Archivio del Tag ‘Ue’
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Giannuli: da Geithner un aiutino a Silvio contro Putin?
E’ possibile che il siluro arrivato a Napolitano a novembre, con il libro di Alain Friedman, sia indipendente da questa uscita di Timothy Geithner, che rilancia la tesi del complotto internazionale ai danni del Berluska. Ma qualche sospetto viene e, comunque, anche se è plausibile che Friedman non potesse prevedere questa uscita attuale di Geithner, è molto poco probabile che questi non sapesse del precedente. Ed allora: perché e perché proprio ora? E in pieno finale di campagna elettorale? Per di più, Geithner usa un’espressione piuttosto pesante quando dice di aver sconsigliato ad Obama di aderire all’invito degli esponenti Ue: «Non possiamo macchiarci le mani del sangue di questo uomo». Certo potrebbe trattarsi di linguaggio figurato. Ma, anche qui, sorge il dubbio che si volesse dir di più.E va da sé che Geithner avrà sicuramente consultato prima il presidente – o chi per lui – dovendolo tirare in ballo; d’altra parte, se così non fosse stato, avremmo già dovuto leggere un comunicato della Casa Bianca che definisce queste come “posizioni e ricordi personali che il presidente non conferma”, eccetera. E invece… Dunque, il capo dell’amministrazione in carica ha deciso di lasciar fare. Il primo effetto di questa uscita è oggettivamente un assist a Berlusconi, presentato come la vittima di un complotto della cattiva Ue, rafforzando e raddoppiando l’uscita di Friedman. Per di più le reazioni sono smentite che non smentiscono un accidenti, anzi mi ricordano la frase della signorina richiesta di certe prestazioni che replicava: «Prima di tutto queste cose io non le faccio, poi l’erba è bagnata e 50 euro sono pochi». Imbarazzante!E il Cavaliere, giustamente dal suo punto di vista, cerca di cavalcare la cosa come può, visto che i servizi sociali fanno presto a diventare arresti domiciliari e non è prudente prendersela con il Colle. Ma tutto questo avrà un effetto elettorale, frenando la caduta di Fi? E perché a Geithner preme tanto aiutare il periclitante Cavaliere? Qualche effetto elettorale è possibile che ci sia, spingendo un po’ di berlusconiani tiepidi, indecisi fra la spiaggia e le urne, a scegliere le seconde. Ma di quanti potrebbe trattarsi? Certo, anche uno 0,4%, per uno che sta affondando e deve resistere voto per voto, è un aiuto, anche se non risolutivo. Ma sapete che ci sono di quei regali dei quali si dice “basta il pensiero”. E qui il dubbio è che l’omaggio non sia tanto al capo di Fi, quanto all’amico, sodale, confidente e diremmo quasi socio di Putin. Siamo in tempi di rapporti difficili fra Casa Bianca e Cremlino e, forse, serve un buon mediatore. O forse si vuole invitare a star fermo e restare neutrale un possibile capo della lobby filo-russa.Peraltro, questo potrebbe essere un missile a più testate: un sorriso al vecchio amico Silvio, ma anche un pizzicotto a quegli antipatici della Ue, che non stanno facendo quello che dovrebbero contro i cattivi russi che invadono l’infelice Ucraina… Immaginate se venisse fuori altro, che si dimostrasse l’ingerenza della Ue negli affari di governo di un paese membro. E magari ancora di più… Sarebbe una circostanza davvero noiosa, vi pare? Certo nella testa degli americani oggi c’è più Kiev che Roma. Però, se dovesse esserci anche qualche effetto romano, la cosa non guasterebbe: sbaglieremo, ma il giullare fiorentino non è nelle grazie dei padroni di casa. E se gli si può guastare la festa non è cosa che possa dispiacere. E anche Grillo, abbiamo il sospetto che, sulla riva occidentale dell’Atlantico, sia visto peggio di un anno fa.Tutto sommato, anche se il Cavaliere ha avuto le sue infedeltà, fornicando con l’autocrate russo e con il pirata berbero buonanima, è pur sempre un vecchio amico su cui si può contare. Infine, visto che ci siamo, la cosa può tornare utile anche a liberare la sedia del Quirinale. Certo, Re Giorgio è un vecchio amico sempre leale; però, da qualche tempo, inizia ad essere troppo contestato e non è più funzionale come un tempo. Forse è il momento di cambiarlo con un più giovane ed efficiente amico degli Usa…E’ possibile che il siluro arrivato a Napolitano a novembre, con il libro di Alain Friedman, sia indipendente da questa uscita di Timothy Geithner, che rilancia la tesi del complotto internazionale ai danni del Berluska. Ma qualche sospetto viene e, comunque, anche se è plausibile che Friedman non potesse prevedere questa uscita attuale di Geithner, è molto poco probabile che questi non sapesse del precedente. Ed allora: perché e perché proprio ora? E in pieno finale di campagna elettorale? Per di più, Geithner usa un’espressione piuttosto pesante quando dice di aver sconsigliato ad Obama di aderire all’invito degli esponenti Ue: «Non possiamo macchiarci le mani del sangue di questo uomo». Certo potrebbe trattarsi di linguaggio figurato. Ma, anche qui, sorge il dubbio che si volesse dir di più.
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Geithner e il golpe 2011, Sapelli: nel mirino era Tremonti
Prima Alan Friedman, col suo libro nel quale Prodi, De Benedetti e lo stesso Monti ammettono che nel 2011 c’erano state “consultazioni”, anche da parte di Napolitano, per far fuori Berlusconi, il premier in carica. Ora la conferma arriva da Timothy Geithner, uomo di Wall Street dirottato a Washington come ministro del Tesoro di Obama: la Casa Bianca, scrive oggi Geithner, nel 2011 ricevette pressioni da parte di alcuni paesi europei per far cadere Berlusconi. Il “golpe”, insomma, c’è stato. «Non sono sorpreso», commenta l’uomo di Arcore. «È la conferma di ciò che ho sempre sostenuto, che c’è stata una precisa volontà di togliere di mezzo un premier democraticamente eletto che difendeva gli interessi del suo paese e contrastava quelli della Germania». Ma secondo Giulio Sapelli, docente di storia economica nell’università di Milano, la tecnocrazia europea targata Angela Merkel aveva qualcun altro nel mirino: Giulio Tremonti. Era lui l’uomo nero della Troika, il vero bersaglio dell’Ue, perché resisteva – in ogni modo possibile – ai diktat dell’austerity.Quella che oggi sgancia Geithner è una bomba: «Funzionari dell’Ue chiesero a Obama di far dimettere Berlusconi». Per prima cosa bisogna contestualizzare gli eventi, raccomanda Sapelli, intervistato da Fabio Franchini per “Il Sussidiario”. Geithner, ex ministro di Obama, nel 2014 scrive un libro dove racconta come a far cadere il governo Berlusconi non siano stati gli Usa, bensì la tecnocrazia europea dominata dai tedeschi. Motivo? «Perché l’Italia si era detta non favorevole a salvare la Grecia portando quote ulteriori di capitali rispetto a quelli che già versava al fondo della Comunità Economica Europea». Se Geithner dice questo, aggiunge Sapelli, «vuol dire che ora come ora i rapporti tra Germania e Usa sono lacerati, pessimi. Uno come lui che ha avuto responsabilità internazionali di altissimo livello (mentre oggi le ha nel mondo finanziario) e che scrive un libro con dentro cose di questo tipo…».Il vero obiettivo di Bruxelles era Tremonti, insiste Sapelli: era lui l’uomo da far cadere. «Consiglio di andare a sfogliare le appendici di “Uscita di sicurezza”, scritto dall’ex ministro dell’economia: contengono delle verità terribili. Tremonti ha continuato ad avvisare la Comunità Europea sull’arrivo imminente della crisi, invitando a perseguire politiche antideflazionistiche, che andavano però a contrastare le mire tedesche. Andava allontanato». L’Italia, o meglio Tremonti, vittima dunque di una vera e propria ritorsione? «Sì, ma anche della sua stessa debolezza politica». Secondo Sapelli, uno come Tremonti «avrebbe dovuto trovare il modo di dirle anche da ministro le cose che dice nel libro». Il fatto resta senza precedenti: nella “democratica” Europa «non era mai accaduto che un governo eletto fosse destituito così. Quell’esecutivo era sì traballante, ma non ancora sfiduciato dal Parlamento. Costituzionalmente parlando è una cosa gravissima».E la calamità dello spread? «Non ha alcun senso. Lo spread, come dimostrano i fatti di oggi, era un’invenzione: era tenuto volontariamente alto per creare una psicosi. Lo spread adesso è caduto mica per merito del governo Renzi, bensì perché i mercati dei paesi emergenti, che prima tiravano, stanno manifestando i primi sentori di una crisi». Alla vigilia del voto del 25 maggio, che conseguenze può avere una rivelazione di questa portata che svela queste trame? Geopolitica: gli americani oggi impegnati in Ucraina nel braccio di ferro contro Putin sanno benissimo che il libro di Geithner avrà un’enorme eco mediatica, quindi «hanno tutto l’interesse a destabilizzare la Merkel e i governi che la sostengono». Alla luce del retroscena di Geithner, il ruolo di Napolitano in quei convulsi mesi estivi e autunnali cambia o rimane invariato? Sapelli non ha dubbi: «Dico solo una cosa: riflettiamo sul viaggio della regina Elisabetta in Italia: chi è venuta a trovare la regina? il Papa e Napolitano. Ecco».Prima Alan Friedman, col suo libro nel quale Prodi, De Benedetti e lo stesso Monti ammettono che nel 2011 c’erano state “consultazioni”, anche da parte di Napolitano, per far fuori Berlusconi, il premier in carica. Ora la conferma arriva da Timothy Geithner, uomo di Wall Street dirottato a Washington come ministro del Tesoro di Obama: la Casa Bianca, scrive oggi Geithner, nel 2011 ricevette pressioni da parte di alcuni paesi europei per far cadere Berlusconi. Il “golpe”, insomma, c’è stato. «Non sono sorpreso», commenta l’uomo di Arcore. «È la conferma di ciò che ho sempre sostenuto, che c’è stata una precisa volontà di togliere di mezzo un premier democraticamente eletto che difendeva gli interessi del suo paese e contrastava quelli della Germania». Ma secondo Giulio Sapelli, docente di storia economica nell’università di Milano, la tecnocrazia europea targata Angela Merkel aveva qualcun altro nel mirino: Giulio Tremonti. Era lui l’uomo nero della Troika, il vero bersaglio dell’Ue, perché resisteva – in ogni modo possibile – ai diktat dell’austerity.
