka di Gorbaciov e le riforme capitaliste di Deng Xiaoping. Una storia che procede in modo lineare, fino al punto di non-ritorno: l’11 Settembre. Il super-attentato del 2001 dà il via alla “guerra infinita”, patrocinata dai nuovi campioni delle super-logge dell’ultradestra: Tony Blair, George W. Bush, Dick Cheney, Donald Rumsfeld, Paul Wolfowitz, Colin Powell, Nicolas Sarkozy. Tutti “fratelli”, assicura Magaldi, firmando la sua sconcertante contro-storia (massonica) delle tragedie che costellano l’attualità di oggi. Aprite gli occhi, raccomanda il “gran maestro” italiano: quello che vi sta accadendo era previsto nei dettagli, è stato deciso a tavolino, e il piano è stato eseguito con spietata precisione. Ma, in quei circoli super-segreti, non tutti erano d’accordo. E ora, finalmente, dopo quarant’anni di incontrastato dominio autoritario, ci sarà una controffensiva democratica, di cui il libro è parte integrante.
    (Il libro: Gioele Magaldi, “Massoni. Società a responsabilità illimitata. La scoperta delle Ur-Lodges”, Chiarelettere, 656 pagine, 19 euro).

    Tu chiamala, se vuoi, massoneria. Il che, per i libri di storia, significa soprattutto Risorgimento, cioè lotta illuminista contro l’oscurantismo vaticano e l’assolutismo monarchico. Per la stampa italiana degli ultimi decenni, la connotazione della “libera muratoria” è quasi sempre negativa: Licio Gelli e la P2, Berlusconi, opache trame e comitati d’affari. La fratellanza in grembiulino? Sempre elusiva, quindi fatalmente relegata nel ghetto narrativo della controinformazione, il cosiddetto complottismo che ora impazza sul web da quando la grande crisi sta minacciando miliardi di esseri umani. Le avvisaglie di quella che alcuni chiamano Terza Guerra Mondiale fanno da sfondo alle fragorose devastazioni dell’altra guerra, già in atto, da parte dell’élite tecno-finanziaria contro il 99% dell’umanità, i non eletti, i cittadini da retrocedere al rango di plebe a cui togliere i diritti democratici conquistati nei decenni del benessere, in virtù della poderosa combinazione messa in campo da Roosevelt e Keynes: economia per tutti, grazie al gigantesco investimento dello Stato, spesa pubblica in forma di deficit positivo. Tutto cancellato, come sappiamo, dagli oligarchi del rigore neoliberista e dai loro politici, economisti, propagandisti. Ma che c’entrano le logge?

  • Uccisi e squartati, in Ucraina un rene vale 200.000 dollari

    Scritto il 26/10/14 • nella Categoria: segnalazioni • (8)

    Quattro anni fa il quotidiano inglese “The Guardian” pubblicò un dossier su una fitta rete di traffico d’organi in Ucraina. Sappiamo bene che, quando si sceglie un titolo di questo tipo per un articolo, lo si mette immediatamente nella categoria del “troppo esagerato per essere vero”: il nostro cuore si rifiuta di crederci. Dopodiché, si inizia a riflettere e a pensare che si tratti dell’ennesima campagna di demonizzazione. Tuttavia, quando abbiamo analizzato la proposta pervenutaci da uno dei nostri collaboratori, abbiamo dovuto ammettere che i fatti e gli argomenti presentati meritavano di essere presi in seria considerazione. Questo dossier proviene da Mark Chapman, l’uomo che tiene uno dei più seri blog sulla Russia. Purtroppo non possiamo dargli il giusto merito della notizia, così come farebbe una grande testata giornalistica, perché non siamo altro che un piccolo gruppo di volontari che fa questo lavoro nel proprio tempo libero. E a questo proposito: dove sono i grandi media?
