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Il sindaco di Lione: fermiamo la Tav, non serve a nessuno
Funziona così: qualcuno dimostra che la linea Tav Torino-Lione è completamente inutile, ma i poteri decisionali se ne infischiano. Sono più di vent’anni che va avanti in questo modo, la storia edificante dell’alta velocità italo-francese: una vera lezione, per chi crede ancora nella democrazia. Una vicenda surreale, che ricorda quella del mitico Ponte sullo Stretto: la grande opera più folle della storia. La differenza, sulle Alpi, la fanno i pochissimi chilometri di gallerie accessorie finora scavate, ben lungi dall’aver aperto il cantiere del traforo vero e proprio. Domanda: si può ancora fermare una maxi-opera come quella, che nascerebbe obsoleta per entrare in funzione solo nel 2050? «Non solo si può: si deve». L’ultimo a dirlo – dopo la Corte dei Conti Europea – è il neo-sindaco “verde” di Lione, Grégory Doucet, appena eletto primo cittadino della terza città di Francia. Testualmente: «Non bisogna insistere su un progetto sbagliato. È la scelta peggiore». La pensa così anche la grillina Chiara Appendino, sindaco di Torino: quella ferrovia-doppione non servirebbe a nessuno, visto che Torino è già ben collegata con Lione attraverso la linea internazionale Torino-Modane che unisce il Piemonte alla Savoia percorrendo la valle di Susa. I binari valicano le Alpi al Traforo del Fréjus, di recente ammodernato (400 milioni di euro) per consentire anche il transito di treni che trasportano Tir e grandi container “navali” della massima pezzatura.Nell’intervista alla “Stampa” pubblicata il 1° luglio, Doucet si schiera con la collega torinese: «Fra le nostre due città esiste già un’infrastruttura ferroviaria, che è sufficiente, ed è su quella che dovremmo investire». Aggiunge il sindaco lionese: «La Francia ha iniettato troppi pochi fondi sul trasporto merci su rotaia a livello nazionale. E ora vogliono farci credere che con la Tav rilanceremo l’attività. Ma è assurdo». Secondo Doucet, «se valorizzata, la linea già esistente è sufficiente per i treni che vi devono circolare». Riassumendo: «Ecco, investiamo prima lì e nel resto della Francia». La Torino-Lione? No, grazie: «Bisogna fermare la Tav». Il sindaco francese rivendica così il diritto di esprimere la sua opinione, «visto che – dice – sono alla guida della mia città». Ma c’è un particolare determinante: saranno solo i governi di Parigi e Roma, insieme alle istituzioni europee, a decidere davvero sul futuro della linea Tav più controversa della storia. La sua inutilità è ormai leggendaria: lo confermano centinaia di pagine, studi tecnici autorevolissimi sollecitati dal movimento NoTav nel corso degli anni, consultando i migliori “trasportisti” italiani ed europei. Altro aspetto del problema, di segno opposto: la protesta dei NoTav ha assunto toni esasperati, tali da spiazzare l’opinione pubblica. Recenti video immessi sui social mostrano militanti che “assediano” poliziotti sorpresi a Susa in una pizzeria, definendoli “truppe di occupazione” e intimando loro di “lasciare la valle”.Tutto questo – a cominciare dai violenti scontri del 3 luglio 2011, poi replicati da forti tensioni l’anno seguente – aiuta sicuramente i fautori del progetto a non parlare più dell’infrastruttura, ma solo dei problemi di ordine pubblico (spesso deformati e ingigantiti dai media). Il guaio è che i problemi di fondo restano, tali e quali. Nel 2005, con una rivolta popolare nonviolenta guidata dai sindaci in fascia tricolore, la popolazione della valle di Susa riuscì a scongiurare l’apertura del primo cantiere, a Venaus. Da allora, i proponenti non ha mai risposto alle domande dei NoTav, preferendo demonizzare il movimento. Nessuno ha ancora mai spiegato, in modo chiaro, le ragioni per cui un’opera così costosa – decine di miliardi – dovrebbe essere realizzata, visto che esiste già un collegamento ferroviario Torino-Lione. Se poi si pensa ai guai dell’Italia alle prese con il Covid (e con la drammatica mancanza di fondi per risollevare l’economia), è ovvio che l’inutile Torino-Lione dovrebbe essere l’ultimo dei pensieri, dalle parti di Palazzo Chigi. Ora ci si mette anche il sindaco di Lione, a remare contro? E’ un duro colpo, ma non è il primo. Finora, il “partito” del Tav non ha mai voluto sentir ragioni: come un disco rotto, da vent’anni ripete che quell’infrastruttura va fatta, punto e basta.Si tratta di una storia in cui abbondano anche gli aspetti comici. In origine (anni Ottanta, addirittura), la linea era stata pensata per i passeggeri. Ma l’avvento dei voli low-cost l’ha resa completamente superflua. La stessa Unione Europea ha cancellato le tratte strategiche: la Torino-Lione doveva far parte del “corridoio 5″ destinato a unire Kiev a Lisbona. Una direttrice rimasta fantasma: boicottata dal Portogallo, ridimensionata dalla Spagna, avversata da Slovenia e Ungheria. Cancellata la lavagna, la Torino-Lione è ricomparsa (in piccolo) come segmento della nuova rete europea Ten-T, pensata per le merci, sostenuta però con poca convinzione da Bruxelles e lasciata quasi senza fondi. Italia e Francia, vincolate da un antico impegno reciproco, hanno finora stanziato un bel po’ di denari per avviare, se non altro, gli scavi preliminari e le opere accessorie. Il tunnel – 57 chilometri – è ancora interamente da scavare. I sindaci di Torino e Lione, le due città “capolinea”, non lo vogliono? Pazienza: non sarà il loro “niet”, si presume, a fermare quella spaventosa, inutile emorragia di miliardi: dal Pd a Forza Italia, dalla Lega a Fratelli d’Italia, tutto il Parlamento italiano marcia amorevolmente unito (come sempre, sulle cose che contano) sulla via di Lione. E se sono miliardi buttati, chi se ne importa: il grande affare coinvolge cordate influenti, bancarie e non solo, che non è prudente scontentare.Funziona così: qualcuno dimostra che la linea Tav Torino-Lione è completamente inutile, ma i poteri decisionali se ne infischiano. Sono più di vent’anni che va avanti in questo modo, la storia edificante dell’alta velocità italo-francese: una vera lezione, per chi crede ancora nella democrazia. Una vicenda surreale, che ricorda quella del mitico Ponte sullo Stretto: la grande opera più folle della storia. La differenza, sulle Alpi, la fanno i pochissimi chilometri di gallerie accessorie finora scavate, ben lungi dall’aver aperto il cantiere del traforo vero e proprio. Domanda: si può ancora fermare una maxi-opera come quella, che nascerebbe obsoleta per entrare in funzione solo nel 2050? «Non solo si può: si deve». L’ultimo a dirlo – dopo la Corte dei Conti Europea – è il neo-sindaco “verde” di Lione, Grégory Doucet, appena eletto primo cittadino della terza città di Francia. Testualmente: «Non bisogna insistere su un progetto sbagliato. È la scelta peggiore». La pensa così anche la grillina Chiara Appendino, sindaco di Torino: quella ferrovia-doppione non servirebbe a nessuno, visto che Torino è già ben collegata con Lione attraverso la linea internazionale Torino-Modane che unisce il Piemonte alla Savoia percorrendo la valle di Susa. I binari valicano le Alpi al Traforo del Fréjus, di recente ammodernato (400 milioni di euro) per consentire anche il transito di treni che trasportano Tir e grandi container “navali” della massima pezzatura.
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Sì alla Torino-Lione: il M5S firma la sua condanna a morte
«Non c’erano e non ci sono governi amici, l’abbiamo sempre saputo». Così il movimento NoTav reagisce al “tradimento” gialloverde sulla Torino-Lione, anticipato da Conte: «Non fare il Tav costerebbe più che farlo». Alberto Airola, parlamentare 5 Stelle, si sente raggirato da Di Maio: «Il suo – dice – è un atteggiamento pilatesco: sa benissimo che in aula saremo gli unici a votare “no”». In una video-intervista al “Fatto Quotidiano”, Airola condanna la decisione di rinunciare al potere dell’esecutivo per bloccare l’opera, ricorrendo alla farsa del voto parlamentare (più che scontato) sul destino del progetto, costosissimo e inutile. «L’ho detto più volte, a Conte: l’opera – che è appena ai preliminari – si può fermare senza danni per l’Italia». Conte però ha finto di non sentire: «E’ stato mal consigliato?», si domanda Airola. Certo, in linea con Conte appare Di Maio, che sposa in pieno la tattica dell’ipocrisia: i 5 Stelle ribadiranno la loro pletorica contrarietà alla super-ferrovia, già sapendo che Lega, Pd, Forza Italia e Fratelli d’Italia voteranno a favore. Un mezzuccio un po’ meschino, per tentare di salvarsi la coscienza. «Credo che il Movimento 5 Stelle abbia deciso di scrivere il proprio testamento politico», sentenzia Nilo Durbiano, sindaco di Venaus, uomo-simbolo dell’opposizione della valle di Susa alla grande opera. Addio 5 Stelle: «La loro avventura è conclusa», dice Durbiano, nel cui Comune i 5 Stelle erano il primo partito.
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Sparisce Chiamparino, ma crolla la diga NoTav in val Susa
Aiuto, vince il partito Sì-Tav anche in valle di Susa, già roccaforte dei 5 Stelle. Sicuri? «Se dobbiamo vedere realmente chi ha fatto del Tav il suo punto principale, allora dobbiamo leggere nella batosta di Chiamparino un dato positivo», scrive il sito “NoTav.info”. L’ex “padre padrone” del Piemonte, infatti, «non ha creato quella breccia che il Pd e il centrosinistra “madamino” volevano aprire, anzi». Dopo aver riempito le piazze di improvvisati attivisti pro-Tav, l’ex governatore piemontese (fermatosi al 35,8%) è uscito con le ossa rotte dalle elezioni regionali, surclassato dal centrodestra di Alberto Cirio (49,9%). Letteralmente “asfaltati” invece i grillini, schiantati da un umiliante 13,6%. «La Torino-Lione si farà», si è affrettato a dire il trionfatore, Cirio. «Quello che si è svolto in Piemonte, e persino in valle di Susa, è già un sostanziale referendum sulla grande opera», secondo Matteo Salvini, anch’esso arruolato nella cordata per la maxi-infrastruttura più inutile d’Europa. Ma, come segnalano i NoTav, a far rumore è soprattutto il crollo di Chiamparino: una sconfitta personale altamente simbolica, per un politico navigatissimo che negli ultimi anni aveva puntato tutto proprio sugli appalti per costruire la ferrovia-doppione di quella che già collega Torino e Lione attraverso la linea storica della valle di Susa, la Torino-Modane, via traforo del Fréjus (appena riammodernato con una spesa di quasi mezzo miliardo).Ora, di fronte alla débacle, Chiamparino si prepara al ritiro dalle scene: rinuncerà persino a sedere in Consiglio regionale, cedendo il posto a candidati più giovani. Cresciuto nel Pci-Pds, eletto sindaco di Torino nel 2001 e poi riconfermato trionfalmente nel 2006, Chiamparino è stato classificato dal “Sole 24 Ore” il sindaco più amato d’Italia, con un consenso del 75%. Vicinissimo a Sergio Marchionne, ha tentato di ripristinare il ruolo industriale della città (prima che la Fiat “emigrasse” a Detroit). Nel Pd ha avuto un ruolo di primo piano (riforme) sia con Veltroni che con Franceschini. E’ stato presidente nazionale dell’Anci, portavoce dei Comuni italiani e coordinatore dei sindaci delle città metropolitane. Poi, nel 2012, il gran salto nella finanza, come presidente della Compagnia di San Paolo, potentissima fondazione bancaria di Intesa SanPaolo. Salvo poi tornare tranquillamente alla politica attiva nel 2014, divenendo presidente del Piemonte (poi anche a capo della conferenza dei presidenti delle Regioni italiane). Crescente, negli ultimi dieci anni, il suo impegno per la Torino-Lione. Forte la criminalizzazione della resistenza popolare rispetto alla grande opera: «Ormai siete quattro gatti», disse nel 2010 ai NoTav, che gli risposero con una marcia di 40.000 persone.Un anno dopo, gli attivisti si opposero allo sgombero forzato del sito di Chiomonte, prescelto per impiantare il cantiere del mini-tunnel geognostico. E’ solo un’opera accessoria, l’unica finora realizzata: del traforo ferroviario vero e proprio, tra Italia e Francia (54 chilometri, da Susa alla Maurienne) non è stato scavato neppure un metro. In vent’anni, l’unica forza politica di governo capace di opporsi al Tav valsusino è stato il Movimento 5 Stelle. In precedenza, ministri come Ronchi e Pecoraro Scanio (Verdi) più Paolo Ferrero (Rifondazione Comunista) erano riusciti a frenare temporaneamente Prodi. Ma solo Di Maio – dopo l’impegno personale di Beppe Grillo in valle di Susa – ha avuto la forza di ridiscutere interamente il progetto già nel “contratto di governo” con Salvini, per poi affidare a Toninelli, finalmente, un’analisi costi-benefici. Scontato l’esito del lavoro della commissione, presieduta dal professor Marco Ponti del Politecnico di Milano, uno dei migliori specialisti europei in tema di trasporti. Il verdetto: la linea Tav Torino-Lione, costosissima, è completamente inutile. Nonostante ciò, Salvini non ha mollato l’osso: i bandi di gara per far partire i cantieri del tunnel italo-francese restano aperti fino all’autunno. E ora, con il crollo dei 5 Stelle (al 17% alle europee, al 13% in Piemonte) la posizione degli alleati dei NoTav si è ulteriormente indebolita.La marea salviniana, peraltro, ha fatto breccia anche in valle di Susa: alle europee, la Lega ha convinto la stragrande maggioranza degli abitanti. I 5 Stelle restano il primo partito soltanto in 6 Comuni della vallata (Exilles, Venaus, Mompantero, Bussoleno, Chianocco e Vaie), mentre i NoTav perdono un alleato strategico a Susa, dove il sindaco uscente Sandro Plano non è riuscito a farsi riconfermare. Secondo i NoTav, comunque – a parte Susa – il voto comunale ha confermato le amministrazioni vicine agli attivisti che si oppongono alla grande opera. «Altro discorso è quello del Movimento 5 Stelle, che evidentemente ha pagato la mancanza di decisione e di risultati rispetto alle aspettative create, sul Tav come su tutto il resto», scrive “NoTav.info”, che aggiunge: «Non ci stupiscono le dichiarazioni di personaggi come Ferrentino ed Esposito, che sono più contenti del voto alla Lega in ottica Sì-Tav che tristi per la batosta presa, segnale chiaro di come il partito del cemento non abbia colori». Antonio Ferrentino e soprattutto Stefano Esposito, esponenti del Pd piemontese, non hanno risparmiato accuse ai NoTav, demonizzando l’opposizione al super-treno. Dal canto loro i NoTav resistono, consapevoli del fatto che proprio la filiera di potere delle grandi opere ben rappresenta la post-democrazia attuale, con scelte imposte dall’alto (spesso assurde, come la Torino-Lione) e contro la volontà popolare. Sovranità confiscata dal business, anche se in vent’anni i supporter del Tav non sono mai riusciti a dimostrarne l’utilità.Aiuto, vince il partito Sì-Tav anche in valle di Susa, già roccaforte dei 5 Stelle. Sicuri? «Se dobbiamo vedere realmente chi ha fatto del Tav il suo punto principale, allora dobbiamo leggere nella batosta di Chiamparino un dato positivo», scrive il sito “NoTav.info”. L’ex “padre padrone” del Piemonte, infatti, «non ha creato quella breccia che il Pd e il centrosinistra “madamino” volevano aprire, anzi». Dopo aver riempito le piazze di improvvisati attivisti pro-Tav, l’ex governatore piemontese (fermatosi al 35,8%) è uscito con le ossa rotte dalle elezioni regionali, surclassato dal centrodestra di Alberto Cirio (49,9%). Letteralmente “asfaltati” invece i grillini, schiantati da un umiliante 13,6%. «La Torino-Lione si farà», si è affrettato a dire il trionfatore, Cirio. «Quello che si è svolto in Piemonte, e persino in valle di Susa, è già un sostanziale referendum sulla grande opera», secondo Matteo Salvini, anch’esso arruolato nella cordata per la maxi-infrastruttura più inutile d’Europa. Ma, come segnalano i NoTav, a far rumore è soprattutto il crollo di Chiamparino: una sconfitta personale altamente simbolica, per un politico navigatissimo che negli ultimi anni aveva puntato tutto proprio sugli appalti per costruire la ferrovia-doppione di quella che già collega Torino e Lione attraverso la linea storica della valle di Susa, la Torino-Modane, via traforo del Fréjus (appena riammodernato con una spesa di quasi mezzo miliardo).
