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Mishra: l’età della rabbia, nell’Occidente senza più futuro
Un’arma letale nel cuore e nella mente di una gioventù cosmopolita smarrita e senza radici, in cerca di un senso alla sua esistenza, mentre scivoliamo verso quella che probabilmente sarà la più lunga tra le guerre mondiali. Ogni tanto ecco che esce un libro che strappa e rapisce lo spirito del tempo, che risplende con un diamante pazzo: “L’età della Rabbia” (The Age of Anger) di Pankaj Mishra, autore del ‘precursore’ “Dalle rovine dell’Impero”, potrebbe anche essere l’ultimo avatar. Considerate questo libro come l’ultima (concettualmente parlando) arma letale nei cuori e nelle menti di una gioventù smarrita cosmopolita alla ricerca di una vera ‘chiamata’, mentre scivoliamo verso la più lunga (“infinita”, direbbe il Pentagono) tra le guerre mondiali, una guerra civile globale (che nel mio libro del 2007 “Globalistan” definivo “guerra liquida”). In sostanza, Mishra (prodotto perfetto dell’Est che incontra l’Ovest) sostiene che è impossibile comprendere il presente se prima non riconosciamo quel malessere nostalgico di fondo che contraddice l’ideale del liberalismo cosmopolita – «la società commerciale cosmopolita di individui razionali egoisti» concettualizzata originariamente dall’Illuminismo di Montesquieu, Adam Smith, Voltaire e Kant.Alla fine il vincitore nella Storia è uno sterile concetto di bonario Illuminismo. Nella norma, avrebbero dovuto prevalere il razionalismo, l’umanesimo, l’universalismo e la democrazia liberale. Ma sarebbe stato «chiaramente troppo sconcertante», scrive Mishra, «riconoscere che la politica totalitaria abbia cristallizzato le correnti ideologiche (razzismo scientifico, razionalismo sciovinista, imperialismo, tecnicismo, politica estetizzata, ingegnerie sociali)» che già scuotevano l’Europa alla fine del 19 ° secolo. Quindi, evocando T.S. Eliot, per poter inquadrare «quel mezzo sguardo all’indietro, sopra la spalla, verso il terrore primivito» che alla fine ha condotto all’Ovest contro il Resto del Mondo, dobbiamo tornare ai precursori. “Distruggi il palazzo di cristallo”. Prendete Pushkin, “Eugene Onegin”, «il primo di molti ‘uomini superflui’ della narrativa russa», con il suo cappello Bolivar, che tiene stretti a sé una statua di Napoleone e un ritratto di Byron, come la Russia, che tenta di recuperare il suo ritardo con l’Occidente, «gioventù senza radici, prodotto di massa con una concezione quasi “byroniana” di libertà, gonfiata ulteriormente dal romanticismo tedesco».I migliori critici dell’Illuminismo dovevano per forza essere tedeschi o russi, in ritardo nella modernità politico-economica. Dostoevsky: la società dominata dalla guerra di tutti contro tutti, dove la maggioranza era condannata a perdere. Due anni prima di pubblicare il sorprendente “Memorie dal Sottosuolo” Dostoevskij, durante il suo viaggio in Europa occidentale, aveva già osservato una società dominata da una guerra di tutti contro tutti, dove la maggior parte era condannata a perdere. A Londra, nel 1862, al Salone Internazionale al Crystal Palace, Dostoevskij ebbe un’illuminazione («E ti arriva un’idea colossale…che il trionfo e la vittoria erano lì. Quasi inizi a temere qualcosa»). Per quanto stupito, Dostoevskij fu molto acuto nell’osservare quanto la civiltà materialista si nutrisse non solo del suo proprio fascino, ma anche della sua potenza militare e marittima.La letteratura russa finì con il cristallizzare il crimine casuale come il paradigma dell’individualità che assapora l’identità e afferma la propria volontà (che poi ritroviamo nel 20° secolo nell’icona beat William Burroughs, il quale sosteneva che sparare a caso sulla folla fosse per lui il massimo del brivido). La pista era aperta: le orde di “mendicanti dissoluti” (Beggars Banquet) potevano iniziare a bombardare il Crystal Palace – anche se, ci ricorda Mishra, «gli intellettuali al Cairo, a Calcutta, a Tokyo e a Shanghai leggevano Jeremy Bentham, Adam Smith, Thomas Paine, Herbert Spencer e John Stuart Mill», per comprendere il segreto in eterna espansione della borghesia capitalistica. E questo dopo che Rousseau, nel 1749, aveva posto la prima pietra della rivolta moderna contro la modernità, ora ridotta in mille schegge, in un deserto di echi contrastanti, mentre ritroviamo il Crystal Palace riflesso in mille ghetti luccicanti in tutto il mondo.“Illuminato: sei morto”. Mishra attribuisce l’idea del suo libro a Nietzsche che commentava l’epica querelle tra l’invidioso plebeo Rousseau e il sereno aristocratico Voltaire – il quale salutò la London Stock Exchange, quando divenne pienamente operativa, come una realizzazione secolare dell’armonia sociale. Ma alla fine fu Nietzsche che si oppose in maniera esemplare, come feroce detrattore sia del capitalismo liberale che del socialismo, rendendo l’allettante promessa di Zarathustra un magnetico Santo Graal agli occhi dei bolscevichi (Lenin, tuttavia, lo detestava), della sinistra di Lu Xun in Cina, dei fascisti, degli anarchici, delle femministe e delle orde di esteti scontenti. Mishra ci ricorda anche come «gli antimperialisti asiatici e i baroni ladroni americani hanno attinto a piene mani da Herbert Spencer, il primo pensatore veramente globale», che dopo aver letto Darwin coniò il mantra della “sopravvivenza del più adatto”. Nietzsche fu l’ultimo cartografo del Risentimento. Max Weber inquadrò profeticamente il mondo moderno come una “gabbia di ferro” da cui può sfuggire solo un leader carismatico. E l’icona anarchica Michail Bakunin, da parte sua, nel 1869 aveva già concettualizzato il “rivoluzionario” come colui che recide «ogni legame con l’ordine sociale e con l’intero mondo civilizzato… Lui è il suo nemico più spietato e continua ad esistere per un unico scopo: distruggerlo».Sfuggendo all’Incubo della Storia del Modernista Supremo James Joyce – dalla gabbia di ferro della modernità, appunto – è scoppiata in modo incontrollato e ben al di fuori dei confini dell’Europa una secessione militante viscerale, «da una civiltà fondata sul progresso graduale controllato da fiduciari liberal-democratici». Ideologie anche radicalmente contrarie sono comunque sorte in simbiosi dal vortice culturale del tardo 19° secolo, dal fondamentalismo islamico al sionismo, dal nazionalismo indù al bolscevismo, dal nazismo al fascismo e al rinnovato imperialismo. Non solo la seconda guerra mondiale, ma anche l’attuale finale di partita è stato brillantemente visualizzato nel 1930 dal tragico Walter Benjamin, quando già metteva in guardia contro l’auto-alienazione del genere umano, finalmente in grado di «provare nella propria distruzione il massimo piacere estetico possibile». Gli jihadisti di oggi in streaming fai-da-te non sono altro che la sua versione pop, mentre l’Isis tenta di proporsi come negazione estrema delle miserie della modernità (neo-liberale).“L’era del Risentimento”. Tessendo flussi coloriti di politica e di impollinazioni incrociate letterarie, Mishra si prende il suo tempo per impostare la scena del Grande Dibattito tra quelle masse del mondo in via di sviluppo – la cui esistenza è stata etichettata dall’Occidente Atlantista («storie di violenza ancora largamente riconosciuta») e dalle élite della modernità liquida (Bauman) che hanno ceduto alla quella selezionata parte del mondo a cui si attribuiscono, dopo l’Illuminismo, le più grandi scoperte e innovazioni scientifiche, filosofiche, artistiche e letterarie. Questo va ben al di là di un semplice dibattito tra Est e Ovest. Non riusciremo a comprendere l’attuale guerra civile globale, questo «mix intenso di invidia e senso di umiliazione ed impotenza» post-modernista, e post-verità, se non tentiamo di «smantellare l’architettura concettuale e intellettuale dell’Occidente vincitore nella storia», che deriva dalla storia ipertrionfalista dei successi americani. Anche al culmine della guerra fredda, il teologo statunitense Reinhold Niebuhr si beffava dei «tiepidi fanatici della civiltà occidentale» e della loro fede cieca nel fatto che ogni società è destinata ad evolversi come hanno fatto, a volte, una manciata di paesi occidentali. E questo – ironia! – mentre il culto liberale internazionalista del progresso scimmiottava platealmente il sogno marxista della rivoluzione internazionale.(Pepe Escobar, “L’erà della rabbia”, da “Asia Times” del 4 febbraio 2017, tradotto da “Skoncertata63” per “Come Don Chisciotte”).Un’arma letale nel cuore e nella mente di una gioventù cosmopolita smarrita e senza radici, in cerca di un senso alla sua esistenza, mentre scivoliamo verso quella che probabilmente sarà la più lunga tra le guerre mondiali. Ogni tanto ecco che esce un libro che strappa e rapisce lo spirito del tempo, che risplende con un diamante pazzo: “L’età della Rabbia” (The Age of Anger) di Pankaj Mishra, autore del ‘precursore’ “Dalle rovine dell’Impero”, potrebbe anche essere l’ultimo avatar. Considerate questo libro come l’ultima (concettualmente parlando) arma letale nei cuori e nelle menti di una gioventù smarrita cosmopolita alla ricerca di una vera ‘chiamata’, mentre scivoliamo verso la più lunga (“infinita”, direbbe il Pentagono) tra le guerre mondiali, una guerra civile globale (che nel mio libro del 2007 “Globalistan” definivo “guerra liquida”). In sostanza, Mishra (prodotto perfetto dell’Est che incontra l’Ovest) sostiene che è impossibile comprendere il presente se prima non riconosciamo quel malessere nostalgico di fondo che contraddice l’ideale del liberalismo cosmopolita – «la società commerciale cosmopolita di individui razionali egoisti» concettualizzata originariamente dall’Illuminismo di Montesquieu, Adam Smith, Voltaire e Kant.
