Archivio del Tag ‘Umbria’
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Grazie a Renzi, il prossimo leader dell’Italia sarà Salvini
Signor Nessuno, chiacchierone, vacuo e inattendibile. Promesse non mantenute, tranne quelle fatte all’élite internazionale di potere. Riforme pericolose, interpretate da una nomenklatura incolore, sottomessa, imbarazzante. Dopo appena un anno, il pessimo Matteo Renzi ha già stancato gli italiani. Non è riuscito a fermare i grillini, e – peggio – sta spalancando praterie all’ipotetico leader del futuro prossimo, Matteo Salvini, vero vincitore delle elezioni regionali 2015. Lo sostiene Andrea Scanzi, all’indomani dello schiaffone che gli elettori hanno rifilato al Pd, che ha perso il 15% dei consensi, 2 milioni di voti in meno rispetto alle europee. «Renzi ha già il fiatone. Da vecchio democristiano quale è, dirà di avere vinto anche quando ha perso. In realtà ha preso una botta in fronte (quella fronte così inutilmente spaziosa) così grande che ancora deve accorgersene». E’ difficile perdere quando si vince 5-2: è proprio un controsenso logico palese. «Renzi però ce l’ha fatta», scrive Scanzi. Quattro regioni erano scontate (Toscana, Marche, Umbria, Puglia), eppure in Umbria «il Pd ha rischiato tanto». Inoltre, i candidati in queste Regioni «non erano renziani della prima ora», ma più spesso politici «talora anche poco ortodossi (Emiliano, Rossi)», già in pista molto prima di Renzi.«L’unica vittoria pienamente renziana è quella in Campania con De Luca, e io non me ne vanterei», annota Scanzi sul “Fatto Quotidiano”. I due candidati veramente renziani sono quelli che le hanno buscate, Alessandra Moretti (Veneto) e Raffaella Paita (Liguria), «entrambe “impresentabili”, anche se per motivi diversi». La Moretti «ha inanellato gaffe su gaffe e incarna la totale impreparazione delle droidi renzine». La Paita «è molto peggio: prosecuzione dichiarata del burlandismo, finta nuova, indagata. Il gattopardismo 2.0 ai livelli più deleteri». Il premier, continua Scanzi, aveva puntato tutto su Moretti («con tanto di video in auto agghiacciante») e Paita («inviandole le Charlie’s Angels del renzismo: Boschi, Madia, Pinotti, Serracchiani»). E naturalmente «se n’è fregato, come sempre, delle critiche. I risultati si sono visti». La Moretti, in particolare, «ha ottenuto un risultato straordinario: Zaia ha preso più del doppio dei suoi voti». Tutto era perfetto per lei: l’appoggio dei media, la rottura tra Zaia e Tosi, l’investitura del Gran Capo. «Macché. Le ha prese come se piovesse. La Moretti aveva promesso, in un tweet leggendario, che avrebbero vinto 7-0 e il suo sarebbe stato il golden gol».Poi, la Liguria: «Perdere con Toti pareva impossibile a tutti, ma Renzi ce l’ha fatta». Toti è stato sottovalutato da tutti, scrive Scanzi. «Anche negli studi televisivi, quando gli espertoni e i parlamentari (anche del Pd) ne parlavano, il loro riassunto fuori onda era: “La Paita è improponibile, ma vincerà perché Toti è un signor nessuno, al limite arriva secondo il Movimento 5 Stelle”». Vecchio problema: «L’intellighenzia tende a ritenere invotabili quelli che reputa antipatici. Tipo Toti. La solita autoreferenzialità. E nel frattempo la destra, abituata a turarsi il naso, vince». Molti, a sinistra, «anche tra i parlamentari di