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Tav, la strana guerra contro i palestinesi della val di Susa
Ormai, parlare dell’orrido Tav che incombe sulla valle di Susa è gradevole quanto lo è inoltrarsi tra il filo spinato del conflitto israelo-palestinese, degenerato in cancrena da decenni e trasformato in tumore fisiologico, incurabile. Di qua i buoni, di là i cattivi. Nemici, odio: il banchetto che qualcuno sperava di allestire fin dall’inizio? Non che ci tenessero, i palestinesi della valle di Susa: ne avrebbero fatto volentieri a meno, dell’intifada che li ha opposti periodicamente ai reparti antisommossa. Una sfida costata moltissimo in termini di conseguenze giudiziarie, tra arresti in massa e processi. Contro Golia, il piccolo Davide brillò nel 2012, quando rinunciò alla fionda: emozionò l’Italia (obbligando ad accorrere sul posto persino le telecamere di Santoro) il drammatico volo dell’acrobata Luca Abbà, che sfiorò la morte precipitando dal traliccio dell’Enel sul quale si era arrampicato, per protesta – lui anarchico, alle prese con una classica dimostrazione di resistenza nonviolenta. Ma durò poco: le cariche dispersero i manifestanti scesi a bloccare l’autostrada, messi in fuga e rincorsi casa per casa, dopo giorni di tensione. Tutto doveva tornare all’ordine fisiologico delle cose, cioè a come si presume che il pubblico s’immagini sia la realtà: un’aspra lotta tra opposti che si detestano, una partita feroce in cui difficilmente vincerà il migliore.Nemmeno l’umorismo iperbolico di Paolo Villaggio, forse, sarebbe riuscito a dipingere il carattere lunare, gaglioffo e cialtrone del fantasma ferroviario che insidia da più di vent’anni l’estremo nord-ovest italiano: un ipotetico super-treno pensato negli anni ’80 del secolo scorso per i passeggeri, surclassato in capo a un decennio dall’avvento dei voli low-cost e infine umiliato anche dal traffico merci, defunto pure quello. La globalizzazione “cinese” sbarca a Genova e punta verso Rotterdam, snobbando il Piemonte e le Alpi del Rodano. Dalla Fortezza Bastiani del Tav, a lungo presidiata dall’ineffabile Pd con la collaborazione del centrodestra (leghisti compresi), ormai si guarda con malinconia ai dati, impietosi, sciorinati ufficialmente anche a Palazzo Chigi: il flusso di merci è crollato, e la ferrovia internazionale che già collega Torino a Lione attraversando l’infelice valle di Susa (via Modane, traforo del Fréjus) potrebbe tranquillamente reggere un incremento di traffico del 900%, se solo ci fossero merci da trasportare. Bel guaio: cosa bisognerà inventare, ancora, per spillare soldi euro-italiani da spalmare su appalti e subappalti? Avverte il giallista Massimo Carlotto, vicino ai NoTav: le grandi opere sono perfette per riciclare denaro, nell’immensa “lavanderia a cielo aperto” chiamata Europa. Business is business: non è che si possa smontare così, su due piedi, un grande affare destinato a pompare milioni (miliardi) in una filiera che include industria e indotto cantieristico, studi e consulenze, progettisti, banche e partiti.Se sento ancora parlare di Tav Torino-Lione, scrisse Giorgio Bocca nel 2005, vado a ripescare il mio vecchio Thompson dal pozzo in cui l’avevo gettato alla fine della guerra partigiana. Si era documentato, l’ultimo grande vecchio del giornalismo italiano: aveva capito che i palestinesi inermi le avevano buscate in modo selvaggio, riempiti di botte – uomini e donne, ragazzi e anziani – dai robocop venuti da lontano, in piena notte, per sgomberare il prato di Venaus occupato dalle famiglie impegnate in una sorta di sit-in permanente. Ne seguì una sommossa popolare a carattere insurrezionale: qualcosa che in Italia s’era visto soltanto nei moti di Reggio Calabria del 1970. Un popolo sulle barricate, armato solo di indignazione. Scudi umani, i sindaci in fascia tricolore (e le loro auto, quelle dei vigili urbani, spedite a sbarrare le strade, coi lampeggianti accesi). Due giorni di follia collettiva, dopo il pestaggio notturno, fino alla paralisi della tangenziale di Torino e alla capitolazione del governo: progetto sospeso, ritirato, archiviato. Clamorosa vittoria dei palestinesi, che da quel momento cominciarono a credersi invincibili. O meglio: ritennero invincibile la forza della ragione, la sovranità democratica del cittadino, la legittimità della protesta di una comunità coesa e fasciata di tricolore.Durò anni, l’illusione. Una speranza radicata: il governo centrale si sarebbe deciso a cestinare il dossier – poi bocciato anche da 360 tecnici universitari – per concludere che sì, avevano ragione i palestinesi della valle di Susa: quella ferrovia andava dimenticata, gettata nella spazzatura della storia. Ma le trivelle tornarono, dopo un quinquennio di silenzio. Era il 2010. La tensione emotiva era scemata, molti sindaci erano spariti – non rieletti, o semplicemente rimasti a casa, non più disposti a fare da caschi blu. Fu allora che cominciò l’accerchiamento, lento e inesorabile. Senza più i sindaci in prima fila, i NoTav erano nudi. “Siete finiti”, li avvertì cordialmente il sindaco di Torino, Chiamparino. Risposero in quarantamila, con una marcia sotto la neve. I piani di Roma, intanto, erano cambiati: il cantiere per la prima galleria esplorativa, inizialmente programmato nel prato poi “espugnato” a Venaus nel 2005, sarebbe stato reimpiantato a Chiomonte, sopra le gole della Dora Riparia, in posizione militarmente difendibile. I NoTav risposero asserragliandosi proprio lì, tra le loro Termopili. Nacque la Libera Repubblica della Maddalena, il villaggio di Asterix attrezzato – con barricate – per tentare di resistere all’esercito imperiale. I reparti antisommossa, duemila uomini, si presentarono puntuali all’alba del 27 giugno 2011. Agirono con calma, minimizzando la loro forza d’urto. In cabina di regia il ministro Maroni e il capo della polizia Manganelli. Niente più cariche, solo lacrimogeni.Ci rimasero malissimo, i palestinesi: avevano sperato di ripetere il “miracolo” del 2005, quand’erano riusciti – sciamando in 80.000 attraverso i boschi – a sfrattare la polizia da Venaus. Una settimana dopo lo sgombero della “Libera Repubblica”, il 3 luglio 2011 tentarono di riprendersi Chiomonte. Erano in centomila: un corteo lungo chilometri. Pullman da tutta Italia, decine di migliaia di valsusini. E anche giovani dei centri sociali: quelli che poi, nel pomeriggio, avrebbero contribuito a trasformare la protesta in guerriglia. “Volevano il morto”, dichiarò Maroni. Bilancio ufficiale: 200 feriti per parte. E fine di una lunga, gloriosa anomalia: la lotta popolare esclusivamente nonviolenta, nata e cresciuta in mezzo ai monti, che tanto aveva spaventato la politica. Inammissibile che una comunità di sessantamila valligiani riuscisse a fermare le ruspe. Intollerabile, che lo facesse in modo pacifico. Inaccettabile, che imponesse al governo di lasciarsi ascoltare, e lo costringesse a prender nota del fatto che, secondo tutti gli esperti, la linea Tav Torino-Lione era (ed è) una pazzia completamente inutile, destinata a pesare per decine di miliardi sul debito pubblico dopo aver reso invivibile il territorio, cioè i 50 chilometri che separano Torino dalla Francia. Rocce piene di amianto, montagne dove l’Agip scavò decine di gallerie per estrarre l’uranio al tempo del nucleare italiano. Falde acquifere a rischio, salute in pericolo e addio agricoltura. Dissesto idrogeologico irrimediabile, apocalisse urbanistica, catastrofe idrica incombente sulla stessa area metropolitana torinese. Ma perché, di grazia? A beneficio di chi?“Diteci almeno a cosa servirebbe, tutto questo”. Domanda rimasta sempre inevasa. Lo vuole l’Europa, c’è un impegno con la Francia. Davvero? Sì e no. L’Europa ha cambiato idea: ha archiviato l’originaria, fantascientifica direttrice Kiev-Lisbona, di cui la Torino-Lione sarebbe stata il passante alpino. Quanto alla Francia, varie istituzioni parigine hanno via via intiepidito la loro posizione. Analoga retromarcia tattica dal governo Renzi: è vero, la nuova linea costa troppo; meglio limitarsi al solo traforo, facendo poi passare i treni sull’attuale linea (perfettamente idonea, dunque – percorsa, già oggi, dal Tgv francese). Nel frattempo, sui NoTav si è scatenata una campagna di demonizzazione parossistica, da parte della politica istituzionale e dei grandi media. E il movimento valsusino, senza più la tutela diretta dei sindaci, ha fatto miracoli per arginare il pericolo di infiltrazioni da parte delle frange virtualmente violente (un conto è gestire un corteo, un altro controllare manifestanti in ordine sparso, nei boschi). Anni durissimi, rischiosi, in bilico, ma durante i quali – nonostante tutto – la resistenza dei palestinesi ha conquistato piena cittadinanza in larghi strati del paese, anche grazie al generoso impegno di opinion leader di prima grandezza, scrittori e artisti, cantanti, giuristi, intellettuali. Senza con questo riuscire minimamente a scalfire il muro di omertoso silenzio che ancora protegge, misteriosamente, il progetto della grande opera: un dogma marmoreo, quasi mistico, che sembra imposto da una religione sconosciuta, alla quale