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Apocalisse Abruzzo, il Giappone sovrano invece è già risorto
Centinaia di vittime, migliaia di persone isolate dalla neve, rimaste al freddo e al buio. E il governo costretto a implorare Bruxelles per poter ampliare di qualche decimale la spesa, in modo da metter qualche toppa nell’immane catastrofe del terremoto, che fa da sfondo alle mille sciagure che stanno martoriando l’Italia centrale. Ma c’è un paese che ha patito l’apocalisse, un disastro cento volte maggiore, e ne è uscito a tempo di record: il Giappone. Come ha fatto? Semplice: disponendo di moneta sovrana. E’ tutta lì la differenza, scrive Paolo Barnard, ricordando che venerdì 11 marzo 2011, a colpire il paese del Sol Levante fu forse il più devastante terremoto della storia moderna: 15.000 morti accertati, più 5.000 feriti e altrettanti “dispersi”, sepolti dalle macerie o inghiottiti dallo tsunami. Altrettanto spaventosi i danni all’economia nazionale, pari ad almeno 250 miliardi di dollari, tanto da farne la catastrofe naturale più costosa di sempre, come scrisse il “New York Times”. La reazione del governo di Tokyo? Fulminea: grazie a quasi 200 miliardi immediatamente m messi a disposizione del paese, emessi dalla banca centrale.Appena 60 ore dopo quell’olocausto, scrive Barnard nel suo blog, i servizi idrici ed elettrici furono ristabiliti per il 98% della zona colpita. E 72 ore dopo la tragedia la Banca del Giappone iniettò 181 miliardi di dollari di denaro di Stato nella casse delle banche giapponesi come stop immediato a un tracollo finanziario. «Con una ricostruzione stimata sui 128 miliardi di dollari, il governo giapponese si accordò con l’opposizione per un esborso totale di 230 miliardi di dollari», ricorda Barnard. «Per compensare le vittime del disastro nucleare causato dal sisma nella centrale di Fukushima, il governo di Tokyo sborsò 20,6 miliardi di dollari alla Tokyo Electric Power Company, l’azienda responsabile della centrale». Tutto questo fu possibile perché il governo nipponico «non doveva chiedere il permesso a Bruxelles per spendere».In altre parole, «non doveva belare a Bruxelles che c’erano degli umani che crepavano». Non c’era bisogno di invocare la pietà di nessuno, perché «il Giappone è sovrano nella spesa per l’Interesse Pubblico, non prende ordini da Juncker». Ma gli italiani, che – annota Barnard – ha «scongiurato per anni di capire che la loro vita non è appesa ai 104 indagati del Pd, a Mafia Capitale, a Grillo», non hanno capito che la loro sopravvivenza reale «è appesa alla sovranità di Stato per l’interesse pubblico», basata sulla possibilità teoricamente illimitata di emettere denaro all’occorrenza, quanto basta per tenere in piedi la nazione, evitando di aggiungere dolore alla tragedia. «Ci hanno mai premiati», gli italiani? «No», commenta Barnard, con amarezza, dopo aver lottato per anni contro la “dittatura” dell’Eurozona. «Ci hanno uccisi regalandoci ascolti del 1,2% in Tv, e anche meno», scrive, alludendo alle sue (sofferte) partecipazioni al programma “La Gabbia”, condotto su La7 da Gianluigi Paragone. «E allora “buon Abruzzo”, Italians», conclude Barnard, con una citazione storica presa in prestito dalla Rivoluzione Francese: «“Hai i diritti per cui sei stato capace di lottare”, disse quell’uomo in Francia nel 1789».Centinaia di vittime, migliaia di persone isolate dalla neve, rimaste al freddo e al buio. E il governo costretto a implorare Bruxelles per poter ampliare di qualche decimale la spesa, in modo da metter qualche toppa nell’immane catastrofe del terremoto, che fa da sfondo alle mille sciagure che stanno martoriando l’Italia centrale. Ma c’è un paese che ha patito l’apocalisse, un disastro cento volte maggiore, e ne è uscito a tempo di record: il Giappone. Come ha fatto? Semplice: disponendo di moneta sovrana. E’ tutta lì la differenza, scrive Paolo Barnard, ricordando che venerdì 11 marzo 2011, a colpire il paese del Sol Levante fu forse il più devastante terremoto della storia moderna: 15.000 morti accertati, più 5.000 feriti e altrettanti “dispersi”, sepolti dalle macerie o inghiottiti dallo tsunami. Altrettanto spaventosi i danni all’economia nazionale, pari ad almeno 250 miliardi di dollari, tanto da farne la catastrofe naturale più costosa di sempre, come scrisse il “New York Times”. La reazione del governo di Tokyo? Fulminea: grazie a quasi 200 miliardi immediatamente m messi a disposizione del paese, emessi dalla banca centrale.
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Da Draghi carta straccia, conti azzerati solo con una guerra
Come si sa, Mario Draghi ha scelto la strada del rimedio estremo: prestiti a interessi zero in rate da 80 miliardi al mese, nella speranza di riattivare il ciclo consumi-profitti-investimenti-occupazione. Ma possiamo già dire con tranquillità che così non sarà, salvo un breve momento di miglioria passeggera. E non sarà così perché i signori banchieri (e finanzieri in generale) continueranno ad investire il denaro in altri impieghi finanziari, concedendo i crediti per aziende e famiglie con il contagocce e comunque con interessi esosi. E questo per la semplice ragione che nelle attuali condizioni dei “mercati” finanziari (se è lecito chiamare “mercati” le bische). Il denaro tende a non uscire dal gioco finanziario: la Banca X acquista denaro a bassissimo interesse dalla Bce, (poniamo lo 0,25% e, adesso, a costo zero) e lo re-investe per acquistare titoli della finanziaria Y al 2,75% mettendosi in tasca la differenza, la finanziaria Y usa il denaro così ottenuto per comprare oro nella previsione di un suo aumento dalla società Z che a sua volta compera titoli di Sto giapponesi perché pensa che l’oro non salirà ed è più vantaggioso investire nel debito di Tokyo. E così all’infinito.Il segnale è l’assenza di inflazione in presenza di immissione di liquidità: una sindrome economica già studiata e si chiama “momento Minsky” dal nome dell’economista che la analizzò formulandole la legge sottostante. Nel tempo della globalizzazione neoliberista il denaro tende stabilmente a non uscire dai circuiti finanziari, con la conseguenza che le immissioni di liquidità non fanno che gonfiare la bolla credito-debito attraverso il meccanismo degli interessi. Ma con una deadline: i crack a catena dei più deboli quando risulti loro impossibile pagare gli interessi, perché la loro esposizione scoraggi anche l’ investitore più spericolato a rifinanziare il debito in scadenza. Quello che non va è il sistema, in permanenza del quale la crisi si cronicizza. Non c’è una via di uscita? Non è esatto, se il sistema permane e con esso la crisi, una via di uscita c’è: una guerra generalizzata. La guerra è un grande consumo di risorse a fondo perduto ed impone una ricostruzione che risucchia risorse finanziarie.Che poi il conflitto debba avvenire in forme classiche e come conflitto generalizzato fra grandi potenze, con uso o meno di armi nucleari a bassa intensità, o, piuttosto, attraverso un a generalizzazione dei punti di crisi fra piccole e medie potenze o di guerriglie o guerre “anfibie” o forme di guerra coperta (come nel caso di Daesh), questo è altro discorso da esaminare in apposita occasione (e lo faremo). Quel che conta è che la permanenza dell’iper-capitalismo finanziario è orientato in questa direzione. Ora Draghi riuscirà a tappare la falla per un po’ ed a guadagnare una manciata di mesi, forse addirittura un paio di anni (dopo i quali, peraltro, sulla sua poltrona ci sarà altro banchiere), ma quando la scadenza si ripresenterà avremo finito le munizioni. Infatti, dopo una bordata del genere ed a interessi zero c’è solo il passaggio agli interessi negativi, ma, anche questo non correggerebbe i comportamenti. E di fronte a tutto questo c’è una protesta popolare sacro santa ma che non trova altro sbocco che l’impotente scelta populista. Chi manca all’appello è la sinistra, una vera sinistra che non sia quella di nome dei lacchè socialdemocratici o dai retori parolai della sinistra alla Tsipras, alla Vendola o Ferrero. Non è un gran rimedio dirlo, ma almeno rendiamocene conto.(Aldo Giannuli, “Interessi azzerati, la bordata della Bce di Mario Draghi”, dal blog di Giannuli del 18 marzo 2016).Una bella guerra mondiale, frontale, a suon di testate nucleari, oppure differita, a rate, in più scenari, come quella già in corso, con epicentro il Medio Oriente. Secondo Aldo Giannuli, è l’unica via d’uscita “tecnica” alla cosiddetta crisi della finanza pubblica, quella degli Stati con i conti in rosso, dopo che hanno permesso alla finanza internazionale di speculare sui debiti pubblici, un tempo “sovrani”. Come si sa, Mario Draghi ha scelto la strada del rimedio estremo: prestiti a interessi zero in rate da 80 miliardi al mese, nella speranza di riattivare il ciclo fatto di consumi, profitti, investimenti e occupazione. Ma sarà solo una breve tregua passeggera, «perché i signori banchieri (e finanzieri in generale) continueranno ad investire il denaro in altri impieghi finanziari, concedendo i crediti per aziende e famiglie con il contagocce e comunque con interessi esosi. E questo – sostiene Giannuli – per la semplice ragione che nelle attuali condizioni dei “mercati” finanziari (se è lecito chiamare “mercati” le bische) il denaro tende a non uscire dal gioco finanziario», impedendo così all’economia reale di riprendersi.
