Archivio del Tag ‘Ucraina’
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Il vero Brzezinski, grande architetto del terrorismo moderno
Era lui il vero “inventore” del cosiddetto “terrorismo islamico”. Zbigniew Brzezinski, già consulente per la sicurezza nazionale di Jimmy Carter, spentosi il 26 maggio 2017 all’età di 89 anni, è stato «il grande architetto del terrorismo moderno», secondo il blog “The AntiMedia”, che prova a riassumerne l’eredità. «Mentre il Regno Unito si destreggia con la “minaccia terroristica” ai più alti livelli, dopo un attacco devastante ispirato dall’Isis, e mentre le Filippine entrano in uno stato di legge marziale quasi totale, dopo la devastazione ispirata dall’Isis, la morte di Brzezinski giunge al momento giusto, come stimolo a una comprensione più profonda dell’origine del terrorismo moderno». Come spiega il “New York Times”, «il profondo odio di Brzezinski contro l’Unione Sovietica» ha guidato molta della politica estera americana, «nel bene e nel male». Brzezinski sostenne l’invio di miliardi di dollari ai militanti islamisti che combattevano contro l’invasione delle truppe sovietiche in Afghanistan. E incoraggiò tacitamente la Cina a mantenere il suo sostegno al brutale regime di Pol Pot in Cambogia, nel timore che i vietnamiti, sostenuti dall’Urss, prendessero il controllo del paese. Ma il “New York Times” «non non rende giustizia al vero orrore dietro le politiche di Brzezinski».Dopo che un colpo di stato in Afghanistan, nel 1973, aveva istituito un nuovo governo laico favorevole ai sovietici, gli Usa si impegnarono a rovesciarlo con una serie di tentativi di colpi di Stato «tramite i paesi lacché dell’America, il Pakistan e l’Iran (che a quel tempo era sotto il controllo dello Shah, sostenuto dagli Usa», scrive “The AntiMedia” in un post tradotto da “Voci dall’Estero”. Nel luglio 1979 Brzezinski autorizzò ufficialmente il sostegno ai ribelli mujaheddin in Afghanistan, tramite il programma della Cia denominato “Operazione Ciclone”. «Molti oggi difendono la decisione dell’America di armare i mujaheddin in Afghanistan, perché credono che fosse necessario per difendere il paese, e l’intera regione, dall’aggressione sovietica. Tuttavia le stesse affermazioni di Brzesinski contraddicono in pieno questa giustificazione». In un’intervista del 1998, Brzezinski ammise che, nel condurre questa operazione, l’amministrazione Carter stava «consapevolmente aumentando la probabilità» che i sovietici intervenissero militarmente. In altre parole, Brzezinski suggerisce che gli Usa «avessero iniziato ad armare le fazioni islamiste già prima dell’invasione sovietica».Brzezinski disse poi: «Pentirci di cosa? Quella operazione segreta fu un’idea eccellente. Ebbe l’effetto di attirare i russi nella trappola afghana e volete che me ne penta? Il giorno in cui i sovietici varcarono ufficialmente il confine afghano scrissi al presidente Carter: ora abbiamo l’opportunità di dare all’Urss il suo Vietnam». Questa affermazione, annota “The AntiMedia”, andava al di là del semplice vanto di avere istigato una guerra e il collasso definitivo dell’Unione Sovietica. Nelle sue memorie, intitolate “From the Shadows“, Robert Gates – ex direttore della Cia sotto Ronald Reagan e George W. Bush, nonché segretario alla difesa sia sotto Bush junior che sotto Obama – confermò direttamente che quella operazione segreta iniziò sei mesi prima dell’invasione sovietica, proprio con l’intento di attirare i russi in un pantano in stile vietnamita. «Brzezinski sapeva esattamente cosa stava facendo. I sovietici si impantanarono in Afghanistan per circa dieci anni, combattendo contro una riserva interminabile di armi fornite dagli americani e di combattenti addestrati dagli americani. A quel tempo i media si spinsero al punto di elogiare Osama Bin Laden – una delle figure più influenti dell’operazione segreta di Brzezinski. Sappiamo tutti come è andata a finire».Perfino dopo la piena consapevolezza di ciò che era diventata la sua creazione finanziata dalla Cia, nel 1998 Brzezinski fece queste dichiarazioni ai suoi intervistatori: «Cos’è più importante per la storia del mondo? I Talebani o il crollo dell’impero sovietico? Un po’ di musulmani scalmanati o la liberazione dell’Europa Centrale e la fine della guerra fredda?». L’intervistatore, allora, si rifiutò di lasciar passare questa risposta come se nulla fosse, e ribatté: «Un po’ di musulmani scalmanati? Ma è stato detto e ripetuto che il fondamentalismo islamico rappresenta una minaccia per il mondo moderno». Brzezinski troncò questa affermazione dicendo: «Nonsense!». Cose di questo genere, osserva il blog, «succedevano quando i giornalisti facevano ancora domande pressanti ai funzionari di governo, cosa che oggi accade assai di rado». Di fatto, il sostegno di Brzezinski a questi elementi radicali portò direttamente alla formazione di Al-Qaeda, che letteralmente significa “la base”, perché era in effetti la base da cui si lanciava la controffensiva contro l’invasione sovietica che si stava anticipando. «Ciò portò anche alla creazione dei Talebani, la mortale creatura che oggi sta combattendo una battaglia all’ultimo sangue contro le forze Nato».Inoltre, nonostante le affermazioni di Brzezinski, che cerca di far passare l’idea di una sconfitta definitiva dell’impero russo, «la verità è che, per Brzezinski, la guerra fredda non è mai terminata», sottolinea “The AntiMedia”. «Sebbene sia stato critico riguardo all’invasione dell’Iraq nel 2003, Brzezinski ha mantenuto un forte controllo sulla politica estera americana fino al momento della sua morte: non è una coincidenza che, in Siria, l’amministrazione Obama abbia adottato una strategia del tipo “pantano afghano” contro un altro alleato della Russia: il regime di Assad». Un comunicato divulgato da Wikileaks, datato dicembre 2006 e firmato da William Roebuck, a quel tempo incaricato d’affari presso l’ambasciata americana a Damasco, allude esplicitamente alla possibilità concreta di scommettere su «una crescente presenza di estremisti islamisti». Un po’ come con l’Operazione Ciclone in Afghanistan, sotto Barack Obama «la Cia ha speso circa un miliardo di dollari all’anno per addestrare i ribelli siriani, affinché si impegnassero in tattiche terroristiche». E la maggioranza di questi ribelli «condivide l’ideologia fondamentalista dell’Isis e ha l’obiettivo esplicito di stabilire la legge della Sharia in Siria».Proprio come in Afghanistan, la guerra in Siria ha coinvolto formalmente la Russia nel 2015, e l’eredità di Brzezinski è stata mantenuta viva attraverso gli “avvertimenti” di Obama al presidente russo Vladimir Putin, che avrebbe spinto la Russia verso un altro pantano in stile afghano. «Da chi può aver acquisito, Obama, queste tecniche “alla Brzezinski”, gettando la Siria nell’orrore di sei anni di guerra e di nuovo trascinando una grossa potenza nucleare in un conflitto pieno di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità?». Ecco la risposta: «Le ha acquisite da Brzezinski stesso». Secondo Obama, Brzezinski è stato un suo mentore personale, un «amico eccezionale», dal quale ha imparato moltissimo. «Alla luce di questo, c’è forse da sorprendersi che siano sorti così tanti conflitti dal nulla durante la presidenza Obama?». Un’azione a tutto campo, dal Medio Oriente all’Ucraina: il 7 febbraio 2014, la “Bbc” ha pubblicato la trascrizione dell’intercettazione telefonica di una conversazione tra l’assistente segretaria di Stato, Victoria Nuland, e l’ambasciatore americano in Ucraina, Geoffrey Pyatt. In quella conversazione, i due alti funzionari «stavano discutendo su chi avrebbero voluto piazzare al governo ucraino dopo il colpo di Stato che aveva cacciato il presidente filorusso Viktor Yanukovych».Ed ecco che Brzezinski stesso, nel suo libro del 1998, “La Grande Scacchiera”, sosteneva la necessità di prendere il controllo dell’Ucraina, dicendo che era «uno spazio nuovo e importante sulla scacchiera euroasiatica, un perno geopolitico, perché la sua stessa esistenza come nazione indipendente implicava che la Russia cessasse di essere un impero euroasiatico». Brzezinski ammoniva contro l’eventualità di permettere alla Russia di prendere il controllo dell’Ucraina, perché «la Russia si riprenderebbe automaticamente i mezzi per tornare ad essere un potente Stato imperiale, con influenze sia in Europa che in Asia». Dopo Obama, Donald Trump è salito in carica con tutta un’altra mentalità, con l’idea di lavorare con la Russia e con il governo siriano per combattere l’Isis. «Non c’è da sorprendersi che Brzezinski non abbia sostenuto la campagna di Trump per la presidenza, e abbia ritenuto che le idee di Trump sulla politica estera mancassero di coerenza», aggiunge “The AntiMedia”. Poi, forse, qualche ripensamento in extremis: l’anno scorso, Brzezinski è sembrato aver cambiato posizione sulla “geopolitica del terrore”, iniziando a sostenere una redistribuzione del potere globale, alla luce del fatto che gli Usa non sono più la grande potenza imperiale di un tempo.Tuttavia, Brzezinski sembrava ancora ritenere che, senza il ruolo-guida dell’America, il risultato sarebbe stato solo «il caos globale». Pare perciò improbabile che il suo cambiamento di posizione fosse fondato su un cambiamento reale e significativo sullo scacchiere geopolitico. «La stessa esistenza della Cia è fondata sull’idea di una minaccia russa, come è stato evidenziato dall’aggressione decisa da parte della stessa Cia contro l’amministrazione Trump non appena si è delineata una possibile distensione con l’ex Unione Sovietica», conclude “The AntiMedia”. «Brzezinski è morto nella tranquillità del suo letto di ospedale, a differenza di milioni di civili sfollati e assassinati, risucchiati nel suo contorto gioco di scacchi geopolitico, fatto di sangue e follia. La sua eredità è la militanza jihadista, la formazione di Al-Quaeda, il più devastante attacco su suolo americano che sia mai stato fatto da un’entità straniera nella storia recente, e la demonizzazione della Russia come eterno avversario, con il quale la pace non si può e non si deve fare».Era lui il vero “inventore” del cosiddetto “terrorismo islamico”. Zbigniew Brzezinski, già consulente per la sicurezza nazionale di Jimmy Carter, spentosi il 26 maggio 2017 all’età di 89 anni, è stato «il grande architetto del terrorismo moderno», secondo il blog “The AntiMedia”, che prova a riassumerne l’eredità. «Mentre il Regno Unito si destreggia con la “minaccia terroristica” ai più alti livelli, dopo un attacco devastante ispirato dall’Isis, e mentre le Filippine entrano in uno stato di legge marziale quasi totale, dopo la devastazione ispirata dall’Isis, la morte di Brzezinski giunge al momento giusto, come stimolo a una comprensione più profonda dell’origine del terrorismo moderno». Come spiega il “New York Times”, «il profondo odio di Brzezinski contro l’Unione Sovietica» ha guidato molta della politica estera americana, «nel bene e nel male». Brzezinski sostenne l’invio di miliardi di dollari ai militanti islamisti che combattevano contro l’invasione delle truppe sovietiche in Afghanistan. E incoraggiò tacitamente la Cina a mantenere il suo sostegno al brutale regime di Pol Pot in Cambogia, nel timore che i vietnamiti, sostenuti dall’Urss, prendessero il controllo del paese. Ma il “New York Times” «non non rende giustizia al vero orrore dietro le politiche di Brzezinski».