Sel», partito che pure in Veneto appoggiava la Moretti, «pur di non veder vincere Paita e Moretti, hanno votato Toti e Zaia». Una Waterloo, che ribadisce «quanto quelle due scelte siano state scriteriate». E così, sono gli altri a festeggiare: come il M5S, entrato nella “seconda fase”, con candidati autonomi da Grillo e Casaleggio. Il Movimento 5 Stelle è ormai la seconda forza nazionale. «Renzi ha fallito anche qui: nel non ammazzare politicamente l’unica forza che teme realmente. Lo aveva promesso e non ce l’ha fatta».Poi ci sono i presunti “sabotatori”, la lista di sinistra messa in piedi in Liguria da Civati e Cofferati. «Come fece a suo tempo la Bresso in Piemonte, i renziani – tipo la Serracchiani – hanno incolpato Pastorino e i civatiani per la (meravigliosa) sconfitta della Paita in Liguria». Alibi piuttosto comodo. «Questa “nuova” classe politica, tanto dannosa quanto caricaturale – scrive Scanzi – si caratterizza per un’arroganza carnivora smisurata. Prima ti cacciano dalle commissioni o magari dal partito; ti trattano come paria, ti bastonano ogni giorno: poi, se qualcuno nel Pd osa ribellarsi, si arrabbiano perché i sottoposti hanno osato alzare la testa». Ma non tutti sono come Bersani, «che si è ridotto a fare pure lui il testimonial della Paita nonostante le continue mazzate ricevute dai renziani». La Paita ha perso? Colpa sua e di chi l’ha candidata. E ora, chi passerà all’incasso è il trucido Salvini, in totale ascesa: ha un consenso ormai trasversale, ha sfondato anche al centro ed è il vero leader del centrodestra. Se deciderà di presentarsi con tutte le forze del centrodestra, «può eccome vincere le elezioni». Superato il Rubicone, insomma: «Fino a ieri il goffo bulletto Renzi poteva fare il gradasso» e minacciare il voto anticipato, certo di vincere. Oggi non è più così, perché «sono cambiati i rapporti di forza». E l’Italicum, «nato per uccidere il M5S», dato che premia i partiti e non le coalizioni «paradossalmente potrebbe aiutare proprio i 5 Stelle».Signor Nessuno, chiacchierone, vacuo e inattendibile. Promesse non mantenute, tranne quelle fatte all’élite internazionale di potere. Riforme pericolose, interpretate da una nomenklatura incolore, sottomessa, imbarazzante. Dopo appena un anno, il pessimo Matteo Renzi ha già stancato gli italiani. Non è riuscito a fermare i grillini, e – peggio – sta spalancando praterie all’ipotetico leader del futuro prossimo, Matteo Salvini, vero vincitore delle elezioni regionali 2015. Lo sostiene Andrea Scanzi, all’indomani dello schiaffone che gli elettori hanno rifilato al Pd, che ha perso il 15% dei consensi, 2 milioni di voti in meno rispetto alle europee. «Renzi ha già il fiatone. Da vecchio democristiano quale è, dirà di avere vinto anche quando ha perso. In realtà ha preso una botta in fronte (quella fronte così inutilmente spaziosa) così grande che ancora deve accorgersene». E’ difficile perdere quando si vince 5-2: è proprio un controsenso logico palese. «Renzi però ce l’ha fatta», scrive Scanzi. Quattro regioni erano scontate (Toscana, Marche, Umbria, Puglia), eppure in Umbria «il Pd ha rischiato tanto». Inoltre, i candidati in queste Regioni «non erano renziani della prima ora», ma più spesso politici «talora anche poco ortodossi (Emiliano, Rossi)», già in pista molto prima di Renzi.
