Archivio del Tag ‘violenza’
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L’Ue in malafede, usa il terrore per suicidare la democrazia
La terribile strage di Parigi non ha solo colpito centinaia di innocenti, ma anche le nostre sempre più traballanti democrazie, che stanno rispondendo al terrorismo fondamentalista suicidandosi. Cento anni fa fece la stessa cosa l’Impero austroungarico, che nel 1914 reagì con la guerra al terrorismo serbo. Il risultato fu la distruzione di quello Stato e la catastrofe immane della Prima Guerra Mondiale. Cambiato il mondo l’Occidente, questa volta trascinato dalla Francia, sta intraprendendo lo stesso percorso. Da 25 anni, dalla prima guerra in Iraq, il mondo occidentale risponde al terrorismo con la guerra. Il risultato è che oggi il fondamentalismo musulmano sunnita ha un suo nuovo Stato terrorista. Non è il primo perché già il regime dei Talebani in Afghanistan alimentava e sosteneva il terrorismo, allora quello di Bin Laden. Rovesciato quel regime, ucciso Bin Laden, il terrorismo islamico si è rafforzato ed esteso. Ammesso quindi che i bombardamenti aerei occidentali e russi riescano a far cadere il Califfato, non c’è alcuna garanzia che il terrorismo non si diffonda ulteriormente.Per mettere le mani avanti, tutti i governanti europei ora parlano di una guerra lunga. Lunga quanto, visto che dura dal 1990? È la guerra dei cento anni a cui dobbiamo attrezzarci? L’Unione Europea ha deciso di togliere dai vincoli dell’austerità di bilancio le spese aggiuntive per la guerra, ipocritamente mascherate come spese di difesa. Questa misura è stata presa quasi in contemporanea con la decisione del Parlamento greco di approvare 48 tagli draconiani a quel poco che in quel paese ancora resta dello stato sociale. In Grecia si chiuderanno ospedali e verranno pignorate le case dei poveri che non possono pagare i debiti. Questo in ottemperanza al memorandum della Troika accettato da Tsipras. Se però il governo greco decidesse di comprare dei droni per colpire il terrorismo, allora potrebbe non tenere conto dei vincoli di bilancio imposti. Quale modello di società è quello dove è virtuoso spendere in deficit per le armi e vizioso farlo per scuole o ospedali? Sono questi i valori che i governanti proclamano di voler difendere con la guerra?La guerra ha così trovato un naturale alleato nella politica di austerità, anche perché entrambe sono inconcludenti allo stesso modo. Da quanti anni si colpiscono l’occupazione, i diritti, i servizi sociali e i beni comuni con lo scopo dichiarato di sconfiggere la crisi? E da quanto lo si fa nel nome dell’Europa? Anche l’austerità, come la guerra, non solo non produce risultati contro il nemico che dichiara di voler combattere, ma anzi lo rafforza. E anche in questo caso, di fronte alla scarsità di risultati, i governanti spiegano che dobbiamo comunque abituarci a tempi lunghi. Secondo l’Ocse ci possono volere altri 20 anni per tornare ai livelli di sviluppo pre-crisi. Come dire che non ci torneremo mai, o che assieme alla guerra avremo anche la crisi dei cento anni. Possibile allora che i nostri governanti siano tutti stupidi e incompetenti e non sappiano trarre conclusioni e bilanci da ciò che fanno? No, non lo credo; da qui la mia convinzione sul peso sempre maggiore che ha la malafede nei sistemi di governo.Quando parlo di malafede non voglio affatto sostenere teorie complottiste. In una recente trasmissione televisiva, Edward Luttwak ha rivendicato che finanziare ed armare il fondamentalismo islamico sia stato comunque un buon affare, per l’Occidente, perché è servito a far crollare l’Unione Sovietica. E, aggiungo io, è un buon affare anche oggi per la politica coloniale di Israele nei confronti del popolo palestinese. Tuttavia, anche se è sicuro che il terrorismo islamista sia stato all’inizio sostenuto dall’Occidente, dagli Usa alla Francia, questo non vuole dire che oggi ne sia ancora un burattino. No, è evidente che il terrorismo sunnita è dilagato per forza propria, oltre che per il continuo appoggio da Stati, Arabia Saudita in testa, che l’Occidente considera e arma come propri indispensabili alleati. Il terrorismo sunnita ha raccolto la carica di violenza sprigionata dalla guerra in Irak, abbiamo dimenticato il massacro al fosforo bianco di Falluja? La guerra è poi diventata guerra di religione tra sunniti e sciiti, mentre la Turchia, membro autorevole della Nato, combatteva prima di tutto il solo popolo della regione organizzato su basi laiche, i curdi.In questo contesto, tutti gli interventi armati occidentali non han fatto altro che gettare benzina sul fuoco, fino a cancellare le stesse entità statali in Somalia e in Libia. Il fatto che ora al posto degli Stati Uniti compaia ora la Russia di Putin non cambia la sostanza. Infine è bene ricordare che il terrorismo esploso in Europa nasce prima di tutto nelle banlieue delle grandi città europee, tutti gli autori delle ultime stragi sono cittadini francesi, belgi, britannici. La malafede dei governanti non sta dunque in qualche oscuro complotto, ma nel sapere perfettamente che la guerra, così come l’austerità, sono risposte sbagliate a ciò che si dichiara di voler affrontare e sconfiggere. Sono risposte sbagliate e fallimentari, ma sono le sole che si continuano a dare perché sceglierne altre vorrebbe dire ammettere troppi errori e soprattutto mettere in discussione troppi affari, troppi interessi, troppo potere.L’Occidente dovrebbe ritirare le sue truppe sparse per il mondo, smetterla di armare gli alleati di oggi che diverranno i nemici di domani, e magari investire molto di più nella propria sicurezza interna. Gli Stati europei dovrebbero ribaltare la vergognosa licenza concessa dalla Ue e investire in deficit su lavoro e stato sociale, tagliando invece l’industria delle armi sulla quale in questi giorni si riversano gli acquisti in Borsa. E soprattutto si dovrebbe rispondere al terrorismo con più democrazia e non con le leggi speciali. Solo con la pace, la democrazia e l’eguaglianza sociale si può sconfiggere il terrorismo, ma i governanti europei preferiscono ingannare i propri popoli trascinandoli in una escalation di guerra e autoritarismo di cui non si vede la fine. Hollande ha fatto proprio il Patriot Act con il quale Bush jr reagì all’11 Settembre, e ora il paese simbolo della democrazia europea si prepara a mettere in Costituzione quello stato di emergenza che ha un solo precedente nella storia europea. Parlo della Germania di Weimar, dove proprio l’uso continuo di quello strumento da parte di governi formalmente democratici aprì la via istituzionale a Hitler. Quello vero, non quelli che da 25 anni pare sorgano ogni 6 mesi sui fronti delle varie guerre.D’altra parte è tutta la costruzione europea che respinge la democrazia, come ci ha ricordato Luciano Gallino nel suo ultimo libro. I parlamenti non son da tempo più sovrani, le politiche economiche le decidono Bruxelles e la Germania. Ora abbiamo scoperto che nel Trattato di Lisbona l’articolo 42.7 obbliga alla solidarietà armata nella Unione. Nel 1915 l’Italia fu trascinata in guerra dal colpo di Stato del Re, oggi il sovrano sta a Bruxelles e può portarci in guerra saltando le nostre istituzioni e la nostra Costituzione. Leggi speciali, austerità, spese di guerra, è così che l’Unione Europea oggi intende procedere. Se non fermiamo questa follia in malafede il rischio è che alla fine un’Europa democratica non ci sia più, mentre il terrorismo sia ancora più feroce e diffuso.(Giorgio Cremaschi, “Guerra e austerità, risposte sbagliate e in malafede”, da “Micromega” del 19 novembre 2015).La terribile strage di Parigi non ha solo colpito centinaia di innocenti, ma anche le nostre sempre più traballanti democrazie, che stanno rispondendo al terrorismo fondamentalista suicidandosi. Cento anni fa fece la stessa cosa l’Impero austroungarico, che nel 1914 reagì con la guerra al terrorismo serbo. Il risultato fu la distruzione di quello Stato e la catastrofe immane della Prima Guerra Mondiale. Cambiato il mondo l’Occidente, questa volta trascinato dalla Francia, sta intraprendendo lo stesso percorso. Da 25 anni, dalla prima guerra in Iraq, il mondo occidentale risponde al terrorismo con la guerra. Il risultato è che oggi il fondamentalismo musulmano sunnita ha un suo nuovo Stato terrorista. Non è il primo perché già il regime dei Talebani in Afghanistan alimentava e sosteneva il terrorismo, allora quello di Bin Laden. Rovesciato quel regime, ucciso Bin Laden, il terrorismo islamico si è rafforzato ed esteso. Ammesso quindi che i bombardamenti aerei occidentali e russi riescano a far cadere il Califfato, non c’è alcuna garanzia che il terrorismo non si diffonda ulteriormente.
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Chi ci porta in guerra, e perché i giornali non lo rivelano
Mille cisterne di petrolio dell’Isis, dirette in Turchia, distrutte in pochi giorni dai caccia russi. Poi l’abbattimento del Sukhoi-24, col mitragliamento di uno dei piloti mentre scendeva col paracadute. E il ministro degli esteri turco che dice al collega russo Lavrov che i militari di Ankara, quei pasticcioni, non avevano capito che l’aereo sul confine turco-siriano fosse russo. Una farsa pericolosa, su cui Obama si è limitato a dire che “la Turchia ha il diritto di difendersi”, come se il bombardiere Su-24 stesse minacciando la sicurezza turca. Conseguenze? Imprevedibili. Secondo Pepe Escobar, Mosca potrebbe chiudere i rubinetti del gas (da cui la Turchia dipende), armare segretamente i separatisti curdi dell’Anatolia e, intanto, spedire gli “Spetznaz” – i temibili reparti speciali – in missione punitiva tra le montagne dove si annidano i guerriglieri turcomanni, quelli che hanno mitragliato il paracadutista compiendo un crimine di guerra particolarmente odioso, sanzionato dalla Convenzione di Ginevra del 1977. Il “colpo alla schiena” sferrato a Putin ci spinge verso una guerra più vasta?