gli stessi politici (ministri, premier) appaiono sottomessi.C’è altro, poi, che i valsusini sanno e gli altri italiani per lo più ignorano. E’ una storia complicata, tra loro e il governo. Una storia tormentata e opaca, per molti aspetti, che risale addirittura alla Liberazione, quando molti partigiani – in maggioranza comunisti – rifiutarono di consegnare le armi agli alleati, per poi tirarle fuori, occupando fabbriche, in risposta all’attentato a Togliatti. Ha radici antiche, il ribellismo della valle di Susa, industriale e operaia già alla fine dell’800. Dopo il Sessantotto, mentre i padri issavano bandiere rosse sui cotonifici, decine di figli cedettero alla tentazione della lotta armata. La valle di Susa è stata l’unica area non metropolitana, in tutta Italia, ad allevare una colonna di terroristi, arruolati tra le file di Prima Linea. Poi vennero gli anni ’80, con l’autostrada del Fréjus che la valle non voleva. Le solite mazzette e, a seguire, la relativa Tangentopoli, con arresti eccellenti, mentre la commissione parlamentare antimafia denunciava il radicamento della ‘ndrangheta nell’alta valle, il paradiso sciistico che a Sestriere avrebbe ospitato i Mondiali di sci e poi le Olimpiadi Invernali. Quello di Bardonecchia è stato il primo Consiglio comunale italiano, a nord del Po, a essere disciolto per mafia.L’onorata società tornò a occupare la cronaca della valle di Susa poco dopo gli attentati siciliani costati la vita a Falcone e Borsellino, quando la magistratura di Torino scoprì che erano finite a una cosca calabrese le pistole uscite illegalmente, a centinaia, da un’armeria di Susa. Chi avrebbe dovuto vigilare non l’aveva fatto: emerse l’ombra dei servizi segreti. Gli inquirenti avevano scoperto il traffico di armi grazie a un pentito della ‘ndrangheta, che smise di parlare (di colpo) dopo che gli fu ucciso il fratello, proprio in valle di Susa, da un ex agente del Sismi, reo confesso. Uno stillicidio di notizie inquietanti, che il valsusino medio – non ancora palestinese – apprendeva con sgomento, a metà degli anni ’90. A seguire, cominciarono a esplodere bombe: una dozzina di attentati dinamitardi, notturni e devastanti ma tutti incruenti, colpirono le prime trivelle del futuro Tav ma anche centraline Enel, tralicci telefonici, ripetitori televisivi. I giornali, in coro, parlarono di eco-terrorismo anarco-insurrezionalista. Comparve una sigla, “Lupi Grigi”, con rivendicazioni deliranti contro le grandi opere. Finirono in manette tre giovani anarchici, due dei quali (“Sole e Baleno”) poi trovati morti in stato di detenzione, impiccati. L’accusa: banda armata e associazione sovversiva. Lui, Edoardo Massari, un anarchico piemontese. Lei, Maria Soledad Rosas, argentina, giovanissima, venuta in Europa in vacanza premio, dopo il liceo, e poi rimasta in Italia perché innamoratasi del suo “Edo”. Il pm annunciò di avere “prove granitiche”, contro di loro. Salvo poi ammettere il tragico errore, fuori tempo massimo. Scagionati post mortem, alla fine del processo: non erano stati quei ragazzi, a far saltare in aria mezza valle di Susa. Chi, allora?Aveva in testa anche questi pensieri, il valsusino medio (mediamente colto e informato, mediamente scettico) quando cominciò a diventare un po’ palestinese, trascinando la famiglia nei prati di Venaus dove, nel 2005, si era accampata la polizia, spedita lassù da un governo che sosteneva fosse fondamentale far passare proprio di lì, spianando l’intera vallata, la famosa super-ferrovia miliardaria destinata a collegare il Portogallo all’Ucraina. Non può essere, si dicevano i valligiani: avranno capito male, a Roma. E così studiarono, si documentarono, mobilitarono i migliori specialisti. Non sta né in cielo né in terra, conclusero: è un’opera faraonica e devastante, tragicamente inutile. Ne parlavano anche coi poliziotti infreddoliti, inviati a Venaus a presidiare il prato prescelto per accogliere il primo cantiere. Dai NoTav, una protesta formato famiglia: bambini, polenta, bicchieri di tè caldo offerti agli stessi agenti – non quelli che li avrebbero sgomberati (per l’operazione, il reparto presidiario fu avvicendato). Gli incursori notturni colpirono alla cieca, travolgendo tende e sacchi a pelo. Una gradine di manganellate, al buio. Le ambulanze, le urla, i feriti. L’inizio della saga, già l’indomani: i valsusini, a migliaia, nelle strade. La circolazione paralizzata, i treni fermi. Il ministro dell’interno, Pisanu, scomparso dai radar. Imbarazzo, fra i palazzi romani. I palestinesi in rivolta ospitati per la prima volta in televisione, da Gad Lerner, per poi ricevere i primi rumorosi endorsement a reti unificate: Beppe Grillo, Dario Fo. E quei benedetti sindaci, avvolti nel tricolore, a ripetere che la legalità comincia dal rispetto del cittadino, democraticamente sovrano e tutelato da diritti costituzionali.Era solo il 2005, ma sembrano passati cent’anni. Le famiglie di allora avevano una luce particolare, negli occhi. La crisi era ancora lontana. C’era lavoro per tutti, i negozi non avevano ancora cominciato a chiudere, uffici e fabbriche funzionavano. All’ora dell’aperitivo i bar tracimavano di giovani – tutti palestinesi, naturalmente, tra svolazzi di bandiere NoTav. Un clima festoso, di fiducia. “Capiranno, a Roma. Si decideranno a ragionare”. I valsusini: riscopertisi comunità, proprio grazie allo scampato pericolo. Idee politiche forse rudimentali, antiche: la destra, la sinistra. A dire il vero, nella valle ribelle non s’era visto nessuno dei big: tutti spariti, i grandi partiti. La parte del cattivo era toccata a Berlusconi, ma poi Prodi (frenato dai ministri filo-valsusini Paolo Ferrero e Alfonso Pecoraro Scanio) non aveva comunque mai mostrato entusiasmo, per il fervore democratico dei palestinesi garibaldini, alle prese con quello strano risorgimento alpino, montanaro, periferico ma non provinciale. E’ come se si fosse laureato honoris causa, il valsusino medio, in questi anni grami: si è probabilmente conquistato il suo diploma di cittadino di prima classe, quanto a consapevolezza, mentre buona parte dell’Italia dormiva ancora sugli allori, prima di essere svegliata nel peggiore dei modi dal professor Monti, dalla professoressa Fornero.Si racconta che dal massiccio dell’Ambin, nel quale si è andato scavando il dannato tunnel esplorativo, sia disceso Annibale coi suoi elefanti. In direzione opposta avanzò Giulio Cesare alla conquista delle Gallie, facendo base a Susa, dove poi l’imperatore Costantino assediò Massenzio. Poco più a valle, Carlomagno sbaragliò i Longobardi manzoniani di Adelchi e Desiderio per poter fondare il Sacro Romano Impero, il cui erede Barbarossa mise a soqquadro Susa. Napoleone aprì la strada del Moncenisio, Cavour fece scavare il traforo del Fréjus. Quasi ogni sasso, in valle di Susa, ha molti secoli da raccontare, all’ombra dell’imponente Sacra di San Michele, monumento simbolo del Piemonte, eretto prima dell’anno Mille. Sul versante opposto, da una roccia emerge il Giove Dolicheno, scolpito dai soldati mediorientali arruolati da Roma nella Legione Siriana, di stanza nella valle conquistata dai Cesari. I valsusini amano le loro montagne, le frequentano con devozione. Le guardano diventare rosse, e poi viola, quando il tramonto illanguidisce nel crepuscolo lungo la cordigliera transalpina, dalla piramide del Rocciamelone alla mole nevosa del Niblè. Prima di altri, a loro spese, hanno imparato che il nuovo impero ha un’unica legge davvero sacra, quella dei soldi. A loro modo, da palestinesi, sono stati tra gli ultimi difensori di una repubblica di cui tutti gli italiani, oggi, hanno nostalgia.(Giorgio Cattaneo, “Tav, la strana guerra contro i palestinesi della valle di Susa”, dal blog “Petali di Loto” dell’11 dicembre 2018).Ormai, parlare dell’orrido Tav che incombe sulla valle di Susa è gradevole quanto lo è inoltrarsi tra il filo spinato del conflitto israelo-palestinese, degenerato in cancrena da decenni e trasformato in tumore fisiologico, incurabile. Di qua i buoni, di là i cattivi. Nemici, odio: il banchetto che qualcuno sperava di allestire fin dall’inizio? Non che ci tenessero, i palestinesi della valle di Susa: ne avrebbero fatto volentieri a meno, dell’intifada che li ha opposti periodicamente ai reparti antisommossa. Una sfida costata moltissimo in termini di conseguenze giudiziarie, tra arresti in massa e processi. Contro Golia, il piccolo Davide brillò nel 2012, quando rinunciò alla fionda: emozionò l’Italia (obbligando ad accorrere sul posto persino le telecamere di Santoro) il drammatico volo dell’acrobata Luca Abbà, che sfiorò la morte precipitando dal traliccio dell’Enel sul quale si era arrampicato, per protesta – lui anarchico, alle prese con una classica dimostrazione di resistenza nonviolenta. Ma durò poco: le cariche dispersero i manifestanti scesi a bloccare l’autostrada, messi in fuga e rincorsi casa per casa, dopo giorni di tensione. Tutto doveva tornare all’ordine fisiologico delle cose, cioè a come si presume che il pubblico s’immagini sia la realtà: un’aspra lotta tra opposti che si detestano, una partita feroce in cui difficilmente vincerà il migliore.