    Guardate un po’ che succede: avete dei professionisti ben pagati nelle vostre redazioni, perché non incaricate uno di loro per fare un po’ di giornalismo d’inchiesta su questo argomento e provate ad andare un po’ a fondo della questione? Si tratta di una storia che non finirebbe facilmente nel dimenticatoio. Alcuni cadaveri di soldati ucraini sono stati ritrovati con l’addome inciso e privi di alcuni organi. Si tratta degli “eroi dell’Ucraina”, di cui ci si riempie la bocca a Kiev e in tutta l’Ucraina occidentale (“Slava Ukraina, Geroyim Slava!”, ossia “Gloria all’Ucraina, gloria agli eroi!”), spogliati del loro cuore, dei loro reni e del loro fegato, destinati ad essere trapiantati nei corpi di chi si può permettere di pagarli. I profitti di un commercio di questo genere sono nell’ordine di dieci volte in più rispetto all’investimento, per esempio nel caso in cui l’acquirente di organi debba sborsare una certa somma a un donatore povero, costretto a vendere un rene per sbarcare il lunario.
    Dato che la donazione generosa proviene da persone morte da poco, incapaci di esprimere le proprie volontà, si tratta in effetti di un ricco business! Si dice che siano state trovate fosse comuni nella regione, a quanto pare composte da civili trovati con le mani legate dietro la schiena, uccisi con una pallottola in testa, e sui corpi dei quali sono state rinvenute tracce di torture perpetrate prima che arrivasse il colpo di grazia. Alcuni di loro sono stati decapitati. Si dice anche che alcuni siano stati trovati con l’addome aperto, privi di alcuni organi. Credo comunque che, nel caso, bisognerebbe scavare a lungo per trovare informazioni su questo argomento. Già, perché il Dipartimento di Stato Usa, con una decisione scandalosa quanto prevedibile, ha affidato le indagini alle stesse autorità che, con tutta evidenza, stanno dietro a tutta questa storia: il governo ucraino.
    Le denunce riguardo ai corpi dei soldati usati per alimentare il commercio clandestino di organi sono peraltro apparse fin dall’inizio del conflitto. “StopFake”, un sito specializzato nel discredito delle notizie che potrebbero mettere in cattiva luce il governo ucraino, e che non di rado costruisce false notizie o prestanomi prezzolati per demolirle e accrescere la propria credibilità, ha subito reagito a questa storia. Si da il caso però che l’ipotesi avanzata da “StopFake”, e cioè che tutta la vicenda sia una bufala, dal momento che gli organi dovrebbero essere prelevati subito dopo il decesso, messi a refrigerare in contenitori speciali e quindi portati fuori dalle zone di guerra, è stata messa in dubbio da Tony Cartalucci, giornalista di “New Eastern Outlook”. Tony, che tiene il popolare blog “Land Destroyer”, e le cui analisi sono di regola affidabili, a dispetto dell’accoglienza piuttosto fredda che solitamene gli viene riservata dai governi occidentali, riporta le testimonianze di alcuni impiegati di aeroporti internazionali, come quello di Boryspil. I testimoni riferiscono di aver visto piccoli aerei privati, equipaggiati con speciali refrigeratori usati solitamente per il trasporto di organi umani.
    Sono inoltre stati notati alcuni veicoli attrezzati e moderne ambulanze, tutti presso gli ospedali militari ucraini. Ovviamente il fatto di trovare delle ambulanze in prossimità di un ospedale non è di per sé un fatto strano, tuttavia è ben noto che Kiev non riesce neanche a fornire uniformi degne o pasti adeguati ai suoi soldati. In questo contesto, l’andirivieni di dispendiosi mezzi attorno agli ospedali ha un che di sospetto. Specialmente se si considera la sordida storia di traffico di organi in Ucraina (vedi articolo del “Guardian”). Nel 2010 quattro chirurghi e quattro altre persone non precisate furono arrestate dal ministero degli interni ucraino per traffico di organi umani, in particolare reni presi da giovani donne in difficoltà economiche. Queste disperate avevano ricevuto circa 10.000 dollari per un rene in buone condizioni, trapiantato poi a un beneficiario che ne aveva spesi almeno 200.000 per l’operazione. Un’ottima operazione, peraltro, ammesso che ve lo possiate permettere! L’inchiesta si era poi allargata a dodici altre persone che operavano all’interno di una rete diretta da un israeliano di origini ucraine.