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Il Pd perde il 15%, dalle urne uno schiaffo al golpe di Renzi
La metà degli elettori è stata casa. Gli altri hanno assestato uno schiaffo al Bomba. Media ponderata del voto di ieri: il Pd come partito perde il 15%, con il carrozzone delle liste di amici ed amici degli amici cala di circa il 9%. Dunque, mister 40,8 non c’è più. Su questo, in realtà, non avevamo dubbi. Restava invece da stabilire di quanto il Bomba si sarebbe sgonfiato rispetto a quel dato delle europee. Un dato gridato a gran voce, per tutto un anno, per zittire avversari e critici di ogni credo e tendenza. Ora lo sappiamo: si è sgonfiato di molto. Questi numeri ci vengono da una media ponderata dei voti di ieri. Il calcolo è stato fatto sulla base delle percentuali ottenute dal Pd, in confronto con quelle raggiunte un anno fa alle europee. I vari cali regionali (il partito di Renzi ha perso consensi ovunque) sono stati poi “pesati” in rapporto agli elettori delle varie regioni, in modo da ricavarne una proiezione nazionale. Perché questo calcolo? Perché è quello politicamente più significativo. Quello che misura la febbre al consenso renziano dopo 15 mesi di governo.Certo, è più facile – e soprattutto più comodo per il Bomba – fare il calcolo delle regioni vinte. Vantandosi così di un 5-2 che non rende affatto conto dell’autentico tracollo di consensi che si è verificato. Lo avevamo scritto giovedì scorso: «In realtà non conterà solo il numero di Regioni conquistate, conterà anche il totale dei voti ottenuti. Anzi, sarà soprattutto quel dato a dirci di quanto si è sgonfiato il famoso 40,8% delle europee». Questo era, ed è, il dato decisivo. Ci sarà tempo per ritornare su altri aspetti rilevanti di queste elezioni, dall’aumento dell’astensionismo, all’ottimo risultato di M5S, alla forte avanzata della Lega, ai miseri dati della sinistra (ex?) arcobalenica. Ora è importante concentrarsi sul Pd, sul partito che, attraverso una legge elettorale truffaldina, sta tentando di costruire un autentico regime imperniato sulla concentrazione di ogni potere nelle mani del suo bulimico leader. Questo disegno autoritario ha ieri subito uno stop, quantomeno in termine di consensi. Uno stop non ancora decisivo, ma un segnale assai più netto di quanto si poteva immaginare.Entriamo nel dettaglio, vedendo anzitutto quanto ha perso il Pd in ogni regione: Liguria -16,10%, Veneto -20,63%, Campania -16,04%, Puglia -13,91%, Toscana -10,0%, Marche -9,91%, Umbria -12,76%. Come si vede il dato è omogeneo da nord a sud. La perdita è a due cifre pressoché ovunque. Particolarmente significativo, oltre alla debacle della Liguria, il tracollo della renziana Moretti in Veneto. La media ponderata di questi dati regionali ci da un calo generale del 15%, che proiettato a livello nazionale porterebbe il partito renziano ad un 26% (40,8-15,0=25,8) dal sapore decisamente bersaniano. Naturalmente questi calcoli faranno imbestialire i piddini. I quali ci ricorderanno, come facevano scompostamente ieri sera in Tv, che i loro candidati si sono avvalsi di liste di supporto in qualche modo riconducibili al loro partito, e che quindi i voti di queste liste vanno sommati a quelli del Pd. Ora, in realtà ci sarebbero molte cose da dire su questa pratica acchiappavoti. Come ci sarebbe da dubitare sul fatto che si tratti sempre ed ovunque di voti piddini in libera uscita. E magari ci sarebbe da ironizzare sui candidati apertamente fascisti di certe liste a sostegno in Campania…Ma lasciamo stare. Dato che noi siamo assai meno scomposti dei tirapiedi renziani mandati in video ieri sera nel disperato tentativo di nascondere la realtà delle cose, abbiamo sommato al Pd tutti i voti di queste listarelle di comodo. Ed ecco i cali che abbiamo così ottenuto: Liguria -11,35%, Veneto -16,80%, Campania -7,03%, Puglia -1,64%, Toscana -8,29%, Marche – 4,97%, Umbria -12,76%. La media ponderata di questi dati ci da un calo generale dell’8,8%. Un dato assai pesante per il Pd, nonostante il generosissimo metodo applicato. Abbiamo infatti sommato al Pd non solo i voti ottenuti dalle “liste del presidente”, ma anche quelli delle altre liste di supporto che non avessero un chiaro simbolo di partito. Questo non per regalare qualcosa ai renziani, bensì per togliergli ogni