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Tav, razza padrona: le fate ignoranti della Torino defunta
Giuro che non volevo credere ai miei orecchi quando ho sentito a “Otto e mezzo”, una delle magnifiche sette madamine torinesi “organizzatrici” della manifestazione in piazza Castello, Patrizia Ghiazza, dichiarare bellamente di ignorare tutto delle problematiche tecniche e ambientali relative alla discussa linea del Tav Torino Lione. Ha detto proprio così: «Posso assolutamente dire che non siamo, né io né le altre organizzatrici, competenti per poter entrare nel merito degli aspetti tecnici e ambientali dell’opera». Il fatto è che la manifestazione di cui figuravano come promotrici Patrizia Ghiazza e le altre chiamava in causa – forse a loro insaputa, ma indiscutibilmente – proprio il merito delle ragioni tecniche e ambientali dell’opera, per dire che era giusta e buona, e che la si sarebbe dovuta assolutamente fare pena la rovina della città e della regione. E ora sappiamo che quell’“entrata nel merito” con quella perentoria conclusione, era avvenuta nella più completa ignoranza dei dati fondamentali, dei più elementari fattori di valutazione, per un atto di fede, diciamo così, nei confronti dei governi precedenti e nel valore metafisico dell’opera.Esattamente all’opposto del movimento contro cui tutte quelle persone sono state chiamate in piazza, il movimento No-tav, che ha sempre fatto, fin dalla sua origine, per più di vent’anni, puntigliosamente, quasi ossessivamente, dei dati tecnici dell’opera (flussi di traffico, impatto ambientale, dimensione dei costi e dettagliate voci di spesa, alternative operative), e dell’informazione su di essi, il principale argomento della sua opposizione. Se un aspetto ha colpito coloro che si sono occupati, anche in chiave scientifica – politologica, sociologica, antropologica – di quel movimento, è stato la costante abbondanza di documentazione e di informazione tecnica presente nei loro siti, al contrario degli opposti siti “Si-Tav” (a cominciare da quello di Telt), generici e reticenti. E a me personalmente ha fatto sempre molta impressione, fin dal 2005, dai tempi di Venaus quando incominciai a osservare la valle, la competenza non solo degli “attivisti” e dei promotori dei comitati e delle manifestazioni, ma dei manifestanti stessi. Irsuti montanari e madri di famiglia o nonne, ragazzotti delle superiori o artigiani di valle, pensionati, operai, commercianti, sapevano di logistica e trasportistica, del “Corridoio V” e delle “rotture di carico” con il loro aggravio di costo, di flussi di traffico su gomma e su ferro e di sistemi idrogeologici, dell’impatto degli scavi sulla qualità e quantità delle acque e sulle polveri sottili.Nessuno di loro si è mai sottratto al confronto sui contenuti dicendo di esserne all’oscuro! Ora, che nella rappresentazione da parte dei “giornaloni”, quegli uomini e quelle donne vengano dipinti come rozzi cultori del “nimby”, sorta di nuovi barbari pre-illuministici in conflitto con la modernità, mentre la folla di piazza Castello viene promossa a esempio di buona cittadinanza, fa parte del mondo alla rovescia prodotto da una sfera mediatica intossicata da interessi predatori e per questo generatrice di sfiducia su scala allargata. Esemplare, d’altra parte, l’atteggiamento nei loro confronti esibito, senza reticenze, da un’altra delle “fatine” torinesi, Giovanna Giordano, che a proposito della resistenza dei valligiani ha detto, testualmente, ad “Agorà”: «Se ci credono veramente e amano la decrescita felice, qui intorno in Piemonte ci sono tante meravigliose valli dove possono comprarsi una mucca e una pecora e decrescere felicemente. Ma che lascino vivere noi».Giovanna Giordano, detta “Nana” dagli amici, nominata sul campo da “Repubblica” «madamina di ferro, informatica e nonna», nell’enfasi del suo speach, dimentica che “loro” – i valsusini refrattari – stanno nella loro valle, dove vorrebbero che li si “lascino vivere” senza avere il proprio territorio devastato dal treno degli altri, mentre “noi” – il “noi” di Giovanna, intendiamoci – abitiamo in città ignorando del tutto, come si è visto, l’impatto su “quel” mondo che evidentemente non ci riguarda. Le ha già risposto, in modo esemplare, in questo stesso sito, il sindaco di Susa Sandro Plano. Qualcun altro ha ricordato la Maria Antonietta del “mangino brioches”. Ma si potrebbe anche evocare il Marchese del Grillo, quello del “Io sono io, e voi…”. In quel “che lascino vivere noi!” (abbandonando le case “loro”) c’è tutto un programma, o meglio un profilo: da razza padrona. Da ceto medio-alto predatorio, che non vede l’altro perché ripiegato su di sé, sulle proprie credenze infondate ma indiscutibili, la propria rete di pari elevata a mondo, i propri piccoli interessi promossi a Nomos. Il salotto di nonna Speranza con le sue “piccole cose di pessimo gusto” proposto come modello estetico assoluto.Certo, si potrebbe non farla troppo grossa. E considerare quell’esternazione un “refuso retorico”, una sorta di incidente comunicativo – insomma, una voce dal sen fuggita – ma sarebbe in qualche modo riduttivo. Perché in realtà c’era in quelle due righe, sintetizzato, un po’ tutto il mood di buona parte del management torinese: il sentimento sotteso alla parte più determinata di quella piazza – il suo nocciolo duro – costituito da quel mondo delle imprese e delle professioni cittadine che eleva se stesso a misura dell’universo avendo perduto però le proprie capacità propulsive. Declinante, ma determinato tuttavia a non mollare la presa sul proprio contesto, considerando ogni bene comune “disponibile”. Ogni dimensione pubblica privatizzabile. E ogni alterità – quali che ne siano le ragioni – irrilevante. Altro che cittadini con il senso del dovere di cui vaneggia Vladimiro Zagrebetsky (Vladimiro, si badi! non Gustavo) su “La Stampa”.Un esempio per tutti: il presidente della Camera di Commercio, tal Vincenzo Ilotte, che dichiara senza un attimo di resipiscenza che «la città si è formalmente espressa sulla Tav, non credo ci sia molto da discutere». Sì, proprio così: non crede che ci sia più “molto da discutere” perché – in piazza, evidentemente – la città si è “formalmente espressa”. Formalmente! Che, se le parole hanno ancora un qualche senso, dovrebbe voler dire: seguendo una qualche procedura di legittimazione. E dimentica che l’unica espressione “formale” è stata la deliberazione del Consiglio comunale (che la si giudichi opportuna o meno) con cui si è dichiarata “formalmente” Torino città No-Tav. E che i 20 o 25 o 30mila di piazza Castello sono pressoché un decimo dei torinesi che due anni fa hanno eletto a maggioranza quel Consiglio e quella giunta. Questo sarebbe un esempio di coscienza civica? O anche solo di cultura democratica? Personalmente mi sembra un perfetto esempio di quel “populismo” contro cui si dice al contrario di volersi opporre.Il problema però non sono le singole persone. Il problema, inquietante, per certi aspetti disperante, è che quello “stile” ha animato tutta la preparazione della mobilitazione di sabato 10 novembre. L’asfissiante campagna mediatica, guidata dai giornali cittadini “Stampa” e “Repubblica”, appartenenti ora al medesimo gruppo finanziario assai interessato all’opera. Nei dieci giorni di bombardamento mediatico non una voce fuori dal coro, non un dato, una documentazione, una valutazione indipendente. Niente pensiero, niente ragionamento, niente argomentazione razionale. Molti, troppi slogan. Spacciati a piene mani come verità sacrali (di quelle che non hanno bisogno di conferme fattuali perché sarebbero auto-evidenti). Nessuno ha detto ai cittadini chiamati al giudizio di dio della piazza, che quel treno è fatto per le merci e non per i passeggeri. Che tra Torino e Lyon (e Parigi) c’è già un treno veloce – un Tgv – cinque volte al giorno, sulla linea storica, che attualmente è utilizzata a meno di un quinto della sua capacità. Che i flussi di traffico tra Italia e Francia sulla direttrice alpina sono in calo da anni, sia su rotaia che su autostrada.Che supposto che si facesse il “tunnel di base” di 57,5 km, la linea si fermerebbe a St. Jean de Maurienne, tra i pascoli, sul versante francese (perché la Francia non ha deliberato le infrastrutture di raccordo e non ne ha per ora intenzione) e a Susa sul versante italiano. E, a proposito di tunnel di base (il cui impatto sul sistema idrogeologico della valle ma anche di Torino sarebbe pesantissimo), che nonostante viaggi per quasi l’80% in territorio francese sarebbe pagato per circa il 60% da noi!). Che del mitico “Corridoio V” (il quale secondo le allucinazioni dei nostri politici regionali dovrebbe collegare Lisbona con Kiev, anzi, secondo le ultime esternazioni, l’Alantico e il Pacifico) non c’è traccia, non esiste più perché Portogallo e Spagna si sono chiamati fuori e dalla Slovenia in là nessuno ci pensa, per cui le tanto decantate merci dovrebbero proseguire verso est sui famigerati camion o arrivare in camion per andare verso ovest (dove? mah?)…E’ assai probabile che una parte almeno del successo di pubblico di quella manifestazione sia dovuta – oltre alla mobilitazione dei “media” e delle corporazioni cittadine – alla pessima prova offerta in questi due anni dalla giunta Appendino: dal suo pressapochismo, dalle troppe assenze dai luoghi dolenti del tessuto cittadino, dalla promesse non mantenute, dall’isolamento sociale in cui si è confinata. C’era, in quella piazza, anche tanto giustificato disagio. Ma il giudizio sulla promozione dell’“evento” e sulla sua gestione non cambia. Resta imbarazzante – francamente imbarazzante – che l’imprenditoria di una città che è stata, per buona parte del Novecento, un esempio di livello mondiale di “company town” – un modello di capacità industriale potentissimo – si riduca oggi ad affidare il proprio futuro a un’idea vuota – a impiccarsi a un totem fradicio, abbiamo scritto – cioè a un simbolo quale il Tav fallito in partenza, immaginato in un tempo e in un mondo finiti, destinato allo spreco massiccio di risorse che – con un uso più assennato – potrebbero rivelarsi importanti.Fa male vedere che gli operatori economici di una città un tempo abitata da produttori orgogliosi di sé si riducano a pietire eventi e opere quali che siano purché alimentino flussi di denaro octroyé, concesso da Roma o dall’Europa, anziché contare sulla propria capacità innovativa e sulla creatività del sistema urbano. E’, in qualche modo, il “sistema Torino” – la configurazione di interessi economici, politici e bancari che ha gestito il declino di Torino nel trentennio trascorso e che si è mossa in piazza per riperpetuarsi, con gli stessi volti, le stesse sigle (il Pd buttato fuori dalla porta alle amministrative e rientrato dalla finestra in piazza) allargate ora alla destra, Forza Italia in primis, ma anche Fratelli d’Italia e soprattutto la Lega. La Lega di Salvini, aggiuntasi all’ultimo momento perché sa che, in casi come questi, gli ultimi saranno i primi e, con molta probabilità, sarà lei l’utilizzatore finale di tutto ciò. Come dire che le fatine turchine di Torino hanno lavorato, in fondo, per il Re di Prussia.(Marco Revelli, “Le fate ignoranti di Torino”, dal blog NoTav.info del 19 novembre 2018).Giuro che non volevo credere ai miei orecchi quando ho sentito a “Otto e mezzo”, una delle magnifiche sette madamine torinesi “organizzatrici” della manifestazione in piazza Castello, Patrizia Ghiazza, dichiarare bellamente di ignorare tutto delle problematiche tecniche e ambientali relative alla discussa linea del Tav Torino Lione. Ha detto proprio così: «Posso assolutamente dire che non siamo, né io né le altre organizzatrici, competenti per poter entrare nel merito degli aspetti tecnici e ambientali dell’opera». Il fatto è che la manifestazione di cui figuravano come promotrici Patrizia Ghiazza e le altre chiamava in causa – forse a loro insaputa, ma indiscutibilmente – proprio il merito delle ragioni tecniche e ambientali dell’opera, per dire che era giusta e buona, e che la si sarebbe dovuta assolutamente fare pena la rovina della città e della regione. E ora sappiamo che quell’“entrata nel merito” con quella perentoria conclusione, era avvenuta nella più completa ignoranza dei dati fondamentali, dei più elementari fattori di valutazione, per un atto di fede, diciamo così, nei confronti dei governi precedenti e nel valore metafisico dell’opera.
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I 5 Stelle: rassegnatevi, la Tav Torino-Lione non si farà più
«Quando studio dossier come quello della Tav Torino-Lione, non posso che provare rabbia e disgusto per come sono stati sprecati i soldi dei cittadini italiani». Le parole di Danilo Toninelli, ministro delle infrastrutture, suonano come campane a morto per il progetto che ha fatto letteralmente impazzire la valle di Susa, scatenando una protesta che si è conquistata un posto importante nell’agenda politica italiana. Sulla scrivania di Giuseppe Conte, scrive la “Stampa”, ora c’è una relazione che il premier ha letto e riletto, «prima di caricarsi anche pubblicamente una decisione che ormai è presa: la Tav non si farà più». Secondo il quotidiano torinese sarebbe scelta quasi obbligata, per il Movimento 5 Stelle, votato in massa dai NoTav. «Erano l’avanguardia territoriale dei grillini contro le grandi opere», scrive Ilario Lombardo, e ora si sentirebbero traditi dalle voci di un possibile ripensamento sulla maxi-opera più controversa d’Europa. Secondo un sondaggio piovuto sul tavolo dei vertici dei 5 Stelle, aggiunge Lombardo sulla “Stampa”, impegni come l’Ilva, la Tav e il Tap potrebbero costare una buona fetta di consenso. «Così, l’alta velocità Torino-Lione verrebbe sacrificata anche per indorare l’ok al Tap, il gasdotto che dovrebbe adagiarsi sulle spiagge pugliesi che è già costato dolenti ferite alla ministra del Sud, la grillina Barbara Lezzi per le forti contestazioni subite».Anche dalla valle di Susa si è alzata la protesta che ha investito Toninelli, appena ha solo accennato alla volontà di «migliorare» la Tav invece di confermare la rinuncia al tunnel. «Luigi Di Maio non può permettersi di liquidare entrambe le promesse elettorali, figlie di campagne identitarie per i grillini», sostiene Lombardo. Il post in cui tre giorni fa Toninelli annunciava un veto su qualsiasi ulteriore firma «ai fini dell’avanzamento dell’opera» è stato un avvertimento e un primo segnale. Rivolto anche all’alleato di governo, la Lega, che invece è stata una grande sostenitrice della Tav. Conte, aggiunge “La Stampa”, sarebbe ormai pronto ad abbracciare il piano di Di Maio e Toninelli, che ha un obiettivo chiaro: «La chiusura della tratta piemontese dell’alta velocità, nascosto dietro a una dichiarazione di intenti più fumosa che parla di “ridiscutere integralmente l’infrastruttura”, esattamente quello che c’è scritto nel contratto di governo, e che per i grillini può essere interpretato anche in maniera radicale». Lo stesso Toninelli, sul “Blog delle