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Putin il più amato dagli inglesi, Obama e Merkel retrocessi
Il leader più amato dagli inglesi? Nessun dibbio: Vladimir Putin. Questo il verdetto dei lettori dell’“Independent”, sollecitati dal quotidiano britannico a pronunciarsi sul tema dopo l’esplosione della crisi in Ucraina. Ad aprile, a dare fuoco alle polveri era stato Nigel Farage, fondatore dello Ukip, il partito anti-Ue dato in vetta all’euro-punteggio del Regno Unito per le elezioni del 25 maggio. Lui e l’ex vicepremier Nick Clegg, ricorda Cristiano Patuzzi sul blog “Nuova Auras”, si erano scontrati in un dibattito televisivo: oggetto, la questione ucraina. Farage ha osservato fra l’altro che «la Russia è stata provocata dall’Europa, gli eurocrati hanno fatto male a costringere gli ucraini fra Occidente e Russia, e Vladimir Putin – senza necessariamente prenderne le parti – è obbiettivamente uno stratega politico di prima grandezza». Lo pensa anche il 90% del campione inglese sondato dal giornale.«Insulti, derisioni e persino minacce sottintese, attacchi violenti e grossolani, ben poco british hanno seguito il giorno dopo i commenti del media inglesi», scrive Patuzzi, citando il “Guardian”, «quasi che la stampa fosse già in guerra», alla fine di marzo. Al che, un quotidiano più moderato come l’“Independent” ha avuto l’idea di lanciare un sondaggio fra i suoi lettori. Scrive, provocatoriamente, il giornale londinese: «Il leader mondiale preferito da Farage è Putin. Lo stesso Putin che sta aiutando Assad in Siria, che s’infischia del diritto internazionale per annettersi la Crimea. Questo, Farage lo trova ammirevole. Diteci: qual è il vostro leader preferito?». Idea malaugurata, osserva Patuzzi. Ecco infatti i risultati del primo sondaggio, datato 5 aprile: Barack Obama è fermo al 4%, il premier britannico David Cameron è appena al 2%, Angela Merkel lotta nelle retrovie con un 8% (il doppio del presidente americano, comunque) mentre il fanalino di coda è il francese Francois Hollande, all’1%. A Mosca, invece, Putin se la ride dall’alto del suo irraggiungibile 82%.Il che ha francamente dell’incredibile: significa che i lettori non si fidano più dei media mainstream, televisione in testa, e non credono alla versione ufficiale che viene loro proposta. Due giorni dopo, il 7 aprile, per i nemici di Putin la situazione peggiora ulteriormente: Cameron è sempre fermo al 2%, ma Obama perde un punto e scivola al 3%, imitato dalla Merkel che cala al 6%. «Ammirevole la tenuta di Hollande, inchiodato all’1%», mentre Putin sale all’86%. L’ultima verifica è dell’11 aprile, e per gli amici della Nato sono ancora dolori: «Cameron rovina al 1% a pari merito con Hollande, Obama è ulteriormente retrocesso al 2%», perde ancora terreno anche la Merkel che scende al 4%, e «nonostante l’ingresso in classifica del premier giapponese Shinzo Abe, al 1%, con Dilma Rousseff e Matteo Renzi (nemmeno a dirlo) allo 0%, Vladimir Putin svetta al 90%». Qualcosa di non orribile sta davvero per succedere?Il leader più amato dagli inglesi? Nessun dubbio: Vladimir Putin. Questo il verdetto dei lettori dell’“Independent”, sollecitati dal quotidiano britannico a pronunciarsi sul tema dopo l’esplosione della crisi in Ucraina. Ad aprile, a dare fuoco alle polveri era stato Nigel Farage, fondatore dello Ukip, il partito anti-Ue dato in vetta all’euro-punteggio del Regno Unito per le elezioni del 25 maggio. Lui e l’ex vicepremier Nick Clegg, ricorda Cristiano Patuzzi sul blog “Nuova Auras”, si erano scontrati in un dibattito televisivo: oggetto, la questione ucraina. Farage ha osservato fra l’altro che «la Russia è stata provocata dall’Europa, gli eurocrati hanno fatto male a costringere gli ucraini fra Occidente e Russia, e Vladimir Putin – senza necessariamente prenderne le parti – è obbiettivamente uno stratega politico di prima grandezza». Lo pensa anche il 90% del campione inglese sondato dal giornale.
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Bruxelles taglia i fondi, Torino-Lione in via d’estinzione?
Inutile, mostruosa, sanguinosa per il debito pubblico italiano. Ma soprattutto: senza più un soldo. Il movimento No-Tav e l’opposizione francese alla linea Tav Torino-Lione annunciano che la grande opera è ufficialmente in via di estinzione, almeno secondo la Commissione Europea. Già la Francia, lo scorso anno, aveva posticipato al 2030 l’eventuale avvio dei lavori sul versante transalpino. Pochi mesi dopo, la Svizzera ha confermato che l’attuale linea internazionale che collega Italia e Francia attraverso la valle di Susa, la Torino-Modane, appena riammodernata con l’ampliamento del traforo del Fréjus, potrebbe da sola incrementare l’attuale traffico merci del 900%. Peccato che le merci non ci siano: il trasporto fra i due paesi è ormai crollato, complice la crisi e la saturazione storica dei mercati di consumo. Dal punto di vista strategico, invece, la Torino-Lione è un binario morto: l’asse delle merci predilige la direttrice nord-sud, Genova-Rotterdam.Tuttora, la linea Torino-Lione non esiste: dopo vent’anni, l’unico cantiere aperto è quello di Chiomonte, dove si sta scavando – al rallentatore – solo un “cunicolo esplorativo”. Nessuna traccia, per ora, dei preparativi per quello che un giorno, forse, sarà il traforo ferroviario vero e proprio, lungo 57 chilometri. Quel giorno con ogni probabilità non arriverà mai, dicono i No-Tav, presentando un cospicuo dossier. Tanto per cominciare, anche se i giornali non ne hanno parlato, un anno fa è stato revocato metà del contributo europeo promesso da Bruxelles. Si tratta di una decurtazione ingente: dai 671,8 milioni di euro inizialmente concessi (cifra irrisoria, peraltro, a fronte del costo miliardario dell’opera, largamente a carico di Italia e Francia) si è scesi a 395,3 milioni di euro. Una riduzione del 41%. «Il pesante ridimensionamento riguarda tutto il programma europeo, il cui importo complessivo passa da 2,09 miliardi di euro a soli 891 milioni, quindi con una riduzione del 57%».Pressoché azzerati, continuano i No-Tav, i finanziamenti l’avvio del tunnel di base, 1,63 miliardi di euro: 150 milioni sono stati dirottati in Francia su perforazioni (non previste) nella cosiddetta Galleria di Saint Martin La Porte. Sale intanto alle stelle, secondo i No-Tav, il costo di Tlf: è di 75 milioni il conto della la società Lyon Turin Ferroviaire incaricata di realizzare l’opera, «“premiata” per la sua gestione fallimentare del contributo europeo, dimezzato dalla Commissione». Ltf, aggiunge il movimento valsusino, «cominciò a scavare quando già sapeva di non finire nei termini». All’avvio del mini-tunnel esplorativo di Chiomonte, i governi di Roma e Parigi «sapevano perfettamente che il contributo era stato dimezzato, che il termine previsto (fine 2016) sarebbe andato ben oltre il 31 dicembre 2015 e che tutte le spese effettuate dopo quella data non sarebbero state ammesse dall’Unione Europea».Anche se la stampa mainstrem racconta che la mini-galleria di Chiomonte sarebbe stata ormai scavata per metà, la realtà è tutt’altra: «La “talpa” procede a passo di lumaca, ha scavato appena 641 metri sui quasi 7 chilometri e mezzo totali, viaggiando ad appena 2,5 metri al giorno anziché i 10 metri previsti. Anche a velocità doppia, al 31 dicembre 2015 risulterà scavata solo metà galleria; tutta solo a febbraio 2018 (al di fuori dei termini del contributo europeo)». E visto che l’Ue contribuisce solo se la galleria sarà completata nei termini previsti, «si rischiamo ulteriori perdite di contributi». E se la magistratura di Torino accusa i No-Tav di aver causato parte dei ritardi con la forte opposizione all’avvio del piccolo cantiere di Chiomonte, il movimento ribatte citando la Commissione Europea, che registra, testualmente, «un notevole ritardo dovuto a difficoltà amministrative e tecniche».Inoltre, la Piattaforma del Corridoio Torino-Lione ravvisa la «infattibilità politica di proporre la costruzione di una nuova linea senza fare tutto il possibile affinché quella esistente torni a essere la principale arteria di trasporto in seguito ai lavori di ampliamento nel traforo ferroviario del Fréjus». Il movimento No-Tav lo dimostra da anni, dati alla mano: «La linea esistente è ampiamente sotto-utilizzata, nonostante il suo recente adeguamento che consente oggi il passaggio di treni merci di ogni tipo e dimensione», compresi i conteiner “navali” e i Tir caricati sui treni. «Anziché usare il Tav per fare carriera, i politici riflettano su quello che dicono», sottolineano i No-Tav, che denunciano il “patto del silenzio” sulla burocrazia europea: «Fino ad oggi la “Decisione C(2013) 1376” della Commissione Europea è rimasta nascosta al legittimo controllo dei cittadini contribuenti. Solo la pressante azione del movimento No-Tav ha permesso di squarciare il velo sull’insuccesso di Ltf e delle politiche dei governi italiano e francese». Continua, intanto, «lo scandalo del silenzio sulla gestione della Torino-Lione».Inutile, mostruosa, sanguinosa per il debito pubblico italiano. Ma soprattutto: senza più un soldo. Il movimento No-Tav e l’opposizione francese alla linea Tav Torino-Lione annunciano che la grande opera è ufficialmente in via di estinzione, almeno secondo la Commissione Europea. Già la Francia, lo scorso anno, aveva posticipato al 2030 l’eventuale avvio dei lavori sul versante transalpino. Pochi mesi dopo, la Svizzera ha confermato che l’attuale linea internazionale che collega Italia e Francia attraverso la valle di Susa, la Torino-Modane, appena riammodernata con l’ampliamento del traforo del Fréjus, potrebbe da sola incrementare l’attuale traffico merci del 900%. Peccato che le merci non ci siano: il trasporto fra i due paesi è ormai crollato, complice la crisi e la saturazione storica dei mercati di consumo. Dal punto di vista strategico, invece, la Torino-Lione è un binario morto: l’asse delle merci predilige la direttrice nord-sud, Genova-Rotterdam.