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Craig Roberts: schiavi e padroni (di tutto, anche degli Stati)
Una nuova schiavizzazione delle popolazioni occidentali è in atto su diversi livelli. Uno di cui sto parlando da almeno dieci anni è la delocalizzazione del lavoro. Gli Stati Uniti, ad esempio, partecipano sempre meno alla produzione dei beni e dei servizi che finiscono sul loro mercato. Ad un altro livello stiamo esperendo la finanziarizzazione dell’economia occidentale, della quale Michael Hudson è uno dei maggiori esperti (“Killing the host”). La finanziarizzazione è il processo di rimozione di ogni tipo di presenza pubblica nell’economia e la conversione del surplus economico nel pagamento di interessi al settore finanziario. Questi due fattori privano la gente di prospettive economiche. Una terzo li priva dei diritti politici. Il Tpp e il Ttip eliminano la sovranità politica e spostano il controllo sulle grandi aziende. Questi cosiddetti “partenariati commerciali” non hanno nulla a che fare con il business. Questi accordi negoziati in segreto accordano immunità alle grandi aziende nei confronti delle leggi nazionali dei paesi in cui operano.Questo obiettivo viene raggiunto inquadrando ogni intromissione nei profitti aziendali da parte di leggi esistenti o potenziali come una limitazione agli affari, per la quale le aziende possono intentare causa ai governi “sovrani”. Per esempio il divieto in Francia ed altre nazioni riguardo gli Ogm verrebbe annullato dal Ttip. La democrazia viene semplicemente sostituita dalle regole aziendali. Avrei voluto parlare di più di tutto questo. Comunque altri, come Chris Hedges, stanno facendo un buon lavoro per spiegare la stretta del potere che sta eliminando i governi rappresentativi. Le grandi aziende comprano il potere a basso prezzo. Hanno comprato la Camera dei Rappresentanti negli Usa per meno di 200 milioni di dollari. Questo è quanto è stato dato al Congresso per proseguire con “Fast Track”, che permette al braccio delle corporation, il Rappresentante del Commercio Usa, di negoziare segretamente senza spinta o supervisione da parte del Congresso stesso.In altre parole un agente delle grandi aziende si relaziona con altri suoi simili nelle nazioni che compromettono la “partnership” e questo gruppetto di gente profumatamente prezzolata scrive accordi che soppiantano la legge a favore degli interessi aziendali. Nessuna delle persone coinvolte rappresenta gli interessi delle nazioni o delle loro popolazioni. I governi delle nazioni aderenti alla partnership possono solo votare sì o no all’accordo… e verranno pagati profumatamente per votare nel modo giusto. Una volta che queste partnership sono attive, i governi stessi sono come privatizzati. Legislature, presidenti, primi ministri e giudici non hanno più alcuna ragione di esistere. I tribunali aziendali decidono le leggi e il funzionamento delle corti.È probabile che questa “partnership” avranno conseguenze indesiderate. Per esempio, Russia e Cina non fanno parte degli accordi, così come Iran, Brasile, India e Sud Africa, benchè, separatamente, il governo indiano sembra essere stato comprato dai grandi capitali agricoli statunitensi e sia sulla strada della distruzione del proprio sistema autosufficiente di produzione del cibo. Questa nazioni saranno depositarie della sovranità nazionale e del controllo pubblico, mentre libertà e democrazia saranno estinte in Occidente e presso i suoi vassalli asiatici. Rivoluzioni violente per tutto l’Occidente e la completa eliminazione dell’“un per cento” è un altro scenario possibile. Ad esempio, una volta che la popolazione francese avrà scoperto di aver perso il controllo sulla propria dieta a vantaggio della Monsanto e dell’agribusiness statunitense, i membri del governo francese che hanno condotto il paese verso una prigione alimentare di cibo tossico probabilmente verranno fatti a pezzi per le strade. Eventi di questo tipo sono possibili in Occidente solo se le popolazioni scopriranno di aver totalmente perso il controllo su ogni aspetto della loro vita e che l’unica scelta è tra la rivoluzione o la morte.(Paul Craig Roberts, “La ri-schiavizzazione delle genti occidentali”, da “Counterpunch” del 10 novembre 2015, tradotto da “Come Don Chisciotte”).Una nuova schiavizzazione delle popolazioni occidentali è in atto su diversi livelli. Uno di cui sto parlando da almeno dieci anni è la delocalizzazione del lavoro. Gli Stati Uniti, ad esempio, partecipano sempre meno alla produzione dei beni e dei servizi che finiscono sul loro mercato. Ad un altro livello stiamo esperendo la finanziarizzazione dell’economia occidentale, della quale Michael Hudson è uno dei maggiori esperti (“Killing the host”). La finanziarizzazione è il processo di rimozione di ogni tipo di presenza pubblica nell’economia e la conversione del surplus economico nel pagamento di interessi al settore finanziario. Questi due fattori privano la gente di prospettive economiche. Una terzo li priva dei diritti politici. Il Tpp e il Ttip eliminano la sovranità politica e spostano il controllo sulle grandi aziende. Questi cosiddetti “partenariati commerciali” non hanno nulla a che fare con il business. Questi accordi negoziati in segreto accordano immunità alle grandi aziende nei confronti delle leggi nazionali dei paesi in cui operano.
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Magaldi: dietro al terrore, menti massoniche e 007 traditori
«Le menti e le mani che hanno prima pianificato ed effettuato gli attentati a “Charlie Hebdo” e poi le terribili stragi di venerdì 13 novembre 2015 sono le stesse, identiche. E sono menti e mani che amano particolarmente le simbologie della tradizione esoterica e massonica occidentale… in modo impressionante», afferma Gioele Magaldi, segnalando una sinistra coincidenza storica: «Non ho ancora sentito nessuno, a livello di mainstream mediatico, ricordare che il venerdì 13 ottobre del 1307, proprio in Francia, il re Filippo il Bello ordinò l’arresto dei Templari. Da allora, quella data ha assunto una rilevanza fondamentale in determinati ambienti appunto esoterici e massonici, e persino nella produzione letteraria e filmografica». Autore del bestseller “Massoni. Società a responsabilità illimitata”, Magaldi ha denunciato già nel 2014 i piani criminali della superloggia “Hathor Pentalpha”, creata dai Bush reclutando anche leader come Blair, Sarkozy ed Erdogan per una sorta di strategia della tensione (mondiale) inaugurata l’11 Settembre con l’attacco alle Torri, che diede il via alla “guerra infinita”.«I tragici fatti di Parigi, sia del 7 gennaio che dello scorso 13 novembre 2015, sono anzitutto opera di coloro che hanno creato a tavolino prima Al Qaeda e poi l’Isis», insiste Magaldi, intervistato da Lorenzo Lamperti per “Affari Italiani”. «Chi ha voluto realizzare la strage di Parigi, facendola compiere proprio un venerdì 13, ha mandato un segnale preciso di natura infra-massonica». Magaldi, già “gran maestro” della loggia Monte Sion e poi leader del Grande Oriente Democratico, si riserva di spiegare in seguito di che “segnale infra-massonico” si tratti e perché, «al lume delle notizie riservate che mi sono pervenute», dice, «sia stato scelto egualmente l’autunno per questo attentato, ma non il mese di ottobre, bensì quello di novembre». Magaldi afferma di annoverare «diversi amici fraterni onesti e scrupolosi, tra i quadri e i dirigenti dei servizi d’intelligence (di diverse nazioni) operanti in Francia e in particolare a Parigi». Gli hanno “suggerito” che «senza una falla grossa come una casa nell’operato degli stessi servizi segreti occidentali e francesi (qualche agente infedele che, evidentemente, ha “collaborato” con i terroristi, tradendo con infamia i propri doveri e la propria dignità di uomo e di servitore dello Stato), quello che è accaduto venerdì 13 novembre non sarebbe mai potuto accadere».Troppo facile, il “lavoro” dei killer: «Ma stiamo scherzando? Terroristi che arrivano indisturbati a pochi passi da dove si muove il presidente della Repubblica e che vanno a fare il più atroce attentato in un locale che avrebbe dovuto essere scientificamente guardato a vista da servizi d’intelligence e sicurezza, in quanto già attenzionato in precedenza per possibili atti di terrorismo e violenza? Senza la connivenza di apparati deviati dell’intelligence militare e civile, tutto ciò non sarebbe stato assolutamente possibile». Puntuali, i riflessi politici dopo la strage: il procuratore nazionale Antimafia e Antiterrorismo, Franco Roberti, ha detto che “dobbiamo esser pronti a cedere una parte delle nostre libertà” di comunicazione. Un Patriot Act all’italiana? «Se Franco Roberti si è espresso cosi, il Movimento Roosevelt, entità politica metapartitica da me presieduta, chiederà ufficialmente le sue dimissioni», avverte Magaldi. Dimissioni «per manifesta incompatibilità ideologica con i principi e i fondamenti di quelle istituzioni democratiche e liberali che egli, con le strutture da lui guidate, dovrebbe difendere dalle minacce del terrorismo e della malavita organizzata».Magaldi ricorda che il massone progressista Benjamin Franklin, uno dei massimi padri della nascita della prima Repubblica costituzionale e democratica al mondo, gli Stati Uniti d’America, soleva affermare: «Chi è pronto a dar via le proprie libertà fondamentali per comprarsi briciole