Stelle”, non usa però mezzi termini, riguardo al progetto Torino-Lione: «E’ stato enorme lo sperpero di danaro pubblico per favorire i soliti potentati, certe cricche politico-economiche e persino la criminalità organizzata».Impietosa l’analisi del ministro: la parte internazionale della Torino-Lione in teoria dovrebbe costare 9,6 miliardi (il 40% a carico dell’Ue, il 35% a spese Italia e il 25% della Francia), ma già nel 2007 era emerso che il costo vero arriverebbe a 20 miliardi di euro, o addirittura 26 secondo la Corte dei Conti francese, sulla base delle stime del Tesoro di Parigi aggiornate al 2012. Costi folli, per un’opera giudicata inutile: è infatti ormai semi-deserta la linea Torino-Modane che già collega Italia e Francia attraverso la valle di Susa, nonostante il recente ammodernamento del Traforo del Fréjus, costato 400 milioni. Peggio: nel caso della Torino-Lione sarebbero davvero eccessivi gli oneri gravanti sull’Italia, nonostante il nostro paese sia interessato solo da 12,5 chilometri dell’ipotetico traforo internazionale da scavare per 57,5 chilometri sotto il Moncenisio. «Uno degli aspetti più scandalosi sta proprio lì», sottolinea Toninelli: «I nostri governanti del tempo, stiamo parlando dei primissimi anni Duemila, decisero di accollarsi la parte maggiore delle spese per convincere la Francia, che era giustamente riluttante rispetto alla costruzione dell’opera. Anche perché negli ultimi venti anni lo scambio di merci tra Italia e Francia ha avuto una discesa costante». Da neo-ministro, Toninelli accusa: «Mi son trovato a mettere le mani in un verminaio di sprechi, connivenze corruttive, appalti pilotati, varianti in corso d’opera che hanno fatto esplodere i costi negli anni. E’ difficile raddrizzare la barra, ma dobbiamo farlo. Lo dobbiamo ai nostri concittadini e soprattutto alle generazioni future».Scandalosa la gestione dell’alta velocità ferroviaria in Italia: ci costa in media 28 milioni di euro a chilometro contro i 12 milioni della Spagna, i 13 della Germania e i 15 della Francia. Cifra che sale a 33 milioni di euro a chilometro con le linee in via di costruzione. «E’ per questo che abbiamo avviato una seria revisione progettuale su queste infrastrutture», spiega Toninelli: «Non si può più fare a meno di una rigorosa analisi costi-benefici». Rifarsi al “contratto” di governo, scrive il ministro, pensando soprattutto a Salvini, significa «voler ridiscutere integralmente l’infrastruttura, senza preclusioni ideologiche ma senza subire il ricatto che ci piove in testa e che scaturisce dalle scandalose scelte precedenti». Di qui l’intimazione ai tecnocrati: «Nessuno deve azzardarsi a firmare nulla ai fini dell’avanzamento dell’opera, lo considereremmo come un atto ostile: le opere si fanno se servono ai cittadini, non a chi le costruisce». Il progetto Tav Torino-Lione (tuttora solo cartaceo) è nato da un accordo con la Francia ratificato dal Parlamento. Un’intesa che però, secondo Palazzo Chigi e il ministero dei trasporti, può essere stracciato attraverso una legge e un altro voto alle Camere, sempre che la maggioranza regga e la Lega non si sfili.A oltre 15 anni dal tentativo di avvio del primo cantiere a Venaus, letteralmente fermato dalla protesta popolare, i lavori – sul versante italiano – sono ancora limitati alla sola galleria esplorativa di Chiomonte. Secondo i ministri grillini, scrive la “Stampa”, si tratterebbe semplicemente di restituire i fondi all’Europa (800 milioni di euro) senza penali. «I contatti con i francesi sono continui, ma la parte grillina del governo è decisa ad andare avanti anche a costo di scontri diplomatici con Parigi, con conseguente richiesta di risarcimenti». Il “no” definitivo è previsto per il prossimo autunno, tra ottobre e novembre, quando si concluderà l’analisi costi-benefici, inclusi quelli ambientali. «Ma il destino dell’alta velocità piemontese si incrocia anche con la partita delle nomine in corso in queste ore», aggiunge Lombardo sul quotidiano torinese. «Telt, la società responsabile della realizzazione della Torino-Lione, è per il 50% in mano allo Stato francese e per il restante 50% controllata da Ferrovie, i cui vertici sono stati azzerati da Toninelli l’altro ieri». Tra i valsusini prevale la prudenza: riusciranno davvero, i 5 Stelle, a fermare l’inutile ecomostro che ha finora attratto potentissimi interessi economici, politici e finanziari, al punto da apparire impossibile da fermare?«Quando studio dossier come quello della Tav Torino-Lione, non posso che provare rabbia e disgusto per come sono stati sprecati i soldi dei cittadini italiani». Le parole di Danilo Toninelli, ministro delle infrastrutture, suonano come campane a morto per il progetto che ha fatto letteralmente impazzire la valle di Susa, scatenando una protesta che si è conquistata un posto importante nell’agenda politica italiana. Sulla scrivania di Giuseppe Conte, scrive la “Stampa”, ora c’è una relazione che il premier ha letto e riletto, «prima di caricarsi anche pubblicamente una decisione che ormai è presa: la Tav non si farà più». Secondo il quotidiano torinese sarebbe scelta quasi obbligata, per il Movimento 5 Stelle, votato in massa dai NoTav. «Erano l’avanguardia territoriale dei grillini contro le grandi opere», scrive Ilario Lombardo, e ora si sentirebbero traditi dalle voci di un possibile ripensamento sulla maxi-opera più controversa d’Europa. Secondo un sondaggio piovuto sul tavolo dei vertici dei 5 Stelle, aggiunge Lombardo sulla “Stampa”, impegni come l’Ilva, la Tav e il Tap potrebbero costare una buona fetta di consenso. «Così, l’alta velocità Torino-Lione verrebbe sacrificata anche per indorare l’ok al Tap, il gasdotto che dovrebbe adagiarsi sulle spiagge pugliesi che è già costato dolenti ferite alla ministra del Sud, la grillina Barbara Lezzi per le forti contestazioni subite».
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Brucio, dunque esisto. Muoia la valle di Susa, Italia minore
Duemila ettari in fiamme, case distrutte, centinaia di persone evacuate. E la gigantesca nube di fumo che invade le strade di Torino, la città che “riscopre” la sua minacciosa contiguità geografica con la valle di Susa, il territorio considerato ostile perché da vent’anni in rivolta contro la grande opera più inutile d’Europa, la linea Tav Torino-Lione. Un caso più unico che raro: l’agenda politica ha deciso semplicemente di non occuparsene, ignorando tutti gli allarmi, incluso l’appello rivolto alle massime autorità dello Stato da 360 tecnici, esperti e docenti universitari. Maxi-opera desolatamente inutile, doppione perfetto della linea internazionale già esistente, la Torino-Modane, che attraversa la valle e raggiunge la Francia attraverso il traforo del Fréjus, appena riammodernato (400 milioni di euro) in modo da poter caricare, sui treni in transito, anche i grandi container “navali”. Il problema? Le merci sono sparite: la rotta nord-ovest è ormai un binario morto, senza treni. Per l’autorità elvetica incaricata da Bruxelles di monitorare i trasporti alpini, la valle di Susa potrebbe quasi decuplicare il traffico sulla linea attuale. Ma invece di prenderne atto, si va avanti coi lavori per la linea-bis: un fiume di miliardi, e di devastazioni. Prima vittima, l’acqua: cioè il bene più prezioso, specie quando la montagna brucia.I padrini politici della Torino-Lione, prontamente definiti “sciacalli” dai NoTav, nei giorni del grande fuoco si sono subito fatti avanti, offrendo soldi come compensazione per i danni degli incendi. «No, grazie», rispondono i sindaci. «La prevenzione dagli incendi, come dalle alluvioni e dal dissesto geologico – scrive Sandro Plano, di Susa – dev’essere affrontata con specifici capitoli di spesa, indipendenti dal discorso relativo alla nuova linea ferroviaria». Vale per lo sviluppo economico, dalle strade alle infrastrutture culturali come i teatri: «Tutto ciò che nel resto d’Italia è definito “contributo pubblico”, qui è definito “compensazione”». In realtà, sottolinea Claudio Giorno, storico esponente del movimento NoTav, sarebbe incalcolabile il costo della compensazione per la valle di Susa, storicamente sacrificata sull’altare delle grandi opere che l’hanno sventrata, impoverita e anche prosciugata, alterandone l’habitat e il clima: e così oggi bastano tre mesi senza pioggia per innescare una catastrofe. «Di telecamere siamo invasi – scrive, sul suo blog – ma per inquadrare noi, la nostra ribellione contro chi, prima che qualcuno desse fuoco ai boschi, ha bucato per decenni le nostre montagne, i recipienti millenari di acqua potabile e di quella di fossi e torrenti che oggi sarebbe stata preziosa per difendere le case, oltre le piante».Milioni di metri cubi persi per sempre con la realizzazione – oltre mezzo secolo fa – della prima centrale idroelettrica in caverna, a Venaus, da parte dell’Enel e dei francesi di Edf, «che non appena appropriatisi del Moncenisio nel 1947 – come ritorsione per la guerra persa dall’Italia del Duce – vi hanno costruito una della più imponenti dighe d’alta quota d’Europa, decapitando una montagna trasformata in cava di inerti». Un tempo la traversata del verdissimo valico del Moncenisio era chiamata “la Carrier du Paradis”, ma forse oggi «dovrebbe essere rinominata “dell’inferno”», perché la “grande muraglia” della maxi-diga per il bacino dal quale oggi pescano l’acqua i Canadair è stata «la “nonna” di tutte le grandi opere in val di Susa». Un’inarrestabile brama di territorio e di acqua, fino al più recente, gigantesco impianto dell’Iren che, per alimentare Torino, ha svuotato la Dora Riparia da Oulx a Susa, riducendo il fiume a un rigagnolo. «Una follia costruire una diga alle spalle del centro di Susa tra versanti franosi, c’è il rischio-Vajont», disse inutilmente l’ingegner Floriano Villa, allora presidente dell’ordine dei geologi. Detto fatto: oggi quella diga incombe sull’abitato, ricordando ai valsusini che, da quelle parti, le decisioni del potere sembrano sempre surreali e imposte dall’alto, come nel feudalesimo.Il grande impianto “in caverna”, ricorda Claudio Giorno, ha mezzo disseccato anche il principale tributario della Dora, il torrente Cenischia, trasformando il paesaggio in un deserto asciutto, facile preda degli incendi, lungo un versante «che era già stato impoverito dagli anni ‘70 con lo scavo delle gallerie per il raddoppio delle ferrovia», e poi ancora fino agli anni ‘90 dallo scavo degli innumerevoli tunnel dell’autostrada del Fréjus, la A32. A quest’emorragia ora si aggiunge la mini-galleria di Chiomonte, teatro di aspre “battaglie” tra polizia e NoTav. Lungo 7 chilometri, quel “cunicolo” esplorativo «di acqua ne ha dispersa e avvelenata in modo sproporzionato», scrive Giorno, ricordando che nella peggiore delle ipotesi – l’eventuale tunnel Tav vero e proprio, lungo 57 chilometri – sarebbe impressionante (a detta degli stessi progettisti) la dispersione di acqua, «pari al fabbisogno di una città di un milione di abitanti». Intanto sono già centinaia le sorgenti disseccate: lo rivela uno studio del naturalista Paolo Ferrero, «che mostra la evidente interrelazione tra il loro disseccamento e il progredire dei cantieri delle grandi opere», attraverso delle slide «comprensibili persino da un politico di professione».L’Italia dell’euro-crisi avrebbe un disperato bisogno di opere pubbliche utili, per rilanciare l’economia, e invece continua a gettare soldi nel pozzo senza fondo di una maxi-opera completamente inutile e dannosa, pericolosa per l’ambiente, devastante sul piano della vivibilità urbanistica e addirittura letale sotto l’aspetto idrogeologico. Se mai quella sciagurata linea Tav si facesse davvero, scrive Luca Rastello di “Repubblica” nel saggio “Binario Morto”, la ferrovia dovrebbe bypassare Torino per allacciarsi alla rete nazionale Tav correndo in galleria a 30 metri di profondità, tagliando la falda idropotabile che alimenta la metropoli. Ma nulla sembra poter arrestare il sistema-Italia delle grandi opere inutili: la rete Tav è stata realizzata con largo impiego di aziende della mafia e della camorra, dice Ferdinando Imposimato, magistrato di lungo corso. Le grandi opere – spiega lo scrittore Massimo Carlotto – sono una macchina perfetta per riciclare denaro sporco: lo sa la mafia ma lo sanno anche le banche, in cui i soldi vengono depositati, e lo sanno i politici collegati alle banche.Il potere torinese della filiera Tav non trova di meglio che offrire soldi alla valle di Susa in fiamme, mentre l’Italia affonda nella crisi? Non un partito che s’impunti sulla scandalosa follia della Torino-Lione. «Se ne sento ancora parlare – si permise di scrivere il grande Giorgio Bocca – tiro fuori il mio vecchio Thompson dal pozzo in cui l’avevo gettato nell’aprile del ‘45». Era il 2005, e lo scandalo era solo all’inizio. Sei anni dopo, si spinse in valle di Susa l’anziano Guido Ceronetti: visitò i cantieri, vide lo scempio di Chiomonte. Scrisse un memorabile reportage per “La Stampa” e, la sera, tenne una lettura di poesie, a Bussoleno, per i NoTav. In pagine altrettanto memorabili, Ceronetti ha svelato cosa c’è nella testa di un piromane: non solo l’isitinto perverso per la distruzione e l’inconfessabile piacere sadico di fronte all’estetica dell’apocalisse. C’è anche il senso del sacrilegio, della profanazione, dato che i boschi – dagli albori dell’umanità – sono sempre stati ritenuti sacri, vera e propria dimora degli déi. Ma se il piromane è una specie di psicopatico isolato, che dire di una politica specializzata in devastazioni su larga scala, freddamente progettate a dispetto di chiunque ne contesti il senso, la pericolosità e l’inevitabile eredità di morte?Duemila ettari in fiamme, case distrutte, centinaia di persone evacuate. E la gigantesca nube di fumo che invade le strade di Torino, la città che “riscopre” la sua minacciosa contiguità geografica con la valle di Susa, il territorio considerato ostile perché da vent’anni in rivolta contro la grande opera più inutile d’Europa, la linea Tav Torino-Lione. Un caso più unico che raro: l’agenda politica ha deciso semplicemente di non occuparsene, ignorando tutti gli allarmi, incluso l’appello rivolto alle massime autorità dello Stato da 360 tecnici, esperti e docenti universitari. Maxi-opera desolatamente inutile, doppione perfetto della linea internazionale già esistente, la Torino-Modane, che attraversa la valle e raggiunge la Francia attraverso il traforo del Fréjus, appena riammodernato (400 milioni di euro) in modo da poter caricare, sui treni in transito, anche i grandi container “navali”. Il problema? Le merci sono sparite: la rotta nord-ovest è ormai un binario morto, senza treni. Per l’autorità elvetica incaricata da Bruxelles di monitorare i trasporti alpini, la valle di Susa potrebbe quasi decuplicare il traffico sulla linea attuale. Ma invece di prenderne atto, si va avanti coi lavori per la linea-bis: un fiume di miliardi, e di devastazioni. Prima vittima, l’acqua: cioè il bene più prezioso, specie quando la montagna brucia.