argomento a difesa. Cosa ci dicono questi risultati? Essi ci dicono che Renzi è battibile. Che il suo disegno autoritario può essere ancora fermato. Che la cosiddetta “luna di miele” del governo è davvero finita. Che anche il più servile sostegno mediatico mai ottenuto da una forza politica nell’Italia repubblicana non è sufficiente a frenare l’emorragia di consensi. Non è tutto, ma è molto.Naturalmente i risultati di ieri non rendono Renzi meno pericoloso di prima. Anzi, per certi aspetti, lo rendono ancora più pericoloso. A capo del governo, a capo del Pd, con il sostegno del potere economico, con una stampa allineata, con una legge elettorale ritagliata su misura, egli non vorrà certo fermarsi nella sua opera distruttrice della democrazia e di ogni diritto sociale. E, d’altronde, dal voto delle regionali non emerge ancora l’alternativa di cui c’è bisogno. Emerge però un grande spazio, basti pensare alla crescita enorme dell’astensionismo. E’ in questo quadro che si dovrà approntare da subito una strategia ed una tattica per battere Renzi all’appuntamento decisivo del referendum sulla controriforma costituzionale. Quel che è certo è che non siamo in una fase stabilizzazione del consenso. Al contrario, le oscillazioni che si verificano ad ogni elezione mostrano proprio la ricerca, necessariamente confusa, di una via d’uscita dall’attuale situazione. Chi emergerà in questo quadro è dunque facile da prevedersi: emergerà, e forse vincerà, chi saprà proporsi con un progetto di alternativa al tempo stesso radicale e credibile. Di sicuro la partita è aperta. Lo schiaffo subito da Renzi non è un ko, ma è un colpo molto forte al suo disegno autoritario. Da queste elezioni non potevamo aspettarci miglior notizia.(Nb – Quando questo articolo è stato scritto – tra le 8 e le 9 di questa mattina – lo scrutinio non era ancora terminato in tutte le regioni. Qualche modestissima variazione delle percentuali è perciò ancora possibile in Campania e Puglia. Ma si tratterà in ogni caso di variazioni del tutto trascurabili).(Leonardo Mazzei, “Mister 40,8% si affloscia”, da “Sollevazione” del 1° giugno 2015).La metà degli elettori è stata casa. Gli altri hanno assestato uno schiaffo al Bomba. Media ponderata del voto di ieri: il Pd come partito perde il 15%, con il carrozzone delle liste di amici ed amici degli amici cala di circa il 9%. Dunque, mister 40,8 non c’è più. Su questo, in realtà, non avevamo dubbi. Restava invece da stabilire di quanto il Bomba si sarebbe sgonfiato rispetto a quel dato delle europee. Un dato gridato a gran voce, per tutto un anno, per zittire avversari e critici di ogni credo e tendenza. Ora lo sappiamo: si è sgonfiato di molto. Questi numeri ci vengono da una media ponderata dei voti di ieri. Il calcolo è stato fatto sulla base delle percentuali ottenute dal Pd, in confronto con quelle raggiunte un anno fa alle europee. I vari cali regionali (il partito di Renzi ha perso consensi ovunque) sono stati poi “pesati” in rapporto agli elettori delle varie regioni, in modo da ricavarne una proiezione nazionale. Perché questo calcolo? Perché è quello politicamente più significativo. Quello che misura la febbre al consenso renziano dopo 15 mesi di governo.
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Sinistra, un popolo di orfani senza un solo leader credibile
Renzi può dormire sonni tranquilli: a sinistra lo contestano solo pesi-piuma come Civati e Cuperlo. Nel giorno in cui a Roma centinaia di migliaia di persone rispondevano alla chiamata della Cgil, lo storico Giovanni De Luna indicava significativamente il “deserto” alla sinistra di Renzi, anche se il conflitto tra il governo e Cgil spalancherebbe «intere praterie a sinistra del Pd». Infatti, «il partito a vocazione maggioritaria immaginato da Renzi», se da un lato tende al “grande centro” svuotando di senso il bipolarismo su cui si è fondata la Seconda Repubblica, dall’altro favorisce anche le ali estreme del sistema politico. La crisi in corso, avverte Anna Lami, porta con sé una profonda radicalizzazione del quadro politico, i cui effetti devono ancora pienamente dispiegarsi: «Inevitabile la rottamazione di chi non capisce il mutamento epocale in atto, illudendosi di poter tirare avanti come se nulla fosse, mantenendo una prospettiva di piccolo cabotaggio». L’ha capito perfettamente Matteo Renzi, e nel suo piccolo se n’è reso conto anche Matteo Salvini, trapiantando a Milano il suo lepenismo, in una piazza Duomo gremita di folla.