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Col dollaro sovrano, Usa in ripresa ed Eurozona in crisi
La crisi della periferia europea ha sortito un effetto boomerang per l’euro e per Berlino: tra il 2011 e il 2013 la quantità di euro nelle riserve delle banche centrali è scesa dal 25,1 al 24.2%. Nel 2007 la Germania è caduta da terza a quarta economia nel ranking mondiale. Invece, l’egemonia del dollaro è rimasta intatta, conservando il 64% del totale della valuta nelle riserve delle banche centrali. Così, gli Usa mantengono la supremazia economica globale, spiegano Ariel e Ulises Noyola Rodríguez. La crisi del debito sovrano europeo, iniziata nel 2010 dopo la crisi delle ipoteche “subprime” statunitensi del 2007-2008, ha rivelato la fragilità delle fondamenta economiche dell’Unione Europea, partita nel 2002 con l’euro come moneta unica. Lo sviluppo differente delle crisi – negli Usa e in Europa – rende manifesto «il carattere gerarchico dell’economia mondiale» e, con esso, «l’asimmetria di potere tra gli Stati capitalisti dominanti: Germania e Usa».Gli Stati Uniti, spiegano i due economisti in un’analisi ripresa da “Come Don Chisciotte”, godono di un sistema finanziario con una maggiore elasticità dinnanzi alle turbolenze dell’economia mondiale: la banca centrale statunitense «riproduce la sua posizione in cima alla piramide dei sistemi finanziari nazionali concentrando e centralizzando capitali attraverso il binomio “dollaro – Wall Street”, che rappresenta un meccanismo di dominazione finanziaria». La moneta sovrana – il dollaro – stravince il confronto, perché la Federal Reserve emette moneta su richiesta del governo, mentre l’euro – moneta senza Stato, per Stati senza più moneta propria – non può transitare direttamente dalla Bce ai governi dell’Eurozona. Così, la Fed ha espanso la sua base monetaria (denaro depositato in banche e in circolazione nell’economia reale) di un 400%, mentre la Bce soltanto di un 150%.La banca centrale europea, osservano i due analisti, prova a non pregiudicare la posizione dell’euro come moneta di riserva. «I programmi che ha lanciato includono la “sterilizzazione di liquidità” che la Fed non ha previsto, ovvero: il denaro che la Bce usa per comprare titoli finanziari lo recupera ritirandolo dalla propria base monetaria». Immettendo invece nuovo denaro nel circuito, la Fed ha permesso all’economia americana di «riprendersi più rapidamente rispetto al sistema finanziario europeo». Cifre: tra il 2007 e il 2013, il valore delle azioni delle 10 maggiori banche americane è aumentato di 2.000 miliardi, secondo la Federal Deposit Insurance Corporation, mentre le grandi banche europee, a giugno 2013, possedevano in azioni 660 milioni di euro in meno rispetto al 2009, secondo la Bce. Inoltre, il sistema finanziario europeo, essendo di natura bipolare – da un lato banche molto forti (Deutsche Bank, Commerzbank e Bnp Paribas) e dall’altro banche molto deboli nella periferia, «aumenta il rischio locale legato a possibili shock finanziari».Affinché si mantenga la “fiducia” nella valuta, la Troika europea fa rispettare il Patto di Stabilità, che obbliga gli Stati membri a non superare il limite del 3% del deficit e del 60% di debito pubblico in relazione al Pil. «Ad ogni modo – aggiungono Ariel e Ulises Noyola Rodríguez – l’applicazione di politiche di austerità ha portato al fatto che attualmente 11 paesi non rispettino il suddetto patto», ovvero Austria, Belgio, Cipro, Slovenia, Spagna, Francia, Finlandia, Grecia, Irlanda, Italia e Olanda. Viceversa, il debito pubblico di Washington (16.7 bilioni di dollari, oltre il 100% del Pil) «si sostiene attraverso il dollaro, che agisce come rifugio privilegiato degli “short-term capitals” del resto del mondo», cioè i capitali attraverso cui si vuole ottenere un plusvalore in meno di un anno. «De facto, il rischio di default statunitense scompare».Il male oscuro dell’Eurozona si chiama deflazione: denaro insufficiente in circolazione. A partire da ottobre 2013, osservano i due economisti, l’inflazione europea si trova sotto l’1%: meno della metà dell’obiettivo fissato dalla Bce, che è il 2%. A gennaio 2014 l’inflazione è calata ulteriormente fino allo 0.8% per poi scendere ancora (allo 0.7%) a febbraio. «Ciò ha messo in allerta Mario Draghi, presidente della Bce, che ha dichiarato che è possibile che la politica monetaria sia più espansiva e includa misure non convenzionali, possibilmente in stile Fed, anche se applicate in maniera selettiva in base ai paesi». La crisi morde: il credito registra la più grave caduta in vent’anni, la disoccupazione al 12% è un record storico, il cambio euro-dollaro (1,4 dollari per euro) ormai «minaccia il dinamismo delle esportazioni tedesche». E l’Institute for Economic Research, in tedesco “Ifo”, rivela che il livello di fiducia delle imprese tedesche sta cominciando a calare.Di fronte a una situazione così drammatica, rispetto a quale la “cura” del rigore non rappresenta certo una soluzione ma, al contrario, proprio la causa principale della sofferenza, oggi la rigidissima Bce non scarta più «la possibilità di stabilire tassi negativi nei depositi bancari per ribaltare la tendenza depressiva dell’economia», creata proprio dall’euro-deflazione. E persino il banchiere centrale tedesco Jens Weidmann, presidente della Bundesbank, ora è favorevole a un’espansione monetaria (“quantitative easing”), se si cambia l’articolo 123 dello Statuto della Bce che proibisce di finanziare direttamente gli Stati. Moneta finalmente disponibile? Inversione di tendenza obbligatoria, o l’Eurozona collassa.La crisi della periferia europea ha sortito un effetto boomerang per l’euro e per Berlino: tra il 2011 e il 2013 la quantità di euro nelle riserve delle banche centrali è scesa dal 25,1 al 24.2%. Nel 2007 la Germania è caduta da terza a quarta economia nel ranking mondiale. Invece, l’egemonia del dollaro è rimasta intatta, conservando il 64% del totale della valuta nelle riserve delle banche centrali. Così, gli Usa mantengono la supremazia economica globale, spiegano Ariel e Ulises Noyola Rodríguez. La crisi del debito sovrano europeo, iniziata nel 2010 dopo la crisi delle ipoteche “subprime” statunitensi del 2007-2008, ha rivelato la fragilità delle fondamenta economiche dell’Unione Europea, partita nel 2002 con l’euro come moneta unica. Lo sviluppo differente delle crisi – negli Usa e in Europa – rende manifesto «il carattere gerarchico dell’economia mondiale» e, con esso, «l’asimmetria di potere tra gli Stati capitalisti dominanti: Germania e Usa».