    Insieme ad altri validi ragionamenti, Cartalucci presenta un argomento convincente. I resoconti fatti dai social media riguardo a questo traffico illegale di organi sono di norma snobbati dai media occidentali, quali la “Bbc”, che li considerano eccessi “televisivi” o come il prodotto di fervide immaginazioni. Cartalucci dice che «si tratta degli stessi social network che abitualmente i media occidentali citano così frequentemente quando i bersagli sono i governi di Libia o Siria. Ora però che gli interessi occidentali sostengono un regime che cerca di consolidare il proprio potere contro dei combattenti armati, queste storie sono delle bufale e non sono degne di inchieste approfondite». Non c’è bisogno che vi dica che ha assolutamente ragione.
    (“Rivelazioni inquietanti su una fitta rete di traffico d’organi in Ucraina”, post firmato da “Russia-Insider”, ospitato da “Mondialisation” il 20 ottobre 2014 e tradotto da “Come Don Chisciotte”).

    Quattro anni fa il quotidiano inglese “The Guardian” pubblicò un dossier su una fitta rete di traffico d’organi in Ucraina. Sappiamo bene che, quando si sceglie un titolo di questo tipo per un articolo, lo si mette immediatamente nella categoria del “troppo esagerato per essere vero”: il nostro cuore si rifiuta di crederci. Dopodiché, si inizia a riflettere e a pensare che si tratti dell’ennesima campagna di demonizzazione. Tuttavia, quando abbiamo analizzato la proposta pervenutaci da uno dei nostri collaboratori, abbiamo dovuto ammettere che i fatti e gli argomenti presentati meritavano di essere presi in seria considerazione. Questo dossier proviene da Mark Chapman, l’uomo che tiene uno dei più seri blog sulla Russia. Purtroppo non possiamo dargli il giusto merito della notizia, così come farebbe una grande testata giornalistica, perché non siamo altro che un piccolo gruppo di volontari che fa questo lavoro nel proprio tempo libero. E a questo proposito: dove sono i grandi media?

  • Oggi teorie cospirative, domani verità: lo dice la storia

    Scritto il 11/10/14 • nella Categoria: segnalazioni • (6)

    Forse, la prima vera operazione “false flag” dell’epoca moderna fu “l’incidente di Gleiwitz”, provocato dai nazisti nel 1939 vicino alla frontiera orientale: indossate le uniformi dell’esercito polacco, unità delle SS attaccarono una stazione radio tedesca per poi dare la colpa alla Polonia. Durante il blitz, le SS trasmisero un breve messaggio di propaganda in polacco. Poi uccisero dei prigionieri di un campo di concentramento vestiti con uniformi polacche e li lasciarono sulla scena, per far apparire l’incidente come un atto di aggressione progettato da Varsavia. Il giorno successivo, quando la Germania invase il paese confinante dando inizio alla Seconda Guerra Mondiale, Hitler citò l’episodio come uno dei pretesti. Nove giorni prima dell’incidente, Hitler aveva detto ai suoi generali: «Provvederò a un casus belli per la propaganda. La sua credibilità non ha importanza. Al vincitore non verrà chiesto se ha detto la verità». Anche se il termine “teoria del complotto” è diventato un dispregiativo usato contro chiunque metta in discussione la versione ufficiale degli eventi, innumerevoli esempi in tutta la storia delle cospirazioni hanno confermato i peggiori sospetti.