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Stiamo già uscendo dall’euro, creato per distruggerci
L’euro è una moneta unica che impedisce ai singoli paesi di avere sovranità monetaria e quindi di utilizzare la leva del cambio, ovvero di gestire i propri debiti pubblici in funzione di una spesa che deve servire per assorbire la disoccupazione e rilanciare lo sviluppo. Una moneta di egemonia, assolutamente. Le radici dell’euro sono il G7 di Tokyo del 1979, dove si è deciso che ciascun paese deve essere responsabile della propria bilancia dei pagamenti senza aiuti per i paesi deboli. Quindi si è rotto il principio di solidarietà. Poi c’è stata la netta separazione tra le banche centrali e i governi, per cui si privavano questi ultimi della possibilità di avere una spesa pubblica per investimenti, adeguata alle esigenze. Terzo: il momento in cui alla fine degli anni Ottanta i paesi europei accettano la riunificazione della Germania. In cambio della sostituzione della moneta si dovrà creare una moneta comune, al livello del marco. Dietro tutto questo c’era la necessità di deindustrializzare l’Italia, perché né Francia né Germania erano in grado di sostenere una competitività derivante dalle nostre capacità.Una sovranità monetaria e una leva del cambio insieme avrebbero creato difficoltà a tutti questi paesi. Come uscirne? Secondo me stiamo già uscendo dall’euro. Questo capitalismo che io chiamo ultra-finanziario, che massimizza le emissioni dei titoli – oggi nel mondo i titoli tossici sono 54 volte il Pil – e che concentra la liquidità dove non deve stare, cioè nelle attività finanziarie, e la rende scarsa dove deve stare, cioè per consumi e investimenti; questo tipo di economia finisce per essere talmente lontana dalla realtà, che la “realtà” stessa reagisce e reagirà ancora di più, emettendo una propria moneta. Moneta fiduciaria, dunque, sistemi di compensazione, di soluzione alternativa delle dispute economiche, eccetera. Tutto questo ci porterà fuori dall’euro. Chi potrebbe prendere l’iniziativa? Può essere che ci si metta d’accordo in qualche modo, e questa sarebbe la cosa ottimale. O potrebbe anche essere un processo conflittuale, con qualcuno che salta. Adesso c’è la situazione della Grecia che fa da pilota.La Grecia si sta già rivolgendo alla Russia per essere aiutata, ma le oligarchie europee non vogliono far vedere che sia possibile uscire dall’euro ed essere aiutati. Con molta miopia, secondo me. Comunque, niente di male che la Russia abbia un ruolo nel Mediterraneo, se poi l’Iran avrà un ruolo diverso nel Medio Oriente, con l’accordo della parte migliore degli americani che, diciamo così, si disimpegnano dall’area dopo aver fatto danni. Ripeto: il problema non è tanto come si esce dall’euro, ma il fatto che stiamo già uscendo con monete alternative, con iniziative che hanno a che vedere con lo sviluppo dell’economia reale a partire dalle realtà locali e che poi daranno dei risultati nel giro dei prossimi anni.(Nino Galloni, dichiarazioni rilasciate a “Stampa Libera” per l’intervista “La finanza vuole la Terza Guerra Mondiale”, pubblicata il 1° giugno 2015 e ripresa dal blog “Vox Populi”).L’euro è una moneta unica che impedisce ai singoli paesi di avere sovranità monetaria e quindi di utilizzare la leva del cambio, ovvero di gestire i propri debiti pubblici in funzione di una spesa che deve servire per assorbire la disoccupazione e rilanciare lo sviluppo. Una moneta di egemonia, assolutamente. Le radici dell’euro sono il G7 di Tokyo del 1979, dove si è deciso che ciascun paese deve essere responsabile della propria bilancia dei pagamenti senza aiuti per i paesi deboli. Quindi si è rotto il principio di solidarietà. Poi c’è stata la netta separazione tra le banche centrali e i governi, per cui si privavano questi ultimi della possibilità di avere una spesa pubblica per investimenti, adeguata alle esigenze. Terzo: il momento in cui alla fine degli anni Ottanta i paesi europei accettano la riunificazione della Germania. In cambio della sostituzione della moneta si dovrà creare una moneta comune, al livello del marco. Dietro tutto questo c’era la necessità di deindustrializzare l’Italia, perché né Francia né Germania erano in grado di sostenere una competitività derivante dalle nostre capacità.
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Qualcuno ci liberi dal grande sonno governato da Facebook
Facebook ha ucciso Internet e sono sicuro che la maggior parte delle persone non se ne è nemmeno accorta. Vedo gli sguardi sulle vostre facce e sento i vostri pensieri. Qualcuno si sta lamentando di nuovo di Facebook. Sì, so che è un ente massiccio, ma è la piattaforma che noi tutti usiamo. E’ un po’ come lamentarsi di Starbucks. Considerando che tutti i bar indipendenti sono stati buttati fuori dalle città e siete tutti diventati dipendenti dal caffè espresso, cos’altro si può fare? Che cosa si intende quando si dice che Facebook ha “ucciso” Internet? Chi è stato ucciso? Mi spiego. Parto dal presupposto che non so quale possa essere la soluzione. Però penso che ogni soluzione debba iniziare dalla solida identificazione della natura del problema. Innanzitutto, Facebook ha ucciso Internet, ma se non fosse stato Facebook sarebbe stato qualcos’altro. Probabilmente l’evoluzione dei social network era inevitable proprio come lo sviluppo degli smartphone. Era la direzione verso cui Internet sarebbe necessariamente dovuto andare.Ed è appunto per questo che il problema è così difficile da risolvere. Perché la soluzione non è Znet o Ello. Non è un social network migliore, un algoritmo migliore o ancora un social network diretto da una società no profit invece che da un ente multimiliardario. Proprio come la soluzione dell’alienazione sociale causata dal fatto che tutti hanno una loro macchina privata non sta nella costruzione di veicoli elettrici. Ed esattamente come la soluzione dell’alienazione sociale causata dalla fissazione con gli smartphone non è la nascita di una compagnia di cellulari utilizzabili collettivamente. Molte persone, dalla classe di fondo alle élites, sono appassionate dal fenomeno dei social network. Sicuramente tra le poche persone che leggeranno questo articolo ce ne saranno alcune. Diffondiamo frasi come “la rivoluzione di Facebook” e celebriamo queste piattaforme che hanno il potere di unire persone provenienti dalle più disparate parti del mondo. E non è mia intenzione affermare che ciò non abbia aspetti positivi. Né tantomeno credo che dovremmo smettere di usare questi social network, incluso Facebook. Sarebbe come dire a qualcuno in Texas di andare a lavorare in bicicletta, quando tutte le infrastrutture nelle città sono costruite per veicoli utilitari sportivi.Ma dovremmo capire la natura di ciò che ci sta succedendo. A partire da quando i giornali sono diventati un fatto ordinario fino al 1990, per la vasta maggioranza della popolazione sul pianeta, il massimo a cui si poteva aspirare era scrivere una lettera all’editore. Una piccola, piccolissima parte di popolazione diventava invece autore o giornalista e aveva un forum pubblico aggiornato occasionalmente o regolarmente. Alcuni scrivevano anche ciò che oggi sarebbe considerato un blog annuale di Natale che poi fotocopiavano e mandavano a qualche dozzina di amici e parenti. Numerose agenzie giornalistiche indipendenti iniziarono a svilupparsi attorno al 1960 in modo occulto nelle città e paesini negli Stati Uniti e altri paesi. Si svilupparono, inoltre, diverse opinioni e informazioni di semplice accesso per tutti quelli che abitavano vicino alle università e quindi potevano recarsi a incontri di scambio di informazioni e avevano soldi in più da spendere.Negli anni ‘90, con lo sviluppo di Internet – siti web, liste di email – ci fu letteralmente