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Giannuli: Hollande e Merkel complici dei nazisti di Odessa
In Ucraina, «la Ue sta facendo un gioco ignobile al servizio degli Usa, non cercando di porsi come mediatore, ma schierandosi apertamente con una delle parti in conflitto, in nome di principi inesistenti come quello dell’intangibilità delle frontiere», che in questo caso sono un puzzle interetnico, data la labilità storica dell’identità nazionale ucraina. Accusa Aldo Giannuli: «Da Merkel e da Hollande non è venuta una parola di condanna per il pogrom di Odessa, il che li rende complici morali di esso». Giannuli cita il breve, terribile documentario montato da Giulietto Chiesa su “Pandora Tv”, che dimostra che la strage di Odessa è stata pianificata: un massacro di civili inermi, alcuni bruciati vivi ma altri trucidati a colpi di pistola, o strangolati nel proprio ufficio, come accaduto a una donna incinta i cui assassini si sono vantati di aver “ucciso una russa e il piccolo russo che aveva in grembo”.«Quando ricompaiono i nazisti con le loro atrocità – scrive Giannuli nel suo blog – non è possibile alcuna neutralità e non c’è dubbio sulla parte da scegliere: contro di loro e a fianco delle vittime». Il pogrom di Odessa è illuminante: «E’ in corso in Ucraina una partita strategica mondiale che va molto oltre gli attori che occupano il palcoscenico». Premessa fondamentale: «L’Ucraina, così come la conosciamo, non è mai esistita: non c’è mai stata un’Ucraina indipendente con questa conformazione territoriale e, soprattutto, non c’è mai stata questa distribuzione etnica», che è frutto di «due secoli di dominazione russa», con imponenti migrazioni interne. La Crimea, poi, non è mai stata Ucraina; fu “regalata” da Kruscev alla maggiore repubblica dell’Urss, dopo quella russa, come parte di un pacchetto di concessioni fatte per isolare e battere la guerriglia indipendentista dei seguaci di Stephan Bandera, eponente dell’ultra-destra.Se sotto l’Urss l’Ucraina era «poco più di un’unità amministrativa, dotata di una sua fittizia autonomia politica», con la dissoluzione dell’Unione Sovietica l’Ucraina è diventata uno Stato, senza però mai riuscire a diventare una nazione. Resta «un aggregato disomogeneo di regioni poco amalgamate, con zone prevalentemente russofone, zone propriamente ucrainofone e un nucleo centrale misto con percentuali variabili da provincia a provincia». Quanto ai confini veri e propri, la Russia disastrata di Eltsin non era in condizione di ridefinirli. La contrapposizione inter-etnica? Molto enfatizzata dai media, ma la reatà è diversa: non tutti gli ucraini sono russofobi, non tutti i russofoni sono anti-ucraini, e in diverse regioni la coesistenza è perfettamente pacifica. In compenso, in questi vent’anni di indipendenza, i pessimi politici di Kiev non sono stati capaci di costruire un vero e proprio senso di appartenza nazionale. Gli anti-russi? «Più che di indipendentisti ucraini, ha senso parlare di eurofili che sognano di diventare una nuova Germania o una nuova Francia sol che si compia il miracolo dell’ammissione nella Ue».A dividere il paese, continua Giannuli, è proprio la proiezione economica verso l’Europa da parte di regioni non amalgamate tra loro, e non pronte a reggere l’impatto dell’occidentalizzazione forzata. «Tutto questo è anche il prodotto di una classe politica che è peggiore persino di quella italiana: i vari Kravchuk, Jushenko, Tymoscenko, Yanukovich, che si sono succeduti alla presidenza, sono stati personaggi assolutamente impresentabili, che, invece di costruire un’identità nazionale, hanno cavalcato le contrapposizioni, inasprendole per quanto potevano, allo scopo di mietere voti e conquistare un governo che poi non hanno saputo usare. Yanukovich – aggiunge Giannuli – è stato il più ladro e cialtrone dei governanti di quello sventurato paese: aveva promesso ai russofoni una parificazione linguistica che si è ben guardato dal realizzare, aveva accettato l’integrazione nella Ue per poi fare marcia indietro. Non stupisce che sia caduto in disgrazia presso tutti. Anche Mosca non sapeva come fare per liberarsi di lui».Nel frattempo la crisi mondiale rendeva i margini finanziari sempre più stretti: oggi l’Ucraina è un paese virtualmente fallito, con un debito enorme verso la Russia, dalla quale ha preso molto più gas di quanto potesse pagare, approfittando del passaggio del gasdotto attraverso il suo territorio. «Che si arrivasse a una mobilitazione di piazza era nell’ordine delle cose», ma le milizie neonaziste hanno preso il sopravvento «solo dopo che quell’incapace di Yanukovich ha iniziato a giocare al “dittatore cattivo”, scatenando una repressione che non era neppure in grado di reggere a lungo». Le violenze di Kiev a quel punto hanno innescato il riflesso separatista. «Le regioni orientali, in riva al Mar Nero, dove le percentuali dei russofoni sono elevate, hanno iniziato a manifestare umori separatisti, ci sono stati scontri sempre più frequenti, cui gli accordi di Ginevra hanno vanamente cercato di porre fine, perché il governo di Kiev, neppure 48 ore dopo, ne ha fatto strame, partendo con una spedizione punitiva contro le regioni orientali che, nel frattempo, organizzavano il referendum».Il pogrom di Odessa va inserito in questo quadro, conclude Giannuli, e dimostra come «governo e bande fasciste siano sulla stessa linea: terrorizzare i russofoni e provocare Mosca ad intervenire, nella speranza di un allargamento del conflitto che tiri dentro la Nato», come se l’Europa morisse dalla voglia di confrontarsi militarmente con il temibile esercito di Putin. Il vuoto spaventoso è quello della politica europea, che anziché cercare un ruolo di interposizione strategica si allinea agli estremisti più pericolosi. Neppure la Germania della Merkel ha finora assunto una posizione accettabile, autorevole e indipendente da Washington. Ma c’è chi è riuscito a fare persino peggio: «Hollande è il più spregevole in questa gara a chi è il servo più servo degli americani». L’augurio di Giannuli è che alle elezioni europee «il Ps francese sprofondi sotto il 10% e si disintegri».In Ucraina, «la Ue sta facendo un gioco ignobile al servizio degli Usa, non cercando di porsi come mediatore, ma schierandosi apertamente con una delle parti in conflitto, in nome di principi inesistenti come quello dell’intangibilità delle frontiere», che in questo caso sono un puzzle interetnico, data la labilità storica dell’identità nazionale ucraina. Accusa Aldo Giannuli: «Da Merkel e da Hollande non è venuta una parola di condanna per il pogrom di Odessa, il che li rende complici morali di esso». Giannuli cita il breve, terribile documentario montato da Giulietto Chiesa su “Pandora Tv”, che dimostra che la strage di Odessa è stata pianificata: un massacro di civili inermi, alcuni bruciati vivi ma altri trucidati a colpi di pistola, o strangolati nel proprio ufficio, come accaduto a una donna incinta i cui assassini si sono vantati di aver “ucciso una russa e il piccolo russo che aveva in grembo”.