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Craig Roberts: tradire chi li ha votati è la loro vera missione
La svendita di Trump al termine della svendita di Obama, durata otto anni. Istruttivo: ora abbiamo un presidente democratico che ha svenduto i suoi elettori, e un presidente repubblicano che ha appena fatto la stessa cosa. Questo è un punto molto interessante, il cui significato sfugge alla maggior parte delle persone – ma non al presidente russo Vladimir Putin, che al summit del Club Valdai ha riassunto lo stato della democrazia occidentale in termini che riassumo così, parafrasandoli: “In Occidente, gli elettori non possono cambiare la politica attraverso le elezioni, perché le élite dominanti controllano chiunque sia eletto. Le elezioni danno l’illusione della democrazia, ma il voto non cambia le politiche che favoriscono la guerra e le élite. Pertanto, la volontà popolare è neutralizzata. I cittadini vedono che il loro voto non ha alcuna influenza sugli affari del paese. Ciò li rende impauriti, frustrati e arrabbiati: una combinazione di emozioni pericolose per l’élite dominante che, in risposta, orienta i poteri dello Stato contro il popolo, esortandoli con la propaganda a sostenere altre guerre. Obama aveva promesso di uscire dall’Afghanistan o dall’Iraq, o forse da entrambi i paesi. Aveva promesso di abolire lo “Stato di polizia” creato dal regime di George W. Bush. E aveva promesso di concentrare le risorse americane sui problemi domestici, come l’assistenza sanitaria”.Ma cosa ha fatto, Obama? Ha esteso le guerre in corso e ne ha lanciate di nuove, ha distrutto la Libia e tentato di distruggere la Siria, ma è stato fermato dalla non-partecipazione britannica e dall’opposizione russa. Ha rovesciato i governi democratici in Honduras e in Ucraina. Ha ampliato lo “Stato di polizia”. Ha iniziato la demonizzazione della Russia e di Putin. Ha tradito nuovamente il popolo americano, permettendo all’industria assicurativa privata di scrivere il suo piano sanitario, conosciuto come Obamacare. Gli interessi privati, di fatto, hanno predisposto direttamente il programma, che dirotta i fondi pubblici dall’assistenza sanitaria verso i loro profitti. Tutto questo è stato dimenticato quando le élite governative e i media “presstiuti” al loro servizio hanno rifocalizzato la demonizzazione su Trump. Improvvisamente, il presidente neo-eletto è diventato il principale pericolo per gli Stati Uniti e per il popolo americano. Trump era un agente russo. Aveva cospirato con Putin per rubare l’elezione a Hillary Clinton e rendere la Casa Bianca un partner della presunta riconfigurazione di Putin dell’Impero Sovietico.Una sciocchezza furiosa, ma efficace. Così Trump ha ceduto alla pressione e ha sacrificato il suo consigliere per la sicurezza nazionale, che aveva sostenuto la promessa di normalizzare i rapporti con la Russia. Trump lo ha sostituito con un idiota russofobo che, a quanto pare, non vede l’ora di vedere nubi a forma di fungo atomico sulle città di tutto il mondo occidentale. Perché i due presidenti succedutisi alla Casa Bianca hanno completamente “venduto” la gente che aveva votato per loro? La risposta è che i presidenti non sono tanto potenti quanto i gruppi di interesse che prendono le decisioni. Trump era d’accordo sull’idea di sganciarsi dalla Siria, ma poi ha commesso un ambiguo crimine di guerra, attaccando gratuitamente Siria con i missili Tomahawk. Stava per normalizzare i rapporti con la Russia, ma ora il suo segretario di Stato annuncia che le sanzioni economiche statunitensi resteranno invariate, sulla Russia, finché Mosca non cede all’Ucraina la sua base navale sul Mar Nero, in Crimea. È impossibile normalizzare le relazioni quando il loro costo, per l’altra parte, è il suicidio nazionale.Nonostante la completa resa di Trump a quei poteri, il 2 maggio su “Npr” (National Public Radio) ho sentito della grezza propaganda, travestita da “opinione di esperti”, secondo cui Trump sarebbe allergico ai media, quando invece quello che tutti abbiamo visto è una massiccia preoccupazione dei media contro Trump, compreso il programma che stavo ascoltando. “Npr”, ad esempio, aveva messo insieme “esperti” che dicevano che Trump avesse calunniato Obama, accusandolo di intercettare le sue comunicazioni. “Npr” non ha detto niente sull’attacco del regime Obama contro Trump, accusato di aver cospirato con Putin per “scippare” l’elezione da Hillary Clinton. Se c’era una calunnia era proprio quella, e invece il discorso, in radio, era tutto concentrato su come Obama potrebbe citare in giudizio Trump. Ma perché l’oligarchia dominante utilizza ancora i suoi “presstituti” per combattere contro un presidente che si è arreso? Forse la risposta è che il vero potere sta “pestando” Trump a mo’ di avvertimento, in modo che nessun candidato faccia mai più un appello populista all’elettorato.(Paul Craig Roberts, “Democrazia americana, un morto che cammina”, dal blog di Craig Roberts del 2 maggio 2017).La svendita di Trump al termine della svendita di Obama, durata otto anni. Istruttivo: ora abbiamo un presidente democratico che ha svenduto i suoi elettori, e un presidente repubblicano che ha appena fatto la stessa cosa. Questo è un punto molto interessante, il cui significato sfugge alla maggior parte delle persone – ma non al presidente russo Vladimir Putin, che al summit del Club Valdai ha riassunto lo stato della democrazia occidentale in termini che riassumo così, parafrasandoli: “In Occidente, gli elettori non possono cambiare la politica attraverso le elezioni, perché le élite dominanti controllano chiunque sia eletto. Le elezioni danno l’illusione della democrazia, ma il voto non cambia le politiche che favoriscono la guerra e le élite. Pertanto, la volontà popolare è neutralizzata. I cittadini vedono che il loro voto non ha alcuna influenza sugli affari del paese. Ciò li rende impauriti, frustrati e arrabbiati: una combinazione di emozioni pericolose per l’élite dominante che, in risposta, orienta i poteri dello Stato contro il popolo, esortandoli con la propaganda a sostenere altre guerre. Obama aveva promesso di uscire dall’Afghanistan o dall’Iraq, o forse da entrambi i paesi. Aveva promesso di abolire lo “Stato di polizia” creato dal regime di George W. Bush. E aveva promesso di concentrare le risorse americane sui problemi domestici, come l’assistenza sanitaria”.
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Hanno mangiato la brioche: Macron, capolavoro del potere
Oggi sono tutti contenti che Macron sia riuscito a sconfiggere il fascismo. Non è stato da meno di Reagan, Thatcher, Sarkozy, Merkel, Hollande, i Chicago boys e Pinochet i quali di volta in volta hanno salvato il popolo dalle insidie dell’“estrema sinistra”, del “populismo” del “castro-chavismo”, del “sovranismo”, del comunismo. Ora i francesi hanno la loro brioche e dunque potranno continuare la guerra in Siria, aiutare i nazisti ucraini, continuare a fare stragi in Africa per sostenere dittature tribali, non mettere mai più in dubbio la Nato, ma soprattutto potranno finalmente lasciarsi alle spalle gli obsoleti diritti del lavoro. Ben presto ci si accorgerà che in Francia ha vinto comunque la destra e dopo le legislative di giugno, Macron mostrerà il suo vero volto facendo scoprire che la sostanza marroncina con la quale è farcita la brioche non è precisamente crema al cioccolato. Del resto cosa ci si può attendere da uno la cui candidatura al potere è stata di fatto avanzata dal seguace dell’eugenetica Jacques Attali, a una riunione di Bilderberg nel 2014?E cosa ci si può aspettare da corpi elettorali sistematicamente frastornati da un’informazione divenuta cane da guardia del gregge e sempre più composti dalle generazioni perdute, rassegnate alla precarietà, votate al dilettantismo e orgogliose di “spiccicare” in inglese per poter imitare modelli di subordinazione e di primitivismo antropologico? Cosa ci si può attendere da giovani di apparente sinistra che affermano di aver dovuto scegliere tra fascismo e capitalismo? Nemmeno si accorgono che i capitalisti hanno scelto per loro fin dall’inizio, che hanno creato le condizioni per una dicotomia così ridicola tra una signora di provincia piuttosto confusa e dunque anche erratica sui temi della campagna e un giovanotto ricco, arrogante e del tutto irrilevante sul piano della politica e dell’intelligenza. Li hanno messi nel recinto lasciando che fossero loro stessi a chiuderlo; il vecchio fascismo è usato da quello nuovo come un’arma per la lotta di classe.Per quanta generosità e per quanta abilità possano avere i dirigenti che vengono da un altro mondo come Mélenchon, cosa possono mai fare con questa creta antropologica creata dal neoliberismo? E’ come se Michelangelo dovesse creare la Pietà col pongo e dipingere la Sistina con le bombolette. Infatti chi non voleva scegliere il capitalismo poteva astenersi invece di andare a fornire il proprio contributo, negare quanto meno il consenso, relativizzando la vittoria di Macron. E di certo non si ci saranno difficoltà per la potente macchina mediatica a riproporre lo stesso rozzo schema dicotomico alle legislative tra poco più di un mese. Sarà ancora capitalismo contro fascismo, democrazia contro comunismo, crescita contro i fantasmi di recessione annunciata, sicurezza contro libertà (magari con qualche sollecitato apporto del Califfo), il giovane presidente contro il vecchio Parlamento anche se a Macron non dovrebbe poi dispiacere: insomma la caricatura della dialettica, quella che è stata così efficace specie dopo il crollo del comunismo e il contemporaneo crollo della cultura politica.Mélenchon, il leader della sinistra, aveva rifiutato di cadere in questo semplicistico tranello, evitando la logica del meno peggio nella speranza di poter mettere un argine ai poteri finanziari almeno alle legislative, condizionando l’Eliseo, ma dai risultati che vediamo, dalla demonizzazione e dal ricatto che è stato esercitato su di lui e dalla esiguità della pattuglia dei non macronisti per necessità, si può legittimamente dare per fallito anche questo progetto. C’è chi pensa che questa situazione di impotenza porterà a una serie di secessioni interne nella sinistra, tra Francia periferica e Francia metropolitana, tra Francia repubblicana e Francia mussulmana, tra Francia operaia e Francia borghese, insomma a una decostruzione del paese. Ma questo è per l’appunto l’obiettivo del capitale globale: fare in modo che vi sia meno società collettiva possibile per potere dominare meglio: più un paese è spaccato all’interno, meglio è, nonostante i problemi che questo può creare. Quindi è vero che Macron all’Eliseo finirà per radicalizzare la battaglia politica, ma nel contesto attuale questo non potrà che portare acqua al mulino dei suoi burattinai.(“Hanno mangiato la brioche”, dal blog “Il Simplicissimus” dell’8 maggio 2017).Oggi sono tutti contenti che Macron sia riuscito a sconfiggere il fascismo. Non è stato da meno di Reagan, Thatcher, Sarkozy, Merkel, Hollande, i Chicago boys e Pinochet i quali di volta in volta hanno salvato il popolo dalle insidie dell’“estrema sinistra”, del “populismo” del “castro-chavismo”, del “sovranismo”, del comunismo. Ora i francesi hanno la loro brioche e dunque potranno continuare la guerra in Siria, aiutare i nazisti ucraini, continuare a fare stragi in Africa per sostenere dittature tribali, non mettere mai più in dubbio la Nato, ma soprattutto potranno finalmente lasciarsi alle spalle gli obsoleti diritti del lavoro. Ben presto ci si accorgerà che in Francia ha vinto comunque la destra e dopo le legislative di giugno, Macron mostrerà il suo vero volto facendo scoprire che la sostanza marroncina con la quale è farcita la brioche non è precisamente crema al cioccolato. Del resto cosa ci si può attendere da uno la cui candidatura al potere è stata di fatto avanzata dal seguace dell’eugenetica Jacques Attali, a una riunione di Bilderberg nel 2014?