un’esplosione della comunicazione che rese le agenzie giornalistiche degli anni ’60 nemmeno lontanamente comparabili. Sono molti negli Stati Uniti coloro che hanno deciso di smettere di usare il telefono in modo virtuale (perché preferiscono parlare faccia a faccia) e parlo per esperienza. Molti altri che non avevano mai scritto lettere prima o cose di questo genere iniziarono a usare computer e scriversi email, e anche a più persone alla volta. Quei pochi che invece erano abituati ai tempi prima di Internet a inviare notiziari in modo regolare informando dei propri pensieri e impegni futuri, prodotti e servizi intesi per la vendita eccetera, furono esaltati dall’avvento dell’email e della possibilità di inviare notiziari in modo così semplice, senza spendere una fortuna per le marche da bollo né sprecare tempo a imballare pacchi postali. Per un breve periodo di tempo, il numero di lettori rimase invariato, ma grazie a Internet ora possono comunicare con loro virtualmente e gratuitamente. Questo, infatti, fu il periodo di massimo sviluppo di Internet, altresì chiamato “età dell’oro” – circa tra il 1995 e il 2000. Sussisteva in modo sempre più incisivo il problema degli spam di vario genere. Inutili email venivano inviate in modo sempre più consistente. I filtri per gli spam iniziarono a diventare più accurati ed eliminarono il problema per molti di noi.I list server che qualcuno si prendeva la briga di leggere erano semplici liste di annunci. I siti web più usati erano certamente interattivi ma moderati, come Indymedia. In alcune città del mondo, grandi o piccole che fossero, c’erano pagine locali Indymedia. Chiunque poteva pubblicare post, ma c’erano responsabili che decidevano se ed eventualmente dove lo si poteva pubblicare. Come in ogni pagina web, il processo per prendere determinate decisioni risulta difficile, ma molti la sentivano come una sfida per cui valeva la pena sforzarsi. Come risultato di questi list server e siti moderati come Indymedia, avevamo tutti l’abilità inaudita di trovare e discutere idee ed eventi che avvenivano nella nostra città, paese o più generalmente, nel mondo. Sono poi sopravvenuti i blog e i social network. Ogni individuo con un blog, una pagina Facebook o un profilo Twitter, eccetera, diventava il trasmettitore di se stesso. Crea dipendenza, non è vero? Sapere di avere un pubblico globale di dozzine o centinaia, o ancora, migliaia di persone (se sei famoso, tanto per iniziare, altrimenti la situazione diventa alquanto critica) tutte le volte che pubblichi un post.Avere conversazioni nella sezione dei commenti con persone provenienti da tutto il mondo che non si incontreranno mai fisicamente. Davvero fantastico. Da allora però molti smisero di ascoltare. La maggior parte delle persone smise di visitare Indymedia tanto che morì, globalmente, per quasi tutti. Giornali – di destra, sinistra o centro che fossero – cessarono, e stanno tuttora cessando, la loro attività, cartacei e non. I list server smisero di esistere. Gli algoritmi sostituirono i moderatori. La gente iniziava già a pensare che le librerie fossero un fenomeno antiquato. Oggi come oggi, a Portland, in Oregon, una delle città più “connesse” a livello politico negli Stati Uniti, non ci sono list server o siti web che spieghino in modo comprensibile o in un formato leggibile come vadano le cose in città. Infatti, ci sono diversi gruppi su vari siti web, pagine Facebook e list server ma nulla che riguardi l’andamento progressivo della comunità in generale. Nulla di funzionale. Perlomeno nulla che si avvicini alla funzionalità e utilità delle liste di annunci che esistevano nelle città e paesi 15 anni prima.Viste le limitazioni tecniche di Internet avvenute per un breve periodo di tempo, si riuscì a trovare una connessione tra le piccole élites che fornivano contenuti scritti, letti dalla maggior parte della popolazione nel mondo, e la situazione in cui ci troviamo oggigiorno: l’affondare nella troppa informazione, la maggior parte di cui insensate sciocchezze, rumore bianco, nebbia che non ci permette di vedere ciò su cui le luci scarse fanno chiarezza in un dato momento. Era l’età dell’oro ma fu perlopiù un caso e durò molto poco. Dato che creare un nuovo sito web, un blog, una pagina Facebook o Myspace, pubblicare aggiornamenti ecc… diventava sempre più semplice, la nuova era contribuiva inevitabilmente alla naturale evoluzione della tecnologia. E molti non si rendevano nemmeno conto di ciò che stava avvenendo. Perché mi ritrovo a doverlo dire? Innanzitutto non è da poco che ho iniziato a rendermi conto di questa merda. Ho parlato con svariate persone in molti anni e molte di queste pensano che i social network siano l’invenzione migliore dopo il pane affettato. E perché non dovrebbero pensarlo?Il succo del discorso è che per nessun motivo avrebbero potuto rendersi conto della “morte” di Internet, dato che nessuno di loro era un fornitore di contenuti (come vengono chiamati autori, artisti, musicisti, giornalisti, organizzatori, animatori, insegnanti ecc.. oggigiorno) nel periodo pre-Internet, o nel primo decennio di Internet, inteso come fenomeno popolare . E se in quegli anni non eri un fornitore di contenuti, perché dovresti renderti conto che qualcosa cambia? Lo sappiamo io e gli altri come me – perché coloro che leggevano e rispondevano a ciò che pubblicavo sono spariti. Non aprono più le loro email e, se lo fanno, non le leggono. E non importa cosa utilizzino – blog, Facebook, Twitter ecc… Ovviamente alcuni le leggono ancora, ma la maggior parte fa altro. E cosa, allora? Ho passato gran parte della scorsa settimana a Tokyo, girando per la città, trascorrendo ore e ore sui treni ogni giorno.La maggior parte di quelli seduti sul treno quando visitai il Giappone per la prima volta dormiva, come dorme ora. Ma sette anni fa quasi tutti quelli che dormivano leggevano libri. Ora è diventato difficile vederne uno. Quasi tutti guardano il cellulare. E non leggono libri sul telefono (sì, ho sbirciato. Tanto). Giocano. Oppure, più spesso, guardano le notifiche di Facebook. E lo stesso vale per gli Stati Uniti e tutti gli altri paesi che ho avuto l’occasione di visitare. Vale davvero la pena di sostituire algoritmi a moderatori? Rumore bianco agli editori? Foto del gatto ai giornalisti investigativi? Una moltitudine di podcast mal registrati a case discografiche indipendenti? Milioni di aggiornamenti Facebook e notifiche Twitter? Non penso. Ma non è questo il punto. Come faremo a uscire da questa situazione e liberarci della nebbia? E quando torneremo a usare i nostri cervelli? Mi piacerebbe saperlo.(David Rovics, “Facebook ha ucciso Internet”, da “Counterpunch” del 24 dicembre 2014, tradotto da “Come Don Chisciotte”).Facebook ha ucciso Internet e sono sicuro che la maggior parte delle persone non se ne è nemmeno accorta. Vedo gli sguardi sulle vostre facce e sento i vostri pensieri. Qualcuno si sta lamentando di nuovo di Facebook. Sì, so che è un ente massiccio, ma è la piattaforma che noi tutti usiamo. E’ un po’ come lamentarsi di Starbucks. Considerando che tutti i bar indipendenti sono stati buttati fuori dalle città e siete tutti diventati dipendenti dal caffè espresso, cos’altro si può fare? Che cosa si intende quando si dice che Facebook ha “ucciso” Internet? Chi è stato ucciso? Mi spiego. Parto dal presupposto che non so quale possa essere la soluzione. Però penso che ogni soluzione debba iniziare dalla solida identificazione della natura del problema. Innanzitutto, Facebook ha ucciso Internet, ma se non fosse stato Facebook sarebbe stato qualcos’altro. Probabilmente l’evoluzione dei social network era inevitable proprio come lo sviluppo degli smartphone. Era la direzione verso cui Internet sarebbe necessariamente dovuto andare.