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La sinistra europea è complice dei signori della crisi
La sinistra che doveva cambiare l’Europa mitigando l’austerity e mettendo in discussione il neoliberismo di Bruxelles ha fatto esattamente l’opposto: allineamento totale alla non-politica dei “conti in ordine”, quella cioè che rende semplicemente impossibile l’uscita dalla crisi. Rigore fiscale e centralità del mercato: uno scenario dominato da «politiche conservatrici e liberali, fedeli al credo monetarista», sottolinea Nicola Melloni. «Una risposta in tutto e per tutto simile a quella di Herbert Hoover, e della gran parte dei suoi colleghi europei, alla crisi del ’29, in un contesto istituzionale diverso ma, in realtà, comparabile: se il regime finanziario internazionale di allora era caratterizzato dal Gold Standard, quello presente, in Europa, è costituito da Bce, Commissione europea e unione monetaria». Servirebbe un piano-B, appunto: quello che la sinistra riformista europea si rifiuta categoricamente di prendere in considerazione, preferedo diversioni “creative” alla Matteo Renzi.Di fatto, assistiamo allo svuotamento delle funzioni dei Parlamenti nazionali, ai diktat dei “mercati ci chiedono”, alla centralità di debito e deficit rispetto alla disoccupazione e alla produzione, ai meccanismi automatici di riequilibrio dei disavanzi commerciali attraverso recessioni auto-indotte, scrive Melloni su “Sbilanciamoci”, in un post ripreso da “Micromega”. Non c’è più neppure l’alibi della destra al governo: in Francia c’è Hollande, in Italia Renzi. «Eppure, continua clamorosamente a mancare una risposta di sinistra, di alternativa politica ed economica al mainstream neoliberale – quella risposta keynesiana, socialista o, che più in generale mettendo al centro della politica economica la domanda, il lavoro, il salario, aveva sconfitto la Grande Crisi». Per la verità, la sinistra europea «aveva abbandonato quelle idee e programmi già da una trentina d’anni, a cominciare non da Blair e Schroeder ma da Mitterrand», correva l’anno 1983, «senza dimenticare l’austerity anticipata dei vari governi Prodi in Italia».Anche davanti ad una crisi economica di portata storica, continua Melloni, i socialisti europei si sono contraddistinti per un atteggiamento ultra-passivo rispetto alla risposta conservatrice data alla crisi: «Il rigore finanziario è stato sposato e difeso a spada tratta, un po’ sotto la pressione dello spread, un po’ per convinzione e mancanza di riferimenti economico-culturali alternativi». Se una parte del mondo accademico ha tentato di denunciare il problema, «non ha mai trovato nessun vero spazio nelle stanze dei bottoni del Pse». Socialisti e conservatori: diversi per storia, ma uniti nella prassi di oggi. «Le decisioni – senza dibattito – sulla politica economica sono state demandate a Bruxelles, mentre nell’arena politica nazionale si discute di temi importanti quali il salario minimo (la Spd in Germania) o quali tipo di tagli al welfare (nel Regno Unito) senza per questo portare ad un generale ripensamento dei cardini della politica economica».Tanto i socialdemocratici tedeschi che i laburisti inglesi «hanno fatto di tutto per accreditarsi come “responsabili”, per chiarire al di là di qualsiasi ragionevole dubbio che l’austerity non sarebbe stata toccata in caso di cambiamento della maggioranza di governo». In Francia, questo trend è stato ancora più evidente: «Hollande è stato eletto come alfiere di un’altra Europa, ma una volta all’Eliseo ha abbracciato subito il dogma dei conti in ordine». Idem in Italia: «Il Pd non è certo uscito dal paradigma liberale: ha sostenuto un governo tecnocratico come quello di Monti, ha votato Fiscal Compact e pareggio di bilancio in Costituzione e continua a predicare il rigore e il rispetto degli impegni europei. Si parla tanto di sviluppo e crescita, ma nulla o quasi è stato fatto in questo senso». Per il responsabile economico del Pd, Filippo Taddei, l’austerity è «un falso problema»: la risposta alla crisi sarebbero «le riforme, non la politica economica».Questa vulgata, continua Melloni, è aumentata esponenzialmente con l’arrivo di Renzi a Palazzo Chigi: «La politica economica è stata ignorata, con vari giri di valzer sul limite del 3% per il deficit, prima denunciato in patria e poi santificato a Berlino». E nel suo tour europeo, da Parigi a Londra, Renzi ha confermato la sua allergia alla spesa pubblica. «Le cosiddette novità di Renzi sono, appunto, nelle riforme, che nulla hanno a che fare con la scelta di paradigmi economici differenti da modelli mainstream di rigore». Ma un partito che rifiuta in via di principio politiche keynesiane, che rimane «guardiano dei conti in ordine» e che chiede al mercato – con disoccupazione e riduzione dei salari – di risolvere le proprie crisi, per Melloni «nega in fieri un ruolo centrale per il lavoro», sicché «la piena occupazione rimane tabù, mentre la stella polare rimane il mercato che si auto-regola, l’utopia del liberismo sfrenato». E, nel frattempo, «il dibattito sulla politica economica – che è forse il contenuto principale della democrazia – è stato espulso dalla dialettica politica cancellando qualsiasi possibile risposta di sinistra alla crisi».La sinistra che doveva cambiare l’Europa mitigando l’austerity e mettendo in discussione il neoliberismo di Bruxelles ha fatto esattamente l’opposto: allineamento totale alla non-politica dei “conti in ordine”, quella cioè che rende semplicemente impossibile l’uscita dalla crisi. Rigore fiscale e centralità del mercato: uno scenario dominato da «politiche conservatrici e liberali, fedeli al credo monetarista», sottolinea Nicola Melloni. «Una risposta in tutto e per tutto simile a quella di Herbert Hoover, e della gran parte dei suoi colleghi europei, alla crisi del ’29, in un contesto istituzionale diverso ma, in realtà, comparabile: se il regime finanziario internazionale di allora era caratterizzato dal Gold Standard, quello presente, in Europa, è costituito da Bce, Commissione europea e unione monetaria». Servirebbe un piano-B, appunto: quello che la sinistra riformista europea si rifiuta categoricamente di prendere in considerazione, preferedo diversioni “creative” alla Matteo Renzi.
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Siamo in pieno fascismo, spiegatelo agli antifascisti
È appena trascorso il 25 aprile, Festa della Liberazione, e può essere utile svolgere alcune considerazioni sullo statuto dell’antifascismo all’interno della nostra società. Fermo restando il valore dell’antifascismo quando era presente il fascismo (l’antifascismo di Gramsci e di Gobetti, per intenderci), occorre interrogarsi sul senso e sul valore dell’odierno antifascismo in assenza completa di fascismo. A un primo sguardo, mi pare potersi così compendiare il paradosso dell’odierno antifascismo a sessant’anni dalla fine del fascismo: se per fascismo intendiamo il fascismo storico mussoliniano, esso si è estinto da ormai più di cinquant’anni e non ha senso, dunque, la sopravvivenza dell’-anti alla realtà cui l’-anti si contrapponeva. Se per fascismo intendiamo genericamente la violenza, oggi allora il fascismo è l’economia capitalistica (Fiscal Compact, debito, precariato, ecc.), ossia ciò che gli odierni sedicenti antifascisti accettano in silenzio.Morale? Variante ideologica del neoliberismo trionfante, l’antifascismo oggi è solo un alibi per non essere anticapitalisti, una volgare scusa per combattere un nemico che non c’è più e accettare vigliaccamente quello esistente, il capitalismo. La divisione dell’immaginario politico secondo la bipartizione fascisti-antifascisti, ma poi anche la divisione tra una destra e una sinistra che, al di là dei nomi, risultano interscambiabili, è una preziosa risorsa simbolica per l’assoggettamento dell’opinione pubblica al profilo culturale del monoteismo del mercato, invisibile al cospetto del proliferare di tali opposizioni. Essere antifascisti in assenza completa del fascismo o anticomunisti a vent’anni dall’estinzione del comunismo storico novecentesco costituisce un alibi per non essere anticapitalisti, facendo slittare la passione della critica dalla contraddizione reale a quella irreale perché non più sussistente.L’antifascismo svolge oggi il ruolo di fondazione e di mantenimento dell’identità di una sinistra ormai conciliata con l’ordine neoliberale, che deve dirsi antifascista per non essere anticapitalista, che deve combattere il manganello passato e non più esistente per accettare in silenzio quello invisibile se non nei suoi effetti (ingiustizia, miseria e storture d’ogni sorta hanno, privatizzazioni e precarizzazione, ecc.). Quanta insistenza sul passato è necessaria per non vedere il presente? Quanto occorre insistere sugli orrori fortunatamente estinti per far sì che la gente non si accorga nemmeno più di quelli oggi dominanti? Quanta foga nel denunciare tutte le violenze che non siano quelle silenziose dell’economia e del mercato! Il manganello oggi ha cambiato forma, ma si fa ugualmente sentire: si chiama violenza economica, taglio delle spesa pubblica, precariato, rimozione dei diritti sociali, selvagge politiche neoliberali all’insegna dello “Stato minimo”.(Diego Fusaro, “Il paradosso dell’odierno antifascismo”, da “Lo Spiffero” del 28 aprile 2014).È appena trascorso il 25 aprile, Festa della Liberazione, e può essere utile svolgere alcune considerazioni sullo statuto dell’antifascismo all’interno della nostra società. Fermo restando il valore dell’antifascismo quando era presente il fascismo (l’antifascismo di Gramsci e di Gobetti, per intenderci), occorre interrogarsi sul senso e sul valore dell’odierno antifascismo in assenza completa di fascismo. A un primo sguardo, mi pare potersi così compendiare il paradosso dell’odierno antifascismo a sessant’anni dalla fine del fascismo: se per fascismo intendiamo il fascismo storico mussoliniano, esso si è estinto da ormai più di cinquant’anni e non ha senso, dunque, la sopravvivenza dell’-anti alla realtà cui l’-anti si contrapponeva. Se per fascismo intendiamo genericamente la violenza, oggi allora il fascismo è l’economia capitalistica (Fiscal Compact, debito, precariato, ecc.), ossia ciò che gli odierni sedicenti antifascisti accettano in silenzio.