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Conflitto mondiale in arrivo? Meyssan: no, è solo teatro
E’ ufficiale: non si capisce più niente, della pericolosa tensione che sta scuotendo il mondo, con epicentro – tanto per cambiare – il Medio Oriente. Sul “Giornale”, Marcello Foa si allarma seriamente: Donald Trump avrebbe appena mobilitato 150.000 riservisti: «Per fare cosa? Un attacco in grande stile alla Siria? Colpire prima Damasco e poi Teheran? In Corea del Nord? Purtroppo la sciagurata svolta di Donald Trump – che si è arreso ai neoconservatori facendo propria l’agenda strategica che in campagna elettorale aveva promesso di combattere – autorizza qualunque ipotesi. Anche quella più drammatica e sconvolgente di una guerra alla Russia di Putin». Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, offre (da mesi) una lettura diversa: quella di Trump, «membro della cordata anti-Bush», sarebbe sempre stata soltanto una tragica farsa, che rivela la guerra interna, ai piani alti, tra gli oligarchi del pianeta: «Sanno che le risorse energetiche stanno finendo, quindi sgomitano per conquistarsi un posto in prima fila da cui sperano di attuare un Piano-B, ciascuno il suo». E, a proposito di “teatro”, dalla Siria un reporter come Thierry Meyssan avverte: l’offensiva anti-siriana, e quindi anti-russa, è solo apparente, affidata a missili “di cartone”, appositamente fuori bersaglio.Se sul suolo siriano sono potuti cadere 59 Tomahawk, scrive Meyssan su “Megachip”, è solo perché Mosca ha “spento” le batterie degli S-400, i suoi missili anti-missile, consentendo cioè a Trump di compiere la sua “performance teatrale”, che rappresenta un disperato tentativo di recuperare consenso interno, dopo i recenti rovesci. Non la pensa così Paul Craig Roberts, già viceministro di Reagan, che – in campagna elettorale – difese la dignità delle istanze di Trump (la distensione con la Russia) denunciando il bellicismo “politically correct” della Clinton, strumento dei “falchi” neocon. Per Craig Roberts, quella di Trump non è cosmesi tattica: si tratta di una svolta vera e propria, che dimostrerebbe la resa del neopresidente all’establishment di Washington, quello che lavora per il “regime change” anche a Mosca, dove spera di rovesciare Putin, che è sotto assedio da anni: la guerra in Siria, quella in Ucraina, le sanzioni alla Russia. Meyssan, al contrario, sostiene che la partita non è ancora chiusa: le «troppe, strane incongruenze» dell’affaire siriano dimostrerebbero che il gruppo di Trump, sottobanco, sta giocando una sfida doppia: cercare di tener buoni i neocon, con concessioni di facciata per salvare la sua poltrona (e forse la sua stessa vita), e sparigliare le carte mettendo in crisi, alla fine, il “partito dell’Isis”, che ha il cervello a Washington e i tentacoli in Medio Oriente.Secondo Meyssan, Trump non ha «improvvisamente cambiato bandiera». Al contrario, asarebbe in corso una complessa pretattica. Lo dimostrerebbero svariati indizi. Tanto per cominciare, al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, l’argomento di un attacco chimico perpetrato da Damasco non era sostenuto dal rappresentante del segretario generale, che infatti ha sottolineto «l’impossibilità, in questa fase, di sapere come questo attacco avrebbe potuto aver luogo». L’unica fonte sono gli “Elmetti Bianchi”, «vale a dire un gruppo di Al Qaeda a cui l’M16 britannico sovrintende ai fini della sua propaganda». Inoltre, aggiunge Meyssan, «tutti gli esperti militari sottolineano che i gas da combattimento devono essere dispersi tramite tiri d’obice e mai, assolutamente mai, tramite bombardamenti aerei». L’attacco americano alla base siriana? «Si è caratterizzato per la sua brutalità apparente: i 59 missili Bgm-109 Tomahawk avevano una capacità combinata equivalente a quasi il doppio della bomba atomica di Hiroshima. Tuttavia, l’attacco è stato anche caratterizzato dalla sua inefficienza: sebbene vi siano stati dei martiri caduti nel tentativo di spegnere un incendio, i danni sono risultati essere così poco importanti che la base funzionava nuovamente già all’indomani».Per Meyssan, è inevitabile constatare sia il fatto questa operazione «è solo una messa in scena: in questo caso, possiamo capire meglio il fatto che la difesa aerea russa non abbia reagito». Ciò implica che «i missili anti-missile S-400, il cui funzionamento è automatico, sono stati disattivati volontariamente in anticipo». Motivazione? «Tutto è accaduto come se la Casa Bianca avesse immaginato uno stratagemma inteso a condurre i suoi alleati in una guerra contro gli utilizzatori di armi chimiche, vale a dire contro i jihadisti. Infatti, fino ad oggi, secondo le Nazioni Unite, i soli casi documentati di uso di tali armi in Siria e in Iraq sono stati attribuiti a loro». Nel corso degli ultimi tre mesi, continua Meyssan, gli Stati Uniti hanno rotto con la politica del repubblicano George Bush Jr. (che firmò la dichiarazione di guerra del “Syrian Accountablity Act”) e di Barack Obama (che sostenne le “primavere arabe”, ossia la riedizione della “Grande rivolta araba del 1916”, organizzata dai britannici). «Tuttavia – aggiunge Meyssan – Donald Trump non era riuscito a convincere i suoi alleati, in particolare tedeschi, britannici e francesi». E ora, «saltando su quel che sembra essere un cambiamento radicale nella politica Usa, Londra ha fatto molte dichiarazioni contro la Siria, la Russia e l’Iran. E il suo ministro degli esteri, Boris Johnson, ha cancellato la sua visita a Mosca».Ma attenzione, ragiona Meyssan: «Se Washington ha cambiato la sua politica, per quale motivo il segretario di Stato Rex Tillerson ha tuttavia confermato la sua visita a Mosca? E perché dunque il presidente Xi Jinping, che si trovava a essere ospite del suo omologo statunitense durante il bombardamento di Chayrat, ha reagito in modo così molle, laddove il suo paese ha fatto uso per ben 6 volte del suo diritto di veto al fine di proteggere la Siria al Consiglio di sicurezza?». Non solo. «In mezzo a questo unanimismo oratorio e a queste incongruenze di fatto – osserva Meyssan – il vice consigliere del presidente Trump, Sebastian Gorka, moltiplica i messaggi che vanno in direzione contraria. Assicura che la Casa Bianca considera sempre il presidente Assad come legittimo e i jihadisti come il nemico». Gorka, spiega Meyssan, «è uno stretto amico del generale Michael T. Flynn che aveva concepito il piano di Trump contro i jihadisti in generale e Daesh in particolare». Come dire: non fatevi incantare dal “teatro” in corso: la verità è molto lontana dalla versione che campeggia nelle prime pagine. All’Onu, la Bolivia ha persino formulato il sospetto che l’attacco coi gas, in Siria, non sia neppure avvenuto. Tempo fa, la Russia esibì la sua potenza missilistica con il lancio di missili Kalibr, supersonici e “invisibili”: partiti da navi nel remoto Mar Caspio, centrarono al millimero tutti gli obiettivi. Il 7 aprile, dal vicinissimo Mediterraneo, gli Usa hanno sparato 59 Tomahawk su una base aerea, senza nemmeno danneggiarne la pista. Strano, no?E’ ufficiale: non si capisce più niente, della pericolosa tensione che sta scuotendo il mondo, con epicentro – tanto per cambiare – il Medio Oriente. Sul “Giornale”, Marcello Foa si allarma seriamente: Donald Trump avrebbe appena mobilitato 150.000 riservisti: «Per fare cosa? Un attacco in grande stile alla Siria? Colpire prima Damasco e poi Teheran? In Corea del Nord? Purtroppo la sciagurata svolta di Donald Trump – che si è arreso ai neoconservatori facendo propria l’agenda strategica che in campagna elettorale aveva promesso di combattere – autorizza qualunque ipotesi. Anche quella più drammatica e sconvolgente di una guerra alla Russia di Putin». Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, offre (da mesi) una lettura diversa: quella di Trump, «membro della cordata anti-Bush», sarebbe sempre stata soltanto una tragica farsa, che rivela la guerra interna, ai piani alti, tra gli oligarchi del pianeta: «Sanno che le risorse energetiche stanno finendo, quindi sgomitano per conquistarsi un posto in prima fila da cui sperano di attuare un Piano-B, ciascuno il suo». E, a proposito di “teatro”, dalla Siria un reporter come Thierry Meyssan avverte: l’offensiva anti-siriana, e quindi anti-russa, è solo apparente, affidata a missili “di cartone”, appositamente fuori bersaglio.
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Buoni e Cattivi, la fiaba della guerra per il Fatto Quotidiano
«Uno spettro si aggira in Medio Oriente. E’ quello della tentazione. La tentazione, cioè, della guerra. Non più “prove di Terza Guerra Mondiale”, come è stato detto. Lo scenario è drammatico, i primi a capirlo sono i mercati finanziari che infatti hanno cominciato a soffrire». A scrivere è Leonardo Coen, sul “Fatto Quotidiano”, all’indomani del raid missilistico ordinato da Trump sulla base area siriana da cui, secondo gli Usa, sarebbero decollati aerei con bombe al gas Sarin destinate a far strage della popolazione di Idlib. Non ci sono ancora prove certe: per il “Fatto Quotidiano” non è importante? Poi, continua Coen, «ad inquietare e ricordare come certe situazioni di oggi assomiglino molto all’inanità del 1938 verso Hitler e alle sue mire d’espansione, c’è il silenzio di Cina ed Europa, che sembrano convitati di pietra». Suggestivo parallelismo: il giornalista del “Fatto” paragona nientemeno che Adolf Hitler, fondatore del nazismo e capo dell’allora maggior potenza militare europea, al presidente di un piccolo paese mediorientale come la Siria, che – come è a tutti noto (tranne che al “Fatto Quotidiano”?) – da cinque anni tenta di sopravvivere all’assalto di sanguinarie milizie terroriste finanziate e protette dall’Occidente.Cina ed Europa, i “convitati di pietra”, secondo Coen «si accontentano di formali condanne appellandosi ai diritti umani». Mosca e Washington? «Per ora si confrontano, ma ancora non si affrontano. Non possono. E’ un braccio di ferro troppo rischioso. E forse, sia per gli Stati Uniti, sia per la Russia, è venuto il tempo di liquidare il dittatore di Damasco e il suo regime criminale». Voilà: il presidente (eletto) diventa “dittatore”, naturalmente a capo di un “regime criminale”: nulla a che vedere con gli altri regimi, amici dell’Occidente, notoriamente campioni in tema di diritti umani: Giordania, Arabia Saudita, Qatar, Turchia e via inorridendo. Ma forse non è il caso di ricordarlo ai lettori del “Fatto”. Meglio il perfido Bashar Assad, che «per la Russia, è un alleato che la scredita e la impiomba». E per l’America, è «l’occasione buona per ricollocarsi in Medio Oriente, e dimostrare che non si è abbassata la guardia». Ricollocarsi in Medio Oriente? Viene da chiedersi dove fosse, Leonardo Coen, quando si scatenavano le “rivoluzioni colorate” in tutti i paesi arabi dopo lo storico discorso di Obama al Cairo. Dov’era, Coen, quando gli americani spianavano la Libia e facevano scannare Gheddafi? Non l’hanno vista, alla redazione del “Fatto”, la foto-ricordo di John McCain in Siria, in intimità con il “califfo” Al-Baghdadi?La narrazione che il “Fatto” offre in questo caso sembra di tipo lunare, genere fantasy. «Così, Trump minaccia. E agisce. Putin minaccia, ma non può agire. Entrambi, giocano una mano di poker: per capire chi bluffa di più. Il magnate americano rischia il salto nel buio. Putin sventola il pericolo del suo “ombrello” militare in Siria. La flotta del Mar Nero è in preallarme. Quella del Baltico, pure. I missili di Kaliningrad, l’enclave russa tra Polonia e Lituania – cioè in piena Unione Europea – sono puntati sulle capitali del Vecchio Continente. L’Alleanza Atlantica è già in allerta». E’ tutto vero, naturalmente. Ma è come spiegare la pioggia senza citare le nuvole. Primo round: nel 2013 gli Usa cercano di far cadere Assad per poter poi minacciare direttamente l’Iran, ma Putin glielo impedisce schierando la flotta russa a difesa della Siria. Secondo round: Washington “risponde” organizzando il golpe in Ucraina con l’intento di sfrattare Mosca dal Mar Nero, ma – di nuovo – Putin riesce a tenersi la Crimea. Terzo round: furioso per le sconfitte a catena, Obama dispone un mostruoso dispiegamento militare in Est Europa a ridosso della frontiera russa, senza precedenti nella storia recente. Al che, ai russi non resta – come contromossa difensiva – che la base missilistica di Kalilingrad. Missili russi puntati sull’Europa? Mai quanto quelli che l’America ha puntato contro la Russia, trasformando la Romania in una rampa di lancio. Possibile che ai lettori del “Fatto” non interessi?«In verità», continua Coen, «Trump ha riscoperto – o meglio, il Pentagono – il ruolo di gendarme globale degli Stati Uniti». Trump, il Pentagono: i Buoni. E Putin, il Cattivo? «E’ rimasto platealmente vittima delle sue ambizioni imperiali», scrive Coen, come se, evidentemente, le uniche “ambizioni imperiali” ammissibili – e davvero imperiali, lontane mille miglia dalle proprie frontiere – fossero quelle americane. Il presidente russo è rimasto addirittura «invischiato nelle complesse trame che ha tessuto per riassegnare al suo paese il ruolo di superpotenza perduto dopo la caduta del Muro di Berlino e lo sbriciolamento dell’Unione Sovietica». Non si premura di rammentare ai suoi lettori, il giornalista del “Fatto”, che – prima di mettere il naso fuori dalla Russia – Putin ha dovuto innanzitutto spegnere l’incendio della Cecenia, acceso dalla Cia, e poi quello dell’Ossezia del Sud, devastata dalla Georgia su mandato di George W. Bush. Due focolai micidiali: uno nella Federazione Russa, l’altro sulla porta di casa. Succedeva nel 2008: non così tanto tempo fa, specie se si hanno a cuore le fatali vicende del lontano 1938.“Il Fatto”, però, non è prodigo di spiegazioni. Sembra preferire il racconto lineare, unilaterale e semplificato, rassicurante. «In apparenza, dunque, l’imprevedibile Donald ha cambiato di colpo tattica nei confronti dell’amico Vladimir. E ha ritirato la mano tesa, che tanto aveva turbato i sonni dei patrioti Usa». I missili di Trump, continua Coen, «hanno sparigliato le carte della grande partita internazionale: il mondo si è diviso in due, come ai tempi della Guerra Fredda. “Sostegno totale” degli alleati degli Stati Uniti. Condanna dei suoi avversari. Le cancellerie hanno rispolverato il lessico dei blocchi contrapposti». Leonardo Coen sembra pefettamente al corrente dell’accaduto: «Assad, insistono i russi, è innocente (per forza: sono loro che l’armano e lo proteggono). I gas, una balla. I russi negano l’evidenza e le testimonianze: tutto il mondo ha visto gli effetti del gas. E questo li ha moralmente isolati». Ecco, infatti: tutto il mondo ha visto gli effetti dei gas, ma nessuno al mondo, per ora, può provare che li abbia sganciati Assad. Solo che, a quanto pare, l’identità del vero killer non è importante. Nemmeno se, come già accadde nel 2013, poi si scoprisse che l’assassino non è “il dittatore”, ma i suoi avversari?