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Orsi: la disperazione di chi vorrebbe uccidere Putin
«La demonizzazione di Putin non è una politica – dice Kissinger – ma un alibi per l’assenza di una politica». Per quanto autorevole sia la fonte, sostiene Roberto Orsi, analista internazionale e docente all’università di Tokyo, l’ossessione collettiva contro il presidente russo ha raggiunto il record durante l’attuale crisi geopolitica in Ucraina: tra le élite occidentali si sta facendo strada l’idea che, se Putin potesse incontrare sul suo cammino, anche tramite mezzi violenti, una fine prematura, questo risolverebbe la crisi ucraina e il “problema” della rinascita della Russia. Illuminanti le parole di Herbert Meyer, già dirigente della Cia, secondo cui il capo del Cremlino «è una grave minaccia per la pace mondiale», quindi un criminale. Attenzione: «I teppisti come Putin non si fermano davanti a punizioni o restrizioni», come le sanzioni Ue, «hanno un’alta tolleranza al dolore e non cambiano il loro comportamento, vanno avanti finché qualcuno non gli assesta un colpo mortale». Quindi, i russi dovrebbero sbarazzarsi di Putin, magari «tirandolo fuori dal Cremlino in modo orizzontale, con un foro di proiettile dietro la testa», soluzione che «andrebbe bene anche a noi».Il pensiero di Meyer, scrive Orsi in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, non è che uno sfogo esplicito e definitivo dopo anni di incessante propaganda occidentale: Putin come l’assassino di Anna Politkovskaya e dell’ex 007 Alexander Litvinenko, Putin come persecutore del gruppo rock delle “Pussy Riot”, Putin l’“omofobo”, Putin che «vive in un altro mondo» (secondo Angela Merkel), Putin che è chiaramente «un lato sbagliato della storia» (secondo Barack Obama). Insomma: Putin il malato di mente, il “nuovo Hitler”, come già Saddam Hussein. L’Anticristo, simbolo del male assoluto, annunciatore dell’imminente fine del mondo. «Molti sono stati gli europei etichettati come emissari del diavolo: Napoleone Bonaparte, Federico II di Prussia e Pietro il Grande», scrive Orsi. «L’identificazione di Putin come manifestazione di un male assoluto metafisico, che giustifica il ricorso a misure estreme, invece di essere semplicemente accennata attraverso semplici metafore e ridotta a una banale questione propagandistica di bassa lega, dovrebbe diventare il centro di una più profonda discussione».Il caso Putin evoca la pratica dell’omicidio politico, in tempo di pace oppure in guerra. La “decapitazione” del leader avversario, ovviamente, finisce sempre per «legittimare atti di ritorsione, aprendo scenari a spirale di violenze indiscriminate con conseguenze imprevedibili». In Occidente, continua Orsi, «c’è stata una sorprendente varietà di opinioni sulla corretta conduzione della “guerra giusta”». Per esempio, «le guerre tra nazioni cristiane dovevano essere altamente regolamentate, mentre erano ammessi diversi gradi di guerra senza restrizioni contro gli infedeli». L’assassinio del leader del nemico «sembra essere un atto di disperazione, di solito associato a guerre genocide definitive». Mentre nasceva una moderna concezione di politica internazionale e globale, che prendeva le distanze dalla dicotomia tra cristiani e non-cristiani, nel saggio “La pace perpetua” Immanuel Kant mise in guardia la società del suo tempo contro questo tipo di pratiche: il filosofo auspicò il divieto, nelle guerre, di tutte quelle pratiche che potrebbero rendere impossibile la reciproca fiducia nei futuri accordi di pace, come appunto l’assassinio, l’avvelenamento, la violazione della capitolazione, l’istigazione al tradimento.«Essere contrari alla demonizzazione del nemico e a un suo assassinio a sangue freddo non significa sostenere la totale assenza di odio o di conflitto», scrive Orsi. «Al contrario, secondo una vecchia teoria purtroppo troppo poco apprezzata, proprio la guerra senza restrizioni (fin troppo familiare) ad ogni forma di lotta, è in sé contraddittoria, poiché conduce ad una forma di guerra totale». E’ possibile evitare che uno scontro sia completamente distruttivo? «Il punto è quello di limitare e contenere il conflitto», conferendogli una legittimazione all’interno di argini precisi: «Ci può essere inimicizia tra la Nato e la Russia, ma non vi è alcuna ragione per trasformarla in una guerra totale globale». Proprio in questo quadro, aggiunge Orsi, «la denigrazione del nemico diminuisce la dignità di chi lo denigra e il valore dei suoi sforzi durante il conflitto». Invece di inventare nuove rappresentazioni denigratorie del nemico, «sarebbe bene non scendere in queste forme di demonizzazione, perché il compromesso politico e il dialogo diplomatico restino sempre un’opzione possibile». In che non significa sradicare l’ostilità, ma gestirla. Chi invece cede alla violenza della degradazione verbale, si condanna da sé: «Mentre Putin costituisce certamente un avversario temibile per le élite che attualmente governano il mondo occidentale, è proprio per questo che dovrebbero apprezzare l’occasione storica di poter dimostrare il loro valore».Una seconda linea di pensiero, continua Orsi, fa riferimento alla tradizione intellettuale che permette – o addirittura raccomanda – l’assassinio di un leader politico ogni volta che questi imponga un dominio tirannico. Storia lunga, da Pisistrato a Giulio Cesare. «Tuttavia, il tirannicidio solleva per lo meno due questioni: la prima riguarda la definizione stessa della tirannia, la seconda il suo rapporto con la politica internazionale». Tirannia, dittatura, autocrazia, autoritarismo, dispotismo, assolutismo: «Sono cose tra loro diverse, nonostante alcune comuni aree di sovrapposizione». La tirannia è «una forma autocratica degenerata, in cui il potere è esercitato contro il principio del bene comune, al di fuori e contro le regole costituzionali stabilite, e con una sistematica crudeltà nei confronti dei propri sudditi». Ora, non c’è dubbio che Putin sia l’individuo più potente nella Federazione Russa, ma questo non basta a farne a un “tiranno”. Al contrario, è il politico che ha risollevato il paese dopo il crollo dell’Urss e la “colonizzazione” occidentale.Certo, la nuova Russia di Putin resta «uno Stato autoritario, la cui classe dirigente – un’alleanza in qualche modo eterogenea di intelligence, militari, leader religiosi, magnati e influenti personaggi locali – è sufficientemente coesa da mantenere un efficace controllo del paese, ma non abbastanza ampia da promuovere una più sofisticata prospettiva pluralistica». Tuttavia, aggiunge Orsi, «nessuno sta dicendo che Putin sta esercitando il suo potere al di fuori del quadro costituzionale dello Stato russo, e tantomeno tenendo in ostaggio l’intera popolazione attraverso una violenza sadica e onnipresente». Inoltre, «Putin gode di un autentico sostegno popolare, pur tenendo conto dello stretto controllo dei principali mezzi d’informazione da parte del Cremlino». Senza contare che il presidente «rappresenta una figura moderata nel panorama della politica russa: la sua estromissione probabilmente aprirebbe la strada ad altre figure politiche significativamente più radicali».Infine, la responsabilità morale e politica della “detronizzazione” del leader «non può che essere presa da coloro che sono soggetti al potere tirannico, non da soggetti esterni». Sicché, «fatta esclusione del caso deprecabile di una guerra totale, non vi è alcun motivo per considerare tale atto come un’azione politica raccomandabile». Riguardo alla tentazione di accelerare l’eliminazione di Putin, quindi, «ci sono tanti motivi per respingere questo flusso di pensieri e ritenerli gravemente controproducenti». La demonizzazione del presidente russo? «Non è una politica sana, né una pratica moralmente onorevole». Quanto alla venuta dell’Anticristo e alla fine del mondo, «nessuno ne conosce l’ora». Per dirla con l’evangelista Matteo: «Di quel giorno e ora nessun uomo sa, né gli angeli del Cielo, né il Figlio, ma solo il Padre».«La demonizzazione di Putin non è una politica – dice Kissinger – ma un alibi per l’assenza di una politica». Per quanto autorevole sia la fonte, sostiene Roberto Orsi, analista internazionale e docente all’università di Tokyo, l’ossessione collettiva contro il presidente russo ha raggiunto il record durante l’attuale crisi geopolitica in Ucraina: tra le élite occidentali si sta facendo strada l’idea che, se Putin potesse incontrare sul suo cammino, anche tramite mezzi violenti, una fine prematura, questo risolverebbe la crisi ucraina e il “problema” della rinascita della Russia. Illuminanti le parole di Herbert Meyer, già dirigente della Cia, secondo cui il capo del Cremlino «è una grave minaccia per la pace mondiale», quindi un criminale. Attenzione: «I teppisti come Putin non si fermano davanti a punizioni o restrizioni», come le sanzioni Ue, «hanno un’alta tolleranza al dolore e non cambiano il loro comportamento, vanno avanti finché qualcuno non gli assesta un colpo mortale». Quindi, i russi dovrebbero sbarazzarsi di Putin, magari «tirandolo fuori dal Cremlino in modo orizzontale, con un foro di proiettile dietro la testa», soluzione che «andrebbe bene anche a noi».
