Archivio del Tag ‘Thomas Piketty’
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La nostra economia difettosa è progettata solo per i ricchi
Esistono diverse teorie economiche, ma ancor prima di ciò esistono classi sociali di cui gli economisti – ben lungi dall’essere scienziati apolitici – difendono gli interessi consolidati. E’ questa, purtroppo, l’evidenza che è emersa nel dibattito scatenato dal libro di Thomas Piketty “Capital in the Twenty-First Century”, nel quale si mettono in evidenza le ragioni e i pericoli delle disuguaglianze, le distorsioni conseguenti la crescita delle rendite e l’ingiustizia insita nell’ereditarietà del capitale. L’esempio migliore di questo bias classista lo fornisce Gregory Mankiw, noto economista conservatore ed autore di uno dei manuali di economia più diffusi. In un recente articolo per il “New York Times”, Mankiw ha cercato di demolire la tesi di Piketty: «Poiché il capitale è soggetto a rendimenti decrescenti, un aumento della sua offerta causa il fatto che ogni unità di capitale renda di meno. E poiché l’aumento del capitale aumenta la produttività del lavoro, i lavoratori godono di salari più alti».«In altre parole, risparmiando invece di spendere, chi lascia una proprietà agli eredi causa una redistribuzione non intenzionale dei redditi da altri proprietari di capitali verso i lavoratori. La morale della favola è che la ricchezza ereditata non è una minaccia economica. Coloro che hanno conseguito proventi straordinari naturalmente vogliono condividere la loro fortuna con i loro discendenti. Quelli di noi che non hanno la fortuna di nascere in una di queste famiglie ne beneficiano comunque, poiché la loro accumulazione di capitale aumenta la nostra produttività, i salari e il tenore di vita». E’ evidente però che non è questo che è accaduto negli ultimi decenni. Nonostante gli incrementi di produttività, i salari reali sono rimasti stagnanti. Il che significa semplicemente che la quota di ricchezza aggiuntiva prodotta è andata sempre più alle altre classi sociali e non ai lavoratori, in particolare a quell’1% contro il quale nacque il movimento “Occupy Wall Street”.Mankiw non fa altro che ripetere la ben nota ideologia della “trickle-down economics”. E’ però interessante scoprire perché, nonostante l’evidenza contraria, un economista può ancor oggi permettersi di sostenere la tesi secondo la quale l’arricchimento dei più abbienti ha un riflesso positivo sui lavoratori. Cosa c’è nella teoria economica che giustifica questo risultato così in contrasto con la realtà? Lo spiega bene Peter Domar, economista e autore del noto blog “Econospeak”. Affinché sia vero quanto sostenuto da Mankiw, devono infatti essere verificate numerose e improbabili condizioni. In particolare, l’aumento dell’offerta di capitale deve rendere tale fattore della produzione meno remunerativo. Un’ipotesi che nel secolo delle tecnologie di rete diventa ogni giorno sempre meno vera: ad esempio, entro un margine molto ampio, ogni antenna di telefonia mobile installata da un operatore rende tutto il capitale di antenne già installate più redditizio, poiché permette di raggiungere più clienti che potranno telefonare ai clienti dei territori già coperti. Lo stesso discorso vale per molti altri servizi a rete e per il software.E non basta. Affinché Mankiw abbia ragione occorre ipotizzare anche: che i fattori produttivi siano pienamente impiegati (ovvero che non vi sia disoccupazione dei lavoratori e sottoutilizzazione degli impianti); che il maggiore risparmio abbassi il tasso di interesse stimolando così l’investimento (il modello che Keynes smonta nella Teoria Generale); che tutti gli atti di risparmio e investimento si verifichino all’interno dello stesso sistema economico (per esempio, i ricchi non guadagnano proventi da investimenti all’estero); che non vi siano esternalità non compensate ad incrementare “ingiustamente” i margini di guadagno delle imprese (si pensi all’inquinamento); che non vi siano monopoli tecnologici e anzi che non vi sia alcun cambiamento tecnologico, in quanto altererebbe le produttività marginali del lavoro e del capitale. Insomma, Mankiw non sta parlando del mondo reale, ma di quello immaginario descritto dai manuali di economia. Come il suo.(“Le fallacie dell’economia per i ricchi”, da “Keynesblog” del 15 luglio 2014).Esistono diverse teorie economiche, ma ancor prima di ciò esistono classi sociali di cui gli economisti – ben lungi dall’essere scienziati apolitici – difendono gli interessi consolidati. E’ questa, purtroppo, l’evidenza che è emersa nel dibattito scatenato dal libro di Thomas Piketty “Capital in the Twenty-First Century”, nel quale si mettono in evidenza le ragioni e i pericoli delle disuguaglianze, le distorsioni conseguenti la crescita delle rendite e l’ingiustizia insita nell’ereditarietà del capitale. L’esempio migliore di questo bias classista lo fornisce Gregory Mankiw, noto economista conservatore ed autore di uno dei manuali di economia più diffusi. In un recente articolo per il “New York Times”, Mankiw ha cercato di demolire la tesi di Piketty: «Poiché il capitale è soggetto a rendimenti decrescenti, un aumento della sua offerta causa il fatto che ogni unità di capitale renda di meno. E poiché l’aumento del capitale aumenta la produttività del lavoro, i lavoratori godono di salari più alti».