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Sono solo comparse del Partito Ipnocratico di Massa
Avviso ai naviganti. Questo è un messaggio per chi è iscritto, a sua insaputa, al Partito Ipnocratico di Massa. Per appurare se hai la tessera, controlla se sei sotto ipnosi senza saperlo. Osserva i sintomi. Hai intenzione di votare Pd alle prossime elezioni europee (o uno qualsiasi dei partiti del nuovo arco costituzionale del sonno, Forza Italia e Nuovo Centro Destra compresi)? Hai preso parte alle primarie democratiche? Sei iscritto a un club Forza Silvio? Sei convinto che Renzi sia l’ultima (buona) occasione per l’Italia di uscire dal pantano? Se hai risposto di sì ad almeno una delle precedenti domande la diagnosi è confermata. Ciò che stai per leggere potrebbe svegliarti per cui prosegui solo se ti consideri pronto. Anzi, leggi lo stesso. Alla fine del pezzo ti riaddormenterò di nuovo e non ricorderai più nulla. Qualcuno ha detto che è meglio illudersi da ignoranti che disperarsi da consapevoli, quindi, forse, dormire è la ricetta giusta. Ecco un buon vademecum da portarsi in cabina elettorale.L’Unione Europea è una costruzione intrinsecamente anti-democratica. Nessuno dei suoi organi muniti di prerogative sovrane è elettivo. Non la Commissione Europea, che ha il potere di iniziativa legislativa, cioè di proporre le leggi che tu subirai. Non il Consiglio Europeo, che definisce orientamenti e priorità generali della Ue. Non il Consiglio dell’Unione Europea che approva le leggi che la Commissione fa e a cui tu obbedisci. C’è il Parlamento, obietterai, da europeista dormiente quale sei. Certo, ma non ha funzioni legislative e non ha alcun reale potere a parte fungere da foglia di fico, ogni cinque anni, per far credere ai cittadini di contare ancora qualcosa con la farsa delle elezioni. Ma il lato veramente liberticida di tutta la faccenda è la composizione della Commissione. E’ l’organo più potente, fa le leggi, gestisce il bilancio, vigila sull’applicazione del diritto comunitario, bacchetta gli Stati membri se non fanno i compiti per casa, può infliggergli sanzioni e le sue decisioni sono vincolanti (en passant, rappresenta pure l’Europa nel mondo).Tu, europeista addormentato nel bosco, oltre a non sapere che la Commissione non è elettiva (i tuoi leader si sono sempre dimenticati di dirtelo) non sai neppure da quanti membri sia composta questa nomenklatura. Ventotto. Incredibile, vero? Meno di trenta persone non elette che fanno e disfano le sorti di trecento milioni di persone. Non è finita. La Commissione si riunisce una volta alla settimana, le sue riunioni non sono pubbliche e le sue decisioni hanno carattere riservato. I piccoli chimici che si son dilettati a generare in provetta la Ue ne han fatte anche di peggio. Tipo concepire un sistema che privava gli Stati sovrani di una loro banca con cui fare politiche sociali tramite la spesa pubblica e attribuirne le funzioni a una banca centrale che non può rifornire di denaro gli Stati. Geniale, non trovi? E gli Stati son diventati succubi dei mercati. Et voilà monsieur lo spread!Così facendo han violato una caterva di articoli di quella Costituzione per la quale i tuoi nonni son morti in montagna. Dal primo (per cui la sovranità appartiene al popolo) al trentottesimo (tutela dei lavoratori) al quarantunesimo (per cui l’attività economica non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale). Benvenuto nel futuro, dove vigono regole diametralmente opposte: competitività, flessibilità, mercati in primis; poi, se resta tempo e spazio, politica e democrazia. Ora, lo so bene, caro elettore del P.I.M., che sembra una roba da regime, ma così da regime che se te l’avessero detto prima e ad alta voce li avresti appesi a testa in giù da qualche parte. E infatti lo è, solo che le tue guide te l’han fatta sotto il naso mentre eri distratto a guardare la telenovela “Berlusconi contro Occhetto” e i sequel “Berlusconi contro Rutelli”, “Berlusconi contro Veltroni”, “Berlusconi contro Bersani”.Poi, quando l’opera al nero è stata completata, han rottamato tutti i primattori e le comparse del tragicomico ventennio che abbiamo alle spalle: destra e sinistra, il partito della libertà e la classe dirigente del partito democratico, le Province e il Senato.Ora che abbiamo trovato il cadavere (la repubblica democratica e sovrana) non resta che chiedersi se qualcuno è stato corrivo con l’assassino. Purtroppo, caro elettore del P.I.M., la risposta è affermativa. Avevi un pantheon di eroi che si chiamavano De Gasperi e Togliatti, Dossetti e Nenni, Moro e Berlinguer? Bene, gli epigoni dei tuoi miti di bambino, quell’accozzaglia di acronimi che la storia ha già digerito ed evacuato (Pds, Ds, Fi, Ppi, Ccd, Udc, Pdl, Pd, Ncd) sono stati il cavallo di Troia che ti ha portato in casa la Merkel, Barroso e Van Rompuy. Quindi significa che c’è un disegno? Certo che sì. La sinistra post-comunista e la destra post-democristiana, sostenitrici accorate (e unificate) dell’ingresso dell’Italia nell’Ue, sono state il grimaldello per consegnare il nostro paese a un futuro tecnocratico, ademocratico, oligarchico (cioè il presente in cui viviamo).Vuoi la pistola fumante? Vai a rileggere il rapporto redatto nel 1975 da Michel Crouzier, Samuel Huntington e Joji Watanuki per conto della Commissione Trilaterale dove, tra l’altro, si scriveva: «Il funzionamento efficace di un sistema democratico necessita di un livello di apatia da parte di individui e gruppi. In passato ogni società democratica ha avuto una popolazione di dimensioni variabili che stava ai margini, che non partecipava alla politica. Ciò è intrinsecamente anti-democratico, ma è stato anche uno dei fattori che ha permesso alla democrazia di funzionare bene. (…) Curare la democrazia con ancor più democrazia è come aggiungere benzina al fuoco». Adesso andiamo a citare alcuni dei padri nobili “de sinistra” e “de destra” che preconizzarono il sol dell’avvenire da cui ora ti ritrovi ustionato. Jean Claude Juncker (ex presidente dell’Eurogruppo), il 21 dicembre 1999, a “Der Spiegel”, sul modus operandi della Commissione Europea: «Prendiamo una decisione, poi la mettiamo sul tavolo e aspettiamo un po’ per vedere cosa succede. Se non provoca proteste né rivolte, perché la maggior parte della gente non capisce niente di cosa é stato deciso, andiamo avanti passo dopo passo fino al punto di non ritorno».Romano Prodi, il 4 dicembre 2001, al “Financial Times”: «Sono sicuro che l’euro ci costringerà a introdurre un nuovo insieme di strumenti di politica economica. Proporli adesso è politicamente impossibile, ma un bel giorno ci sarà una crisi e si creeranno i nuovi strumenti». Jacques Attali (uno dei padri fondatori dell’Unione Europea e dei trattati europei), il 24 gennaio 2011, all’università partecipativa: «Abbiamo minuziosamente “dimenticato” di includere l’articolo per uscire da Maastricht. In primo luogo, tutti coloro, e io ho il privilegio di averne fatto parte, che hanno partecipato alla stesura delle prime bozze del trattato di Maastricht, hanno o meglio ci siamo incoraggiati a fare in modo che uscirne sia impossibile. Abbiamo attentamente “dimenticato” di scrivere l’articolo che permetta di uscirne. Non è stato molto democratico, naturalmente, ma è stata un’ottima garanzia per rendere le cose più difficili, per costringerci ad andare avanti».Helmuth Kohl, il 9 aprile 2013, al “Telegraph”, sull’ingresso nell’euro da parte della Germania: «Sapevo che non avrei mai potuto vincere un referendum in Germania. Avremmo perso il referendum sull’introduzione dell’euro. Questo è abbastanza chiaro. Avrei perso sette a tre. Nel caso dell’euro, sono stato come un dittatore». Ecco, caro elettore del Partito Ipnocratico di Massa, chi sono i paladini cui darai, tra poco, il tuo voto. Ora che lo sai, rilassati, inspira, espira, inspira, espira, inspira, espira. Tutto ciò che hai letto è solo un brutto sogno. Conta da ventuno a zero, piano piano. Ninna nanna, ninna oh, questo Mostro a chi lo do? Leggi i manifesti del Pd, ascolta un sermone di Renzi, sparati un monito di Napolitano. Fatto. Ora puoi tornare a dormire.(Francesco Carraro, “Il Partito Ipnocratico di Massa”,da “Libero” del 14 aprile 2014).Avviso ai naviganti. Questo è un messaggio per chi è iscritto, a sua insaputa, al Partito Ipnocratico di Massa. Per appurare se hai la tessera, controlla se sei sotto ipnosi senza saperlo. Osserva i sintomi. Hai intenzione di votare Pd alle prossime elezioni europee (o uno qualsiasi dei partiti del nuovo arco costituzionale del sonno, Forza Italia e Nuovo Centro Destra compresi)? Hai preso parte alle primarie democratiche? Sei iscritto a un club Forza Silvio? Sei convinto che Renzi sia l’ultima (buona) occasione per l’Italia di uscire dal pantano? Se hai risposto di sì ad almeno una delle precedenti domande la diagnosi è confermata. Ciò che stai per leggere potrebbe svegliarti per cui prosegui solo se ti consideri pronto. Anzi, leggi lo stesso. Alla fine del pezzo ti riaddormenterò di nuovo e non ricorderai più nulla. Qualcuno ha detto che è meglio illudersi da ignoranti che disperarsi da consapevoli, quindi, forse, dormire è la ricetta giusta. Ecco un buon vademecum da portarsi in cabina elettorale.