«Certo – concede Coen – la politica e la guerra se ne fregano dell’etica e della morale. Ma al tempo dell’informazione istantanea e globale, la menzogna tanto può essere utile – vedi in caso di elezioni – quanto può diventare micidiale, con le immagini cruente ed atroci dei bimbi sarinizzati». Vero, anche questo: tutto dipende però da chi la impugna, “la menzogna”. Quanto al «nuovo repentino cambio d’atteggiamento di Trump», anche su questo Leonardo Coen ha le idee chiarissime: il presidente americano «ha dovuto arrendersi allo stato delle cose: gli interessi geopolitici Usa non collimano con quelli russi». Perlomeno, «non fin quando al Cremlino ci sarà il clan putiniano, nemico della libertà d’opinione, e il potere resterà saldo in mano agli ex uomini del Kgb». E così l’album dei Cattivi è al completo. E se i russi – quasi 150 milioni di persone – sostengono all’85% un capoclan del Kgb, significa semplicemente che sono cretini? Centocinquanta milioni di cretini?Ma non è tutto: Coen informa i suoi lettori che «Trump ha cozzato contro il mondo reale: quello dei fatti, non delle verità truccate dal suo guru Stephen Bannon, ed ex direttore del sito dell’ultradestra suprematista Breitbart News, messo (finalmente) in un angolo». Bannon, altro membro d’onore del club dei Cattivi, era – per inciso – lo stratega della distensione con Mosca: via lui, infatti, ecco i missili (buoni, ovviamente). Ma, “sistemato” Bannon, l’offensiva (giornalistica) nei confronti di Putin non è ancora esaurita: «Pensava di essere il più astuto del reame, di poter contare per quel che riguardava la Siria di una certa libertà di manovra, forte anche del fatto che in Occidente c’erano movimenti estremisti anti-Ue a lui favorevoli. Invece – scrive Coen – è rimasto intrappolato dalla sua sicumera». Ben gli sta: «I gas che hanno ammazzato decine di bimbi a Khan Sheikhoun hanno dissipato in pochi minuti il paziente lavorìo militare e diplomatico del presidente russo». Non solo: «Persino il nuovo alleato turco Erdogan lo ha clamorosamente contraddetto, invocando addirittura la collera di Allah per l’ignobile azione attribuita ad Assad, o a qualche suo generale, il che non cambia la sostanza». Erdogan, cioè la Turchia (Nato) che ha protetto l’Isis nell’invasione della Siria: nemmeno questo ai lettori interessa?In più, Coen esibisce altre granitiche certezze sul bombardamento con i gas: «Gli americani avevano acquisito le prove – stavolta non inventate da Bush e Blair come al tempo della guerra in Iraq ma documentate dai satelliti – che l’attacco chimico proveniva da un aereo siriano». Le prove, ecco: ma dove sono? Ok, le hanno “acquisite gli americani”. Come le altre volte, in Siria e in Iraq? No, stavolta sono prove vere, “documentate dai satelliti”. Garantisce il “Fatto Quotidiano”. Che si diverte, ancora, a spese di Putin: mentre i Buoni “acquisivano le prove”, dunque, «lo zar si affannava a dire che si trattava di “fake news”, di balle». Chiosa Coen: «Beffardo contrappasso, l’ex tenente colonnello del Kgb che denuncia la disinformatija americana…». E ancora: «Assad è il responsabile di tutto ciò». Chi lo sostiene? Lo dicono «all’unisono» Hollande e la Merkel. Una garanzia: Hollande ha silenziato le indagini su Charlie Hebdo imponendo il segreto militare, dopo che erano emersi collegamenti tra il commando dell’Isis e i servizi francesi, mentre la Merkel, risultata coinvolta nel golpe neonazista di Kiev, ha approvato il piano Obama per militarizzare le frontiere europee con la Russia.«I missili Usa – scrive ancora Coen – sono “un avvertimento”, e pure una forma di “condanna” del “regime criminale” di Assad». La situazione: «Con Washington stanno Arabia Saudita e Giappone, Israele offre il suo “totale” sostegno, sperando che “questo messaggio forte” possa essere inteso da Teheran e da Pyongyang, ha dichiarato il premier Benyamin Netanyahu», campione del mondo in carica riguardo all’uso di armi di distruzione di massa sulla popolazione civile, il fosforo bianco sganciato su Gaza (oltre 1.300 morti, secondo l’Onu, inclusi donne e bambini). E la Turchia, cioè la base logistica settentrionale dell’operazione-Isis contro Damasco? «Ankara vorrebbe una zona “d’esclusione aerea” in Siria, considera che i missili siano stati una buona medicina». Meglio tornare al lessico calcistico: «Il Pentagono ha battuto il Cremlino? La “punizione” americana per la strage provocata dall’attacco chimico che ha un valore soprattutto dimostrativo, trova consenso nella pubblica opinione statunitense e anche in quella mondiale, scossa dall’atrocità del tiranno di Damasco. Assad si è scavato la fossa». Vinceranno i Buoni, è ovvio. E buonanotte, a tutti i lettori. Sogni d’oro.«Uno spettro si aggira in Medio Oriente. E’ quello della tentazione. La tentazione, cioè, della guerra. Non più “prove di Terza Guerra Mondiale”, come è stato detto. Lo scenario è drammatico, i primi a capirlo sono i mercati finanziari che infatti hanno cominciato a soffrire». A scrivere è Leonardo Coen, sul “Fatto Quotidiano”, all’indomani del raid missilistico ordinato da Trump sulla base area siriana da cui, secondo gli Usa, sarebbero decollati aerei con bombe al gas Sarin destinate a far strage della popolazione di Idlib. Non ci sono ancora prove certe: per il “Fatto Quotidiano” non è importante? Poi, continua Coen, «ad inquietare e ricordare come certe situazioni di oggi assomiglino molto all’inanità del 1938 verso Hitler e alle sue mire d’espansione, c’è il silenzio di Cina ed Europa, che sembrano convitati di pietra». Suggestivo parallelismo: il giornalista del “Fatto” paragona nientemeno che Adolf Hitler, fondatore del nazismo e capo dell’allora maggior potenza militare europea, al presidente di un piccolo paese mediorientale come la Siria, che – come è a tutti noto (tranne che al “Fatto Quotidiano”?) – da cinque anni tenta di sopravvivere all’assalto di sanguinarie milizie terroriste finanziate e protette dall’Occidente.
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Nuovo disordine mondiale: morti gli Stati, c’è solo il denaro
L’attuale situazione internazionale desta in molti preoccupazione e sorpresa: non esiste un ordine mondiale, stiamo scivolando verso l’anarchia internazionale e questo fa temere l’approssimarsi di nuove guerre, sino all’esplosione di un nuovo grande conflitto mondiale. Passi per la preoccupazione: in effetti c’è un allargamento delle aree di scontro con archi di crisi di migliaia di chilometri, dalla Libia all’Afghanistan, dalla Siria all’Ucraina e forse l’Estonia, dalla Corea alle isole Senkaku-Diaoyu che potrebbe allungarsi sino alle Paracel; per non dire dell’iperterrorismo. In effetti il timore di una escalation che porti ad un conflitto generalizzato è plausibile. Quello che, invece, è strano è la sorpresa della quale ci sorprendiamo. L’ordine mondiale è sempre stato pensato come equilibrio fra Stati; ma, con l’avvento della globalizzazione neoliberista, ci è stato spiegato che gli Stati nazionali erano solo una reliquia del passato destinata a rapida scomparsa; comunque, dovevano astenersi da qualsivoglia politica economica, che non fosse nell’ambito della più stretta ortodossia mercatista. Nello stesso tempo è iniziata una frenetica delocalizzazione di gran parte della manifattura dai paesi occidentali a quelli di Asia, Africa ed America Latina, che ha modificato fortemente il Pil di quei paesi consentendo loro una spesa militare senza precedenti. E tutto questo ha provocato un marcato riallineamento dei rapporti di forza fra i diversi paesi.Quanto alle sconclusionate avventure degli Usa nei paesi mediorientali e della loro misera conclusione non è neppure il caso di dire. E, date queste premesse, perché mai sarebbe dovuta andare diversamente? E’ andata come era logico che andasse. L’idea che la globalizzazione sarebbe stata un’epoca di stabile “ordine mondiale”, nonostante il deperimento degli Stati nazionali, si basava essenzialmente sulla convinzione che di Stato ne bastasse uno, quello Usa, di cui tutti gli altri sarebbero stati solo pallide agenzie locali. Molto successo ebbe chi (Negri) parlava di un mitico Impero acefalo, di cui gli Usa erano solo il principale braccio esecutivo, non si capisce al servizio di quale cervello, una sorta di Impero-processo che superava definitivamente l’ordine westfalico verso non si sa bene cosa. E c’era anche chi (Huntington) parlava, con maggiore realismo, di un ordine mondiale fondato su sette o otto modelli di civiltà, raccolti intorno ad una nazione guida, ma pur sempre basato sull’egemonia occidentale, se non proprio americana e basta. Ma le cose non sono andate in questo senso, e la realtà si è dimostrata molto più fantasiosa dei progettisti del nuovo ordine mondiale.L’esperienza storica dimostra che, quando emerge un credibile disegno egemonico, si forma una coalizione dei soggetti più deboli (o comunque di quanti se ne sentono aggrediti) contro di esso e, non di rado, la coalizione vince. Waterloo, Stalingrado, Verdun, stanno lì a dimostrarlo. E’ accaduto anche questa volta, prima con la Comunità di Shanghai, a guardia dello spazio strategico cino-russo, e poi con la formazione del Bric, che alleava una ex grande potenza in via di ripresa (la Russia) con tre emergenti (Cina, India, Brasile), e cui, poco dopo, si aggiungeva il Sud Africa. Nasceva così l’embrione di un incerto ordine mondiale basato su una sola grande potenza ed un certo numero di grandi potenze regionali. La prima era l’unica in grado di intervenire in ogni angolo del pianeta, grazie alle sue 745 basi militari, alle sue 7 flotte e al predominio satellitare, ma le altre in grado di difendere militarmente il proprio spazio strategico. Per di più la globalizzazione moltiplicava i piani di scontro rendendoli insieme interdipendenti (economia, finanza, guerra cognitiva, soft power, guerra coperta, iperterrorismo) e la stessa dimensione spaziale acquisiva tre nuove sfere (sottosuolo marino, cyber-spazio e spazio satellitare) per cui la difesa del predominio assoluto, in ogni dimensione e su ciascun piano di scontro, comporta costi proibitivi, e questo rende sempre più imperfetto quel predominio unilaterale che sembrava destinato a durare a lungo nel tempo.Negli interstizi di questo ordine ineguale, si inserivano man mano nuovi attori di minore peso (Indonesia, Messico, Turchia, Egitto, Arabia Saudita, Argentina, Venezuela, Vietnam, Pakistan, le due Coree, eccetera), ma che iniziavano a giocare in autonomia una propria partita nella sfera di appartenenza. Nello stesso tempo, i pilastri delle alleanze occidentali iniziavano a indebolirsi, mostrando vistose crepe: l’Unione Europea, priva di un progetto strategico di sé, iniziava a naufragare con il riemergere dei protagonismi nazionali, la Nato andava perdendo senso, sotto i colpi dell’unilateralismo americano voluto da Bush e poi solo parzialmente smentito da Obama, nel Fmi iniziava a sentirsi la pressione dei nuovi soggetti (Cina in testa) e fra Usa ed Europa iniziavano a manifestarsi i sintomi di una guerra commerciale e monetaria. E il mondo ha iniziato a dividersi in tre aree, così come lo descrive la copertina del libro di Di Nolfo: quella verde del blocco occidentale (Usa, Ue, Australia, Giappone), quella gialla dell’area Bric (India, Russia, Cina, Brasile, cui aggiungeremmo il Sud Africa e i paesi intermedi fra Russia e Cina) e quella viola, che definiremmo “della turbolenza”, che include l’America Latina ispanofona, l’Africa, i paesi islamici e singole aree asiatiche come il Vietnam. Il tutto in un equilibrio precario pronto a far pendere un piatto della bilancia o l’altro.Inizialmente la sfida degli emergenti venne taciuta o avanzata con grande timidezza, tanto che, ancora nel 2012, Kupchan poteva illudersi che il predominio americano, vuoi per i rapporti di forza militari, vuoi per quelli finanziari, non era destinato ad affievolirsi, per cui l’odine mondiale sarebbe rimasto lo stesso ancora per un tempo indefinito, e che eventuali sfidanti potevano al massimo sperare ciascuno di ottenere un rapporto preferenziale con gli Usa. Ma le cose non sono andate in questo modo e la presidenza Trump è solo una brusca accelerazione su una traiettoria precedente, che vede gli Usa come unica superpotenza, ma assediata dai suoi sfidanti e con un rapporto di forse sempre meno favorevole. Contrariamente a quello che la teoria delle relazioni internazionali ha sempre sostenuto, non sempre il peggior pericolo di guerra viene dall’anarchia internazionale; qualche volta è proprio l’ordine a generare il massimo disordine.(Aldo Giannuli, “Elogio del nuovo disordine mondiale”, dal blog di Giannuli del 30 marzo 2017; il post sintetizza un intervento di Giannuli su “Limes”).L’attuale situazione internazionale desta in molti preoccupazione e sorpresa: non esiste un ordine mondiale, stiamo scivolando verso l’anarchia internazionale e questo fa temere l’approssimarsi di nuove guerre, sino all’esplosione di un nuovo grande conflitto mondiale. Passi per la preoccupazione: in effetti c’è un allargamento delle aree di scontro con archi di crisi di migliaia di chilometri, dalla Libia all’Afghanistan, dalla Siria all’Ucraina e forse l’Estonia, dalla Corea alle isole Senkaku-Diaoyu che potrebbe allungarsi sino alle Paracel; per non dire dell’iperterrorismo. In effetti il timore di una escalation che porti ad un conflitto generalizzato è plausibile. Quello che, invece, è strano è la sorpresa della quale ci sorprendiamo. L’ordine mondiale è sempre stato pensato come equilibrio fra Stati; ma, con l’avvento della globalizzazione neoliberista, ci è stato spiegato che gli Stati nazionali erano solo una reliquia del passato destinata a rapida scomparsa; comunque, dovevano astenersi da qualsivoglia politica economica, che non fosse nell’ambito della più stretta ortodossia mercatista. Nello stesso tempo è iniziata una frenetica delocalizzazione di gran parte della manifattura dai paesi occidentali a quelli di Asia, Africa ed America Latina, che ha modificato fortemente il Pil di quei paesi consentendo loro una spesa militare senza precedenti. E tutto questo ha provocato un marcato riallineamento dei rapporti di forza fra i diversi paesi.