    «L’idea che i governi e le agenzie di intelligence svolgano atti di terrorismo sotto falsa bandiera è stata a lungo derisa dai media del sistema come una teoria della cospirazione, nonostante ci sia una pletora di casi storicamente documentati». Paul Joseph Watson e Alex Jones ne citano almeno dieci, famosi o famosissimi. Come l’Operarazione Ajax, che nel 1953 rovesciò il governo di Mohammed Mossadeq in Iran. La Cia ha ammesso il proprio ruolo nel golpe solo dopo mezzo secolo, nel 2013. Bilancio dell’attività terroristica: almeno 300 civili uccisi. Altra clamorosa “false flag”, lo scontro navale dell’estate del 1964 nel Golfo del Tonchino, che fornì il pretesto per la guerra del Vietnam. Peccato che nessuno sparò mai un solo colpo di cannone contro la flotta statunitense. Eppure, il 4 agosto 1964, il presidente Lyndon Johnson andò in televisione e disse al paese che il Vietnam del Nord aveva attaccato delle navi americane: «I ripetuti atti di violenza contro le forze armate degli Stati Uniti devono ricevere una risposta», dichiarò.
    Il Congresso approvò subito la Risoluzione del Golfo del Tonchino, che fornì a Johnson l’autorità per condurre operazioni militari contro il Vietnam del Nord. Nel 1969, oltre 500.000 soldati stavano già combattendo nel sud-est asiatico. «Johnson e il suo segretario alla difesa, Robert McNamara, avevano ingannato il Congresso e il popolo americano», scrivono Watson e Jones in un post su “Infowars”, tradotto da “Come Don Chisciotte”. «In realtà, il Vietnam del Nord non aveva attaccato la Uss Maddox, come il Pentagono aveva sostenuto, e la “prova inequivocabile” di un “non provocato” secondo attacco contro la nave da guerra degli Stati Uniti era uno stratagemma». Interamente all’insegna della “false flag” fu l’Operazione Gladio, cioè «il terrore sponsorizzato dallo Stato e imputato alla sinistra». In piena guerra fredda, subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, la Cia e la britannica Mi6 collaborarono assieme alla Nato nell’Operazione Gladio per creare un esercito clandestino, o “stay behind”, al fine di combattere il comunismo nel caso di una invasione sovietica dell’Europa occidentale. Ben presto, però, la rete difensiva anti-Urss si trasformò in un esercito terrorista incaricato di intimidire l’opinione pubblica dell’Europa occidentale.
    «Gladio – precisano Watson e Jones – trascese rapidamente la sua missione originaria e divenne una rete terroristica segreta composta da milizie di destra, elementi della criminalità organizzata, agenti provocatori e unità militari segrete». Le forze armate “stay behind” erano attive in Francia, Belgio, Danimarca, Paesi Bassi, Norvegia, Germania, e Svizzera. La “strategia della tensione”, quella che straziò l’Italia per due decenni, «venne progettata per far figurare i gruppi politici di sinistra europei come terroristici e per spaventare la popolazione, inducendola così a votare per governi autoritari». Dalla bomba di piazza Fontana a quella dell’Italicus, dai misteri del sequestro Moro (eseguito dalle Brigate Rosse ma “assistito” da una rete invisibile di protezione, anche all’insaputa degli stessi brigatisti), fino alla strage della stazione di Bologna: un retroterra torbido, popolato da servizi segreti molto opachi, infiltrati da organismi come la P2 di Licio Gelli, potente loggia massonica “deviata”, in collaborazione con gruppi neofascisti (Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale), impiegati come manovalanza per le stragi. In ultima analisi, rilevano Watson e Jones, l’Operazione Gladio «ha causato la morte di centinaia di persone in tutta Europa». Secondo Vincenzo Vinciguerra, ex terrorista di Gladio all’ergastolo per l’assassinio di un poliziotto, la ragione di “stay behind” era semplice: l’organizzazione era stata progettata «per costringere la gente, i cittadini italiani, a pretendere dallo Stato maggiore sicurezza. Questa è la logica politica che sta dietro tutte le stragi e gli attentati che restano impuniti, perché lo Stato non può condannare se stesso o dichiararsi responsabile di quanto è accaduto».