di temporanea sicurezza, non merita né la libertà né la sicurezza». E dire che la soluzione, quella vera, sarebbe a portata di mano: «Se solo si volesse (ma non si vuole, perché lo show del terrorismo hollywoodiano a cura dell’Isis fa comodo a molti), si dovrebbe procedere con un’azione militare poderosa, per via aerea ma soprattutto via terra, concertata tra tutte le maggiori potenze almeno nominalmente democratiche, preferibilmente sotto l’egida dell’Onu». Un’azione risoluta, «per spazzare via il cosiddetto Califfato dell’Isis dalla faccia della terra». Se solo si volesse, aggiunge Magaldi, in poco tempo i miliziani dell’Isis sarebbero travolti. «Solo che, per essere credibile, legittimato, giustificabile e ben accetto, al presente come per il futuro, un tale intervento militare, una volta conseguita la vittoria, dovrebbe essere seguito rapidamente e seriamente dalla costruzione di infrastrutture materiali e immateriali, culturali, istituzionali ed economiche».Se si vuole la pacificazione occorre un colossale investimento, quindi, per «trasformare quei territori martoriati medio-orientali (ora dominati dal Califfato) in società libere, democratiche, laiche, con un grande dispendio di risorse per aiutare la popolazione locale». Attenzione: «Non si tratta di fingere di “esportare la democrazia”, come volevano far credere all’opinione pubblica mondiale i farabutti massoni contro-iniziati che, tramite la superloggia sovranazionale Hathor-Pentalpha (si legga il primo volume della serie di “Massoni”, per capire di che si tratti), andarono a mettere a ferro e fuoco l’Iraq nei primi anni ‘2000 e altri territori in tempi successivi». Per Magaldi si tratta di costruirla davvero una vita democratica, libera, laica, pluralista e pacifica in quello che ora è l’habitat totalitario, integralista e ierocratico dell’Isis, ma anche nel resto del Medio Oriente. «E per farlo, occorre che i governi delle maggiori potenze democratiche mondiali collaborino con gli ambienti islamici più laici e moderati dell’area nord-africana e medio-orientale».C’è il rischio che ora, in Europa, prendano sempre più forza i populismi e gli estremismi, come Le Pen in Francia o Salvini in Italia? Falso allarme: «E’ uno spauracchio, questo della possibile avanzata dei movimenti populistici ed estremistici, agitato strumentalmente da coloro che poi, per far fronte a questa eventuale avanzata, propongono governi consociativi che, per loro natura, annullano la normale dialettica democratica tra forze politiche alternative». Governi consociativi come quello di Mario Monti, che poi favoriscono l’approvazione, quasi sempre con scarso dibattito politico-mediatico, di misure legislative contrarie all’interesse del popolo sovrano ma assai utili ad interessi privati sovranazionali e apolidi: «Si ricordi l’approvazione totalitaria e silenziata del funesto Fiscal Compact, ad opera del governo Monti, in Italia, e altri provvedimenti simili presi in tutta Europa». Magaldi non tifa certo per i populismi e gli estremismi, tanto più se di natura neo-nazionalistica, ma osserva che «i gruppi dirigenti di questi movimenti, solitamente, quando vanno al governo, si dimostrano del tutto docili e subalterni a quegli stessi poteri apolidi che di consueto si servono di maggioranze consociative e formalmente “moderate”».Magaldi punta il dito contro la regia occulta una certa massoneria internazionale, ma coi dovuti distinguo: «Non bisogna confondere il carattere cinico e apolide delle élites massoniche neoaristocratiche e reazionarie, cui mi sto riferendo, e che in alcuni loro segmenti sono responsabili dell’atroce strage di Parigi del 13 novembre scorso, dal positivo cosmopolitismo dei gruppi massonici progressisti, per i quali la patria non è la propria nazione, ma ogni luogo dove occorra combattere per la democrazia, la libertà e i valori racchiusi nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani approvata all’Onu il 10 dicembre 1948, grazie al “matrocinio” della libera muratrice Eleanor Roosevelt». Proprio nel nome dei Roosevelt, Eleanor e il marito Franklin Delano, promotore del New Deal che resuscitò l’America dalla Grande Depressione sulla base delle ricette macro-economiche di un altro massone, il grande economista John Maynard Keynes, ha dato vita al suo movimento italiano. Missione: democratizzare la politica, sfidando l’egemonia culturale dell’élite che terremota gli Stati con “armi di distruzione di massa” come l’austerity, basata sul taglio dell’investimento pubblico per dare mano libera all’oligarchia finanziaria. Dietro all’economia c’è un vertice politico occulto, insiste Magaldi, dominato da elementi massonici di stampo neo-feudale. E’ un disegno preciso, che avanza tra macerie e vittime. E va fermato nel solo modo possibile: con la democrazia.«Le menti e le mani che hanno prima pianificato ed effettuato gli attentati a “Charlie Hebdo” e poi le terribili stragi di venerdì 13 novembre 2015 sono le stesse, identiche. E sono menti e mani che amano particolarmente le simbologie della tradizione esoterica e massonica occidentale… in modo impressionante», afferma Gioele Magaldi, segnalando una sinistra coincidenza storica: «Non ho ancora sentito nessuno, a livello di mainstream mediatico, ricordare che il venerdì 13 ottobre del 1307, proprio in Francia, il re Filippo il Bello ordinò l’arresto dei Templari. Da allora, quella data ha assunto una rilevanza fondamentale in determinati ambienti appunto esoterici e massonici, e persino nella produzione letteraria e filmografica». Autore del bestseller “Massoni. Società a responsabilità illimitata”, Magaldi ha denunciato già nel 2014 i piani criminali della superloggia “Hathor Pentalpha”, creata dai Bush reclutando anche leader come Blair, Sarkozy ed Erdogan per una sorta di strategia della tensione (mondiale) inaugurata l’11 Settembre con l’attacco alle Torri, che diede il via alla “guerra infinita”.
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Strage a Parigi, operazione militare truccata da jihadismo
Orrendo massacro, lucida follia: ma non è follia. E’ un’operazione militare quella che ha sconvolto Parigi la sera del 13 novembre 2015, facendo 158 morti, colpiti per strada da esplosioni “kamikaze” o freddati a colpi d’arma da fuoco al Bataclan, locale gremito per un concerto. La strage, avverte Pino Cabras, non è solo un evento terroristico spettacolare: «È anche un evento militare di notevole entità nel cuore di una grande metropoli europea». Nel mirino di nuovo la Francia, dopo l’eccidio della redazione di “Charlie Hebdo”. Violenza opaca: sulle indagini relative alla mattanza del giornale satirico, il governo Hollande ha apposto il segreto di Stato dopo che gli inquirenti avevano scoperto che la pista delle armi lambiva i servizi segreti francesi, con una triangolazione che tocca la Slovacchia e il Belgio passando per il quartier generale dell’intelligence di Parigi. «Anche stavolta si fa notare una manovalanza di assassini che si rifà al jihadismo», annota Cabras su “Megachip”. «Non c’è da stupirsi che essa abbia un peso militare sempre maggiore, essendo una legione di avventurieri istruiti con tecniche sofisticate».Una “legione” di miliziani armata segretamente dall’Occidente e «schierata su molteplici linee del fuoco geopolitiche, pronta a prestare i suoi servizi per demolire interi Stati, e allo stesso tempo ricca di coperture e sovvenzioni statali, persino degli Stati che ne subiscono le interferenze nella loro sicurezza nazionale». E’ un fatto: sono ormai migliaia i combattenti jihadisti europei arruolati nelle guerre di oggi. «Si è creato un tipo di soldato che in Libia, in Siria e altrove non si vuole far rispondere alle convenzioni di Ginevra, per poter fare il massimo danno con il minimo di responsabilità». Ai governanti, scrive Cabras, ci sarebbe da dire: per i vostri sogni neocoloniali dalla tasca avete tirato fuori uno scorpione, non un gattino. Dopo la strage di Charlie Hebdo, fu facile fare una profezia fredda e precisa: «Lo scorpione pungerà ancora in Europa. I governanti europei, fra i più ricattabili e ricattati in ogni campo, subiranno pressioni enormi contro gli interessi dei propri paesi. È l’Impero del Caos che bussa, non l’Islam».Il Caos, continua Cabras, ha lambito il presidente François Hollande, preso di peso mentre assisteva alla partita di calcio Francia-Germania, al momento in cui fuori dallo stadio si udivano esplosioni. «Il messaggio, data la circostanza, non certo casuale (proprio quella partita…), lo ha sentito sicuramente anche la Germania. E i lanciatori del messaggio non sono certo da cercare fra i soldati-terroristi, che sono meri esecutori. Gli autori si trovano fra i soggetti che vogliono che l’Europa non si sottragga alla grande guerra che si sta preparando. Sono pezzi di classi dirigenti occidentali, turche, petro-monarchiche. Gli sponsor dell’Isis e del Caos». Lo spiegava già a fine 2014 il profetico libro “Massoni”, di Gioele Magaldi, svelando le trame occulte di alcune delle 36 superlogge segrete del potere mondiale, tra cui la “Hathor Pentalpha”, fondata dai Bush, di cui – secondo l’autore – fanno parte personaggi decisivi come Tony Blair e il leader turco Erdogan, appena rieletto dopo una vigilia elettorale scadita da spaventosi attentati come quello di Parigi.Definita “loggia del sangue e della vendetta”, creata nel 1980 quando a George Bush fu preferito Reagan, secondo Magaldi la “Hathor Pentalpha” – il cui nome è sinistramente consonante con Isis (Hathor è l’altro nome di Iside) sarebbe stata nella “cabina di regia” dell’11 Settembre e oggi sarebbe al corrente di parecchi retroscena del Medio Oriente, a cominciare proprio dalla comparsa dei “tagliagole” in Siria e in Iraq, macabro esito della “fabbrica di terroristi” armati sottobanco dal Pentagono, in collaborazione con Francia e Gran Bretagna e Turchia, nonché Arabia Sudita e altri paesi del Golfo. Non può non colpire la sincronicità della nuova, mostruosa strage di Parigi rispetto all’impegno dell’unica potenza finora schierata sul campo in modo trasparente – la Russia di Putin – per cercare di mettere fine alla sanguinosa strategia della tensione che sta devastando il teatro mediorientale. Altro motivo di preoccupazione, per i “burattinai del terrore”, le crescenti esitazioni della Germania, schierata coi russi nel sostegno al regime di Assad (il male minore) e sempre più contraria all’aggressione occidentale verso lo spazio russo, organizzata utilizzando l’espediente del golpe in Ucraina.