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Barnard: Ttip, ricatto finale. Ora siamo davvero finiti
Se fino a ieri una multinazionale americana poteva chiedere a Washington di denunciare un singolo governo europeo per i “mancati profitti” provocati da una legge che tutela il lavoro, l’ambiente, la salute o la sicurezza alimentare, con l’entrata in vigore del Ttip siamo alla fase-2 della globalizzazione, quella terminale: saranno le mega-aziende a denunciare direttamente i nostri governi, e lo faranno presso tribunali speciali, off shore, gestiti da avvocati d’affari che ai governi potranno infliggere sanzioni così salate da scoraggiare in partenza qualsiasi forma di resistenza a tutela di cittadini, aziende e lavoratori. “Merito” dell’oligarchia che si è messa in moto, «la solita lobby d’élite finanziaria e grande industriale», cioè «i mastini del Vero Potere», quelli che «non si fermano mai». Proprio lei, la super-lobby, secondo Paolo Barnard «ha fatto quello che doveva fare: vincere». Si chiama S2B, acronimo dell’inglese “Seattle to Bruxelles Network”. «Ci trovate: J.P. Morgan, Chevron, Bnp Paribas, Microsoft, Uniliver, Philip Morris, Glaxo, Ford, Shell, Monsanto, Goldman Sachs… devo continuare?».Barnard, il primo in Italia a segnalare in televisione gli abusi della mondializzazione selvaggia con servizi come “I globalizzatori” trasmessi da “Report”, oggi parla di «un orribile risveglio, che suona così: noi non molliamo mai, noi siamo infermabili, non sentiamo fatica, coscienza, rimorso, pietà, e alla fine vinciamo sempre. Firmato: il Vero Potere». La «nuova offensiva» chiamata Transatlantic Trade and Investment Partnership o Trattato Transaltantico «è micidiale, potenzialmente devastante come mai prima per l’esistenza stessa di democrazia e interesse pubblico». Nel 1999, all’epoca delle primissime denunce sui pericoli della globalizzazione, «intesa proprio come sistema di accordi segreti e potentissimi creato da una élite di capitalisti per ricacciare indietro decenni di progressi democratici a favore del pubblico, nelle aree dei commerci, della finanza e dei servizi», il “mostro” si muoveva, mastodontico, nella stanze di Ginevra del Wto.In pratica, il Trattato di Marrakech del Wto «stabiliva regole di potere superiore alle leggi degli Stati aderenti che, ad esempio, avrebbero potuto limitare qualsiasi intervento della politica in campo economico e finanziario se esso avesse rappresentato una barriera al Libero Commercio, al Libero Profitto, ai diritti delle Corporations». Ad esempio: «Se una multinazionale americana riteneva che le leggi italiane le impedissero di vendere in Italia un suo prodotto contenente una plastica per noi tossica, poteva chiedere al governo Usa di denunciare Roma al tribunale del Wto, per ottenere l’abolizione della legge italiana», ritenuta “una barriera” al libero sviluppo del loro business. Stessa storia in caso di gare d’appalto per un servizio pubblico: «Qualsiasi mega-corporation mondiale dei servizi poteva reclamare lo stesso diritto a partecipare di un’azienda locale, quando magari il Comune avrebbe preferito dar lavoro e reddito a italiani locali».Col Trattato di Marrakech, sovranazionale e quindi sovrastante le leggi dei singoli Stati, «l’ignorante politica del mondo occidentale aveva firmato e ratificato regole micidiali tutte a favore delle mega-corporations e tutte a sfavore di qualsiasi intervento politico nazionale o anche locale per proteggere i lavoratori, le famiglie, le aziende nazionali, le cooperative, i Comuni», ricorda Barnard. «L’Italia ratificò Marrakech con un solo politico – uno solo! – che l’avesse letto, fra Camera e Senato». Segretamente, cioè «sotto il naso disattento di milioni di cittadini», questo sistema «ha fatto danni immensi alle economie nazionali ma soprattutto ai distretti piccolo-medi industriali italiani che ci fecero ricchi dopo la II guerra mondiale, con valanghe di fallimenti e licenziati a cascata», dice Barnard. «Danni anche ai diritti dei cittadini alla tutela della salute, per non parlare dell’orrore inflitto al Terzo Mondo». C’era però ancora una clausola: la multinazione di turno avrebbe dovuto chiedere al governo Usa di fare causa al governo italiano presso il tribunale del Wto, non poteva agire direttamente. Ora, l’ostacolo è stato superato. Le multinazionali avranno pieni poteri: il loro imperio sovrasterà la sovranità democratica degli Stati.Obiettivo dichiarato: “armonizzare” le regole del commercio e della finanza fra Usa e Ue, liberalizzando gli scambi ed eliminando le barriere all’interno dell’area di libero scambio Usa-Ue, dove avviene «almeno un terzo degli scambi globali». Dalle stime della stessa Commissione Europea, aggiunge Barnard, si deduce che alle promesse del Ttip non crede neppure Bruxelles: secondo il commissario europeo al commercio, Karel de Gught, l’impatto dell’accordo sul Pil europeo è di appena lo 0,01%. Già il “meno peggio” del Ttip, per Barnard, è «una tragica porcheria», in tre atti. Primo: «In Europa verranno imposte le miserrime regole di protezione dell’ambiente e dei consumatori degli Usa, e in America verrà imposta la miserrima regolamentazione della finanza che abbiamo noi europei. Quindi una gara al ribasso ovunque». Secondo: Il Ttip propone la totale liberalizzazione del settore dei servizi pubblici – sanità, asili e scuole, assistenza anziani, trasporti, acqua potabile. Terzo: fine di quel che resta dei diritti sindacali europei.Risultato: «I lavoratori italiani, che già oggi con la bastardata dell’euro devono vedersela con una deflazione dei redditi da incubo, domani saranno anche in gara a tagliarsi i diritti del lavoro per competere con i lavoratori Usa, dove licenziare è più facile che fare un peto. Tutto questo – sottolinea Barnard – per il solito infame motivo che dipendiamo tutti dagli “investitori” per avere economia, e gli “investitori” investono quasi sempre dove i diritti sono minori». Tutto questo ci prepara (si fa per dire) al “peggio” del Ttip, ovvero: le mega-aziende denunciano direttamente gli Stati, e lo fanno presso tribuinali speciali, fuori dalla giurisdizione nazionale. «Significa che abbiamo centinaia di multinazionali che possono aggredire con cause costosissime il nostro paese (gli studi legali per questo tipo di affari prendono parcelle da 3.000 euro al giorno per ciascun avvocato e sono in media una quindicina, per tempi biblici, e moltiplicateli per una pioggia di cause infinita) senza limiti di sorta, imponendoci spese di Stato rovinose, e di fronte alle quali un governo finisce quasi sempre per cedere e cambiare la legislazione d’interesse pubblico».Il ricatto è micidiale, insiste Barnard, perché «con il dogma economico neoclassico (vedi Eurozona) non è più lo Stato che può intervenire con la sua spesa a dar lavoro, reddito e protezione a cittadini e aziende: oggi quel “pane” a tutti ce lo danno i “mercati”, cioè quelle corporations di beni e finanza». Per cui, ecco la minaccia: «Se perdono le cause ritireranno gli investimenti (il pane) dalle nostre tavole nazionali e noi siamo fottuti». Per Barnard, «già a questo stadio un governo finisce per cedere, ma c’è di peggio». E cioè: nei futuri tribunali internazionali, per gli Stati europei sarà praticamente impossibile difendersi. «In tutti gli aspetti del vivere – governati, o anche solo lambiti dai commerci di beni e servizi – il Ttip può divenire letale per famiglie, cittadini, piccole medie aziende, democrazia e Stato stesso. Ancora un’altra mazzata catastrofica all’idea di Mondo Migliore che tanti di noi sognavano o sognano per i propri bambini. Noi che sappiamo queste cose, noi che capiamo cosa fa e come si comporta il Vero Potere, noi che Renzi, i tagli Irpef, le europee, Grillo, Confindustria e i sindacati sappiamo essere fuffa, zero, nulla in grado di proteggerci da nulla. Good luck».Se fino a ieri una multinazionale americana poteva chiedere a Washington di denunciare un singolo governo europeo per i “mancati profitti” provocati da una legge che tutela il lavoro, l’ambiente, la salute o la sicurezza alimentare, con l’entrata in vigore del Ttip siamo alla fase-2 della globalizzazione, quella terminale: saranno le mega-aziende a denunciare direttamente i nostri governi, e lo faranno presso tribunali speciali, off shore, gestiti da avvocati d’affari che ai governi potranno infliggere sanzioni così salate da scoraggiare in partenza qualsiasi forma di resistenza a tutela di cittadini, aziende e lavoratori. “Merito” dell’oligarchia che si è messa in moto, «la solita lobby d’élite finanziaria e grande industriale», cioè «i mastini del Vero Potere», quelli che «non si fermano mai». Proprio lei, la super-lobby, secondo Paolo Barnard «ha fatto quello che doveva fare: vincere». Si chiama S2B, acronimo dell’inglese “Seattle to Bruxelles Network”. «Ci trovate: J.P. Morgan, Chevron, Bnp Paribas, Microsoft, Uniliver, Philip Morris, Glaxo, Ford, Shell, Monsanto, Goldman Sachs… devo continuare?».