    Alla guerra segreta contro il regime comunista di Fidel Castro a Cuba appartiene invece l’Operazione Northwood: nell’ambito dell’Operazione Mangusta della Cia, «lo stato maggiore Usa propose all’unanimità di realizzare azioni terroristiche sponsorizzate dallo Stato all’interno degli Stati Uniti». Il piano, aggiungono Watson e Jones, «prevedeva l’abbattimento di aerei americani dirottati, l’affondamento di navi americane e l’uccisione di cittadini americani, a colpi di arma da fuoco, per le strade di Washington». Lo scandaloso piano «includeva anche lo scenario di un disastro alla Nasa, che prevedeva la morte dell’astronauta John Glenn». Il presidente John Fitzgerald Kennedy, ancora vacillante dopo l’imbarazzante fallimento della Cia per l’invasione di Cuba alla Baia dei Porci, «respinse il piano nel marzo del 1962». E pochi mesi dopo, lo stesso Kennedy «negò all’autore del piano, il generale Lyman Lemnitzer, un secondo mandato come militare di rango più alto della nazione». Poco dopo, nel novembre del 1963, Kennedy fu assassinato a Dallas, in Texas.
    Si chiama invece “Fast and Furious” l’operazione in cui «il governo Obama ha fornito armi ai signori messicani della droga con l’apparente scopo di seguirne le tracce al fine di distruggere le gang». Secondo Watson e Jones, «era in realtà parte di un piano cospirativo per demonizzare il secondo emendamento», cioè il diritto del cittadino americano di portare armi. I documenti ottenuti da “Cbs News” nel dicembre 2011 dimostrano che gli agenti speciali dell’Atf avevano discusso su come avrebbero potuto collegare le armi coinvolte nelle violenze in Messico ai negozianti di armi degli Stati Uniti, al fine di far approvare normative più restrittive sul controllo delle armi. Una fonte della polizia ha detto a “Cbs News” che le email indicano che l’Atf ha “montato” il caso, come parte di una manovra politica: «È come se l’Atf avesse creato o incrementato il problema, in modo da poter essere proprio lei a fornire la soluzione». Quanto alla droga, i narcos non sono solo messicani o colombiani: la stessa Cia «è stata implicata in operazioni di traffico di droga in tutto il mondo, anche a livello nazionale, in particolare durante l’affare Iran-Contras».
    «Con la benedizione della Cia», i miliziani che dall’Honduras contrastavano i guerriglieri di dinistra del Salvador e del Nicaragua «contrabbandarono negli Stati Uniti cocaina che venne poi distribuita come droga di prima qualità a Los Angeles, e i cui profitti furono poi versati ai Contras». Michael Ruppert, allora agente della polizia di Los Angeles, ha anche testimoniato di aveva assistito al traffico di droga della Cia. «I boss della droga messicani, come Jesus Vicente Zambada Niebla, hanno perfino dichiarato pubblicamente di esser stati ingaggiati dal governo Usa per operazioni di traffico di droga». Per Watson e Jones, «c’è un voluminoso corpo di prove che conferma che la Cia e i giganti bancari degli Stati Uniti sono i maggiori players in un commercio mondiale di droga del valore di centinaia di miliardi di dollari l’anno», come confermano anche le informazioni pubblicate da svariati osservatori, tra cui Gary Webb, su autorevoli blog d’inchiesta come “Prison Planet”. Banchieri e droga? Sì, e anche sigarette: secondo la Bbc, le aziende americane del tabacco sono state “prese con le mani nel sacco” nell’ingegnerizzare deliberatamente le “bionde”, additivandole con prodotti chimici che ne incrementano artificialmente la dipendenza. Per Clive Bates, direttore di “Ash” (Action on Smoking and Health), la scoperta ha messo alla luce «uno scandalo in cui le aziende del tabacco deliberatamente utilizzano additivi per rendere i loro dannosi prodotti ancora peggiori».