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Guido Rossi: conta solo il denaro, la democrazia è finita
omo del regime economico, non solo italiano ma europeo, che ci condiziona dagli anni ‘80», da quando cioè i mercati sono diventati «il valore di riferimento», e il denaro «la misura di tutte le cose». Tutto è denaro, quindi ogni bene pubblico è privatizzabile. Con tanti saluti allo Stato di diritto.C’è un sistema ideologico alla base delle politiche economiche, accusa Rossi in un editoriale sul “Sole 24 Ore” ripreso da “Micromega”: «Un erroneo concetto di libertà ha fatto sì che le scuole, gli ospedali e persino le prigioni possano essere privatizzate a scopo di lucro. E se così è, perché non dovrebbe essere, allo stesso scopo, privatizzato anche ogni ufficio pubblico?». Questo sistema, continua Rossi, ha creato due conseguenze parallele: «Le ineguaglianze, delle quali ha dato un’impareggiabile recente documentazione il tanto discusso libro di Thomas Piketty “Le capital au XXI siècle”», e naturalmente «la corruzione, sia nel settore pubblico sia in quello privato». Secondo la “London Review of Books”, che parla di “Disastro italiano”, l’Italia in Europa non è un caso anomalo, ma piuttosto una sorta di concentrato, visto che «la manipolazione da parte dei poteri esecutivi nei confronti dei legislativi e la generale involuzione e crisi delle classi politiche causano un silenzioso deficit di democrazia, alimentato da una quasi assoluta scarsità di mezzi di informazione indipendenti e con un aumento della corruzione».Un panorama impressionante in tutti i paesi: dalla Germania di Helmut Kohl, indiscusso cancelliere per 16 anni, che ricevette due milioni di marchi tedeschi in fondi neri, «rifiutandosi di rivelare il nome dei donatori per timore che emergessero i favori che avevano ricevuto in cambio», alla Francia di un altro super-potente, il presidente Jacques Chirac, in sella per 12 anni, che a fine mandato (cessata l’immunità) fu accusato di abuso d’ufficio, peculato e conflitto di interessi. Clamoroso, ancora in Germania, il governo del socialdemocratico Gerhard Schröder, che garantì un prestito da un milione di euro a Gazprom per creare una pipeline nel Baltico, «poche settimane prima che lo stesso cancelliere, terminato il mandato, diventasse consulente di Gazprom a un compenso molto maggiore di quello fino a quel momento ricevuto per governare il paese». Dalla Grecia alla Spagna non si salva nessuno. Spiccano, in Gran Bretagna, i favori elargiti alla Faith Foundation di Tony Blair, il rottamatore della sinistra inglese.«Le diseguaglianze dovute all’abnorme concentrazione in poche mani della ricchezza e le varie forme di corruzione sono indissolubilmente legate», sottolinea Guido Rossi, e costituiscono «la conseguenza principale e più grave dell’intreccio ormai inevitabile fra politica ed economia». Non è un caso che questo intreccio, nelle ideologie contemporanee, diventi inestricabile, al punto che le stesse istituzioni politiche ancora formalmente democratiche «diventino a loro volta causa ed effetto delle diseguaglianze e della corruzione». Non ne sono immuni neppure gli Usa, dove si sta erodendo una Costituzione nata per «assicurare l’indipendenza del governo federale da chiunque non fosse il solo popolo», secondo le famose parole di James Madison. Nel suo libro-denuncia del 2011 sulla “Repubblica perduta” (“Republic, Lost: How Money Corrupts Congress – And a Plan to Stop It”), Lawrence Lessig spiega che la “gift economy” americana prevede uno scambio corruttivo fatto di «favori e rapporti», innescando