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Dunque la valle di Susa esiste, se il suo fumo soffoca Torino
Irritata dal puzzo del fumo degli incendi, Torino si è accorta che esiste la valle di Susa – o meglio, che la valle di Susa non è fatta solo di piste di sci e non finisce nel ristretto perimetro del grazioso giardino della seconda casa, in montagna, tra i fiori e gli abeti. Se n’è accorta a fine 2017, Torino, dell’esistenza della valle di Susa, e lo ha fatto grazie (per così dire) alla mano criminale dei piromani che hanno dato alle fiamme oltre mille ettari di foresta, sfruttando i venti furosi che storicamente flagellano la vallata, noti a tutti tranne che ai redattori del progetto Tav Torino-Lione, che non menziona il pericolo del vento come fonte inquinante nel momento in cui si stoccassero migliaia di tonnellate di terra di scavo, piena di roccia amiantifera. Torino, stranamente, passa per essere una città ben amministrata, benché sia governata da trent’anni da un unico blocco di potere, simile a quello delle “democrature” ex sovietiche. Vanta un record negativo nell’efficienza della raccolta differenziata: preferisce incenerire i rifiuti e poi bloccare la circolazione delle auto, quando schizzano alle stelle i valori tossici dell’aria, la più inquinata d’Italia. Se l’incendio della val Susa è l’eccezione, la velenosità dell’atmosfera torinese è la regola, così come la sordità della capitale Fiat di fronte all’allarme inutilmente lanciato dai valsusini.Nel saggio “Binario morto”, il giornalista Luca Rastello – citando un alto funzionario pubblico piemontese – spiega che l’eventuale nuova linea ferroviaria italo-francese, cioè il doppione perfettamente inutile dell’attuale Torino-Modane che già attraversa la valle di Susa valicando le Alpi al traforo del Fréjus, non potrebbe bypassare Torino collegandosi alla rete Tav nazionale «se non attraverso un colpo di Stato». Il guaio? Se la nuova ferrovia si aprisse la strada in superficie dovrebbe sbancare interi quartieri periferici. Resterebbe il sottosuolo, il tracciato in galleria a 30 metri di profondità, ma taglierebbe fatalmente la falda idropotabile che rifornisce d’acqua oltre un milione di persone, fra Torino e hinterland. Persone che, peraltro, finora non si sono poste il problema: la stragrande maggioranza dei torinesi – a differenza degli abitanti di tante altre città italiane – ha finora guardato con fredda diffidenza alle esasperate proteste dei valsusini. Tuttora, se venisse svolto un normalissimo sondaggio, emergerebbe che il torinese medio non ha la più pallida idea del colossale bluff rappresentato dalla Torino-Lione, la grande opera più inutile d’Europa, preziosissima solo per la filiera di interessi collegata alla sua realizzazione: interessi politici, bancari e malavitosi.Probabilmente non ricorda, il torinese medio, di quando – a metà degli anni ‘90 – la valle di Susa fu colpita da una decina di strani attentati dinamitardi, firmati “Lupi Grigi” e rimasti senza colpevoli, per i quali furono inizialmente arrestati tre giovani anarchici, di cui due – Soledad Rosas e Edoardo Massari, “Sole e Baleno” – morti durante la detenzione, trovati impiccati a un asciugamano. Probabilmente non ricorda, la maggior parte dei torinesi, che appena prima, in quegli anni, la Procura della Repubblica aveva sequestrato pistole in un’armeria, a Susa, finite a una cosca della ‘ndrangheta grazie alla falsificazione dei registri, controfirmati dall’autorità di polizia. Un’indagine inquietante, dalla quale era emersa l’ombra dei servizi segreti, Sisde e Sismi. In compenso, la città di Torino ha immancabilmente espresso fastidio e irritazione di fronte alle proteste ormai ventennali degli abitanti della valle di Susa, spediti all’ospedale – già nel dicembre 2005 – dai reparti antisommossa mandati a sgomberare i prati di Venaus occupati da famiglie alle prese con un sit-in permanente. Torino è passata dal sindaco Castellani a Chiamparino, da Fassino alla Appendino, con marmorea imperturbabilità sabauda. I torinesi vivono in una città che somiglia sempre di più a una camera a gas, ma non fiatano. E si ricordano dei valsusini solo se il fumo della valle li costringere a sprangare le finestre, turbando il loro beato sonno.Irritata dal puzzo del fumo degli incendi, Torino si è accorta che la valle di Susa esiste – o meglio, che non è fatta solo di piste di sci e non finisce nel ristretto perimetro del grazioso giardino della seconda casa, in montagna, tra i fiori e gli abeti. Se n’è accorta a fine 2017, Torino, dell’esistenza della valle di Susa, e lo ha fatto grazie (per così dire) alla mano criminale dei piromani che hanno dato alle fiamme oltre mille ettari di foresta, sfruttando i venti furosi che storicamente flagellano la vallata, noti a tutti tranne che ai redattori del progetto Tav Torino-Lione, che non menziona il pericolo del vento come fonte inquinante nel momento in cui si stoccassero migliaia di tonnellate di terra di scavo, piena di roccia amiantifera. Torino, stranamente, passa per essere una città ben amministrata, benché governata per decenni da un unico blocco di potere, simile a quello delle “democrature” ex sovietiche. Vanta un record negativo nell’efficienza della raccolta differenziata: preferisce incenerire i rifiuti e poi bloccare la circolazione delle auto, quando schizzano alle stelle i valori tossici dell’aria, la più inquinata d’Italia. Se l’incendio della val Susa è l’eccezione, la velenosità dell’atmosfera torinese è la regola, così come la sordità della capitale Fiat di fronte all’allarme inutilmente lanciato dai valsusini.
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Gaglianone, film: val Susa, la strana guerra contro tutti noi
Non possiamo non dirci NoTav? E’ la domanda che aleggia attorno all’indagine cinematografica che Daniele Gaglianone conduce in valle di Susa, tra la popolazione che da oltre vent’anni si oppone al progetto di una grande opera come la Torino-Lione, considerata devastante, costosissima e completamente inutile. In due ore, il regista de “I nostri anni”, “Ruggine” e “Rata Nece Biti” interroga l’umanità della “valle che resiste” – ieri al progetto Tav in quanto tale, oggi anche e soprattutto al sistema di potere, percepito come oligarchico e repressivo, post-democratico, che vorrebbe imporre ad ogni costo i maxi-cantieri, ai quali ormai persino l’Ue e la Francia sembrano aver voltato le spalle. Nel documentario “Qui” (Torino Film Festival 2014), emergono le voci di un popolo, fatto di italiani che si sentono abbandonati e traditi dalle istituzioni politiche, dopo anni di vani appelli al dialogo, sempre respinti. In controluce, una tacita rivelazione: siamo ormai in tempo di guerra, e i primi a scoprirlo sono stati proprio loro, i NoTav della valle di Susa.Travolti dal loro problema – il conflitto fisiologico tra grande opera e benessere del territorio – si sono comportati da cittadini democratici, appellandosi ai diritti previsti dalla Costituzione. Tutto inutile: sono convinti che il potere non abbia lasciato loro altra scelta che vedersela coi reparti della polizia antisommossa. La vertenza NoTav ha origini ormai lontane anni luce dall’attualità odierna, risale infatti a prima del Duemila. Nel documentario di Gaglianone, il primo grande scontro – quello del 2005 – è rievocato dal sindaco di Venaus, Nilo Durbiano, che fece suonare le campane a distesa per far accorrere la popolazione a sostegno degli inermi manifestanti, manganellati a freddo in piena notte. La rottura istituzionale è già perfettamente leggibile: Durbiano racconta di come, in quanto primo cittadino, fu convocato alle tre di notte alla Prefettura di Torino. Un colloquio gelido, evidentemente per sondare il sindaco alla vigilia del pestaggio destinato a sgomberare i NoTav dall’area di Venaus, dove allora doveva sorgere il cantiere della galleria preliminare esplorativa, oggi trasferito a Chiomonte.Assenza di dialogo: come se fosse già in corso una sorta di guerra, non dichiarata, contro la popolazione. L’unico precedente, all’epoca, era stato il trauma del G8 di Genova, la Diaz e Bolzaneto, che stroncò il movimento no-global, di cui le multinazionali globaliste avevano paura. Subito dopo, l’infarto mondiale dell’11 Settembre e la “guerra infinita” da esso originata: Afghanistan, Iraq, Gaza, Libia, Siria, Ucraina. E poi ancora Iraq, seguendo le eroiche imprese dell’Isis guidato dal “califfo” Al-Baghdadi. Un avventuriero che, secondo varie fonti – ultimo, il massone Gioele Magaldi col suo libro sulle super-logge del potere occulto – fu liberato proprio perché mettesse in piedi l’armata jihadista. Quanto è lontana la valle di Susa dalle “armi chimiche” siriane e dalla manipolazione dello spread per imporre Monti a Palazzo Chigi? Molto meno di quanto si pensi, stando ai resoconti disarmati degli interlocutori di Gaglianone, praticamente smarriti di fronte alla dissoluzione di ogni solido punto di riferimento: la solitudine siderale del cittadino trova parziale conforto solo nella democrazia spontanea che la stessa cittadinanza alimenta, sotto forma di movimento civile.Servono risposte, e non arrivano mai. Così, dopo un po’ ci si arrende all’evidenza. Magari pregando, come fanno gli attivisti cattolici, il gruppo di Gabriella Tittonel che accompagna la troupe lungo i reticolati di Chiomonte, filo spinato di fabbricazione israeliana. O cercando di dialogare coi reparti antisommossa, come fa l’infermiera Cinzia Dalle Pezze, esasperata dall’abuso di lacrimogeni e gas tossici. Il documentario propone la voce di antagonisti come Aurelio Loprevite di “Radio Blackout”, in diretta telefonica con Luca Abbà quando l’attivista precipitò dal traliccio sul quale si era arrampicato per protesta, e militanti dal passato sorprendente come Alessandro Lupi, carabiniere in congedo e convinto NoTav, gravemente ferito al volto da un lacrimogeno. La telecamera raccoglie parole e silenzi di persone finite in carcere, pensionati decisi ad ammanettarsi alle recinzioni militarizzate, famiglie disposte a tutto per difendere la loro casa, minacciata dalla nuova arteria ferroviaria.Sullo sfondo, i fantasmi di ogni realizzazione faraonica – devastazione ambientale, crisi idrogeologica, dissesto urbanistico, impatto insostenibile dei cantieri, rischi concreti per la salute e l’incolumità della popolazione – e in più, in questo caso, la sordità autistica ed esasperante dell’élite di potere di fronte alle più argomentate osservazioni tecniche, sciorinate dai migliori esperti dell’università italiana: la linea Tav Torino-Lione non è solo l’ennesimo attentato alle dissanguate finanze pubbliche del paese, non è solo l’ennesimo invito a nozze per l’imprenditorialità mafiosa, ma è anche e soprattutto uno spreco totalmente folle, visto che l’attuale linea ferroviaria internazionale che già attraversa la valle di Susa è praticamente deserta. Nonostante il recente e costoso ammodernamento del traforo del Fréjus, non esiste più traffico merci tra Italia e Francia: secondo l’osservatorio europeo per i trasporti alpini, affidato alla Svizzera, l’attuale linea valsusina italo-francese potrebbe tranquillamente incrementare del 900% il volume dei transiti. Perché allora incancrenire lo scontro sociale rincorrendo il miraggio di un super-treno miliardario da imporre a mano armata?Perché non siamo più in tempo di pace, e da parecchi anni, sembrano suggerire i valsusini ascoltati da Gaglianone, i primi a constatare sulla loro pelle l’avvento del cambio d’epoca: loro erano già sulle barricate molto prima di Occupy Wall Street, prima degli “attentati” all’articolo 18, prima della guerra di Marchionne contro la Fiom. Erano in campo, i cittadini italiani della valle di Susa, ben prima della riforma Fornero, o delle recenti “rivelazioni” di Geithner sul “golpe dello spread”. La Merkel, Draghi, la “dittatura bancaria” dell’euro, la privatizzazione globale. E poi il Ttip, le torture inflitte alla Grecia, la teologia disonesta dell’austerity, la fine del welfare europeo. Ormai il capolinea lo vedono tutti: l’abisso precario della disoccupazione, la sparizione del futuro. Loro, i valsusini, l’hanno avvistato in anticipo. Se c’è una parola che può riassumerli tutti, probabilmente questa parola è “democrazia”. Se ne avverte la dolorosa assenza, la nostalgia. «Se qualcuno mi parla ancora di Tav», scrisse Giorgio Bocca all’indomani dell’insurrezione popolare della valle del 2005, «tiro fuori il mio vecchio Thompson dal pozzo in cui l’avevo seppellito nel ‘45».Vedeva lungo, il giornalista-partigiano. E oggi, la causa NoTav vanta autorevolissimi sostenitori, nel mondo culturale italiano: ormai le istanze democratiche della popolazione hanno trovato piena cittadinanza, nell’Italia tramortita dalla cosiddetta crisi. Malgrado il costante depistaggio dalla disinformazione “mainstream”, ognuno percepisce la minaccia concreta di un declino che pare inesorabile. Finalmente, con Gaglianone, protagonisti e testimoni della remota trincea valsusina ora affiorano in superficie, mostrando le loro voci e i loro volti, in una quotidianità che si sforza di restare ordinaria, benché terremotata dagli eventi. E’ un’umanità che si esprime con gesti semplici e rivela una natura mite, costretta a misurarsi con la violenza dell’imposizione, nel vuoto cosmico della politica. Anni fa, espressioni come “destra” e “sinistra” avevano ancora maschere rappresentative. Puro teatro, ormai, come sperimentato nella valle alpina che unisce Torino alla Francia. Dove però la grande calamità collettiva ha cementato una comunità plurale, di italiani che resistono e sperano. E che, nel film di Gaglianone, parlano una lingua immediatamente riconoscibile e universale.(Il film: “Qui”, di Daniele Gaglianone, Italia 2014, 120′, prodotto da Gianluca Arcopinto e Domenico Procacci – produzione “Axelotil Film”, “Fandango”, in collaborazione con Babydoc Film – distribuito da “Pablo”).Non possiamo non dirci NoTav? E’ la domanda che aleggia attorno all’indagine cinematografica che Daniele Gaglianone conduce in valle di Susa, tra la popolazione che da oltre vent’anni si oppone al progetto di una grande opera come la Torino-Lione, considerata devastante, costosissima e completamente inutile. In due ore, il regista de “I nostri anni”, “Ruggine” e “Rata Nece Biti” interroga l’umanità della “valle che resiste” – ieri al progetto Tav in quanto tale, oggi anche e soprattutto al sistema di potere, percepito come oligarchico e repressivo, post-democratico, che vorrebbe imporre ad ogni costo i maxi-cantieri, ai quali ormai persino l’Ue e la Francia sembrano aver voltato le spalle. Nel documentario “Qui” (Torino Film Festival 2014), emergono le voci di un popolo, fatto di italiani che si sentono abbandonati e traditi dalle istituzioni politiche, dopo anni di vani appelli al dialogo, sempre respinti. In controluce, una tacita rivelazione: siamo ormai in tempo di guerra, e i primi a scoprirlo sono stati proprio loro, i NoTav della valle di Susa.