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Proteste e bombe: Putin va abbattuto, con ogni mezzo
Se il regno di Nicola II era senescente, fragile e malvoluto, quello di Putin appare oggi ancora vitale e ricco di consensi. Zar Vladimir incomincia, però, a pagare il prezzo delle proprie ambizioni. Aver arrestato lo scivolamento dell’Ucraina verso Nato e Unione Europea, aver rimesso piede in un Medio Oriente dove l’influenza degli Usa di Obama era al lumicino, aver gettato le basi per la rinascita della potenza russa e aver ipotizzato un’intesa con Donald Trump ha sicuramente un costo. In quest’ottica il sangue di Pietroburgo e le dimostrazioni di Mosca sono i corrispettivi, da una parte, dell’intervento in Siria e dall’altra della battaglia mediatico-propagandistica condotta per inchiodare Putin allo stereotipo di leader autoritario e antidemocratico. Un leader pericoloso per l’ordine mondiale, per la stabilità del suo paese e persino per quella di un’America dove retroguardie obamiane, intelligence e grande stampa lo dipingono come il burattinaio di Donald Trump. Immaginare un grande complotto anti-russo capace di riunire gruppi jihadisti, potenze wahabite, vecchia intelligence obamiana e multinazionali globalizzate sarebbe una follia. Esiste però un’evidente e manifesta politica di potenza del Cremlino. Una politica di potenza sviluppata all’indomani della vittoria di Putin alle presidenziali del 2012. Una politica che fa della Russia il principale ostacolo alle ambizioni di entità diverse ed eterogenee.Prendiamo gli Stati Uniti del dopo Obama. Qui la grande macchina d’intelligence e media si muove ancora lungo le linee guida definite negli ultimi due quadrienni presidenziali. In quelle “linee guida” vanno contestualizzate le dimostrazioni “anticorruzione” di Mosca guidate da Alexander Navalny. Quelle dimostrazioni sono, probabilmente, la punta d’iceberg degli investimenti messi in campo dalla passata amministrazione per rinverdire il mito delle “rivoluzioni colorate” utilizzate a suo tempo per allentare il controllo russo sulle periferie dell’ex impero sovietico. Non a caso l’oppositore Navalny è stato per anni il referente del “National Endowment for Democracy”, l’organizzazione finanziata dal Congresso Usa accusata di aver progettato sia le “rivoluzioni colorate” sia la “rivolta anti-russa” in Ucraina. Accuse costate all’organizzazione la messa al bando dalla Russia fin dal luglio 2015. L’intervento in Siria, di cui le bombe di Pietroburgo sembrano il riflesso, non va visto semplicemente nel contesto della guerra al terrorismo condotta da Putin in Siria, ma in quello ben più ampio dello scontro con Turchia, Qatar e Arabia Saudita per il controllo del Medio Oriente.Nel momento in cui Mosca si garantisce Damasco, tessera fondamentale del grande risiko, i jihadisti russi, forze d’elite della legione straniera islamista, vengono rimandati a casa per colpire Pietroburgo, ovvero la città natale del nemico Putin. Ma se Pietroburgo e Mosca sono in questo inizio 2017 i contraccolpi più evidenti della guerra condotta in Siria e sull’instabile linea di faglia tra zone d’influenza russe e americane, ancor più preoccupanti rischiano d’essere i contraccolpi delle battaglie condotte sul fronte economico. Su quel fronte zar Putin non ha soltanto disinnescato l’arma del prezzo del petrolio, usata per ridimensionare la potenza russa, ma si è addirittura imposto, come mediatore tra Iran e sauditi, garantendo l’accordo per il rialzo dei prezzi del greggio. E sul fronte asiatico, dove aveva già moltiplicato gli scambi con Pechino, è persino riuscito a metter la sordina al conflitto sulle isole Kurili siglando accordi per due miliardi e mezzo di dollari con un Giappone rimasto per oltre 70 anni partner ed alleato esclusivo degli Stati Uniti. Colpe venute al pettine in questo 2017, dove sono in molti a sognare l’arrivo di un vagone piombato con un novello Lenin pronto a far cadere lo sfrontato zar.(Gian Micalessin, “Le colpe dello zar? Non aver fallito un colpo. E in tanti sognano un Lenin che lo spodesti”, da “Il Giornale” del 4 aprile 2017).Se il regno di Nicola II era senescente, fragile e malvoluto, quello di Putin appare oggi ancora vitale e ricco di consensi. Zar Vladimir incomincia, però, a pagare il prezzo delle proprie ambizioni. Aver arrestato lo scivolamento dell’Ucraina verso Nato e Unione Europea, aver rimesso piede in un Medio Oriente dove l’influenza degli Usa di Obama era al lumicino, aver gettato le basi per la rinascita della potenza russa e aver ipotizzato un’intesa con Donald Trump ha sicuramente un costo. In quest’ottica il sangue di Pietroburgo e le dimostrazioni di Mosca sono i corrispettivi, da una parte, dell’intervento in Siria e dall’altra della battaglia mediatico-propagandistica condotta per inchiodare Putin allo stereotipo di leader autoritario e antidemocratico. Un leader pericoloso per l’ordine mondiale, per la stabilità del suo paese e persino per quella di un’America dove retroguardie obamiane, intelligence e grande stampa lo dipingono come il burattinaio di Donald Trump. Immaginare un grande complotto anti-russo capace di riunire gruppi jihadisti, potenze wahabite, vecchia intelligence obamiana e multinazionali globalizzate sarebbe una follia. Esiste però un’evidente e manifesta politica di potenza del Cremlino. Una politica di potenza sviluppata all’indomani della vittoria di Putin alle presidenziali del 2012. Una politica che fa della Russia il principale ostacolo alle ambizioni di entità diverse ed eterogenee.
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Contro l’Eurasia, agli Usa resta solo una chance: la guerra
Siamo in pericolo, perché l’America sta perdendo terreno: per questo ormai è pronta a tutto, anche alla guerra con la Russia, per impedire che Mosca coinvolga l’Europa nel piano strategico che più converrebbe a entrambe, cioè l’integrazione economica in termini di Eurasia, fino alla Cina. Guai, quindi, se l’Europa mollasse gli Usa. E’ la visione che Mike Whitney disegna su “Counterpunch”, con un finale già scritto – il declino della superpotenza Usa – con la possibile variante, per noi catastrofica, della (inutile) guerra mondiale scatenata dall’élite americana nel tentativo, impossibile, di invertire il corso della storia. Ancora nel 2012, lo stesso Putin parlava della creazione di «uno spazio economico comune che vada dall’Atlantico al Pacifico», chiamato “l’Unione di tutta Europa”, con la Russia come perno di una “Nuova Asia” saldamente collegata all’Europa. «L’inarrestabile demonizzazione di Putin – scrive Whitney – è soltanto una parte della multiforme strategia di Washington per fare arretrare il potere russo in Asia centrale e mettere la parola fine al sogno di Putin di “Una più grande Europa”». Di qui l’incessante sforzo per liquidare il presidente russo come “bandito del Kgb”, o “dittatore”, colpevole addirittura dell’ipotetico hackeraggio per ingerire nelle presidenziali statunitensi, con la Russia presentata dai media come «un pericoloso aggressore seriale che pone una crescente minaccia alla sicurezza della Ue e degli Usa».Un «mattatoio mediatico», intensificatosi dopo l’elezione di Donald Trump e accompagnato da «pesanti sanzioni, attacchi asimmetrici ai mercati russi e alla valuta», nonché «dall’armamento e addestramento di antagonisti della Russia in Ucraina e Siria», dalla «soppressione calcolata dei prezzi del petrolio greggio» e dal «ripetuto tentativo di sabotare le relazioni commerciali russe in Europa». In breve, riassume Whitney in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”, Washington sta facendo qualsiasi cosa in suo potere per prevenire il fatto che Europa e Russia possano «fondersi nella più grande area di libero scambio mondiale, che verrebbe inevitabilmente a rappresentare il centro della crescita e della prosperità mondiale per il prossimo secolo». Ecco il motivo per cui il Dipartimento di Stato si è unito alla Cia per rovesciare il governo ucraino nel 2014: annettendo un ponte terrestre vitale tra Ue e Asia, i manovratori di potere Usa volevano «riuscire a controllare i gasdotti fondamentali che stanno avvicinando sempre di più i due continenti in una alleanza che escluderà gli Stati Uniti».La prospettiva? E’ pessima, vista dall’America, perché «la Russia soddisferà i crescenti bisogni energetici europei, mentre il sistema di ferrovie ad alta velocità cinesi farà arrivare ancora più prodotti a basso costo». Tutto questo suggerisce l’idea che «il centro di gravità dell’economia mondiale si sta spostando rapidamente, e con esso l’irreversibile declino degli Usa». E quando il dollaro «verrà inevitabilmente cestinato come mezzo di scambio primario tra i partner commerciali in una emergente area di libero scambio Ue-Asia», a quel punto «il riciclaggio di ricchezza sotto forma di debito Usa crollerà rapidamente, precipitando i mercati Usa nell’abisso, mentre l’economia intera affonderà in una palude». Sicché, «impedire a Putin di creare una “armoniosa comunità di economie che vada da Lisbona a Vladivostok” non è un compito secondario per gli Usa, è una questione di vita o di morte». Lo diceva già uno stratega del calibro di Paul Wolfowitz: «Il nostro obbiettivo primario è prevenire l’emergere di un nuovo rivale, sia esso sul territorio della fu Unione Sovietica o in altro luogo». Imperativo categorico: «Prevenire che ogni potere ostile possa dominare una regione le cui risorse possano, sotto controllo consolidato, rivelarsi sufficienti a generare dominio globale».«La geografia è destino», scrive Whitney. «E la geografia russa contiene vastissime riserve di petrolio e gas naturale, delle quali l’Europa ha bisogno per riscaldare le sue case e fornire energia alla sua economia». Di più: «La relazione simbiotica tra fornitore e utilizzatore finale porterà a un certo punto all’abbandono delle barriere commerciali, l’abbassamento delle barriere tariffarie e al progressivo integrarsi delle economie nazionali in un mercato comune di tutta la regione. Questo potrebbe rappresentare il peggiore incubo di Washington, ma è anche la massima priorità strategica di Putin», che ha scommesso sui grandi gasdotti – il North Stream sotto il Mar Baltico e il South Stream sotto il Mar Nero – per fornire all’Europa energia pronto uso, a basso costo. «Negli ultimi 70 anni la strategia imperiale ha funzionato senza contrattempi, ma adesso la rinascita russa e l’esplosiva crescita cinese minacciano di liberarsi dal giogo dell’abbraccio costrittivo di Washington», aggiunge Whitney. «Gli alleati asiatici hanno iniziato a puntellare l’Asia e l’Europa con gasdotti e ferrovie ad alta velocità che uniranno insieme i vari staterelli distanti dispersi nelle steppe, attirandoli nell’Unione Economica Euroasiatica, collegandoli a un superstato prospero e in espansione, epicentro del commercio e dell’industria globale».La geografia è destino: il primo a saperlo, e a dirlo, è stato l’uomo della “grande scacchiera”, Zbigniew Brzezinski, che ha riassunto l’importanza dell’Asia centrale nel suo classico del 1997 sostendendo che «l’Eurasia è il maggiore continente del globo e la sua importanza geopolitica è assiale». E’ matematico: «Una potenza che domina l’Eurasia controllerebbe due tra le tre regioni più avanzate ed economicamente produttive. Circa il 75% della popolazione mondiale vive in Eurasia e la maggior parte della ricchezza fisica effettiva si trova anche essa in questa area, sia nelle sue imprese che nel suo suolo». L’Eurasia, scriveba Brzezinski, conta per il 60% del Pil mondiale e per circa tre quarti delle risorse energetiche del globo. «Se l’Europa vuole un socio affidabile in grado di soddisfare i suoi bisogni energetici, la Russia corrisponde alla descrizione», osserva Whitney. «Sfortunatamente, gli Usa hanno tentato ripetutamente di sabotare entrambi i gasdotti allo scopo di mettere a repentaglio i rapporti Europa-Russia. Washington preferirebbe che l’Europa riducesse drammaticamente il suo utilizzo di gas naturale o che si rivolgesse ad altre fonti più costose che non passano per la Russia. In altre parole, i bisogni naturali europei vengono sacrificati agli obiettivi geopolitici Usa, tra i quali il maggiore è prevenire la formazione di una “Più Grande Europa”».Ne vediamo gli effetti: la guerra di Washington contro la Russia è sempre più militarizzata. Di recente il Pentagono ha stanziato più truppe da combattimento in Siria e Kuwait, vuole riarmare milizie jihadiste per rovesciare il governo siriano e ricorrere a un uso più diretto della forza per conquistare l’Est della Siria. Cresce la violenza anche in Ucraina, dal momento che il presidente Trump sembra orientato a un approccio ancora più duro di quello di Obama. Anche la Nato ha stanziato truppe e armamenti sul fianco occidentale russo, mentre gli Usa hanno disseminato basi militari in Asia centrale. La Nato non ha mai smesso di spingere verso est, dal momento in cui il Muro di Berlino cadde, nel novembre 1989. «L’accumulo di mezzi bellici ostili sul perimetro occidentale della Russia è una fonte di crescente preoccupazione a Mosca, e per ottime ragioni», scrive Whitney: «I russi conoscono la loro storia». Al tempo stesso, gli Stati Uniti «stanno costruendo un sistema terrestre di difesa missilistica antiaerea in Romania (Star Wars), che integra l’arsenale missilistico Usa in un luogo a soli 900 km da Mosca. Il sistema missilistico Usa, che è stato “certificato per le operazioni” nel maggio 2016, cancella il deterrente nucleare russo e distrugge l’equilibrio strategico di potere in Europa».Putin ha risposto con appropriate contromisure. E spiega: «Gli americani sono ossessionati dall’idea di “assoluta invulnerabilità” per loro stessi. Ma l’assoluta invulnerabilità di una nazione significa assoluta vulnerabilità per tutti gli altri. Non possiamo assolutamente essere d’accordo». Ora, l’amministrazione Trump ha annunciato che impiegherà il sistema Terminal High Altitude Area Difense (Thaad) in Corea del Sud, citando la necessità di rispondere alle provocazioni da parte della Corea del Nord. «In realtà – obietta Whitney – gli Usa sfruttano il Nord come pretesto per poter minacciare Russia e Cina come “limiti assiali” dell’Heartland Eurasiatico, come mezzo per contenere la vasta massa di terre emerse che Sir Halford Mackinder ha chiamato “l’area fondamentale, che si estende tra il Golfo Persico e il fiume Yang Tze in Cina”. Washington spera che, controllando le rotte marine critiche, circondando la regione con basi militari e inserendosi aggressivamente dove necessario, possa riuscire a prevenire l’emergenza di un colosso economico che possa sminuire l’importanza degli Stati Uniti come superpotenza globale».Il futuro dell’America «dipende dalla sua capacità di far deragliare l’integrazione economica del centro del mondo e riuscire nel “grande gioco” nel quale tutti gli altri hanno fallito». Un estratto da un articolo di Alfred McCoy, “La geopolitica del declino globale americano”, aiuta a illuminare la natura della contesa in corso per il controllo della cosiddetta “Isola-Mondo”. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, gli Usa si sono ritrovati «prima potenza nella storia a controllare i punti strategici assiali di entrambe le estremità dell’Eurasia». Con la paura dell’espansione russa e cinese come “catalizzatore della collaborazione”, Washington hanno guadagnato bastioni strategici sia in Europa occidentale che in Giappone. Con questi punti assiali come ancoraggio, ha creato «un arco di basi militari basate sul modello marittimo precedente», quello della Gran Bretagna, «visibilmente concepite per circondare l’“Isola-Mondo”». Spogliata del suo rivestimento ideologico, osserva McCoy, la grande strategia di Washington del contenimento anti-comunista nella guerra fredda «non è stato molto altro che un processo di successione imperiale». Alla fine della guerra fredda, nel 1990, «l’accerchiamento della Cina comunista e della Russia richiedeva 700 basi in territori stranieri, una potenza aerea di 1.763 jet da combattimento, un vasto arsenale nucleare, oltre 1.000 missili balistici e una potenza navale di 600 navi, tra cui 15 portaerei nucleari, tutti unificati dall’unico sistema al mondo di comunicazione globale satellitare».Un nuovo impero globale sta ora gradualmente emergendo, in Asia Centrale. E, mentre l’impatto dell’integrazione economica dell’area non si è ancora realizzato, secondo McCoy «gli sforzi da parte degli Usa per fermare questa possibile alleanza nella sua fase embrionale appaiono sempre più inefficaci e disperati». L’iperbolica propaganda sul presunto “hacking russo” dell’elezione presidenziale Usa ne solo uno tra i numerosi esempi – un altro è l’armamento dei neonazisti a Kiev. «Il punto è che sia la Russia che la Cina si stanno servendo dello sviluppo dei mercati e della semplice ingenuità per avere la meglio su Washington, mentre Washington si basa quasi esclusivamente sull’inganno, attività occulte, forza militare bruta. In parole povere gli ex comunisti stanno stracciando i capitalisti nel loro stesso gioco». Ancora McCoy: «La Cina si sta affermando in modo profondo nell’‘Isola-Mondo’ in un tentativo di dare una forma completamente nuova ai fondamentali geopolitici del dominio globale. Per fare ciò sta usando una fine strategia che fino a questo momento ha eluso la comprensione da parte delle élites al potere in Usa».Il primo passo? E’ consistito «in un sensazionale progetto di creazione di una infrastruttura che assicuri l’integrazione economica del continente». Stendendo un elaborata e complessa rete di ferrovie ad alto volume ed alta velocità, come anche gasdotti ed oleodotti, nelle vaste distese eurasiatiche, «la Cina potrebbe rendere realtà l’intuizione di Mackinder in un modo imprevisto». Ovvero: «Per la prima volta nella storia, il rapido movimento transcontinentale di carichi di materie prime fondamentali – petrolio, minerali, prodotti – sarà possibile su una scala prima impensabile, unificando così potenzialmente la grandissima estensione di terre in questione in una unica zona economica che si estende per 6.500 miglia da Shangai a Madrid». In tal modo, conclude McCoy, «la leadership pechinese spera di spostare il baricentro del potere geopolitico via dalla periferia marittima e fin dentro all’Heartland continentale». Ma Washington, aggiunge Whitney, di certo non lascerà che il piano russo-cinese vada avanti: continuerà a combatterlo. E «se sanzioni economiche, attività occulte e sabotaggio economico non funzioneranno, i manovratori di potere Usa passeranno a strategie più letali». La peggiore delle ipotesi sta già andando in scena: lo dimostrano i recenti stanziamenti di truppe in Medio Oriente. Gli americani «ritengono che un confronto militare diretto possa essere la migliore opzione disponibile», pensando che «una guerra contro la Russia combattuta in Siria o in Ucraina non necessariamente potrebbe degenerare in una guerra nucleare a tutto campo». Ma sarebbe abbastanza per trascinare nel conflitto anche l’Europa, nel tentativo – disperato – di «abbattere definitivamente il piano russo di “integrazione economica” e immobilizzare la Russia in un lungo pantano che ne prosciugherebbe le risorse».Siamo in pericolo, perché l’America sta perdendo terreno: per questo ormai è pronta a tutto, anche alla guerra con la Russia, per impedire che Mosca coinvolga l’Europa nel piano strategico che più converrebbe a entrambe, cioè l’integrazione economica in termini di Eurasia, fino alla Cina. Guai, quindi, se l’Europa mollasse gli Usa. E’ la visione che Mike Whitney disegna su “Counterpunch”, con un finale già scritto – il declino della superpotenza Usa – con la possibile variante, per noi catastrofica, della (inutile) guerra mondiale scatenata dall’élite americana nel tentativo, impossibile, di invertire il corso della storia. Ancora nel 2012, lo stesso Putin parlava della creazione di «uno spazio economico comune che vada dall’Atlantico al Pacifico», chiamato “l’Unione di tutta Europa”, con la Russia come perno di una “Nuova Asia” saldamente collegata all’Europa. «L’inarrestabile demonizzazione di Putin – scrive Whitney – è soltanto una parte della multiforme strategia di Washington per fare arretrare il potere russo in Asia centrale e mettere la parola fine al sogno di Putin di “Una più grande Europa”». Di qui l’incessante sforzo per liquidare il presidente russo come “bandito del Kgb”, o “dittatore”, colpevole addirittura dell’ipotetico hackeraggio per ingerire nelle presidenziali statunitensi, con la Russia presentata dai media come «un pericoloso aggressore seriale che pone una crescente minaccia alla sicurezza della Ue e degli Usa».
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Ventotene: sogno federale, imperialismo reale Usa-Berlino
È ed era del tutto irrazionale pensare che gli Stati Uniti permettano che l’Europa si unifichi e diventi così un loro concorrente globale. Gli Usa, a seguito della seconda guerra mondiale, mantengono tuttora una massiccia presenza militare di controllo in Germania, Italia, Belgio, Olanda e la mantengono a titolo di occupazione e controllo, non certo per difesa contro un Patto di Varsavia che non c’è più, anche se ora gli Usa si sforzano di spingere l’Europa al conflitto con la Russia lavorando sull’Ucraina. È invece razionale e confermato dai fatti che gli Stati Uniti usano la loro posizione di potenza occupante proprio per assicurarsi che quell’unificazione non avvenga. Per gli Usa, l’assetto conveniente dell’Europa non è federale, come quello sognato a Ventotene, ma un assetto in cui la principale potenza continentale, la Germania, saldamente controllata da Washington, saldamente antisolidale verso gli altri europei, domina politicamente ed economicamente questi ultimi, impone politiche restrittive e recessive che impediscano la loro crescita economica, difende una moneta con cambio alto sul dollaro che limiti la concorrenzialità europea, ed alimenta la disunione e le divergenze e contrapposizioni nel Vecchio Continente, per impedire che si unisca. E uomini di Goldman Sachs che controllano la Bce e, attraverso di esse, le banche centrali nazionali.Tutto ciò semplicemente il loro interesse. Essi hanno realizzato, in effetti, una situazione in cui l’unificazione è stata resa definitivamente impossibile da due fattori: l’inclusione dell’Unione Europea di paesi troppo eterogenei come la Grecia, la Romania e la Bulgaria (e premevano per includere persino la Turchia!), per consentire un’integrazione economica e politica; l’euro e i suoi vincoli finanziari, che hanno trasferito il potere decisionale dai paesi debitori (condannati alla recessione-deindustrializzazione), e dalle istituzioni comunitarie, pressoché impotenti (perché prive di forza propria), alla potenza creditrice, cioè alla Germania. Quest’ultima ora da un lato è il paese più direttamente e tecnicamente controllato da Washington, anche attraverso il giuramento di fedeltà agli Usa che ogni cancelliere tedesco presta prima di assumere l’incarico (la “Kanzlerakte”, introdotta con trattato segreto il 21 aprile 1949, valido fino al 2099); dall’altro lato, si comporta nei confronti dei paesi più deboli, con la sua storicamente costante, aggressiva prepotenza, saccheggiandone le risorse finanziarie e industriali, soprattutto attraverso i prestiti predatori, appoggiata spesso dalla Francia, come ha fatto clamorosamente con Grecia, Spagna, Portogallo, Irlanda e Italia. E arrivando persino a cambiare i governi di alcuni di questi paesi per mettere loro fiduciari che assicurino i profitti criminali dei loro banchieri d’assalto.“Erneut zerstört eine deutsche Regierung Europa”, ossia “Nuovamente un governo tedesco distrugge l’Europa”, titola il 13 luglio 2015 in prima pagina “Handelsblatt”, omologo tedesco de “Il Sole 24 Ore”, nella sua edizione online (il primo fu il governo Bethmann-Hollweg nel 1914-18, il secondo il governo Hitler nel 1938-45, il terzo il governo Merkel, oggi); e mette in bella mostra gli elmi chiodati del II Reich che distrusse l’Europa (e consentì l’egemonia degli Usa) scatenando la I Guerra Mondiale, e scatenandola nel modo più sporco: l’invasione del Belgio neutrale, le stragi di civili innocenti, la distruzione gratuita di centri urbani, l’uso massiccio dei gas mortali. Un altro articolo definisce il ministro delle finanze Schäuble “il seppellitore (Totengräber) dell’Europa”. A intendere: nella vicenda greca, la Germania ha dimostrato che l’Unione Europea non ha una politica propria, è solo una facciata e uno strumento per i suoi interessi egoistici, nazionalistici e imperialistici rispetto agli altri paesi europei. Adesso che tutti lo vedono, l’illusione idealistica e sentimentale dell’unificazione europea, la retorica dei “padri fondatori” e tutte le altre corbellerie, appaiono per quel che sono sempre state: camuffamenti di una strategia di dominazione.La Germania di oggi è dunque rimasta, psicologicamente e politicamente, la Germania di Bismarck e delle due guerre mondiali, la Germania del suprematismo, della politica di potenza e minaccia, che si sente circondata da vicini minacciosi quindi costretta ad attaccare, sottomettere e sfruttare i suoi vicini per la propria sicurezza, oggi anche finanziaria, usando anche le istituzioni comunitarie. E con una tale Germania, che non è cambiata, in queste sue caratteristiche, dopo tutto ciò che ha passato, e che probabilmente non cambierà mai, così come con questo dominio statunitense, è a priori impossibile realizzare un’Europa unita, un’unione che sia qualcosa di diverso da uno strumento di dominio e sfruttamento di Berlino sugli altri. Quindi meglio restare indipendenti, come ha scelto il Regno Unito, ciascuno a custodire i propri interessi in modo trasparente, facendo liberi accordi con gli altri paesi, possibilmente su un piano di parità. Tanto, una guerra tra paesi europei è comunque impossibile dati i rapporti di forza, le interdipendenze economiche e finanziarie, la presenza di potenze nucleari, il controllo Usa. Non serve l’Ue, per assicurare la pace.Alla luce dei precedenti storici e del fatto che i rapporti politici internazionali sono guidati dagli interessi particolari, concorrenziali e dai rapporti di forza e non da sentimenti, solidarietà e ideali, il Manifesto di Ventotene, col suo progetto federalista europeo, era già quando nacque un progetto irrealistico e infantile; la sua ingenuità è comprensibile e scusabile date le condizioni psicologiche dei suoi autori, che li potevano portare a scambiare il desiderabile con il realizzabile, a perdere il senso dell’utopia. Non è comprensibile né scusabile, per contro, anzi è atto di radicale disonestà culturale, l’insistere oggi su quel progetto come se fosse un progetto realistico e realizzabile, soprattutto realizzabile partendo dalla struttura istituzionale dell’Unione Europea, che non solo è corrotta, antidemocratica, burocraticamente demenziale e fallimentare in tutte le sue iniziative principali, dalla Pac in poi, ma per giunta è stata soppiantata ed espropriata da Berlino, che la ha ridotta a foglia di fico dal suo imperialismo continentale. Insistere in questi termini per l’”unificazione federalista europea” anziché denunciare e contrastare questa “Unione”, i suoi “progressi”, il suo “metodo comunitario”, assieme a questa politica di potenza tedesca, e agli effetti del loro combinato, è un agire per peggiorare le cose, un agire in mala fede, quindi una precisa colpa politica e morale.(Marco Della Luna, “Ventotene: sono federale, imperialismo reale” dal blog di Della Luna del 31 agosto 2016).È ed era del tutto irrazionale pensare che gli Stati Uniti permettano che l’Europa si unifichi e diventi così un loro concorrente globale. Gli Usa, a seguito della seconda guerra mondiale, mantengono tuttora una massiccia presenza militare di controllo in Germania, Italia, Belgio, Olanda e la mantengono a titolo di occupazione e controllo, non certo per difesa contro un Patto di Varsavia che non c’è più, anche se ora gli Usa si sforzano di spingere l’Europa al conflitto con la Russia lavorando sull’Ucraina. È invece razionale e confermato dai fatti che gli Stati Uniti usano la loro posizione di potenza occupante proprio per assicurarsi che quell’unificazione non avvenga. Per gli Usa, l’assetto conveniente dell’Europa non è federale, come quello sognato a Ventotene, ma un assetto in cui la principale potenza continentale, la Germania, saldamente controllata da Washington, saldamente antisolidale verso gli altri europei, domina politicamente ed economicamente questi ultimi, impone politiche restrittive e recessive che impediscano la loro crescita economica, difende una moneta con cambio alto sul dollaro che limiti la concorrenzialità europea, ed alimenta la disunione e le divergenze e contrapposizioni nel Vecchio Continente, per impedire che si unisca. E uomini di Goldman Sachs che controllano la Bce e, attraverso di esse, le banche centrali nazionali.