«Il governo di Angela Merkel – scrive Pino Cabras – sta sempre più prendendo atto dell’efficacia dei bombardamenti russi in Siria, delle divisioni in seno alle classi dirigenti statunitensi e dei rapidi cambiamenti negli equilibri strategici internazionali». Berlino, aggiunge Cabras su “Megaxchip”, sta dunque cercando di ritirarsi da una battaglia tutto sommato persa, e di giocare un nuovo ruolo pacificatore in Siria. «Il ministro degli esteri tedesco, Frank-Walter Steinmeier, punta da settimane a organizzare un incontro del tipo 5+1 (il formato diplomatico che a Vienna ha spinto verso gli accordi per l’Iran) in modo da risolvere il buco nero terroristico che ha investito la Siria». Dentro quello stadio, accanto a Hollande, c’era proprio Steinmeier. «E fuori dallo stadio, sui selciati parigini, decine di innocenti ammazzati, lo stato d’emergenza, la solita strategia della tensione. Dentro e fuori dalla fortezza europea, le braci di una guerra che possono incendiarla. Dove sarà la prossima strage?». Un ottimo argomento, conclude Cabras, per l’imminente G-20 di Antalya. Sede del summit, la Turchia di “Hathor” Erdogan: un paese Nato che, fino all’intervento russo, ha sostenuto con armi, mezzi e logistica i tagliagole anti-Assad, l’esercito dello “scorpione” che ora ha di nuovo colpito Parigi.Orrendo massacro, lucida follia: ma non è follia. E’ un’operazione militare quella che ha sconvolto Parigi la sera del 13 novembre 2015, facendo 120 morti, colpiti per strada da esplosioni “kamikaze” o freddati a colpi d’arma da fuoco al Bataclan, locale gremito per un concerto. La strage, avverte Pino Cabras, non è solo un evento terroristico spettacolare: «È anche un evento militare di notevole entità nel cuore di una grande metropoli europea». Nel mirino di nuovo la Francia, dopo l’eccidio della redazione di “Charlie Hebdo”. Violenza opaca: sulle indagini relative alla mattanza del giornale satirico, il governo Hollande ha apposto il segreto di Stato dopo che gli inquirenti avevano scoperto che la pista delle armi coinvolgeva i servizi segreti francesi, con una triangolazione che tocca la Slovacchia e il Belgio passando per il quartier generale dell’intelligence di Parigi. «Anche stavolta si fa notare una manovalanza di assassini che si rifà al jihadismo», annota Cabras su “Megachip”. «Non c’è da stupirsi che essa abbia un peso militare sempre maggiore, essendo una legione di avventurieri istruiti con tecniche sofisticate».
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Crisi senza fine? La previde vent’anni fa il “profeta” Craxi
Col suo libro esplosivo sulle 36 super-logge segrete del massimo potere mondiale (“Massoni, società a responsabilità illimitata”, edito da Chiarelettere), il massone Gioele Magaldi, fondatore del Grande Oriente Democratico in aperta polemica con la massoneria ufficiale italiana, «ha completamente riscritto la storia degli ultimi non so quanti anni», scrive Vincenzo Bellisario sul sito del “Movimento Roosevelt”, nato su impulso dello stesso Magaldi per squarciare il velo sulla politica italiana dominata dall’élite internazionale e contribuire a democratizzare il sistema, in un percorso di ripristino della perduta sovranità. Ma a fare un’anologa denuncia, ricorda Bellisario, fu il vituperato Bettino Craxi, dal suo esilio di Hammamet, nella seconda metà degli anni ‘90. Memoriale uscito nel 2014, col titolo “Io parlo, e continuerò a parlare” (Mondadori). Altro libro utilissimo, dice Bellisario, «per comprendere in “altri termini” cos’è accaduto e accade in Italia, in Europa e nel mondo», ovvero: nomi e cognomi di chi ci ha inguaiato davvero, precipitandoci in questa crisi infinita.Rivelazioni che «spiegano con parole mirate e incisive i fatti degli ultimi anni ed odierni, ancora oggi tristemente e quotidianamente sotto gli occhi del tutto ignari della quasi totalità» del pubblico, che magari vota Renzi e ha di Craxi un pessimo ricordo. Un libro, quello dell’ex leader del Psi, definito (oggi) da diversi giornalisti “profetico”, “sorprendente”, “agghiacciante”, “al limite della preveggenza”. Lo Stato è a pezzi, così come l’idea di nazione? «La pace si organizza con la cooperazione, la collaborazione, il negoziato, e non con la spericolata globalizzazione forzata», scrive Craxi. «Ogni nazione ha una sua identità, una sua storia, un ruolo geopolitico cui non può rinunciare. Più nazioni possono associarsi, mediante trattati per perseguire fini comuni, economici, sociali, culturali, politici, ambientali». Al contrario, «cancellare il ruolo delle nazioni significa offendere un diritto dei popoli e creare le basi per lo svuotamento, la disintegrazione, secondo processi imprevedibili, delle più ampie unità che si vogliono costruire». E attenti: «Dietro la longa manus della cosiddetta globalizzazione si avverte il respiro di nuovi imperialismi, sofisticati e violenti, di natura essenzialmente finanziaria e militare».Da Mani Pulite, Craxi fu liquidato come “capo di una banda di ladri” per via del finanziamento illecito ai partiti, compreso il suo? «I partiti dipinti come congreghe parassitarie divoratrici del danaro pubblico – scrive l’ex leader socialista – sono una caricatura falsa e spregevole di chi ha della democrazia un’idea tutta sua, fatta di sé, del suo clan, dei suoi interessi e della sua ideologia illiberale. Fa meraviglia, invece, come negli anni più recenti ci siano state grandi ruberie sulle quali nessuno ha indagato. Basti pensare che solo in occasione di una svalutazione della lira, dopo una dissennata difesa del livello di cambio compiuta con uno sperpero di risorse enorme ed assurdo dalle autorità competenti, gruppi finanziari collegati alla finanza internazionale, diversi gruppi, speculando sulla lira, evidentemente sulla base di informazioni certe, che un’indagine tempestiva e penetrante avrebbe potuto facilmente individuare, hanno guadagnato in pochi giorni un numero di miliardi pari alle entrate straordinarie della politica di alcuni anni. Per non dire di tante inchieste finite letteralmente nel nulla».Possibile che sul finanziamento illecito non avesse niente da dichiarare il Pci? «D’Alema ha detto che con la caduta del Muro di Berlino si aprirono le porte ad un nuovo sistema politico», scriveva Craxi. «Noi non abbiamo la memoria corta. Nell’anno della caduta del Muro, nel 1989, venne varata dal Parlamento italiano una amnistia con la quale si cancellavano i reati di finanziamento illegale commessi sino ad allora. La legge venne approvata in tutta fretta e alla chetichella. Non fu neppure richiesta la discussione in aula. Le commissioni, in sede legislativa, evidentemente senza opposizioni o comunque senza opposizioni rumorose, diedero vita, maggioranza e comunisti d’amore e d’accordo, a un vero e proprio colpo di spugna. La caduta del Muro di Berlino aveva posto l’esigenza di un urgente “colpo di spugna”». E’ storia, ormai: «Sul sistema di finanziamento illegale dei partiti e delle attività politiche, in funzione dal dopoguerra e adottato da tutti, anche in violazione della legge sul finanziamento dei partiti entrata in vigore nel 1974, veniva posto un coperchio».“Serviva”, quel coperchio, per legittimare una “nuova” classe dirigente europeista, usa obbedir tacendo. «Il regime avanza inesorabilmente: lo fa passo dopo passo, facendosi precedere dalle spedizioni militari del braccio armato», scriveva Craxi quasi vent’anni or sono. «La giustizia politica è sopra ogni altra l’arma preferita. Il resto è affidato all’informazione, in gran parte controllata e condizionata, alla tattica ed alla conquista di aree di influenza». Il regime, continua Craxi, «avanza con la conquista sistematica di cariche, sottocariche, minicariche, e con una invasione nel mondo della informazione, dello spettacolo, della cultura e della sottocultura che è ormai straripante». A proposito di “sottocultura”, Bellisario ricorda il recentissimo attacco «violento, squallido e di bassissimo profilo» sferrato da Luciana Littizzetto contro il Movimento 5 Stelle nientemeno che dalla tribuna televisiva di Fabio Fazio, sulla Rai (in compenso, all’epoca, dalla televisione di Stato fu cacciato Beppe Grillo, colpevole di mettere alla berlina di socialisti “ladri”: anche di quello si occupava, Craxi, anziché esternare sui pericoli della globalizzazione privatizzatrice in arrivo).