    Poi c’è lo sterminato capitolo dello spionaggio, fino alla sorveglianza di massa dell’National Security Agency. «Negli anni ‘90, quando gli attivisti anti-sorveglianza e i personaggi dei media stavano mettendo in guardia sulla vasta operazione di spionaggio della Nsa, vennero trattati come teorici paranoici della cospirazione», riordano Watson e Jones. «Ben più di un decennio prima delle rivelazioni di Snowden», l’agenzia di intelligence «era impegnata a intercettare e registrare tutte le comunicazioni elettroniche di tutto il mondo nel quadro del programma “Echelon”». Sorveglianza globale: “Echelon” era in grado di intercettare «ogni chiamata internazionale via telefono, fa, e-mail o trasmissione radio del pianeta». Nel 1999, il governo australiano ha ammesso di farvi parte, assieme a Stati Uniti e Gran Bretagna. In cabina di regia, già allora, c’era la Nsa. Un dossier del Parlamento Europeo risalente al 2001 afferma: «In Europa, tutte le comunicazioni e-mail, telefono e fax sono regolarmente intercettate», dall’agenzia smascherata da Snowden.
    Vastissimo, infine, il capitolo delle morti in apparenza accidentali. Non è solo cinema: nell’arsenale degli 007, anche il “dardo invisibile” che provoca l’infarto cardiaco. Ne parlò il Senato degli Usa già nel 1975, durante una testimonianza sulle attività illegali della Cia: «Fu rivelato che l’agenzia aveva sviluppato un’arma a dardi che causa un attacco di cuore». Nella prima udienza televisiva, svolta nella sala Caucus del Senato, intervenne Frank Church, senatore dell’Idaho e presidente della commissione d’inchiesta sul caso Watergate. «Church mostrò una pistola a dardi velenosi della Cia, rivelando così che la commissione era venuta a conoscenza del fatto che l’agenzia aveva violato un ordine presidenziale diretto, conservando uno stock di tossine di molluschi che sarebbe stato sufficiente a uccidere migliaia di persone», come conferma ancora oggi una pagina web del sito ufficiale del Senato statunitense. Il veleno penetra nel sangue e provoca l’arresto cardiaco. Al massimo, la vittima percepisce il fastidio di una puntura di zanzara. Veleno micidiale e invisibile: tutto ciò che resta è un puntino rosso sulla pelle. «Una volta che il danno è fatto, il veleno denatura rapidamente, in modo che nell’autopsia è molto improbabile rilevare che l’infarto è stato provocato da qualcosa di diverso da cause naturali».

    Forse, la prima vera operazione “false flag” dell’epoca moderna fu “l’incidente di Gleiwitz”, provocato dai nazisti nel 1939 vicino alla frontiera orientale: indossate le uniformi dell’esercito polacco, unità delle SS attaccarono una stazione radio tedesca per poi dare la colpa alla Polonia. Durante il blitz, le SS trasmisero un breve messaggio di propaganda in polacco. Poi uccisero dei prigionieri di un campo di concentramento vestiti con uniformi polacche e li lasciarono sulla scena, per far apparire l’incidente come un atto di aggressione progettato da Varsavia. Il giorno successivo, quando la Germania invase il paese confinante dando inizio alla Seconda Guerra Mondiale, Hitler citò l’episodio come uno dei pretesti. Nove giorni prima dell’incidente, Hitler aveva detto ai suoi generali: «Provvederò a un casus belli per la propaganda. La sua credibilità non ha importanza. Al vincitore non verrà chiesto se ha detto la verità». Anche se il termine “teoria del complotto” è diventato un dispregiativo usato contro chiunque metta in discussione la versione ufficiale degli eventi, innumerevoli esempi in tutta la storia delle cospirazioni hanno confermato i peggiori sospetti.

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