un conflitto istituzionale che minaccia la democrazia americana, secondo il grande filosofo Ronald Dworkin. Nel 2010 e poi il 2 aprile 2014, infatti, la Corte Suprema ha riconosciuto il diritto costituzionale di «finanziare candidati e campagne elettorali senza limiti alle somme di denaro profuse».Di conseguenza, secondo Lessig, il denaro «è diventato il problema della politica americana e la radice di ogni altro male, che avvelena la fiducia del cittadino nel governo e nella democrazia, divenuta una sorta di sciarada». Così, osserva Rossi, emerge «un virus distruttivo delle democrazie, che induce i tre poteri dello Stato a confrontarsi fra loro nel tentativo di combattere senza successo la corruzione pubblica, che anche quando viene individuata rimane senza sanzione», confermando l’intreccio tra politica e affari. «Né i grandi banchieri né i politici corrotti sono di norma puniti con la reclusione, perché entrambi sono, secondo l’espressione americana, “too big to jail” (troppo importanti per la galera)». E’ così che, lentamente, soccombe il potere che più di ogni altro dovrebbe combattere le disuguaglianze: la giustizia. La mondializzazione tende a privatizzare anche quella: «Le sanzioni contro la corruzione internazionale delle grandi multinazionali globalizzate sono comminate con il versamento di cospicue somme di danaro, attraverso accordi con organismi del potere esecutivo e delle agenzie indipendenti (Doj, Sec), con una giustizia negoziata e privatizzata, secondo la perversa ideologia in voga».In questo modo, «la repressione della corruzione delle grandi società viene definita al di fuori delle autorità giurisdizionali, attraverso una collaborazione interna e un’autodichiarazione di colpevolezza da parte delle società che, pur di evitare la giustizia penale, pericolosa sotto ogni aspetto, anche quello reputazionale, preferiscono dichiararsi colpevoli e collaborare utilizzando complessi sistemi di indagini interne». Si chiamano “accordi di giustizia”, e sono semplici trattative. Senza più una vera giustizia, la corruzione pubblica e privata incoraggiata dalla deregulation continua a dilagare, senza freni, assumendo forme «di apparente legalità, difficilmente sanzionabili». Così, per Rossi, «la lotta contro le disuguaglianze e le corruzioni, pubbliche e private, illegali o elusive, deve essere ormai considerata il principale obiettivo per far sopravvivere le società che le corrette idee del passato, prima della loro disgregazione, ci avevano consegnato attraverso la tutela dei diritti dei cittadini».Plutocrazia, tutto il potere all’élite dei più ricchi. Se ormai conta solo il denaro – ed è quello a decidere chi sale e chi scende, chi vince e chi perde – possiamo dire addio alla politica, alla giustizia e alla stessa democrazia dei diritti. La corruzione dilagante? E’ solo una naturale conseguenza, in un mondo degradato dallo strapotere del denaro, immense ricchezze nelle mani di pochi oligarchi. Ne è convinto Guido Rossi, economista italiano e storico “controllore” della Consob, l’agenzia di vigilanza borsistica. La corruzione dilagante, che ha ormai «permeato tutta la vita politica, economica e sociale del nostro paese», segnando l’evidente «declino dell’ordine e delle istituzioni politiche», è un vero e proprio «sintomo del regime economico, non solo italiano ma europeo, che ci condiziona dagli anni ‘80», da quando cioè i mercati sono diventati «il valore di riferimento», e il denaro «la misura di tutte le cose». Tutto è denaro, quindi ogni bene pubblico è privatizzabile. Con tanti saluti allo Stato di diritto.