«Sono oggi evidentissime le influenze determinanti di alcune lobbies economiche e finanziarie e di gruppi di potere oligarchici», scrisse più tardi, da Hammamet, il segretario del Psi. «A ciò si aggiunga la presenza sempre più pressante della finanza internazionale, il pericolo della svendita del patrimonio pubblico, mentre peraltro continua la quotidiana, demagogica esaltazione della privatizzazione», che è sempre «presentata come una sorta di liberazione dal male, come un passaggio da una sfera infernale ad una sfera paradisiaca: una falsità che i fatti si sono già incaricati di illustrare, mettendo in luce il contrasto che talvolta si apre non solo con gli interessi del mondo del lavoro ma anche con i più generali interessi della collettività nazionale». Parole sante, col senno del poi? Non si direbbe: la Grande Privatizzazione continua anche ora e più che mai, con Renzi, che mette all’asta persino un modello di impresa pubblica in super-attivo, Poste Italiane.Facile dire che vedeva lungo, Craxi: «La “globalizzazione” non viene affrontata dall’Italia con la forza, la consapevolezza, l’autorità di una vera e grande nazione, ma piuttosto viene subìta in forma subalterna in un contesto di cui è sempre più difficile intravedere un avvenire, che non sia quello di un degrado continuo, di un impoverimento della società, di una sostanziale perdita di indipendenza». Chissà cos’avrebbe detto, oggi, di fronte agli ultimi orrori, a comiciare dal Ttip, il Trattato Transatlantico Usa-Ue che rade al suolo ogni residua sovranità economica. Per non parlare del Fiscal Compact e del pareggio di bilancio inserito addirittura in Costituzione, a certificare la morte clinica dello Stato come garante della comunità nazionale. Ai tempi, quando i Prodi e i Ciampi magnificavano il dorato avvenire promesso da Bruxelles, Craxi scriveva: «I parametri di Maastricht non si compongono di regole divine. Non stanno scritti nella Bibbia. Non sono un’appendice ai dieci comandamenti». E l’andamento di questi anni «non ha corrisposto alle previsioni dei sottoscrittori: la situazione odierna è diversa da quella sperata».Ogni trattato, aggiungeva Craxi, può e deve essere rinegoziato, aggiornato, adattato alle condizioni reali e alle nuove esigenze: «Questa è la regola del buon senso, dell’equilibrio politico, della gestione concreta e pratica della realtà», lontano cioè dall’autismo dogmatico dei tecnocrati e dei loro cantori più o meno prezzolati, distribuiti in ogni paese. «Su di un altro piano stanno i declamatori retorici dell’Europa, il delirio europeistico che non tiene contro della realtà, la scelta della crisi, della stagnazione e della conseguente disoccupazione». La “scelta della crisi”, dunque, da cui la “conseguente disoccupazione”. L’euro? No, grazie: «Affidare effetti taumaturgici e miracolose resurrezioni alla moneta unica europea, dopo aver provveduto a isterilire, rinunciare, accrescere i conflitti sociali, è una fantastica illusione che i fatti e le realtà economiche e finanziarie del mondo non tarderanno a mettere in chiaro». Ed era solo la fine degli anni ‘90. L’Italia non era ancora finita nel girone infernale della Bce: recessione e crollo del Pil, super-tassazione, licenziamenti e fallimenti, erosione dei risparmi, disperazione sociale, rassegnazione al declassamento dell’Italia Così parlava il “profeta” Craxi. Rileggerlo oggi? Scomodo, per troppi personaggi in pista già allora. Uomini che però, anziché ad Hammamet, sono fini alla Bce, al Fondo Monetario e all’Ocse, a Bankitalia, alla Goldman Sachs. E naturalmente a Palazzo Chigi, e al Quirinale.Col suo libro esplosivo sulle 36 super-logge segrete del massimo potere mondiale (“Massoni, società a responsabilità illimitata”, edito da Chiarelettere), il massone Gioele Magaldi, fondatore del Grande Oriente Democratico in aperta polemica con la massoneria ufficiale italiana, «ha completamente riscritto la storia degli ultimi non so quanti anni», scrive Vincenzo Bellisario sul sito del “Movimento Roosevelt”, nato su impulso dello stesso Magaldi per squarciare il velo sulla politica italiana dominata dall’élite internazionale e contribuire a democratizzare il sistema, in un percorso di ripristino della perduta sovranità. Ma a fare un’anologa denuncia, ricorda Bellisario, fu il vituperato Bettino Craxi, dal suo esilio di Hammamet, nella seconda metà degli anni ‘90. Memoriale uscito nel 2014, col titolo “Io parlo, e continuerò a parlare” (Mondadori). Altro libro utilissimo, dice Bellisario, «per comprendere in “altri termini” cos’è accaduto e accade in Italia, in Europa e nel mondo», ovvero: nomi e cognomi di chi ci ha inguaiato davvero, precipitandoci in questa crisi infinita.
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Expo, fiasco segreto: affari loro, e indovinate chi pagherà?
L’Expo? Un affarone per tanti, a cominciare da Pd e Compagnia delle Opere. Molto meno per gli italiani, che dovranno pagare per la voragine (oscurata dai media) dei mancati introiti: biglietti venduti a 20 euro e poi a 10 anziché a 30, a una ventina di milioni di visitatori, contro i 29 previsti. La grande kermesse è stata di un terzo al di sotto delle aspettative, accusa Mario Vitiello su “Comune-Info”, sottolineando «le innumerevoli ferite che si devono ancora rimarginare», dopo la maxi-speculazione organizzata alla periferia di Milano. La proprietà delle aree è di Arexpo Spa, la società che ha comperato il milione di metri quadri su cui si è svolto l’evento: «Li ha acquistati da Cabassi, da Fondazione Fiera e da Poste Italiane, pagandoli uno sproposito (grazie ad una speculazione tipo “mani sulla città” garantita dalla giunta Moratti), indebitandosi con le banche (principalmente Intesa San Paolo per circa 160 milioni) e con la stessa Fondazione Fiera (per circa 50 milioni di euro)». E ora? «La gara indetta negli scorsi mesi per trovare un compratore per le aree del sito è andata deserta, e in molti stanno pensando a cosa fare di queste aree, che per il momento sembrano interessare a tutti ma che nessuno vuole».Expo Spa è la società che ha costruito la maxi-installazione per gestire lo show. I suoi compiti? Organizzare e gestire l’evento, redigere il piano finanziario delle opere essenziali, gestire i finanziamenti pubblici degli enti finanziatori, stipulare i contratti relativi alla gestione operativa dell’evento e acquisirne i proventi. Expo Spa ha realizzato il sito, stipulato i contratti con i paesi ospiti, gestito il management, incassato i proventi di pubblicità e merchandising nonché quelli dei biglietti. «Ad oggi non è chiaro a nessuno quale sia il bilancio definitivo di Expo Spa», scrive Vitiello. «Certo è che erano attesi 29 milioni di visitatori, e forse si arriverà a 20 milioni», nella conta finale. «Il masterplan prevedeva che l’accesso costasse 30-32 euro, mentre fin dal mese di aprile erano sul mercato biglietti a 20 euro, che diventavano 10 euro per le scuole». In più, dal mese di giugno i visitatori serali (comunque contati nel conto complessivo) sono entrati pagando solo 5 euro. «Molti paesi non stanno pagando i creditori, tra cui gli Stati Uniti». Morale: «Si può affermare, senza timore di grosse smentite, che Expo produrrà un importante passivo che dovrà essere ripagato dall’unico soggetto capace di una operazione di questo genere e portata: il ministero dell’economia, cioè lo Stato, tramite Cassa Depositi e Prestiti».Questa voragine, aggiunge Vitiello, avrà sicuramente ripercussioni sul bilancio del Comune di Milano, sull’economia dell’intera regione e, in generale, sul “sistema paese”. «Sul piano politico (e delle politiche) Expo è una specie di buco nero», continua Vitiello. «Tutti si sono improvvisamente scoperti “expottimisti”, a partire ovviamente dal Pd e dalla giunta del sindaco Pisapia, che ha ereditato l’Expo quando ne avrebbe volentieri fatto a meno ma che non ha saputo dire l’unico “no” che avrebbe dato un senso al suo mandato». L’euforia da Expo «è stata venduta con gran dispiegamento di forze», e alla fine il mantra che ripete ossessivamente “Expo è un successo” «si è affermato con modalità orwelliane». Attenzione: «La saldatura tra Comunione e Liberazione e Pd nella gestione di tutta l’area metropolitana è oramai definitiva». Sotto i profilo culturale, poi, l’Expo si è rivelato «esattamente quello che molti avevano sempre temuto: la materializzazione di una specie di Disneyland in versione padana, con una dose rilevante di kitch e una enorme capacità di imporre il pensiero unico dell’”Expo felice”».Non è un caso che il grande evento sia stato accolto dai media col tappeto rosso: «Ha dato una grossa mano il contribuito di (pare) circa 50 milioni elargito da Expo alle maggiori testate e giustificato sotto la voce “comunicazione istituzionale”», scrive Vitiello. Boom turistico? Sì, certo: ma solo per l’Expo, non per Milano. Weekend intasati e code chilometriche, ma soltanto a Rho. A Milano città, «molti ristoratori lamentano un calo delle presenze in centro, molti esercizi commerciali fuori dalle rotte-Expo non hanno registrato alcun incremento di clientela». In compenso, «sul piano della legalità Expo ha avuto il pregio di far emergere il peggio del peggio della corruzione, della connivenza tra settori dello Stato, con manager incaricati di gestire la cosa pubblica, e criminalità