«Come giustamente notava De Luna, la parte politica che ancora non ha capito qual è la portata degli eventi in atto è la sinistra», scrive Anna Lami su “Megachip”, nonostante il successo delle mobilitazioni sindacali delle ultime settimane. Notevole lo sciopero generale dell’Emilia Romagna proclamato dalla Cgil regionale, con decine di migliaia di lavoratori in piazza a Bologna e quasi tutte le principali fabbriche della regione ferme, per non parlare della battaglia degli operai della Thyssen di Terni, che «dopo cortei improvvisati, occupazione di Comune e Prefettura, picchetti, è culminata in una giornata di sciopero che ha fermato l’intera città umbra con una manifestazione che ha visto circa trentamila partecipanti e la contestazione dei vertici confederali». Il corteo oceanico della Cgil a Roma? «E’ la conferma che il popolo di sinistra esiste ancora, gode di buona salute ed è pronto a farsi sentire». Purtroppo, però, «non siamo più negli anni in cui una grossa manifestazione poteva bastare a frenare le intenzioni degli alti comandi».La verità è che «la crisi sta portando ad un mutamento di epoca: non basta più far vedere che “volendo si potrebbe”, occorrerebbe proprio rompere gli argini, cosa che esula decisamente dalle intenzioni dei vertici sindacali». Ancora una volta, continua Anna Lami, la base si è dimostrata più avanzata di chi dovrebbe rappresentarla: lo dicono gli slogan, i cartelli e gli striscioni, contro l’esecutivo e non solo contro il Jobs Act, dimostrando «una crescente consapevolezza politica tra il popolo lavoratore», che ormai accusa anche Napolitano, la Confindustria e la Bce. «Qui, però, entra in gioco la differenza principale tra la piazza di Milano della Lega Nord e le manifestazioni dei lavoratori», spiega Lami. «Mentre la prima ha trovato piena espressione politica, con un progetto radicale nettamente definito in senso reazionario-populista, le seconde sono ancora completamente prive di interlocutori politici credibili e adeguati ai tempi».E’ un’anomalia «che sta costando molto cara ai ceti popolari e, soprattutto, non sembra volgere verso la fine». Infatti, «fino a quando sarà possibile, come è accaduto a piazza San Giovanni, che starlettine della sinistra Pd, mezze figure come Cuperlo, Fassina e Civati, pienamente coinvolti e responsabili del disastro sociale in atto, si facciano belli sui media parlando da una manifestazione da cui dovrebbero essere cacciati in un nanosecondo, allora il divario politico che separa la realtà odierna e la rappresentazione della sinistra italiana sarà abisso». Renzi e le classi dominanti «potranno continuare a farsi beffe di ogni mobilitazione popolare», conclude Anna Lami, «fino a quando non sorgerà un soggetto politico coerentemente anticapitalista in grado di organizzare quei settori sociali che subiscono la crisi (e che sono disponibili a mobilitarsi, come anche a Roma si è visto) inserendoli in una prospettiva di conflitto», verso un cambiamento radicale.Renzi può dormire sonni tranquilli: a sinistra lo contestano solo pesi-piuma come Civati e Cuperlo. Nel giorno in cui a Roma centinaia di migliaia di persone rispondevano alla chiamata della Cgil, lo storico Giovanni De Luna indicava significativamente il “deserto” alla sinistra di Renzi, anche se il conflitto tra il governo e Cgil spalancherebbe «intere praterie a sinistra del Pd». Infatti, «il partito a vocazione maggioritaria immaginato da Renzi», se da un lato tende al “grande centro” svuotando di senso il bipolarismo su cui si è fondata la Seconda Repubblica, dall’altro favorisce anche le ali estreme del sistema politico. La crisi in corso, avverte Anna Lami, porta con sé una profonda radicalizzazione del quadro politico, i cui effetti devono ancora pienamente dispiegarsi: «Inevitabile la rottamazione di chi non capisce il mutamento epocale in atto, illudendosi di poter tirare avanti come se nulla fosse, mantenendo una prospettiva di piccolo cabotaggio». L’ha capito perfettamente Matteo Renzi, e nel suo piccolo se n’è reso conto anche Matteo Salvini, trapiantando a Milano il suo lepenismo, in una piazza Duomo gremita di folla.