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Piramidi hi-tech 30.000 anni fa, la Storia è da riscrivere
«Non vedo l’ora che la verità venga esposta e che i falsi libri di storia vengano bruciati». Per l’antropologo Semir Osmanagich, fondatore del Parco Archeologico Bosniaco, «i mass-media sono complici di un insabbiamento di proporzioni epiche». Osmanagich, scopritore del sito archeologico più attivo del mondo, dichiara che le prove scientifiche, “inconfutabili”, venute alla luce, sull’esistenza di antiche civiltà con tecnologia avanzata, non ci lasciano altra scelta se non quella di riscrivere la nostra storia, la storia dell’umanità sulla Terra. L’attento esame delle strutture emerse nella valle del fiume Visoko, 40 chilometri a nord-ovest di Sarajevo, attraverso la datazione al radiocarbonio rivela definitivamente che quelle grandi piramidi «sono state costruite da civiltà avanzate di oltre 29.000 anni fa», scrive “Il Sapere”. Questo, aggiunge il ricercatore bosniaco, «costringe il mondo a riconsiderare totalmente la sua comprensione sullo sviluppo della civiltà attuale e della sua storia», spiega il dottor Osmanagich. Ormai si scava da otto anni nel sito bosniaco, che si estende sui sei chilometri quadrati attorno a 4 piramidi, collegate da tunnel sotterranei. La colossale Piramide del Sole è la più grande al mondo: è alta 420 metri, contro il 146 di quella di Cheope.«Il dottor Osmanagich – rileva “Il Sapere” – ha stupito l’intera comunità scientifica e archeologica con la raccolta e formazione di un team di ingegneri interdisciplinari, fisici e ricercatori da tutto il mondo per condurre un’indagine aperta e trasparente del sito e per cercare di scoprire la vera natura e il vero scopo di questo complesso piramidale». Per uno scienziato come Tim Moon, «questa è una cultura sconosciuta che ci presenta arti e scienze altamente avanzate, in grado di formare strutture veramente enormi, dimostrando una capacità di sfruttare le risorse energetiche pure». In un tunnel che conduce verso la Piramide del Sole, la squadra ha portato alla luce una enorme pietra megalitica da 25 tonnellate a circa 400 metri di profondità. «Inoltre abbiamo individuato muri di fondazione lungo tutto il suo perimetro formati da blocchi di pietra tagliata», aggiunge Moon. Grandi quantità di reperti sono state recuperati dalle gallerie: effigi, dipinti su pietra, oggetti d’arte e una serie di geroglifici e “testi” antichi, «scavati nelle pareti dei tunnel». La datazione al radiocarbonio è stata effettuata a Kiev su materiale organico presente nel sito della piramide, costruita in calcestruzzo. Mona Haggag, archeologa dell’università di Alessandria, dice che è come «scrivere nuove pagine della storia europea e mondiale».A sbalordire i tecnici, anche la presenza di una fonte di “energia misteriosa” che emanerebbe dalla grande piramide, dalla cui profondità proviene anche un’emissione radio. «I popoli antichi che hanno costruito queste piramidi conoscevano i segreti della frequenza e dell’energia», conclude Osmanagich. «Hanno usato queste risorse naturali per sviluppare tecnologie e per intraprendere la costruzione di scale che non abbiamo visto in nessun altro posto della terra». Non solo: «Le prove dimostrano chiaramente che le piramidi furono costruite allineandole con la griglia energetica della Terra, ed erano come macchine che fornivano energia al potere della guarigione». Ma non è solo dalla Bosnia che giungono rivelazioni sconcertanti, sostiene sempre “Il Sapere”: «Studiosi di storia antica negli Stati Uniti hanno notizie altrettanto sorprendenti su qualcosa trovato negli angoli più lontani del globo. Per esempio la scoperta di Rockwall al di fuori di Dallas, Texas, è solo un esempio di come stiamo riesaminando antichi misteri che rivelano molto sul nostro passato». Il sito texano è un complesso e poderoso muro di dieci miglia di diametro, costruito oltre 20.000 anni fa e coperto dal suolo sette piani sotto terra. «La domanda è: da chi è stata costruita questa struttura e per quale scopo e, soprattutto, la conoscenza data da queste civiltà del passato, in che modo può aiutarci a comprendere il nostro futuro?».Ne parla anche il “National Geographic”, interrogandosi nel 2013 sui “100 più grandi misteri rivelati delle civiltà antiche”: «A volte le culture si lasciano dietro misteri che confondono coloro che vengono dopo di loro, dai menhir ai manoscritti codificati, ci indicano che gli antichi hanno avuto uno scopo profondo». Michal Cremo, nel suo libro “Forbidden Archeology”, teorizza che la conoscenza dell’avanzato homo sapiens sia stata soppressa o ignorata dalla comunità scientifica perché contraddirebbe le attuali opinioni sulle origini umane, che non vanno d’accordo con il paradigma dominante. I recenti risultati, invece, «indicano chiaramente che simili civiltà avanzate erano presenti in tutto il mondo in quel momento storico», cioè 30.000 anni fa. Che alle nostre origini ci sia “tutt’un’altra storia” lo suggerisce anche il Gobekli Tepe, scoperto nel 1995 nella Turchia orientale: un vasto complesso di enormi cerchi di pietre megalitiche, con un raggio tra i 10 e i 20 metri, molto più grandi di quelle di Stonehenge in Gran Bretagna. I test al carbonio radiofonico rivelano che la struttura risale almeno a 11.600 anni fa. Lo conferma l’archeologo tedesco Klaus Schmidt, dell’Istituto Archeologico Tedesco di Berlino, che ha diretto gli studi con il supporto dell’ArchaeoNova Institute di Heidelberg.«Gobekli Tepe è uno dei più affascinanti luoghi neolitici del mondo», sostiene Schmidt. Ma, come spiega in un recente rapporto, per capire le nuove scoperte, gli archeologi hanno bisogno di lavorare a stretto contatto con gli specialisti di religioni comparate, con i teorici dell’architettura e dell’arte, con i teorici della psicologia evolutiva, con i sociologi che utilizzano la teoria delle reti sociali, ed altri ancora. «È la complessa storia delle prime, grandi comunità insediate, la loro vasta rete, e la loro comprensione comune del loro mondo, forse anche delle prime religioni organizzate e delle loro rappresentazioni simboliche del cosmo». Oltre alle strutture megalitiche, sono state scoperte figure e sculture, raffiguranti animali preistorici, come i dinosauri. E lo scavo non è concluso: si pensa che ci siano ancora fino a 50 ambienti nascosti sottoterra, tra gli enormi monoliti svettanti, alti 7 metri e pesanti 25 tonnellate. «L’obiettivo della ricerca archeologica – precisa Schmidt – è soprattutto quello di cercare di capire la loro funzione». Dalla Bosnia, il dottor Osmangich non ha dubbi: è giunto il momento di condividere liberamente la conoscenza, in modo che si possa scoprire il nostro autentico passato. «È tempo per noi di aprire le nostre menti alla vera natura della nostra origine», dice. «La nostra missione è quella di riallineare la scienza con la spiritualità, al fine di progredire come specie. E questo richiede un chiaro percorso di conoscenza condivisa».«Non vedo l’ora che la verità venga esposta e che i falsi libri di storia vengano bruciati». Per l’antropologo Semir Osmanagich, fondatore del Parco Archeologico Bosniaco, «i mass-media sono complici di un insabbiamento di proporzioni epiche». Osmanagich, scopritore del sito archeologico più attivo del mondo, dichiara che le prove scientifiche, “inconfutabili”, venute alla luce, sull’esistenza di antiche civiltà con tecnologia avanzata, non ci lasciano altra scelta se non quella di riscrivere la nostra storia, la storia dell’umanità sulla Terra. L’attento esame delle strutture emerse nella valle del fiume Visoko, 40 chilometri a nord-ovest di Sarajevo, attraverso la datazione al radiocarbonio rivela definitivamente che quelle grandi piramidi «sono state costruite da civiltà avanzate di oltre 29.000 anni fa», scrive “Il Sapere”. Questo, aggiunge il ricercatore bosniaco, «costringe il mondo a riconsiderare totalmente la sua comprensione sullo sviluppo della civiltà attuale e della sua storia», spiega il dottor Osmanagich. Ormai si scava da otto anni nel sito bosniaco, che si estende sui sei chilometri quadrati attorno a 4 piramidi, collegate da tunnel sotterranei. La colossale Piramide del Sole è la più grande al mondo: è alta 420 metri, contro il 146 di quella di Cheope.