organizzata». Soprattutto ha dimostrato, per quanto fosse già chiaro, che «la macchina del “grande evento”, così come è pensata, genera un diffuso agire criminale». Ormai è chiaro: «Non esiste una “grande opera” sana e pulita, le grandi opere per definizione sono un precipitato di criminalità e di connivenza tra impresa, Stato e organizzazioni malavitose, tanto da rendere difficile distinguere i confini tre questi soggetti».Il dopo-Expo? «Per ora assomiglia a qualcosa a metà tra un film con Fantozzi e un film di Fellini», continua Vitiello. «Sicuramente subiremo con violenza la narrazione del successo di Expo, e si userà il numero di visitatori per giustificarlo. Invece i numeri reali del bilancio verranno tenuti nascosti almeno per tutta la campagna elettorale, che si svolgerà nella prossima primavera». L’unico soggetto che ne uscirà bene sarà Ffm, Fondazione Fiera Milano, «che venderà la sua quota in Arexpo allo Stato, incasserà le plusvalenze e non dovrà nemmeno preoccuparsi delle bonifiche, delle dismissioni e di qualsiasi cosa riserverà il dopo-sito». L’area di Expo, infatti, «rischia di rimanere abbandonata a se stessa per i prossimi mesi e forse per i prossimi anni», perché «tutti resteranno fermi in attesa che vengano definiti gli accordi tra i poteri forti», che per l’area milanese in questa fase significano l’intreccio tra Fondazione Fiera, Ferrovie dello Stato (che «sta per trasformare gli ex scali ferroviari in nuove speculazioni edilizie»), Aler (che «procederà con la svendita del patrimonio immobiliare pubblico») e l’università, che «tenterà di diventare l’ennesimo agente del Real Estate».Uno scenario ad elevato rischio di bolla speculativa, insiste Vitiello, perché «a Milano non esiste nessun bisogno reale, cioè capace di suscitare mercato, di nuove edificazioni o di nuovi interventi, che finiranno per moltiplicare i fallimenti di Santa Giulia o di City Life». Infine si devono considerare i progetti infrastrutturali, che trovano nuova forza dallo “Sblocca Italia” e incombono sull’area metropolitana (in particolare sul Parco Sud: trivelle, discariche e stoccaggi di idrocarburi). Questi progetti «confermano la gigantesca menzogna di Expo rispetto al tema dell’esposizione: cibo, filiera corta, alimenti a km zero, agricoltura sostenibile e periurbana», e dimostrano «l’inutilità della Carta di Milano, spacciata come “High Agreement” quando in realtà nessuno sa cosa ci sia scritto e finirà dimenticata». Expo? «E’ stato e sarà un furto alla collettività. È stato realizzato con risorse pubbliche che hanno drenato le casse del Comune, della Regione e domani anche dello Stato». Il maxi-evento, inoltre, «non ha ridistribuito ricchezza». Ha generato «limitatissimi ritorni economici diffusi», mentre ha prodotto «enormi plusvalenze per pochi soggetti, collocati in posizione strategica». Per Vitiello, quella di Milano 2015 «è stata la vittoria della logica emergenziale, violenta e privatistica di concepire l’economia e più in generale i rapporti sociali in questa fase di crisi», dove tutto è stato “blindato” da Fiera e Compagnia delle Opere.L’Expo? Un affarone per tanti, a cominciare da Pd e Compagnia delle Opere. Molto meno per gli italiani, che dovranno pagare per la voragine (oscurata dai media) dei mancati introiti: biglietti venduti a 20 euro e poi a 10 anziché a 30, a una ventina di milioni di visitatori, contro i 29 previsti. La grande kermesse è stata di un terzo al di sotto delle aspettative, accusa Mario Vitiello su “Comune-Info”, sottolineando «le innumerevoli ferite che si devono ancora rimarginare», dopo la maxi-speculazione organizzata alla periferia di Milano. La proprietà delle aree è di Arexpo Spa, la società che ha comperato il milione di metri quadri su cui si è svolto l’evento: «Li ha acquistati da Cabassi, da Fondazione Fiera e da Poste Italiane, pagandoli uno sproposito (grazie ad una speculazione tipo “mani sulla città” garantita dalla giunta Moratti), indebitandosi con le banche (principalmente Intesa San Paolo per circa 160 milioni) e con la stessa Fondazione Fiera (per circa 50 milioni di euro)». E ora? «La gara indetta negli scorsi mesi per trovare un compratore per le aree del sito è andata deserta, e in molti stanno pensando a cosa fare di queste aree, che per il momento sembrano interessare a tutti ma che nessuno vuole».
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L’Ue odia ciò che amiamo, proprio come la vecchia Urss
«Se controlli il significato de “il bene” e possiedi illimitate risorse propagandistiche e il controllo sulla stampa, nonchè il controllo di forze armate e forze di polizia, puoi edificare una nuova società in tempi relativamente brevi. Puoi spazzare via secoli di tradizioni in poche decadi. Se hai pure il sistema dell’istruzione nelle tue tasche poi, puoi persino cancellare la memoria di ciò che è esisitito. Nessuno ricorderà e a nessuno interesserà. Sta già succedendo in Europa, dove l’ignoranza è ormai forza» (John Rappoport, “The Underground”). Uno dei principi cardine del globalismo elitario è: fine dei confini, cessare l’esistenza di nazioni separate e distinte. L’Unione Europea fu concepita a tale scopo ed edificata, a piccoli passi, a partire dalle macerie della seconda guerra mondiale: una superburocrazia ed un sistema di gestione politica per l’intero continente. Ma questo non era ancora abbastanza. Doveva esserci pure un modo di demolire nazioni diverse tra loro e sovrane fino a lasciare una tabula rasa, un modo di alterarare radicalmente il paesaggio. Aprire i confini, lasciare che i territori nazionali fossero inondati da migranti.“Sostituire le popolazioni”, flussi di gente che non ha la minima intenzione di accettare costumi e stili di vita in voga nelle loro nuove case. Il risultato finale? Una riconfigurazione di fatto delle popolazioni nazionali, al punto che, guardando all’Europa tra vent’anni potremo dire: «Perchè mai parliamo di Germania, Francia o Inghilterra? Non esistono realmente. L’intera Europa è un miscuglio non omogeneo di vari migranti, l’Europa oggi è una sola nazione, è tempo di cancellare tutti questi confini artificiali». A un certo punto anche solo pronunciare parole quali “svedesi, norvegesi, tedeschi, francesi, olandesi” sarà considerata una più o meno micro, o macro, aggressione contro “le genti d’Europa”. Chiaramente una volta raggiunto questo stadio a ciò si accompagnerebbe un certo quantitativo di caos e violenza. La Ue sta scommettendo sulla sua capacità di gestire il disordine, di reprimerlo quando necessario, e consolidare e mantenere lo status di unica forza di governo effettiva in Europa.Ad un livello culturale, nomi come Locke, Shakespeare, Goethe, Mozart, Beethoven, Bach, Lorca, Goya, Cézanne, Monet, Van Gogh, Michelangelo, Rembrandt, Dante, Galileo, Faraday e persino nomi “moderni” come Bartok, Stravinsky, Rimbaud, Orwell e Camus non resteranno che vaghi fantasmi polverosi in grado di provocare null’altro che sguardi di incomprensione. “Il passato è morto”. “Ma non c’è nulla da temere, quel che conta è che ogni persona che vive in Europa è cittadino europeo e gode dei benefici che ne derivano. E’tutto molto umano, questo è il Bene, il trionfo dello Stato benevolo. Nient’altro conta”. Tutte le lingue europee cadranno progressivamente in disuso. Chi ha il diritto di esprimersi con parole che la maggioranza non è in grado di capire? Questo schizzo che sto tracciando descrive la griglia che sta per essere lanciata sull’Europa. E chiaramente, dal momento che l’automazione galoppa, molti “cittadini-lavoratori d’Europa” diventeranno inutili. Persino grandi multinazionali crolleranno, perchè non potranno più vendere i loro prodotti alle popolazioni impoverite. Non fanno che sperare che milioni di asiatici, Cina e India in testa, gli regaleranno nuovi mercati.Su questo sfondo l’essere umano individuale sarà considerato, dall’alto, come una cifra, una astratta unità buona per “modelli e algoritmi”. La domanda è: quanti individui abboccheranno e accetteranno di vedere se stessi come semplici parti interscambiabili nel sistema generale? Quanti getteranno via ogni speranza e accetteranno il futuro solo come una funzione di quello che lo Stato è disposto a concedere e che dallo Stato possono ottenere gratis? In quanti realizzeranno che il loro potere come individui è inconsequenziale, o meglio pura illusione? Come mai ho avuto voglia di far salire a galla cose simili? Perchè, nonostante la prevalente mentalità collettivistica, propagandata, promossa e sfruttata al livello dell’élite, la repressione di Stato, a tutti i suoi livelli, colpisce ogni individuo. Se il concetto stesso di individuo viene spezzato via, cosa ne resta? Nel 1859 John Stuart Mill scrisse: «Se ci fosse coscienza del fatto che il libero sviluppo dell’individualità è un fattore essenziale al benessere non ci sarebbe alcun rischio che l’importanza della libertà sia sottovalutata». Contrariamente, dove il libero sviluppo dell’individualità non è preoccupazione di nessuno, la libertà è destinata a morire.Boris Pasternak, lo scrittore e poeta Russo, che certamente sapeva un paio di cosette sulla repressione politica, scrisse (nel 1960): «Loro (i burocrati sovietici) non pretendono molto da te. Soltanto di odiare le cose che ami e amare le cose che odi». Questa inversione viene riproposta oggi, in Europa. I dissidenti della vecchia Urss lo