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Barnard: ci fanno a pezzi, e poi lo chiamano successo
Jean-Claude Juncker ha accolto il proclama di Matteo Renzi («Decido io le riforme») con un sommovimento leggero del colon ascendente. Poi fine proclama Renzi. E fine di tutto ciò che c’è da commentare sul governo italiano. Le cose interessanti accadono in Europa e nel mondo. Siccome io e la Mmt diciamo da tempo che ’sta farsa che si chiama economia Neoclassica (quella che domina il tuo governo e quelli di quasi tutto il mondo, quella di Renzi, Hollande, Merkel, Abe, Obama ecc.) non funziona, anzi, devasta democrazie e cittadini, ecco alcune grandiose tappe dell’economia Neoclassica (che fra l’altro le sotto-scimmie-cani del Pd hanno votato ultimamente). Il “Wall Street Journal” annuncia che la Grecia sta recuperando! Ok? Attenzione: che significa che recupera? Significa che invece di morire al ritmo di dieci rantoli al minuto sta morendo al ritmo di 5 rantoli al minuto. Un SUCCESSO!L’economia greca, ci dice il “Wsj”, si è impoverita SOLO dello 0,2% nell’ultimo quarto, ed è… ATTENZIONE ALLA GOOD NEWS!… la contrazione più piccola dal 2008! Cavoli! Che fantastico risultato, che successo! Nobel dell’Economia alla Troika che 6 anni fa scrisse le ricette per la gran riscossa dell’economia greca. Fantastico! La Grecia rantola un po’ meno e non ci dà più così tanto fastidio sentirla morire, perché fa meno rumore. Questa sì che è economia. Ok, ma non finisce qui. Nel secondo quarto del 2014 l’economia francese registra un successo da farsi delle se… (finisce per ghe). Crescita nazionale a zero, 0, nulla, morta. E qui la cosa si fa interessante per chi, come noi poveri emarginati della Mmt, sostiene il valore dei bilanci settoriali (cioè se il “gov” mette 10 nel settore privato ma gli toglie 20, il settore privato va in rosso di 10). Hollande ha fatto un taglio alle tasse di 41 miliardi di euro, poi ha approvato un taglio di spesa pubblica di 50 miliardi.Allora, bambini della seconda elementare: se ti regalo 41 ma poi ti tolgo 50, voi ci guadagnate? No! Ci perdete, vero bimbi? Infatti. Francia a crescita zero e sfora il deficit di bilancio (limite 3%) con un 3.8%, e ha una disoccupazione record più una caterva di dati disastrosi nell’economia reale (mentre Renzi per fare bella figura con i suoi padroni non lo sfora, il 3%! – poi noi crepiamo, ma almeno facciamo bella figura). Oh! Ma andiamo lontano da questa Eurozona ormai lago di pus senza rimedio. La Banca del Giappone ha fatto quello che vuole fare Draghi oggi qui da noi, e che facevano gli Usa fino a poco fa (sapete, noi europei arriviamo sempre dopo la puzza rispetto a Usa e Giappone, ma mica mai che impariamo un xxxx). Ok, la Banca del Giappone ha inondato le banche giapponesi di soldi a costo quasi zero (comprando valanghe di titoli di Stato più altri trucchi), ha svalutato lo Yen, tutto nella convinzione che la POLITICA MONETARIA possa sostituire la POLITICA ECONOMICA DEI VERI POSTI DI LAVORO E DEGLI INVESTIMENTI (CIOE’ LA SPESA PUBBLICA PER IL SETTORE PRIVATO).Insomma, Abe a Tokyo ha fatto la solita puttanata che ha fatto la Fed a Washington, chiamata Quantitative Easing (Qe), senza una cippa di risultato in America. E infatti… il Giappone oggi registra il suo peggior crollo dal 2011, uno stupefacente meno 6,8%! Ma come è accaduto? Chissà come? Non è solo che il Qe non serve a un xxxx. Be’, qui ci vuole una piccola premessa. Noi della Mmt diciamo da decenni che l’Iva, ma SOPRATTUTTO GLI AUMENTI IVA, sono il cancro terminale dell’economia. Non esiste una tassa più devastante per un’economia pensata dall’umanità dai tempi dei Sumeri. Ok. Il Giappone di Abe cosa ha fatto? Ma siiii! Ha aumentato l’Iva come un pazzo, ha quindi tirato una fucilata in piena testa ai consumatori e al commercio giapponesi, e guarda che caso, ma guarda che caso!, il Giappone crolla come crescita, vedi sopra, ma anche come export, che oggi tocca il suo punto più basso da 29 anni. Da VEN-TI-NO-VE anni. Ok. Domani Peter Gomez vi dirà il resto sul “Fatto Quotidiano” (Peter, ma quanto sei forte?).(Paolo Barnard, “Grecia, Francia, Giappone – e dopo la puzza, Renzi”, dal blog di Barnard del 14 agosto 2014).Jean-Claude Juncker ha accolto il proclama di Matteo Renzi («Decido io le riforme») con un sommovimento leggero del colon ascendente. Poi fine proclama Renzi. E fine di tutto ciò che c’è da commentare sul governo italiano. Le cose interessanti accadono in Europa e nel mondo. Siccome io e la Mmt diciamo da tempo che ’sta farsa che si chiama economia Neoclassica (quella che domina il tuo governo e quelli di quasi tutto il mondo, quella di Renzi, Hollande, Merkel, Abe, Obama ecc.) non funziona, anzi, devasta democrazie e cittadini, ecco alcune grandiose tappe dell’economia Neoclassica (che fra l’altro le sotto-scimmie-cani del Pd hanno votato ultimamente). Il “Wall Street Journal” annuncia che la Grecia sta recuperando! Ok? Attenzione: che significa che recupera? Significa che invece di morire al ritmo di dieci rantoli al minuto sta morendo al ritmo di 5 rantoli al minuto. Un successo!
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Brzezinski: spartizione Usa-Cina o Terza Guerra Mondiale
«L’enorme instabilità a livello mondiale non ha precedenti storici», perché «grandissime fette di territori sono governate da instabilità populista, rabbia e perdita del controllo statale». Zbigniew Brzezinski, consigliere strategico di Carter e storico “cervello” dell’egemonia mondiale statunitense, lancia l’allarme: «Non stiamo declinando verso una crisi per la sopravvivenza, ma stiamo perdendo il controllo dei nostri massimi livelli di abilità nell’affrontare sfide che, sempre più, molti di noi riconoscono essere fondamentali per il nostro benessere». Dura lezione, per gli Usa, i fallimenti a catena degli ultimi vent’anni: «Non possiamo arruolare forze o creare leadership per gestirle», e questo rende gli Usa «sempre più privi di volontà strategica e senso della direzione da intraprendere». Scenario: «Siamo di fronte a un mondo pieno di tumulti, frammentazione e incertezza: nessuna minaccia diretta per nessuno, ma molte differenti minacce praticamente per chiunque».Nella polveriera del Medio Oriente, dice Brzezinski in un colloquio con David Rothkopf ripreso da “Come Don Chisciotte”, si può contare davvero soltanto su pochi Stati, dotati di relativa stabilità: sicuramente la Turchia e l’Egitto, poi l’Iran – con cui gli Usa sono in stato di crisi – e ovviamente Israele, ma solo a patto che nasca una pace stabile, con la creazione di uno Stato autonomo dei palestinesi. All’appello manca l’Iraq: tragico errore, ammette Brzezinski, la guerra di George W. Bush per eliminare Saddam, che faceva da argine contro il jihadismo di Al-Qaeda. «Siamo intervenuti in Libia senza un piano a lungo termine, lasciando campo a forze destabilizzanti», dice Rothkopf. «Non abbiamo intrapreso azioni decise in Siria e, come conseguenza di ciò e della situazione in Iraq, si è diffuso il malcontento in Siria. I rischi sono ovunque e le forze stabilizzatrici maggiori al mondo – Usa, Ue e Cina – hanno desiderio di interventi costruttivi in ben poche di queste situazioni».Per Brzezinski, gli Stati Uniti non hanno più molte chances nella regione petrolifera. Ma non sono i soli a subire danni dal caos che dilaga: «Le due nazioni che potrebbero maggiormente essere danneggiate da questi sviluppi a lungo termine sono Cina e Russia, a causa dei loro interessi regionali, la vulnerabilità al terrorismo e gli interessi strategici sul mercato globale dell’energia». Di conseguenza, Pechino e Mosca dovrebbero «lavorare insieme a noi», evitando di lasciare solo agli Usa «la responsabilità di gestire una regione che non possiamo né controllare né comprendere». Rothkopf fa presente che gli Stati Uniti sono stati «spinti dagli eventi in Iraq per lo meno a collaborare attraverso qualche sorta di tacito accordo nei riguardi dell’Isis, o Stato Islamico», e c’è chi teme negoziati con l’Iran verso un disgelo tra Washington e Teheran. «Vedo l’Iran come un vero Stato-nazione», dice Brzezinski. «Quella identità reale gli dà la coesione di cui la maggior parte del Medio Oriente è priva».I problemi: la competizione coi sunniti e la ventilata minaccia di Teheran nei confronti di Israele, a cui Brzezinski però non crede. «Il punto della questione è che Israele ha un monopolio nucleare nella