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Caro Michele Serra, non sono i No-Tav i ladri del 25 Aprile
Eternamente sdraiato sulla sua amaca, Micheleserra dedica (anche) al movimento No Tav un passo della sua personale invettiva contro la consueta celebrazione “partigiana” (di parte) della festa della Liberazione. Sul giornale di famiglia (Debenedetti) di oggi 26 aprile – sabato italiano – cita con fastidio «i vivaci movimenti che valutano di essere “i veri partigiani”, a volte rubando la scena ai reduci sempre più vecchi, sempre più fragili e sempre meno numerosi di quella guerra giusta e vittoriosa». La sua prosa prosegue con la più evergreen delle citazioni giornalistiche: la collocazione “in cortile” di tutti i temi “estranei” che sono stati portati nelle manifestazioni di Torino (No Tav), Palermo (No Muos) e Milano (No Canal). Un evidente, implicito indulgere nella celebrazione retorica cara al suo partito di riferimento, che cambia continuamente nome ma conserva pervicacemente il vizio di ritenersi unico autentico depositario della Verità su Democrazia, Costituzione e Resistenza.Una verità consolidata quanto comoda, secondo cui l’ultima fu una unificante e corale lotta di un intero popolo contro un manipolo di feroci ma minoritari fascisti rimasti fedeli agli “invasori” nazisti, quindi in quanto tali alieni… Serra non è notoriamente un frequentatore del nostro “cortile”. Se lo invitassimo ad una delle nostre serate non verrebbe di sicuro, per timore di restar contagiato dal virus incurabile che ha aggredito Erri De Luca. Ma è un peccato (per lui, s’intende): intanto perché, restando appollaiato nella sua Milanodabere (& prossimamente da mangiare, grazie all’Expo) non può ritenersi al riparo dalla propagazione di una epidemia che ha dimostrato di poter colpire a distanza come è successo – ad esempio – al suo “ex collega” Stefano Benni. Ma soprattutto perché, se avesse frequentato anche solo i “nostri” tre giorni a cavallo del sessantanovesimo anniversario della Liberazione, avrebbe faticato a trovare un rassicurante confine all’invasività (benefica) del nostro cortile: cimentarsi in un elenco è quanto di più temerario perché si rischia di riempire pagine senza garantirsi di non incorrere in gravi dimenticanze.Provo allora con alcuni esempi di iniziative particolarmente significative, anche per il forte valore simbolico che hanno avuto, suggerendo al famoso corsivista erede di Fortebraccio alcuni spunti che avrebbe potuto trarne, perché la sua vena non abbia prima o poi ad esaurirsi (con irreparibili conseguenze, visto l’impegnativo modo che ha scelto per guadagnarsi il pane): fosse stato a Bussoleno – alla Libreria del Sole – il pomeriggio del 24 avrebbe potuto ascoltare una antagonista NoTav come Ermelinda Varrese leggere alcune pagine del diario partigiano di Ada Gobetti.Una lettura attenta e sensibile nel sottolinearne l’umanità e la tolleranza che fecero di lei (che fu forse l’unica o una delle poche donne congedata con il grado di maggiore dell’esercito) un raro esempio di chi ha praticato come metodo la disponibilità a capire le ragioni degli altri, anche nei terribili frangenti di una guerra civile! E Gigi Richetto spiegare la contraddizione solo apparente della ostinazione del marito – Piero Gobetti – nel collocare nella rivoluzione liberale di Benedetto Croce e Luigi Einaudi il ruolo della classe operaia di Antonio Gramsci! E il racconto lucido, “didattico” di Ugo Berga, classe 1922, partigiano combattente e commissario politico della 106^ Brigata Garibaldi, che – senza ombra di retorica, né di “appartenenza” – ha spiegato il percorso coerente che portò Ada ad aderire alle formazioni di “Giustizia e Libertà” e la sua capacità di fare causa comune coi “comunisti” sulle nostre montagne.Le nostre montagne luogo di confine come le acque che circondano Lampedusa cantate da Giacomo Sferlazzo a Venaus in una continuità ideale con la “filiazione” sul tema migranti che il Valsusa Film Fest – alla sua diciottesima edizione – ha voluto con l’isola più distante dal nostro profondo nordovest, promuovendovi qualche anno fa una rassegna che ormai cammina sulle sue gambe. Un “favore” che i lampedusani hanno voluto quest’anno “restituire” offrendoci il loro apprezzato concerto; e non in una serata qualsiasi, ma al termine della ormai tradizionale fiaccolata in memoria della Resistenza dei sindaci e dei cittadini di valle che Piera Favro, sindaco di Mompantero, Nilo Durbiano, primo cittadino di Venaus e Sandro Plano, presidente di una Comunità Montana sciolta dall’uomo dalle mutande verdi, ma più unita che mai, hanno chiuso con un saluto a quattro ragazzi che – in attesa che le gravissime accuse a loro carico vengano provate – stanno scontando mesi di carcere duro e preventivo.Le nostre montagne avvolte da nuvole cariche di pioggia anche nel pomeriggio della ricorrenza, quando le mura che delimitano il cortile in cui Serra ci vorrebbe reclusi sono del tutto svanite per accogliere due alberelli spediti sin qui – il primo a Susa e il secondo a Venaus – rispettivamente da Hiroshima e Nagasaki. Due “esseri viventi” sopravvissuti all’olocausto nucleare “alleato” che Elso, uno dei partigiani che il brillante editorialista (del giornale fondato dell’ex guf Scalfari) descrive – forse perché non li frequenta – come sempre più vecchi, sempre più fragili e sempre meno numerosi, ricorda non essere ancora stato “giustificato” neppure su un piano strettamente militare. E lo fa di fronte agli scolari di Venaus che si sono fatti carico di accudire la pianticella di kaki: il “dono”, come spiega con etimologia virtuosa il loro maestro Paolo Bertini, venuto da tanto lontano e non solo per regalarci i suoi frutti dorati – quando sarà divenuto un albero robusto a dispetto della morte totale da cui fu circondato il suo “progenitore”.Un albero che Tiziana Volta, pacifista bresciana, ha ormai diffuso in tanti luoghi-simbolo del nostro paese e il cui percorso verso la Valle di Susa, come ha ricordato, è iniziato timidamente e in punta di piedi oltre due anni fa. Una pianta cui farà compagnia una scultura di Daniela Baldo. Un “fiore dell’acqua” realizzato non per caso in legno – un antico trave proveniente dal tetto di una vecchia casa – che è stato scolpito e decorato con la collaborazione degli stessi scolari. Un venticinque aprile che si è chiuso idealmente il giorno dopo a Villar Focchiardo con la consegna, alle madri-coraggio della Terra dei Fuochi, del premio intitolato al partigiano Bruno Carli, primo orgoglioso presidente del Valsusa Film Fest, voluto proprio per collegare memoria storica e difesa della terra. Con buona pace del Serra “distante” che – dolcemente cullato dal dondolio della sua amaca – pare non essersi accorto di chi della Resistenza ha fatto e fa continuamente un uso ben più spregiudicato di quello che lui addebita ai “movimenti: quello di chi, per esempio, dopo averci costruito una carriera politica “ricca” e longeva è arrivato, quest’anno, quasi a paragonarne gli eroi rimasti uccisi e a cui dobbiamo la libertà, a due uccisori che – arruolati in difesa di una nave mercantile – hanno scambiato pescatori per pirati al largo delle coste di un oceano ben lontano dal “mare nostrum”.Forse per collocarsi nel solco inaugurato da un suo – sin qui – mancato delfino (il più fedele dei suoi “saggi”) che fu capace di inventarsi, disinteressatamente in pieno ventennio berlusconiano, una pari dignità tra i morti partigiani e quelli repubblichini. Né pare essersi indignato, il graffiante opinionista, per “l’uscita” del prefetto di Pordenone che ha ritenuto, prima di una retromarcia quasi più indecorosa del suo stesso editto, cagionevole per l’ordine pubblico e la sicurezza che si intonasse “Bella ciao” durante la manifestazione in ricordo della Resistenza! Perché la resistenza, caro Serra, è stata e resta sanamente divisiva. L’unità è una necessità, ma non è detto che sia una virtù. Perlomeno fin tanto che chi stette dalla parte sbagliata non ha l’onestà e la dignità di ammetterlo. Ma forse i grandi giornali non sono il luogo migliore per farsene una ragione. Perché sono luoghi molto più angusti del più piccolo dei cortili.(Claudio Giorno, “(25) aprile, dolce dormire”, dal blog di Giorno del 26 aprile 2014).Eternamente sdraiato sulla sua amaca, Micheleserra dedica (anche) al movimento No Tav un passo della sua personale invettiva contro la consueta celebrazione “partigiana” (di parte) della festa della Liberazione. Sul giornale di famiglia (Debenedetti) di oggi 26 aprile – sabato italiano – cita con fastidio «i vivaci movimenti che valutano di essere “i veri partigiani”, a volte rubando la scena ai reduci sempre più vecchi, sempre più fragili e sempre meno numerosi di quella guerra giusta e vittoriosa». La sua prosa prosegue con la più evergreen delle citazioni giornalistiche: la collocazione “in cortile” di tutti i temi “estranei” che sono stati portati nelle manifestazioni di Torino (No Tav), Palermo (No Muos) e Milano (No Canal). Un evidente, implicito indulgere nella celebrazione retorica cara al suo partito di riferimento, che cambia continuamente nome ma conserva pervicacemente il vizio di ritenersi unico autentico depositario della Verità su Democrazia, Costituzione e Resistenza.