riconosceranno in un lampo, dal momento che ci sono già passati. La versione europea ci tiene ad apparire più morbida e gentile, ma non è altro che questione di strategia. La cultura se la stanno cuocendo a fuoco lento. Ma il semplice fatto che non abbiamo la polizia segreta che bussa alle nostre porte nel mezzo della notte per eseguire arresti di massa non è di per sé garanzia che la libertà individuale regna. Parecchi politici europei dicono ai loro elettori: «Non avete il diritto di opporvi in nessun modo alla marea di migranti in arrivo. Dichiarare pubblicamente ostilità ai migranti è offensivo». Suona familiare?Il sogno segreto di ogni collettivista sta divenendo realtà. Tutto il potere accentrato al vertice; e totale conformità (definita “unità”) ad ogni altro livello. La nuova Urss. Ai vecchi tempi la polizia della Germania Est aveva un fascicolo su ogni cittadino e seminava per la popolazione spie e informatori. Il moderno Stato di sorveglianza ha rimpiazzato questi sistemi, cercando piuttosto i “nodi del malcontento”. I collettivisti possono, a parole, anche denunciare all’occorrenza i rischi di uno stato di polizia, ma ogni volta che questi sistemi sono usati per sbarazzarsi di qualcuno che possiede la visione di un mondo migliore di quello basato, tra le altre cose, sull’assenza di confini allora è soltanto “il Bene” imposto a chi non sa riconoscere il bene da solo. Se un tale nobile scopo umanitario ha bisogno di qualche spintarella per essere inculcato, perchè no?Per colletivisti fatti e finiti, la libertà non è solo un fastidioso blocco stradale, peggio, è una illusione irrilevante, non è mai esistita. Tutti gli esseri umani funzionano per come sono programmati a farlo, sin dalla nascita. Quindi, basta installare un programma migliore, inculcalo con ogni mezzo a disposizione, purchè si producano i desiderati “uomini-bambino”. E’un imperativo sia politico che tecnologico. Confini aperti ed immigrazione illimitata sono un ottimo caso-prova. Per la gente che pensa gli venga imposta la frammentazione delle proprie comunità, che si sentono personalmente minacciate, che abbiano la percezione che sia una operazione coperta per trasformare l’Europa in una nuova Urss, urge rieducazione al livello più profondo possibile. Per il loro bene, perchè certamente questa gente soffre di gravi disturbi. I loro circuiti sono bruciati, dev’esserci qualche difetto hardware del cervello, sono incapaci di vedere le cose correttamente.Tra le cose che non potrebbero vedere ad esempio ad esempio, è la saggezza in queste parole di Zbigniew Brzezinski, ovvero l’alter ego di David Rockefeller, che nel 1969 scriveva: «Lo Stato nazione, inteso come unità fondamentale nella vita organizzata dell’uomo ha cessato di rappresentare la principale forza creativa: le banche internazionali e le corporazioni multinazionali agiscono e pianificano in termini che scavalcano ed eludono i concetti politici delllo Stato-nazione». Qui vediamo il tattico globalista in azione, un uomo che apparentemente odia la vecchia Urss ma che in realtà punta all’istallazione del medesimo collettivismo attraverso altri mezzi. Se Lenin fosse vivo oggi, guardando all’Europa sarebbe d’accordo che la sua agenda è in pieno corso e gode di ottima salute. Potrebbe obiettare solamente per il passo relativamente lento a cui procede. Potrebbe sostenere che serve maggiore violenza. Ma non potrebbe non riconoscere come i suoi successori hanno scoperto un bel po’ di utili trucchetti nuovi. Approverebbe dell’“altruismo umanitario”, il modo in cui viene presentato e manipolato, in modo che l’edificio del “Bene” appaia come una luce che brilla nell’oscurità. Gran film. Bel lavoro di produzione. Le lacrime sulle gote degli spettatori. Le menti ridotte a una sola costante: dobbiamo interessarci a chi è meno fortunato di noi. Milioni di migliaia di migliaia di dollari spesi per instillare il sentimento, indipendentemente dalle circostanze o dalle vere intenzioni malevole sottostanti, o le indicibili sinistre intenzioni degli artisti elitari della realtà.(Jon Rappoport, “Il piano per la fine dell’Europa: la nuova Urss”, dal blog di Rappoport del 21 ottobre 2015, post tradotto da “Come Don Chisciotte”).«Se controlli il significato de “il bene” e possiedi illimitate risorse propagandistiche e il controllo sulla stampa, nonchè il controllo di forze armate e forze di polizia, puoi edificare una nuova società in tempi relativamente brevi. Puoi spazzare via secoli di tradizioni in poche decadi. Se hai pure il sistema dell’istruzione nelle tue tasche poi, puoi persino cancellare la memoria di ciò che è esisitito. Nessuno ricorderà e a nessuno interesserà. Sta già succedendo in Europa, dove l’ignoranza è ormai forza» (Jon Rappoport, “The Underground”). Uno dei principi cardine del globalismo elitario è: fine dei confini, cessare l’esistenza di nazioni separate e distinte. L’Unione Europea fu concepita a tale scopo ed edificata, a piccoli passi, a partire dalle macerie della seconda guerra mondiale: una superburocrazia ed un sistema di gestione politica per l’intero continente. Ma questo non era ancora abbastanza. Doveva esserci pure un modo di demolire nazioni diverse tra loro e sovrane fino a lasciare una tabula rasa, un modo di alterarare radicalmente il paesaggio. Aprire i confini, lasciare che i territori nazionali fossero inondati da migranti.
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L’orgia cannibale è realtà, Pasolini non doveva svelarla
Tu chiamalo, se vuoi, movente esoterico. Nasce dalla chiave di lettura “simbolica” dell’evento, quella che fa caso a dettagli in apparenza insignificanti, senza valore per la verità giudiziaria. In base a questa analisi, Pasolini sarebbe stato assassinato con le modalità del sacrificio rituale, in base alla “pena del contrappasso” enunciata da Dante Alighieri, per due ragioni sostanziali. La prima: aveva denunciato la subdola ferocia del potere mettendo alla berlina col romanzo “Petrolio” i mandanti dell’omicidio Mattei. E soprattutto, attraverso le atroci sequenze del suo ultimo film, “Salò”, ispirato al romanzo del marchese De Sade “Le 120 giornate di Sodoma”, aveva osato mettere in scena l’abominio di perversioni sessuali violente, fino alla morte delle giovani vittime, perpetrato da una super-casta annidata tra i massimi vertici. Non un incubo o una fantasia terribile, ma l’agghiacciante rappresentazione di una realtà indicibile, sostiene Stefania Nicoletti. Per questo Pasolini è stato ucciso, e in quel modo: con “Salò”, film strettamente collegato all’omicidio (le pellicole rubate), aveva denunciato una pratica selvaggia, di spaventosa brutalità, tragicamente ordinaria in alcuni ambienti insospettabili.Stefania Nicoletti collabora da anni con l’avvocato Paolo Franceschetti, già legale delle “Bestie di Satana” e indagatore dei più controversi casi di cronaca, da Cogne al Mostro di Firenze. La tesi è suffragata da osservazioni inconsuete: molti delitti di cui parlano i media sono fatti di sangue solo in apparenza inspiegabili; in realtà si tratta di veri e propri “sacrifici umani”, compiuti da esoteristi che agiscono al riparo di potentissime protezioni, anche istituzionali. Quello che viene esibito – le indagini inconcludenti, il capro espiatorio socialmente fragile – non è che un copione per depistare l’opinione pubblica. La verità, ripete Franceschetti, è che ogni anno, in Italia, spariscono centinaia di minori. «Dove finiscono? Molti loro nel gorgo del traffico di organi, e altrettanti – appunto – nella potentissima rete dei pedofili: gente che arriva a pagare cifre folli per gli “snuff movie”, i film dove la giovane vittima viene violentata e seviziata fino alla sua morte», come appunto nel film di Pasolini. Ed ecco allora l’altro movente, quello occulto, che si salda con la volontà di eliminare e “punire” una voce troppo coraggiosa, lo scrittore che in “Petrolio” (uscito postumo) accusò Eugenio Cefis per la morte di Mattei, il “padre” dell’Eni temutissimo alle Sette Sorelle in quanto filo-arabo.«Spesso il movente del delitto di un personaggio scomodo non è uno solo, ma sono più moventi insieme, che non si escludono a vicenda ma anzi sono complementari, come sono complementari gli interessi e le entità che vogliono la morte di un determinato personaggio inviso al sistema», scrive Stefania Nicoletti sul blog di Franceschetti. E’ il caso, appunto, di Pasolini, sul quale si è scritto di tutto, anche di recente. Nel 2009, ad esempio, è uscito per “Chiarelettere” il libro “Profondo nero” di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, che porta avanti la tesi Eni-Cefis-Mattei e che contiene anche un’intervista a Pino Pelosi, il “ragazzo di vita” che era con Pasolini quella tragica sera, il 2 novembre 1975, all’Idroscalo di Ostia (alla pista-Eni ha dato risalto, tra gli altri, anche il blog di Beppe Grillo). Nell’agosto 2012, continua la Nicoletti, è arrivata la sentenza della Corte d’assise di Palermo sulla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, ucciso nel 1970 perché stava indagando sulla morte di Mattei. Una sentenza, dunque, dopo 40 anni. De Mauro? Ucciso per paura che rivelasse i mandanti del sabotaggio dell’aereo di Mattei, precipitato a Bascapè sulle colline dell’Oltrepo Pavese.