regione e ce l’avrà per lungo tempo», continua l’analista. «Una cosa che gli iraniani non faranno di sicuro è intraprendere una missione suicida nel momento in cui avranno una bomba. Quindi l’idea che è stata pubblicizzata negli Usa che potrebbe scaturire una folle corsa iraniana per avere la bomba in nove mesi a mio parere è insensata», anche perché «Israele ha un esercito molto forte e circa 150-200 bombe: ciò è sufficiente per uccidere ogni iraniano». Poi ci sono i tradizionali alleati Usa nella regione. Buio pesto: Brzezinski si dichiara «confuso» dalla tragedia della guerra civile siriana. «Non mi è chiaro – dice – cosa esattamente pensassero di ottenere i sauditi e i qatarioti scatenando una guerra settaria in Siria, e sono ancora più frastornato da cosa noi pensassimo avremmo potuto ottenere sostenendoli in una maniera tanto esitante e inconsistente». Ammette Brzezinski: «E’ dalla seconda guerra in Iraq che noi americani ci siamo squalificati come protettori e promulgatori di qualsivoglia sviluppo positivo», per cui «sarebbe meglio concludere qualche sorta di tacito accordo coi cinesi e i russi», sulla gestione della geopolitica in Medio Oriente.Sulla Russia, però, la visione di Brzezinski è brutalmente unilaterale: già anni fa, la sua “dottrina” suggeriva di amputare Mosca dell’Ucraina e in particolare della Crimea, privando i russi dello sbocco strategico sul Mar Nero. Oggi non ha cambiato idea: chiama “invasione” il recupero della Crimea votato a fuori di popolo. E imputa a Mosca – anziché a Washington – l’iniziativa in Ucraina, senza alcun commento sui neonazisti appoggiati dalla Nato che hanno gestito il golpe a Kiev, dato alle fiamme il palazzo dei sindacati a Odessa e cominciato a prendere a cannonate la popolazione civile russofona, per sfrattarla dell’Est del paese “prenotato” dalle grandi compagnie, come la Shell, interessate allo “shale gas” del sottosuolo ucraino. Brzezinski sogna relazioni privilegiate Usa-Cina escludendo la Russia, di cui non sopporta la crescente influenza internazionale anche in ambito Brics, ma sa benissimo che i cinesi non gradiscono un’ipotesi G2, fondata sulla leadership di Washington e Pechino.Quanto al Giappone, passi che si avvicini all’India per bilanciare l’espansionismo cinese, ma è bene che sappia che gli Usa non sosterranno Tokyo se tenterà un braccio di ferro militare con la Cina per le contese isolette del Pacifico. Grande assente, in ogni scenario geopolitico mondiale, il vecchio continente: «Dove sono i padri dell’Europa che davvero credono nell’identità europea? Alla fine, la Ue si è dimostrata essenzialmente una serie di accordi a Bruxelles, basati sul denaro e i quid pro quo, ma con molto poco senso di obiettivi comuni». Salvo ovviamente tentare – ancora – di proteggere i propri interessi post-coloniali in paesi africani in subbuglio, come Sudan, Somalia, Repubblica Centrafricana, Nigeria e Mali. L’anziano Brzezinski la vede così: nel futuro, ipotetico grande “condominio” americano e cinese, l’Europa resterà «un tentacolo» degli Usa, a patto che accetti accordi commerciali euro-atlantici come il Ttip: «Uniamo questi ultimi alla Nato, all’annessione dell’Ucraina all’Ue, che a sua volta dovrebbe attirare la Russia verso l’Europa, perchè l’ombra della Cina sta sempre più estendendosi sopra Mosca», e avremo un quadro che, secondo lo stratega americano, «potrebbe andare nella direzione di un beneficio collettivo».Riguardo all’ex “cortile di casa”, l’America Latina, Brzezinski è altrettanto sbrigativo: «Gli Usa stanno imparando ad essere tolleranti», sostiene. «Abbiamo imparato a convivere con Cuba, con il Nicaragua, con il Venezuela». La Cina? E’ sostanzialmente tollerante. Sicché, conclude Brzezinski, «allo stesso modo noi possiamo fare lo stesso per loro in Asia. Ovvero: tu ti risolvi i tuoi problemi nelle vicinanze, ma non spingerti oltre. Tolleriamo alcuni sprazzi di autonomia». Tolleranza “a sprazzi”, che Brzezinski definisce «bilateralmente sostenibile». Soprattutto per una ragione: «Loro», i cinesi, «non competono ideologicamente con noi». Riflessione storica: «L’assenza di un conflitto ideologico tra noi e i cinesi è la sostanziale differenza tra i conflitti con l’Unione Sovietica o con Hitler e la Germania. In entrambi i casi c’era forte antagonismo, in parte a causa di ragioni geopolitiche, ma in parte anche per profonde e conflittuali differenze ideologiche». Per Brzezinski, si tratta di «creare una sorta di intesa sulla base di come erano le relazioni tra Roma e Bisanzio: queste due città avevano molto in comune, erano estensioni dello stesso impero, ma avevano diversi centri di potere. Dobbiamo affrontare il fatto che probabilmente per il resto delle nostre vite – a meno che tutto non vada all’inferno, il che sarebbe molto peggio – gli Usa e la Cina sono destinati a cooperare se il mondo vuole avere un sistema efficace».Non sarà facile: l’esercito cinese, tanto per dire, è fortemente antiamericano. Brzezinski, al solito, semplifica: «Noi siamo una super-democrazia, loro una dittatura egocentrica». Ci sono i Brics, naturalmente, della cui crescente autonomia gli Usa hanno paura. L’Europa? Non pervenuta: «Chi sono gli europei? Se vai a Parigi o in Portogallo, o in Polonia, e chiedi “chi sei tu?” ti verrà risposto “Sono portoghese”, “Sono spagnolo”, “sono Polacco”. Quali sono le persone che sono veramente europee?». La speranza del vecchio stratega della Casa Bianca è di coltivare relazioni cooperative con la Cina, l’unica superpotenza paragonabile agli Stati Uniti, una nazione «che esiste da 5-6000 anni», sicura della propria identità e consapevole della sua forza. Una grande nazione, psicologicamente più affidabile degli Stati Uniti: «Noi possiamo facilmente venire troppo coinvolti emotivamente nei loro problemi interni, loro invece non si fanno prendere emotivamente dai nostri». Inoltre, secondo Brzezinski, «i cinesi non sono mai stati stupidi quanto i russi, che più di una volta sono venuti a dirci in faccia “Vi distruggiamo”».Sul futuro imminente, Brzezinski raccomanda prudenza. Obiettivo: evitare quella che molti chiamano Terza Guerra Mondiale. Vero, «ci sono similitudini con il 1914», ma allora «le maggiori potenze avevano una visione più ristretta del mondo», pensavano di risolvere i problemi «con l’uso della forza bruta». Non è più così. «Non vogliamo affondare nella crisi mediorientale. I russi preferirebbero di sì, ma restandone fuori. I cinesi giocano a starsene a guardare da lontano. Tutto ciò fornisce alcune rassicurazioni sul fatto che la situazione non esploderà e non andrà a finire come nel 1914». Cautela, dunque, nell’uso delle armi. Per riuscire a pacificare il Medio Oriente con l’aiuto di Turchia, Iran, Egitto e Israele, avendo «la Cina come socio paritario», fondamentale per «una sorta di stabilità globale», e perfino contando sulla Russia come alleato potenziale, «non appena avrà superato i dissidi con gli europei». Evaporata l’Onu e qualsiasi altra forma di governance istituzionale, Brzezinski propone una nuova Yalta: l’Occidente agli Usa e l’Asia alla Cina, con uno status speciale per India e Giappone. «Questo è il meglio che si possa fare e penso che dovremmo lavorare su queste basi nel corso di questo secolo. Sarà dura. Sarà pericolosa e distruttiva, ma non penso che stiamo scivolando verso una nuova guerra mondiale. Penso che stiamo invece scivolando in un’era di grande confusione e caos dominante».«L’enorme instabilità a livello mondiale non ha precedenti storici», perché «grandissime fette di territori sono governate da instabilità populista, rabbia e perdita del controllo statale». Zbigniew Brzezinski, consigliere strategico di Carter e storico “cervello” dell’egemonia mondiale statunitense, lancia l’allarme: «Non stiamo declinando verso una crisi per la sopravvivenza, ma stiamo perdendo il controllo dei nostri massimi livelli di abilità nell’affrontare sfide che, sempre più, molti di noi riconoscono essere fondamentali per il nostro benessere». Dura lezione, per gli Usa, i fallimenti a catena degli ultimi vent’anni: «Non possiamo arruolare forze o creare leadership per gestirle», e questo rende gli Usa «sempre più privi di volontà strategica e senso della direzione da intraprendere». Scenario: «Siamo di fronte a un mondo pieno di tumulti, frammentazione e incertezza: nessuna minaccia diretta per nessuno, ma molte differenti minacce praticamente per chiunque».