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Giunti e Teghille: ma il mostro eversivo si chiama Tav
Il Procuratore della Repubblica di Torino interviene sulla manifestazione di sabato 19 a Roma, spiegando che se una marcia pacifica si può fare a Roma allora in val Susa si possono e si devono isolare i violenti. Con il massimo rispetto per la sua figura e la sua storia, proviamo a esprimere qualche riflessione, perché da molti anni sentiamo ripetere questo ritornello. Giornalisti e politici, anche sensibili alle ragioni della protesta, spesso ci spiegano quali danni porterebbe alla causa non espellere le mele marce. Noi, stolidi montanari, continuiamo a non capire. In realtà anche a Roma qualche scontro si è verificato, certamente non come due anni fa, sempre in ottobre, quando un analogo corteo ha avuto tutt’altro esito, né come – ricordiamo tutti – a Napoli e ancor più a Genova nel 2001. In quelle situazioni, anche sabato scorso, i filmati mostrano che curiosamente la polizia fa agire i violenti per poi accanirsi con i più tranquilli. In qualche caso si vedono agenti in borghese confondersi con i manifestanti o con i giornalisti. La storia del nostro Paese ci ha fatto conoscere anche le figure dei provocatori e degli infiltrati. Non c’è ragione per credere che gli antitav siano riusciti a restarne immuni.Non è la popolazione della valle di Susa che, alimentando simpatie antagoniste, ha promosso il progetto Torino-Lione e l’apertura del cantiere di Chiomonte. Sono questi che, per la loro insostenibilità e protervia, hanno richiamato l’antagonismo, in maniera quasi turistica. D’altronde, se qualcuno ritiene – a torto – che possa scoppiare una rivoluzione, sarà inesorabilmente attratto dove sussistono forti tensioni sociali e ambientali. Non andrà certo a Montecarlo o in Costa Smeralda! La gran parte delle iniziative condotte in vent’anni contro la Torino-Lione sono azioni pacifiche e culturali. A cominciare dalle manifestazioni, che continuano a radunare migliaia di persone in marcia a volto scoperto, per arrivare alle assemblee, alle serate informative, alle feste e agli spettacoli, a decine di conferenze di ospiti interessanti e competenti. Focalizzarsi sugli episodi violenti e sui sabotaggi è facile e strumentale ma non rende onore alla verità e al lungo cammino percorso da questo movimento.L’opposizione NoTav non è un partito o un’istituzione. Non ha un segretario politico né un presidente. E’ fatta da centinaia di persone con sensibilità diverse, anche distanti, che si ritrovano concordi nel denunciare un sistema perverso di potere, di opere, lavoro ed economia deviati, che non deve più trovare albergo nel nostro paese. Quindi non esiste nessuno che possa, in nome di tutti gli altri, prendere le distanze da qualcosa o espellere qualcuno. Al suo interno sono presenti anche moltissimi amministratori pubblici, sindaci in testa. Sempre, sempre, hanno condannato e rigettato – senza balbettare – ogni violenza, a cominciare proprio dagli eccessi nelle manifestazioni. Negare il fatto non lo cancella. Hanno anche ricordato, però, che i violenti sono molti. Persino lo Stato può esserlo, se prima impone un’opera, poi la camuffa come condivisa e infine la difende con i militari. Persino le forze dell’ordine e la Magistratura possono eccedere, non solo quando usano la forza fisica oltre il necessario, ma anche quando indagano con visioni preconcette e in una sola direzione. Persino i massmedia, se sono ossequiosi con lo sloganeggiante notabile di turno o se ignorano gli appelli alle istituzioni, i dati tecnici, la pochezza dei progetti, i dubbi espressi in altri Stati, possono fare violenza.La politica nazionale pare sappia rispondere soltanto con arroganza e con sotterfugi. L’ultimo esempio si trova nella legge sul femminicidio, che assimila i cantieri a caserme e allarga il perimetro dell’art. 260 del codice penale. Tratta di spionaggio e usa termini come stato in guerra, efficienza bellica, operazioni militari. Addirittura, in caso di conflitto, contemplava la pena di morte! Oppure si può analizzare la ratifica dell’ultimo accordo internazionale proposta al Parlamento: con essa si applicherebbe anche sul lato italiano il diritto francese, spostando oltralpe gli eventuali contenziosi ma soprattutto annullando ogni normativa antimafia, che là non esiste. Non sono forme di eversione anche le dismissioni di sovranità e lo svilimento dell’ordinamento dello Stato?La “Libera Repubblica” della Maddalena non voleva un altro Stato, ma uno Stato migliore e più rispettoso della Costituzione italiana. Rivendicava – forse immodestamente – il collegamento con la Resistenza da cui quella Costituzione nacque. Qualcosa come i 40 giorni di libertà della val d’Ossola, i 23 giorni della Città di Alba o la difesa del Monte Rubello. Non una “enclave” ma un laboratorio, fantasioso, disordinato, partecipato e vitale come ogni esperimento. Sono altre le enclaves che dovrebbero preoccupare gli italiani, le regioni dominate dalla criminalità organizzata, ad esempio, o i grumi affaristico-politico-finanziari i cui scandali scoppiano ogni settimana, ma sempre dopo che i guasti sono avvenuti. I NoTav invece, con tutti i loro difetti, stanno cercando di fermarli prima che accadano.Per quanto possa apparire blasfemo, i cittadini che si oppongono alla costruzione della Torino-Lione sono consapevoli di infrangere talvolta le leggi esistenti. Ma lo fanno in nome di un senso di giustizia più alto, magari confuso per gli altri ma limpido per loro, seguendo il principio che Giuseppe Dossetti, guardando alla Francia, avrebbe voluto inserire nella Costituzione della Repubblica Italiana: La resistenza individuale e collettiva agli atti dei pubblici poteri, che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione, è diritto e dovere di ogni cittadino. Tra quei diritti inviolabili ci sono la salute e il paesaggio che proprio la Torino-Lione massacrerebbe. Le buone ragioni di chi ha ragione non vengono cancellate da metodi poco ortodossi o addirittura illeciti. La compresenza di pratiche diverse per sostenerle non è motivo valido per sconfessarle o ignorarle. Restano valide, anche se è comodo nasconderle enfatizzando le azioni più clamorose.La fiducia nella giustizia e nei loro rappresentanti viene messa a dura prova. Cittadini informati e vilipesi l’hanno perduta perché ogni loro appello, denuncia, ricorso, esposto, è stato sempre lasciato cadere da chiunque l’abbia ricevuto, magistrato o Presidente della Repubblica che fosse. Si badi bene: non è stato accolto, giudicato e poi, eventualmente, ritenuto infondato nel merito. Non è proprio stato recepito. Non solo. Chi si è permesso di denunciare abusi e pericoli è stato inquisito per false comunicazioni e procurato allarme. Come una certa Tina Merlin a proposito del Vajont. Alla lunga una certa disistima nelle istituzioni centrali appare giustificata. L’incrollabile convinzione del Procuratore di Torino sull’eversione ricorda con amarezza le “prove granitiche” che dieci anni fa sono state considerate dalla Cassazione insufficienti per sostenere proprio l’accusa di terrorismo nella nostra valle, non senza aver cagionato due suicidi in carcere e 4 anni di ingiusta detenzione al terzo indagato. Si sta recitando da capo lo stesso identico copione, e nessuno qui in giro vuole che si ripeta anche lo stesso epilogo.Nonostante tutto, rimane la speranza – forse ingenua – che la giustizia faccia il suo corso. Non si spiegherebbe altrimenti l’ostinazione nell’analizzare progetti, sorvegliare il cantiere, produrre documenti, redigere i famosi esposti. Va poi ricordato, per quanto fastidioso sia, che in tutta questa storia si annoverano tre sentenze: quella che ha assolto i presunti Lupi Grigi dall’accusa di terrorismo, quella che ha condannato la dirigenza Sitaf per turbativa d’asta per gli appalti di Venaus, quella che riconosce i pestaggi ingiustificati delle forze dell’ordine durante lo sgombero del 2005, sempre a Venaus. Quest’ultima addirittura proclama l’omertà dei funzionari e la loro reticenza davanti ai giudici! Sentenze, non chiacchiere NoTav. Tutte decisioni ultime della Magistratura che in qualche modo confermano le tesi degli oppositori alla Torino-Lione. Aspettiamo dunque rispettosamente le conclusioni dei processi istruiti negli ultimi due anni: potrebbero rivelare delle sorprese.Il Procuratore ha già radicato la convinzione che tutti i sabotaggi sono da ricondursi al movimento NoTav, nonostante non siano stati rivendicati, le indagini siano in corso, e addirittura alcuni bersagli abbiano dichiarato di pensarla diversamente. Ma il giudizio è già vissuto come inappellabile. Eppure, molti dubbi si affollano sulle dinamiche dei singoli episodi, così come sul contesto in cui sarebbero avvenuti. Ad esempio, si apprende dalla stampa che attentati simili si sono verificati nel chivassese e nell’emiliano, sempre a carico di ditte in qualche modo coinvolte nei movimenti di terre Tav. In quelle aree lontane, per fortuna, nessuno ha ancora incolpato i NoTav. Non sarà possibile, almeno in ipotesi, che anche in val Susa gli autori siano altri e abbiano altri scopi? Che la torta da spartire sia così succulenta da attirare appetiti più onnivori di qualche presunto contestatore più esuberante di altri? E’ positivo che la legge finanziaria in discussione preveda nuove risorse proprio per risarcire le ditte eventualmente colpite dai NoTav. Costringerà a individuare senza dubbi i veri autori dei danneggiamenti, perché senza responsabilità accertata in capo ai NoTav i risarcimenti saranno zero. Come in una famosa pubblicità: No colpevoli, No soldi!A nostro modo di vedere, c’è un sistema molto facile e immediato per scoprire se davvero esiste una frattura negli oppositori e se una frangia del movimento vuole lo scontro a tutti i costi. Ascoltare le voci degli amministratori e dei docenti universitari, che chiedono di fermarsi a riflettere – ma in maniera seria, trasparente e obiettiva – sui dati trasportistici, economici, ambientali e sociali dell’opera. Se dopo tale analisi si dovesse appurare che la Torino-Lione è utile, proposta in maniera cristallina, sopportabile dall’ambiente e dalle casse dello Stato, una buona parte di chi si oppone sarebbe disposto a farsi da parte. Noi, almeno, lo faremmo. In ogni caso, è indubitabile che sic stantibus rebus non si possa andare avanti. Occorre prendere atto che l’Osservatorio governativo istituito nel 2006 ha fallito. Era stato incaricato di condividere il progetto con il territorio, di facilitare l’accettazione dell’opera, di ridurre la contestazione e abbassare la tensione. Non c’è riuscito, per la semplice ragione che la Torino-Lione è indifendibile sotto ogni punto di vista.Per accorgersene definitivamente, basta smettere di ascoltare i proclami rassicuranti che il Commissario dipinge nei salotti e in luoghi protetti, ben lontano da ogni confronto. Non potranno certo essere installati i cantieri a Susa nei prossimi due anni, come più volte annunciato. In mezzo a quartieri abitati, aziende, scuole, strade e altre strutture pubbliche. Non ci si troverà più in una valle secondaria isolata tra i monti e disabitata. Dall’estate del 2011 Chiomonte e la val Clarea insegnano che costa di più difendere l’opera che costruirla. A Susa questi costi potrebbero decuplicare. E ormai dovrebbe essere evidente a tutti che repressione e falsità non sono i metodi idonei per uscire da questo buco.(Luca Giunti e Bruno Teghille, “Riflessioni sulla lettera del procuratore della Repubblica di Torino”, 24 ottobre 2013. Giunti e Teghille sono due esponenti del movimento No-Tav).Il Procuratore della Repubblica di Torino interviene sulla manifestazione di sabato 19 a Roma, spiegando che se una marcia pacifica si può fare a Roma allora in val Susa si possono e si devono isolare i violenti. Con il massimo rispetto per la sua figura e la sua storia, proviamo a esprimere qualche riflessione, perché da molti anni sentiamo ripetere questo ritornello. Giornalisti e politici, anche sensibili alle ragioni della protesta, spesso ci spiegano quali danni porterebbe alla causa non espellere le mele marce. Noi, stolidi montanari, continuiamo a non capire. In realtà anche a Roma qualche scontro si è verificato, certamente non come due anni fa, sempre in ottobre, quando un analogo corteo ha avuto tutt’altro esito, né come – ricordiamo tutti – a Napoli e ancor più a Genova nel 2001. In quelle situazioni, anche sabato scorso, i filmati mostrano che curiosamente la polizia fa agire i violenti per poi accanirsi con i più tranquilli. In qualche caso si vedono agenti in borghese confondersi con i manifestanti o con i giornalisti. La storia del nostro Paese ci ha fatto conoscere anche le figure dei provocatori e degli infiltrati. Non c’è ragione per credere che gli antitav siano riusciti a restarne immuni.
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Strategia della tensione: l’ombra della violenza-fantasma
«Attorno alla Tav ci sono anche vicende torbide: siamo convinti che non tutti gli attacchi di questi mesi siano riconducibili a persone che fanno parte del movimento». Con queste parole è il sindaco di Venaus, Nilo Durbiano, a evocare il pericoloso clima della strategia della tensione, dopo i recenti incendi notturni che a Bussoleno, Salbertrand e Gravere hanno colpito aziende coinvolte nel cantiere di Chiomonte. Tra le “vicende torbide” a cui Durbiano fa riferimento, probabilmente, ci sono anche i 12 attentati incendiari e dinamitardi che già nella seconda metà degli anni ’90 scossero la valle di Susa, rivendicati da strane sigle come “Lupi grigi” che spinsero i media a parlare di “eco-terroristi”. In carcere finirono – e morirono – i due giovani anarchici “Sole e Baleno”, Edoardo Massari e Maria Soledad Rosas, poi riconosciuti estranei agli attentati, sui quali peraltro non è mai stata fatta piena luce. Fantasmi che tornano tristemente d’attualità, nel clima di scontro che oppone i No-Tav e i promotori dell’opera, senza che la politica si sia ancora degnata di spiegare la presunta necessità di realizzare la contestatissima Torino-Lione.