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“Cofferati, Kyenge, Spinelli e gli altri amici di Soros in Ue”
Il magnate ungherese George Soros ci sorprende ancora: la sua fondazione, la Open Society, ha appena pubblicato un file contenente i nomi degli “Alleati fidati nel Parlamento Europeo”. Il fascicolo, come riporta “Diario del Web”, si riferisce a 226 deputati (su 751) dell’Europarlamento che sono molto vicini a Soros e sposano le sue battaglie in giro per il mondo. Nella lista troviamo anche alcune vecchie conoscenze del Belpaese, tra cui l’ex sindacalista Cgil Sergio Cofferati, l’ex ministra Kashetu Kyenge e Barbara Spinelli, eletta con “L’altra Europa con Tsipras”, cioè con i voti della sinistra “radicale” italiana. Tra gli altri “amici fidati” di Soros a Strasburgo anche svariati esponenti del Pd come Daniele Viotti, Elena Gentile e Roberto Gualtieri. Secondo Maurizio Blondet, la lista dei “Soros friends” made in Italy fugurano anche altri europarlamentari eletti sempre con il Pd, come Alessia Mosca, Luigi Morgano, Elena Ethel “Elly” Schlein, Isabella De Monte, Brando Maria Benifei e Pier Antonio Panzieri. Il dossier, secondo Blondet, avvicinerebbe questi europarlamentari alle battaglie «radicali, globaliste, anti-sovraniste e anti-Russia» orchestrate da Soros.«Si nota anche come la Open Society sia molto attiva in Ungheria, dove sta mobilitando una spontanea “primavera” per rovesciare il governo di Viktor Orban», afferma Blondet, che aggiunge: «Molti siti di informazione ungheresi hanno ricevuto aiuti finanziari da Soros, fra cui “444.hu” che ha ricevuto 49.500 dollari». SorosLeaks, ovvero: retroscena sul ricchissimo super-speculatore ungherese, che “Diario del Web” definisce «il burattinaio dell’ordine mondiale». Gli “alleati” italiani di George Soros nel Parlamento Europeo? I loro nomi sono pubblicati da Open Society, «la fondazione-ombrello del magnate ungherese con la quale finanzia i suoi progetti “rivoluzionari” in giro per il mondo». Secondo gli hacker che recentemente hanno attaccato il sito della fondazione, aggiunge “Diario”, Soros sarebbe «l’architetto o il finanziatore di più o meno ogni rivoluzione o colpo di Stato degli ultimi 25 anni», compreso il golpe in Ucraina “truccato” da sommossa popolare. «Con i suoi soldi, il ricco ungherese avrebbe cercato più volte di influenzare e determinare il corso della storia».Oltre agli “italiani”, continua “Diario del Web”, altri 13 fedelissimi apparterrebbero al Gruppo di Visegrad. «Ma questo dato non sorprende più di tanto, visto che la Open Society di George Soros pare sia molto attiva in Ungheria», dove lavora per rovesciare il governo Orban, regolarmente eletto. Non sarebbe la prima volta: «Vale la pena ricordare che George Soros è diventato famoso per aver gettato sul lastrico la Banca d’Inghilterra e aver costretto la sterlina e la lira italiana a uscire dallo Sme nel 1992», scrive “Diario”. «Il 16 settembre di quell’anno mise in atto una gigantesca operazione speculativa vendendo una enorme quantità di sterline allo scoperto, e gettando nel caos sia la Gran Bretagna che l’Italia». I due paesi furono costretti a uscire dal Serpente Monetario Europeo, «mentre Soros guadagnava una fortuna». Ad oggi è una delle 30 persone più ricche del mondo: il suo patrimonio è stimato in circa 24,9 miliardi di dollari (dati aggiornati a maggio 2016). Soros ha cercato anche di favorire la candidata democratica Hillary Clinton alle presidenziali americane, ma questa volta – come sappiamo – le cose gli sono andate male.I documenti trafugati dalla sua fondazione dagli hacker, aggiunge “Diario del Web”, rivelano un costante impegno economico per campagne elettorali, fondazioni umanitarie, associazioni per i diritti umani e società di ricerca, «allo scopo di indirizzare il consenso dell’opinione pubblica (non solo americana) verso alcune questioni particolarmente care a Soros». Non sorprende, dunque, che il magnate ungherese «abbia finanziato anche Amnesty International, che recentemente ha rivolto un durissimo attacco nei confronti di alcuni leader mondiali ritenuti responsabili dall’associazione di una “retorica incendiaria”: Donald Trump, Recep Tayyip Erdogan, Viktor Orban. Guarda caso, tutti nemici giurati di Soros». E che dire del generoso finanziamento, sempre da parte della Open Society, verso il Poynter Institute che per Facebook si occuperà della “verifica delle notizie” attraverso un progetto di fact checking? «Il celebre social network avrebbe infatti deciso di dichiarare guerra alle “fake news”, ma è facile immaginare che l’informazione possa essere filtrata a favore degli “amici” più generosi». E questo punto, conclude il blog, «viene spontaneo chiedersi anche come e perché gli europarlamentari italiani siano stati inseriti da Soros nella lista dei suoi “fedelissimi”». E attenzione: tra i Soros-friends c’è anche Guy Verhofstadt, dell’Alde, il gruppo in cui Beppe Grillo ha cercato di far confluire gli europarlamentari 5 Stelle.Il magnate ungherese George Soros ci sorprende ancora: la sua fondazione, la Open Society, ha appena pubblicato un file contenente i nomi degli “Alleati fidati nel Parlamento Europeo”. Il fascicolo, come riporta “Diario del Web”, si riferisce a 226 deputati (su 751) dell’Europarlamento che sono molto vicini a Soros e sposano le sue battaglie in giro per il mondo. Nella lista troviamo anche alcune vecchie conoscenze del Belpaese, tra cui l’ex sindacalista Cgil Sergio Cofferati, l’ex ministra Kashetu Kyenge e Barbara Spinelli, eletta con “L’altra Europa con Tsipras”, cioè con i voti della sinistra “radicale” italiana. Tra gli altri “amici fidati” di Soros a Strasburgo anche svariati esponenti del Pd come Daniele Viotti, Elena Gentile e Roberto Gualtieri. Secondo Maurizio Blondet, la lista dei “Soros friends” made in Italy fugurano anche altri europarlamentari eletti sempre con il Pd, come Alessia Mosca, Luigi Morgano, Elena Ethel “Elly” Schlein, Isabella De Monte, Brando Maria Benifei e Pier Antonio Panzieri. Il dossier, secondo Blondet, avvicinerebbe questi europarlamentari alle battaglie «radicali, globaliste, anti-sovraniste e anti-Russia» orchestrate da Soros.
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Craig Roberts: pazzi criminali, spingeranno Trump in guerra
Non gliene importa nulla se il 10% dell’arsenale nucleare di Usa e Russa basta e avanza per cancellare la vita sul pianeta: al clan dell’intelligence Usa sono bastati 24 giorni – il tempo in cui è rimasto in carica il generale Flynn, consigliere per la sicurezza nazionale – per archiviare le promesse di distensione, dopo le forti tensioni con Mosca create a freddo dal regime di Obama. Lo afferma Paul Craig Roberts, già viceministro di Reagan: ai media “presstitute” (“New York Times”, “Washington Post”, “Cnn” e “Nbc”) sono bastate le “fake news” sul conto di Flynn costruite a tavolino da John Brennan, il direttore della Cia voluto da Obama, che «ha costruito dossier falsi» riguardo all’amicizia “pericolosa” tra Flynn e Putin, come documenta Gareth Porter su “Information Clearing House”. «Rapporti falsi, nessuno dei quali conteneva alcuna prova». Il movente? Semplice: la minaccia, da parte di Flynn, di ridimensionare il budget militare, 1.000 miliardi di dollari l’anno per gli armamenti e il business della sicurezza. Risultato: «I media occidentali sono più impegnati a servire il padrone della Cia di quanto non siano a servire la pace tra potenze nucleari».Sconsolato, un osservatore come Patrick Lawrence dichiara: «Le luci su di noi stanno oscurando. Siamo stati abbandonati da una stampa che si dimostra incapace di informarci in modo disinteressato. Sia i media “liberal”, clintoniani, che i giornali e le emittenti, sono servi del potere». Restano i media “alternativi”, aggiunge Craig Roberts sul suo blog, ma sono tutti sotto attacco: Rt, Usa Watchdog, Alex Jones, Information Clearing House, Global Research, Unz Review. «A quanto pare, Alex Jones sta già avendo problemi con Google», e centinaia di altri siti web sono in difficoltà: pagine rimosse, articoli non più indicizzati, perdita dei banner pubblicitari. «Come dicevano i nazisti, tutto quello che serve è la paura: portare il popolo al collasso», scrive Craig Roberts, secondo cui «la presidenza di Trump è effettivamente finita: anche se gli sarà permesso di rimanere in carica, a comandare sarà lo Stato Profondo». Trump si è già arresto alla linea del Pentagono: ha detto che la Russia deve restituire la Crimea all’Ucraina, mentre in realtà è la Crimea che è tornata, da sola, alla Russia. In più ha respinto una nuova limitazione delle armi strategiche, il trattato Start con la Russia, affermando che vuole la supremazia Usa negli armamenti nucleari, non la parità.Dopo appena un mese alla Casa Bianca, scrive Craig Roberts, l’obiettivo di Trump è già cambiato. Nuove tensioni in vista con la Russia, e non solo: «Ci sono piani per occupare parte della Siria con truppe statunitensi, al fine di evitare che la Siria riesca a riunificarsi con l’aiuto della Russia, come segnala “Global Research”». Il piano di smembramento che Trump approverebbe? Parte della Siria andrebbe alla Turchia, un’altra parte ai curdi, mentre una porzione di territorio siriano finirebbe sotto in controllo militare Usa, in modo che Washington possa «mantenere le turbolenze in corso per sempre». Una catastrofe, per Putin, che contava su Trump per eliminare l’Isis. «E’ difficile capire se il nuovo regime Trump è più iranofobico o russofobico: l’inclinazione è quella di buttare a mare l’accordo con l’Iran, riaprendo il conflitto con Mosca, oltre che con la Cina». Certo, osserva Craig Roberts, «è strano vedere i “liberal-progressisti” di sinistra alleati con i guerrafondai contro Trump. E’ come tirare fuori l’Armageddon nucleare dalla tomba in cui l’avevano sepolto Regan e Gorbaciov». Così, oggi, «la sinistra americana chiede l’impeachment del presidente il cui obiettivo era migliorare le relazioni con la Russia».In politica interna, l’obiettivo di Trump erano i posti di lavoro per la classe operaia? Il problema «lascia fredda la sinistra», che vuole solo «distruggere il “deplorevole” Trump», demonizzato come «razzista, misogino, omofobo». Chi poi si oppone «all’ideologia neo-conservatrice che sta guidando la politica estera Usa verso l’egemonia mondiale», viene bollato come «agente di Putin». Aggiunge Craig Roberts: «Il motivo per cui c’è ancora vita sulla Terra dopo più di mezzo secolo di armi nucleari è che i presidenti americani e leader sovietici hanno lavorato insieme per ridurre le tensioni. Nel corso di questi decenni, ci sono stati numerosi falsi allarmi di missili Icbm in arrivo. Tuttavia, perché le leadership di entrambi i paesi stavano lavorando insieme per evitare il conflitto nucleare, gli avvertimenti sono stati creduti sia dai sovietici che dagli americani». Oggi invece la situazione è molto diversa. Gli ultimi tre presidenti degli Stati Uniti, scrive Craig Roberts, «hanno fatto gli straordinari per aumentare le tensioni tra le due potenze nucleari». Oggi, poi, «si è lavorato per convincere il governo russo che quello di Washington sia completamente inaffidabile». Le storie sui collegamenti “russi” di Trump «sono così ovviamente false da essere ridicole, ma i russi stanno vedendo che, nonostante la falsità delle accuse, il consigliere per la sicurezza nazionale di Trump è caduto, e Trump stesso potrebbe essere il prossimo».In altre parole, conclude Craig Roberts, i russi «stanno osservando che in America i fatti non sono rilevanti per i risultati». L’avevano già capito dopo «le bugie su Putin, l’Ucraina, la Georgia, e le intenzioni russe verso l’Europa». Putin è abitualmente chiamato “delinquente”, “assassino”, “il nuovo Hitler” dai politici americani, dalle “presstitutes” della stampa e da Hillary Clinton. Generali del Pentagono descrivono la Russia come «la principale minaccia per gli Stati Uniti», mentre «comandanti della Nato affermano che l’esercito russo potrebbe occupare i Paesi Baltici e la Polonia in qualsiasi momento». Sono accuse deliranti, «prive di senso», che però «suggeriscono ai russi l’idea che l’Occidente stia preparando le sue popolazioni per un attacco alla Russia». In una situazione simile, come si farà a riconoscere eventuali falsi allarmi? Come potranno mantenere i nervi saldi, gli americani «convinti che Putin e la Russia siano l’incarnazione del male»? E i russi, a loro volta, come potranno pensare che gli americani non facciano sul serio? «Questo è il rischio estremo», conclude Craig Roberts: l’Armageddon, pericolo al quale «hanno esposto la vita sulla Terra». Loro, naturalmente: «I neoconservatori folli, gli idioti, l’avido complesso militare e di sicurezza, i liberal-progressisti di sinistra e generali aggressivi. E le poche voci di avvertimento vengono liquidate come “agenti russi”».Non gliene importa nulla se il 10% dell’arsenale nucleare di Usa e Russa basta e avanza per cancellare la vita sul pianeta: al clan dell’intelligence Usa sono bastati 24 giorni – il tempo in cui è rimasto in carica il generale Flynn, consigliere per la sicurezza nazionale – per archiviare le promesse di distensione, dopo le forti tensioni con Mosca create a freddo dal regime di Obama. Lo afferma Paul Craig Roberts, già viceministro di Reagan: ai media “presstitute” (“New York Times”, “Washington Post”, “Cnn” e “Nbc”) sono bastate le “fake news” sul conto di Flynn costruite a tavolino da John Brennan, il direttore della Cia voluto da Obama, che «ha costruito dossier falsi» riguardo all’amicizia “pericolosa” tra Flynn e Putin, come documenta Gareth Porter su “Information Clearing House”. «Rapporti falsi, nessuno dei quali conteneva alcuna prova». Il movente? Semplice: la minaccia, da parte di Flynn, di ridimensionare il budget militare, 1.000 miliardi di dollari l’anno per gli armamenti e il business della sicurezza. Risultato: «I media occidentali sono più impegnati a servire il padrone della Cia di quanto non siano a servire la pace tra potenze nucleari».