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I bambini di Fukushima stanno morendo di cancro
Trentanove mesi dopo le varie esplosioni di Fukushima, il tasso di cancri della tiroide tra i bambini che vivono intorno si è elevato più di 40 volte oltre il normale. Più del 48% dei 375.000 giovani – quasi 200.000 bambini – esaminati dall’Università Medica di Fukushima nei dintorni dei fiammeggianti reattori soffrono di disturbi pre-cancerosi alla tiroide, soprattutto noduli e cisti. Il tasso va accelerando. Sono stati registrati più di 120 cancri infantili dove prima se ne registravano solo 3, dice Joseph Mangano, direttore esecutivo del Progetto Salute Pubblica e Radiazioni. L’industria nucleare e i suoi difensori continuano a negare questa tragedia della salute pubblica. Alcuni sono arrivati a dichiarare che «nessuna persona» è stata colpita dalla liberazione massiccia di radiazioni di Fukushima che, in relazione ad alcuni isotopi, ha superato quelle di Hiroshima per quasi 30 volte.Ma l’epidemia mortale di Fukushima è similare agli impatti sofferti dai bambini nei dintorni di Three Miles Island quando successe l’incidente del 1979, e dell’esplosione di Chernobyl del 1986, e come rilevato in altri reattori. La Commissione di Sicurezza Nucleare del Canada ha confermato la probabilità che l’energia atomica possa causare questo tipo di epidemie, affermando che in caso di un disastro in un reattore si produrrebbe «un aumento del rischio di cancro alla tiroide infantile». Nel valutare le prospettive di costruzione di un nuovo reattore in Canada, la Commissione dice che il tasso «aumenterebbe dello 0,3% ad una distanza di 12 chilometri» dall’incidente. Questo presuppone la distribuzione di pastiglie protettrici di ioduro di potassio e una rapida ed efficiente evacuazione, niente di quanto è successo nei casi di Three Mile Island, Chernobyl o Fukushima.Mangano ha analizzato le cifre. A partire dal decennio 1980, ha studiato gli impatti delle radiazioni prodotte da un reattore sulla salute umana; ha cominciato i suoi lavori con il leggendario radiologo Ernest Sternglass e lo studioso di statistica Jay Gould. Nelle dichiarazioni fatte nel Green Power & Wellness Showin, Mangano conferma anche che la salute in generale delle popolazioni umane situate nella direzione del vento migliora quando i reattori vengono chiusi e declina quando questi vengono aperti o riaperti. I bambini delle vicinanze di Fukushima non sono le uniche vittime. L’operaio dell’impianto Masao Yoshida è morto a 58 anni per un cancro all’esofago. Masao rifiutò eroicamente di abbandonare Fukushima nel peggior momento della crisi, salvando probabilmente milioni di vite. Ai lavoratori del reattore impiegati dai subappaltatori – molti dominati dal crimine organizzato – nessuno controlla l’esposizione alle radiazioni.E l’indignazione della gente aumenta a causa dei piani del governo per obbligare le famiglie – molte con bambini piccoli – a ritornare nella regione, fortemente contaminata, che attornia l’impianto. Dopo l’incidente del 1979, i proprietari di Three Miles Island negarono che il reattore si fosse fuso. Ma una telecamera-robot confermò più tardi il fatto. Lo Stato della Pennsylvania perse misteriosamente il suo registro dei tumori e in seguito disse che «non c’erano prove» che qualcuno fosse morto. Ma un gran numero di studiosi indipendenti confermano l’aumento dei tassi di mortalità infantile e di eccesso di cancri nella popolazione in generale. Il Dipartimento dell’Agricoltura della Pennsylvania e giornalisti locali hanno confermato anch’essi l’eccesso di morti, mutazioni e malattie tra gli animali locali.Nel decennio 1980, la giudice federale Silvia Rambo bloccò una causa collettiva presentata da 2.400 persone che vivevano in zone raggiunte dalle radiazioni portate dai venti, affermando che non erano state liberate radiazioni tanto importanti da danneggiare qualcuno. E, dopo 35 anni, nessuno ancora sa quante radiazioni sfuggirono né dove finirono. I proprietari di Three Miles Island hanno pagato silenziosamente le vittime in cambio del segreto completo. A Chernobyl un insieme di più di 5.000 studi ha prodotto una cifra di morti di più di un milione di persone. Gli effetti delle radiazioni sui più giovani nelle zone situate nella scia dei venti della Bielorussia e dell’Ucraina sono state orrende. Secondo Mangano, circa l’80% dei “bambini di Chernobyl” nati dopo l’incidente in quelle zone hanno sofferto un’ampia gamma di problemi che vanno da difetti congeniti e cancri alla tiroide a malattie delle coronarie, respiratorie e mentali di lunga durata. I risultati indicano che solo 1 su 5 dei giovani può essere considerato sano.“Medici per la Responsabilità Sociale” e il ramo tedesco dell’Associazione Internazionale dei medici per la Prevenzione della Guerra Nucleare hanno avvertito di problemi simili nei dintorni di Fukushima. Il Comitato Scientifico sugli Effetti delle Radiazioni Atomiche delle Nazioni Unite (Unscear la sigla in inglese) ha recentemente emesso vari rapporti che minimizzano l’impatto umano del disastro. L’Unscear è legato all’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica dell’Onu, il cui mandato è promuovere l’energia atomica. La Aie ha il vincolo della segretezza sulle scoperte dell’Onu circa gli impatti sulla salute provocati dal reattore. Per decenni l’Unscear e l’Organizzazione Mondiale della Sanità hanno impedito che si conoscessero gli estesi danni alla salute dell’energia nucleare. Fukushima ha dimostrato di non essere un’eccezione.In risposta, i “Medici per la Responsabilità Sociale” e il ramo tedesco dell’Associazione Internazionale dei Medici per la Prevenzione della Guerra Nucleare hanno confutato in dieci punti quelle affermazioni, avvertendo il pubblico che la credibilità delle Nazioni Unite è ormai compromessa. Il disastro «continua ad andare avanti», dicono questi gruppi, e bisognerà controllarlo per decenni. «Le cose potrebbero peggiorare» se i venti che hanno soffiato verso Tokyo tornano verso il mare (e verso gli Stati Uniti). C’è un rischio in corso a partire dai prodotti irraggiati e tra i lavoratori del luogo perché non si stanno controllando né le dosi di radiazioni né il loro impatto sulla salute. Le stime delle dosi attuali non sono affidabili e bisogna tener conto con attenzione dei gravi impatti delle radiazioni sull’embrione umano. Gli studi dell’Unscear sulla radiazione di fondo sono anch’essi «ingannevoli», dicono i gruppi, e vanno portati a termine nuovi studi sugli effetti delle radiazioni in genetica e nelle “malattie non cancerose”.L’affermazione dell’Onu, secondo cui «non ci si aspetta effetti conoscibili sulla salute in relazione con le radiazioni tra le persone esposte» è «cinica», dicono questi gruppi. Aggiungono che le cose possono peggiorare, dato il rifiuto ufficiale di distribuire pastiglie di ioduro di potassio, che avrebbero potuto proteggere le persone dai danni alla tiroide causati dalla liberazione massiva dell’elemento radioattivo I-131. Ma le orribili notizie di Fukushima possono solo peggiorare: le radiazioni dei tre nuclei difettosi si stanno ancora riversando nel Pacifico. Il controllo delle barre di combustibile danneggiate nelle piscine sospese in aria e sparse attorno al luogo continua ad essere molto pericoloso. Il regime pro-energia atomica di Shinzo Abe vuole riaprire i 48 reattori che restano in Giappone. E sta facendo gradi pressioni sulle famiglie fuggite dopo il disastro perché tornino ad occupare le case e le città irradiate. Ma Three Mile Island, Chernobyl e il disastro di morte e malattie che si sta manifestando attorno a Fukushima rendono molto chiaro che il costo umano di queste decisioni continua ad aumentare e che sono i nostri bambini quelli che per primi ne soffrono il peggio.(Harvey Wassermann, “I bambini di Fukushlina stanno morendo”, da “Counterpunch” del 16 giugno 2014, ripreso da “Come Don Chisciotte”. Analista e scrittore, Wassermann è un organizzatore del movimento antinucleare negli Stati Uniti).Trentanove mesi dopo le varie esplosioni di Fukushima, il tasso di cancri della tiroide tra i bambini che vivono intorno si è elevato più di 40 volte oltre il normale. Più del 48% dei 375.000 giovani – quasi 200.000 bambini – esaminati dall’Università Medica di Fukushima nei dintorni dei fiammeggianti reattori soffrono di disturbi pre-cancerosi alla tiroide, soprattutto noduli e cisti. Il tasso va accelerando. Sono stati registrati più di 120 cancri infantili dove prima se ne registravano solo 3, dice Joseph Mangano, direttore esecutivo del Progetto Salute Pubblica e Radiazioni. L’industria nucleare e i suoi difensori continuano a negare questa tragedia della salute pubblica. Alcuni sono arrivati a dichiarare che «nessuna persona» è stata colpita dalla liberazione massiccia di radiazioni di Fukushima che, in relazione ad alcuni isotopi, ha superato quelle di Hiroshima per quasi 30 volte.