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Expo-ladri di partito, poi si lamentano se vince Grillo
Ma come, c’è l’Expo e non rubano? Niente paura: «Oggi sono più tranquillo, adesso i conti tornano: se c’è un appalto c’è una tangente, è tutto perfettamente simmetrico». Soprattutto, per Aldo Giannuli, «consola vedere certi nomi ancora su pista: Greganti, Frigerio». Lo scandalo Expo? «E’ solo all’inizio, vedrete che altro verrà fuori. Ma già si profila uno scenario impressionante». Mani Pulite? Non è servita a niente, o quasi: «I sistemi sono quelli di sempre, l’architettura di potere è la stessa, persino gli uomini sono gli stessi, passati come salamandre attraverso il fuoco di inchieste e condanne. Poi, la cosa è tanto più marcia ove si consideri il fiume di soldi di finanziamento pubblico che i partiti hanno preso in questi anni. Cifre da sei a otto volte superiori a quelle del tempo di Mani Pulite, erogate proprio in nome della lotta alla corruzione, per mettere i partiti in condizione di fare politica senza fare imbrogli: ecco i risultati».Stavolta è peggio, dice Giannuli nel suo blog, perché la storia si intreccia con lo scontro tutto milanese tra il procuratore Edmondo Bruti Liberati e il suo vice Alfredo Robledo. Per di più, «lo scandalo avviene su un palcoscenico che assicura la massima risonanza internazionale». E tutto questo, non negli anni della “Milano da bere”, quando l’Italia (della lira sovrana) «ruggiva dalla posizione di quinta potenza industriale del mondo». Il nuovo bubbone scoppia «nel momento di massima decadenza, di una Italia scivolata all’ottavo posto e con prospettive di uscire a breve dalla “top ten” dell’economia mondiale in pochissimi anni», grazie al regime recessivo imposto dai signori dell’Eurozona, quelli dell’austerity miracolosa. In attesa di accertare le eventuali responsabilità penali degli indagati, Giannuli registra che – in vent’anni, dopo Tangentopoli – non è stato fatto assolutamente nulla per contrastare la piaga della corruzione, del legame politica-affari. Pd e centrodestra assolutamente solidali: poi si lamentano dei voti a Grillo.Greganti e Frigerio sarebbero stati essenzialmente dei mediatori fra aziende e centro decisionale di spesa? Va bene, «ma chi rappresentavano?». Cioè: «Da dove veniva la loro forza di condizionamento delle scelte? Non ci vuole molta fantasia per capirlo». Quando venne arrestato nel 1993, ricorda Giannuli, Greganti si assunse tutta la responsabilità della tangente contestatagli, salvando il suo partito, il Pci-Pds. Poi, quando Di Pietro per l’ennesima volta gli negò la libertà provvisoria dicendogli che sarebbe rimasto dentro sino a quando non avesse parlato, il “Compagno G” rispose: «Dottore, nella Pasqua del Sessantotto venni inviato dal mio partito in Grecia, per una missione di appoggio alla resistenza greca. Venni individuato dalla polizia dei Colonnelli, arrestato e torturato perché rivelassi i miei contatti greci. E non parlai».Come dire che un uomo così «non fa certe cose per lucro personale». Al contrario, «è un professionista che sa quali sono i rischi e li accetta». E, forse, «lo fa anche per profonda adesione ideale: dunque, deve avere un committente». Quindi, «mi volete dire per chi sta lavorando ora?». Domande inevitabili: il Pd non c’entra nulla? «Siamo sicuri che il mondo delle cooperative non c’entri nulla?». Quanto a Forza Italia, lo scivolone di Milano «rischia di essere la pietra tombale sulle speranze di riscossa e l’avvio di una frana irrimediabile», tanto più che va a coincidere con l’arresto di Scajola dopo quello di Dell’Utri: «Tutte le strade portano a Beirut, piove sul bagnato». Certo, conclude Giannuli, «Grillo ha una fortuna sfrontata: l’anno scorso lo scandalo Mps a tre settimane dal voto. E oggi, sempre a tre settimane dal voto, questo scandalo che mette insieme i suoi due maggiori concorrenti».Ma come, c’è l’Expo e non rubano? Niente paura: «Oggi sono più tranquillo, adesso i conti tornano: se c’è un appalto c’è una tangente, è tutto perfettamente simmetrico». Soprattutto, per Aldo Giannuli, «consola vedere certi nomi ancora su pista: Greganti, Frigerio». Lo scandalo Expo? «E’ solo all’inizio, vedrete che altro verrà fuori. Ma già si profila uno scenario impressionante». Mani Pulite? Non è servita a niente, o quasi: «I sistemi sono quelli di sempre, l’architettura di potere è la stessa, persino gli uomini sono gli stessi, passati come salamandre attraverso il fuoco di inchieste e condanne. Poi, la cosa è tanto più marcia ove si consideri il fiume di soldi di finanziamento pubblico che i partiti hanno preso in questi anni. Cifre da sei a otto volte superiori a quelle del tempo di Mani Pulite, erogate proprio in nome della lotta alla corruzione, per mettere i partiti in condizione di fare politica senza fare imbrogli: ecco i risultati».
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Brancaccio: il Jobs Act è peggio della riforma Fornero
Negli ultimi vent’anni abbiamo assistito a un progressivo smantellamento delle tutele del lavoro. Il provvedimento del governo Renzi è il sequel di un film già mandato in onda tante volte. Non intravedo svolte di politica economica. La sinistra del Pd è riuscita ad apportare alcuni miglioramenti al testo. Nonostante queste modifiche, però, il segno complessivo del Jobs Act non cambia: assisteremo a una ulteriore precarizzazione dei contratti di lavoro. Ci sono novità peggiorative anche rispetto alla riforma Fornero, come l’eliminazione della causale sui contratti a tempo determinato, la possibilità di prorogare questi contratti e l’annacquamento dell’obbligo di stabilizzazione degli apprendisti. Il ministro Padoan sostiene che questi provvedimenti faranno aumentare l’occupazione? Padoan è tra coloro che hanno insistito a lungo con la fantasiosa dottrina della “austerità espansiva”, quella secondo cui l’austerity avrebbe dovuto risanare i bilanci, ripristinare la fiducia dei mercati e rilanciare la crescita e l’occupazione.In realtà l’austerity ha depresso l’economia e non ha risanato i conti. Su indicazione della Bce e della Commissione, allora, il ministro oggi propone una nuova ricetta: la ulteriore flessibilità dei contratti di lavoro aiuterà a creare nuovi posti di lavoro e a ridurre la disoccupazione. Ma le evidenze empiriche ci fanno ritenere che si sbaglino di nuovo. In una rassegna pubblicata qualche anno fa, gli economisti Tito Boeri e Jan van Ours hanno rilevato che su 13 studi empirici esaminati ben nove di essi davano risultati indeterminati e tre di essi indicavano che una maggiore precarietà dei contratti può addirittura determinare più disoccupazione. Alla luce di queste evidenze persino Olivier Blanchard, capo economista del Fondo Monetario Internazionale, è arrivato a riconoscere che non vi è una precisa correlazione tra le due variabili. Una spiegazione sta nel fatto che i contratti precari da un lato possono indurre le imprese a creare posti di lavoro in una fase di espansione economica, ma dall’altro consentono alle aziende di distruggere facilmente quegli stessi posti di lavoro nelle fasi di crisi.Alla fine, tra creazione e distruzione dei posti di lavoro l’effetto complessivo risulta essere nullo, con buona pace di Padoan e di Draghi. Il M5S si è scagliato contro il Jobs Act parlando di “ritorno alla schiavitù”. Credo vi sia un’espressione più adatta al nostro tempo: intensificazione dello sfruttamento capitalistico del lavoro. E’ un fenomeno che si è verificato in misura particolarmente accentuata negli ultimi vent’anni, durante i quali abbiamo assistito a uno smantellamento progressivo del diritto del lavoro. Il fenomeno si è verificato il larga parte dei paesi industrializzati, anche se in Italia vantiamo un record: dal 1998 l’indice generale di protezione dei lavoratori calcolato dall’Ocse è crollato più che in ogni altro paese europeo. I primissimi provvedimenti risalgono persino a Ciampi. E’ vero tuttavia che il pacchetto Treu determinò una caduta molto accentuata dell’indice di protezione dei lavoratori, alla quale seguì un calo ulteriore con la legge Biagi del governo Berlusconi.Il Jobs Act di Renzi non è altro che il sequel del medesimo film, che i governi che si sono succeduti in questi anni hanno quasi ininterrottamente mandato in onda. Con risultati irrilevanti sul terreno dell’occupazione. Del resto, la creazione di lavoro dipende soprattutto da altri fattori, tra cui l’orientamento espansivo o restrittivo elle politiche economiche. Renzi ha scelto di porsi in sostanziale continuità con le politiche di austerity che fino ad oggi sono state adottate in Europa. Proprio per questo, tuttavia, rischia di non raggiungere gli obiettivi di contenimento del deficit che si è dato. Nel 2014 la crescita del Pil potrebbe rivelarsi inferiore al già risicato 0,8% annunciato dal governo. La conseguenza è che il rapporto tra deficit e Pil potrebbe rivelarsi maggiore del previsto. Sarebbe l’ennesima smentita per la dottrina della “austerità espansiva”.Renzi rivendica gli 80 euro al mese per i dipendenti che ne guadagnano meno di 25.000 lordi? Prima di definirla una mossa “di sinistra” vorrei capire più in dettaglio dove nei prossimi anni la spending review andrà a tagliare. Se ad esempio colpisse i servizi pubblici, i lavoratori subordinati potrebbero trarre più svantaggi che benefici. Riguardo agli effetti sulla crescita, vorrei ricordare che in Italia negli ultimi 5 anni abbiamo perso un milione di posti di lavoro e abbiamo registrato un incremento del 90% delle insolvenze delle imprese. Sono perdite colossali, di proporzioni storiche, che dovremmo affrontare con una concezione completamente nuova della politica economica pubblica. Chi pensa che invertiremo la rotta con 80 euro in più al mese in busta paga non sa quel che dice.(Emiliano Brancaccio, dichiarazioni rilasciate a Giacomo Russo Spena per l’intervista “Il Jobs Act? Peggio della riforma Fornero”, pubblicata da “Micromega” il 23 aprile 2014).Negli ultimi vent’anni abbiamo assistito a un progressivo smantellamento delle tutele del lavoro. Il provvedimento del governo Renzi è il sequel di un film già mandato in onda tante volte. Non intravedo svolte di politica economica. La sinistra del Pd è riuscita ad apportare alcuni miglioramenti al testo. Nonostante queste modifiche, però, il segno complessivo del Jobs Act non cambia: assisteremo a una ulteriore precarizzazione dei contratti di lavoro. Ci sono novità peggiorative anche rispetto alla riforma Fornero, come l’eliminazione della causale sui contratti a tempo determinato, la possibilità di prorogare questi contratti e l’annacquamento dell’obbligo di stabilizzazione degli apprendisti. Il ministro Padoan sostiene che questi provvedimenti faranno aumentare l’occupazione? Padoan è tra coloro che hanno insistito a lungo con la fantasiosa dottrina della “austerità espansiva”, quella secondo cui l’austerity avrebbe dovuto risanare i bilanci, ripristinare la fiducia dei mercati e rilanciare la crescita e l’occupazione.