«La causa scatenante della decisione di procedere senza indugio al sequestro e all’uccisione di Mauro De Mauro – scrivono i giudici – fu costituita dal pericolo incombente che egli stesse per divulgare quanto aveva scoperto sulla natura dolosa delle cause dell’incidente aereo di Bascapè, violando un segreto fino ad allora rimasto impenetrabile e così mettendo a repentaglio l’impunità degli influenti personaggi che avevano ordito il complotto ai danni di Enrico Mattei, oltre a innescare una serie di effetti a catena di devastante impatto sugli equilibri politici e sull’immagine stessa delle istituzioni». Mauro De Mauro, aggiunge la Nicoletti, stava collaborando con il regista Francesco Rosi per il film “Il caso Mattei” e scomparve nel nulla poco prima dell’incontro previsto con Rosi. Cinque anni più tardi, Pier Paolo Pasolini stava indagando sulla stessa pista e aveva scoperto le stesse cose, venendo in possesso di documenti riservati su Eugenio Cefis. E fece la stessa fine di De Mauro.Nel dicembre 2013, poi, escono articoli di giornale che parlano di “svolta” nell’inchiesta per il delitto Pasolini. Dopo 38 anni, scrive Nicoletti, gli inquirenti si accorgono che forse c’è qualcosa che non va nella versione ufficiale e riaprono le indagini. La notizia è che ci sono dei sospetti sui complici di Pino Pelosi: nuovi elementi confermerebbero che a partecipare all’omicidio sarebbero state più persone. «Sono stati ascoltati 120 testimoni, di cui molti non erano mai stati sentiti in precedenza». In articoli come quelli pubblicati dal quotidiano “Il Tempo”, sottolinea la Nicoletti, viene rimarcato più volte che i testimoni sono proprio 120: numero ripetuto per ben tre volte nelle prime righe. «Quando lessi l’articolo, questo particolare mi suonò strano, perché avrebbero anche potuto scrivere “un centinaio” oppure “oltre cento testimoni”. Quel 120 così preciso – scrive la Nicoletti – mi ha ricordato il titolo “Salò o le 120 giornate di Sodoma”», il film “maledetto” che Pasolini aveva ultimato pochi giorni prima di essere ucciso. «È probabile che in questo articolo e nell’intera operazione sia celato qualche messaggio, dato che è proprio nel film in questione che si può trovare uno dei moventi dell’omicidio». In “Salò”, aggiunge Nicoletti, «Pasolini aveva raccontato ciò che accade all’interno delle organizzazioni che detengono il potere».Nello stesso articolo del “Tempo” si parla di «reperti esaminati in passato e ora recuperati dagli investigatori, per avviare nuove analisi utilizzando tecniche scientifiche che precedentemente non esistevano». Di quali reperti si tratta? «Risulta che all’epoca dei fatti venne cancellato o manomesso tutto ciò che poteva essere utile alle indagini: non venne recintato il luogo del delitto, le prove e le tracce vennero cancellate, l’auto di Pasolini venne lasciata incustodita, in modo che chiunque avrebbero potuto mettere o togliere indizi». Dunque, conclude l’analista, «non si capisce quali “reperti” siano ancora validi e possano essere analizzati scientificamente». Un anno dopo, nel dicembre 2014, si parla ancora di “svolta” nelle indagini: le analisi del Dna sugli abiti di Pasolini rilevano tracce di altre 5 persone. Dalle macchie di sangue è stato estratto il codice genetico di altri possibili sospettati, complici quindi di Pelosi. Ma due mesi dopo, nel febbraio 2015, arriva subito un’altra notizia: il test del Dna non risolve il caso, perché il materiale biologico “non è attribuibile”, né collocabile temporalmente.«I magistrati hanno consegnato al gip la richiesta di archiviazione. E dunque l’inchiesta sul delitto Pasolini, riaperta nel 2010, dopo tutti questi annunci di presunte “svolte”, viene di nuovo archiviata». Ma nel 2014, quando l’inchiesta è ancora aperta, Pino Pelosi continua a fare dichiarazioni e viene convocato dalla Procura di Roma per essere interrogato di nuovo. Queste sono alcune delle sue affermazioni: «Quella notte all’Idroscalo c’erano tre automobili, una motocicletta e almeno sei persone, ma non sono in grado di dire chi fossero. Oltre all’Alfa Gt di Pasolini, c’era una Fiat 1300 e un’altra Alfa identica a quella di Pier Paolo. Era buio pesto e ho visto arrivare sul posto due automobili e una motocicletta. C’erano almeno sei persone, e due individui hanno trascinato Pier Paolo fuori dall’abitacolo. In un primo momento sono riuscito ad allontanarmi, fuggendo. Da dove mi trovavo sentivo Pier Paolo gridare e chiedere aiuto, ma nulla di più. Sotto al tappetino dell’automobile di Pier Paolo, c’erano 3 o 4 milioni di lire. Denaro che non venne ritrovato insieme alla vettura». In più, «l’esame del radiale dell’Alfa di Pasolini, che avrebbe dovuto investirlo e schiacciarlo quando era già a terra, uccidendolo, non è stato mai effettuato».Il pm Francesco Minisci gli domanda di chiarire alcuni aspetti relativi al possesso – all’epoca dei fatti – di una Fiat 850 Coupé. Automobile che, a detta di un testimone, sarebbe stata rubata e poi fatta circolare con targhe “buone”. E Pelosi risponde: «Dovrebbero andare a bussare alla porta della cugina di Pasolini, Graziella Chiarcossi, che denunciò il furto della macchina del regista, poi ritrovata a Fiumicino, e a quella di Ninetto Davoli che, a distanza di anni dai tragici eventi, fece distruggere l’Alfa Gt del regista». In effetti l’auto di Pasolini è stata demolita da Davoli nel 1987, come risulta anche alla motorizzazione di Roma. «Queste di Pelosi sono dichiarazioni importanti, che andrebbero quantomeno approfondite», annota Nicoletti. «Ma l’inchiesta, come abbiamo già visto, è stata archiviata». Intanto, nel settembre 2014, esce il tanto atteso film “Pasolini” di Abel Ferrara, pubblicizzato come “film verità” sull’ultimo giorno di vita e sull’omicidio, con promesse di rivelazioni clamorose. Il regista americano dichiara alla stampa di conoscere la verità sul delitto Pasolini e di rivelare il vero autore dell’omicidio, con tanto di nome e cognome. «Promesse assolutamente disattese: infatti nel film non solo non viene fatto il nome del vero assassino, ma viene messa in atto una vera e propria azione di depistaggio».Nelle scene finali viene ricostruita la notte dell’omicidio, continua Nicoletti: «Secondo Abel Ferrara, a uccidere Pasolini non è stato Pelosi – e fin qui va bene – ma un gruppo di sbandati che lo ammazzano perché è ricco e vogliono derubarlo, e perché è omosessuale. Per tutta la sua durata, il film fa credere di voler dare un’ipotesi alternativa sulla dinamica dell’omicidio e sugli esecutori, citando anche brani del romanzo “Petrolio”. Si arriva alla fine del film con tante attese e speranze… E in effetti l’ipotesi alternativa viene data, ma essa è ancora più depistante di quella ufficiale». Esiste invece un altro film, pronto già nel 2012 ma che non è mai riuscito a trovare una distribuzione. Si intitola “Pasolini, la verità nascosta” e il regista è Federico Bruno, che ha ricostruito l’ultimo anno di vita di Pasolini: la stesura del libro “Petrolio” e i capitoli mancanti sull’Eni e sul delitto Mattei, la preparazione del film “Salò” e il furto delle bobine (i negativi), le ultime interviste alla tv francese e a Furio Colombo. «Il film smentisce la tesi ufficiale, portando nuove inedite informazioni. E lo fa davvero, non come quello di Ferrara. Per questo motivo, il film di Federico Bruno è stato boicottato e non distribuito in Italia, rifiutato da tutti, anche dai parenti di Pasolini; mentre invece il film depistante di Abel Ferrara è stato finanziato dallo Stato, appoggiato dagli eredi di Pasolini, e persino presentato in concorso al 71° Festival del Cinema di Venezia».Negli ultimi mesi, continua Stefania Nicoletti, è stato annunciato un altro film, che uscirà a febbraio 2016: “La macchinazione” di David Grieco, amico e collaboratore di Pasolini, e anche autore della memoria civile al processo Pelosi. Il film racconterà gli ultimi tre mesi di vita di Pasolini. «In alcune interviste, Grieco afferma che Pasolini è stato ucciso dall’organizzazione che ha compiuto tutte le stragi italiane (che lo stesso Pasolini aveva denunciato nel suo celebre “Io so” e in altri articoli) e messo in atto la strategia della tensione, servendosi di uomini dei servizi segreti e di Gladio». Lo dichiara apertamente, Grieco, intervistato dal “Piccolo” di Trieste: «Pasolini è stato ammazzato da quelli che hanno fatto tutto quello che è stato fatto dal ’69 in poi in questo paese: le stragi, la strategia della tensione, gli omicidi politici, le bombe sui treni, la stazione di Bologna, piazza della Loggia, eccetera. L’organizzazione era molto vasta e quindi non parlo materialmente delle stesse persone. È un’organizzazione che nasce all’alba della Liberazione, quando gli americani arrivano in Italia, l’esercito tedesco è in rotta e loro già stanno pensando a come fronteggiare il nemico sovietico».«Si crea uno Stay Behind che in Italia si chiama Gladio, organizzazione clandestina ma fino a un certo punto perchè in America è pienamente nota ed è presente in tutti i rapporti della Cia al congresso americano», continua Grieco, che spiega che Gladio «serve a fare qualsiasi cosa purché il comunismo non si espanda e non prenda piede nella parte occidentale o meridionale d’Europa. Qualunque mezzo è lecito». Leggendo queste dichiarazioni, Stefania Nicoletti si domanda: «Come mai David Grieco, amico storico di Pasolini, parla pubblicamente solo adesso? Come mai non l’ha detto prima, anziché aspettare 40 anni? Forse è il segno che “qualcuno” ha deciso che certe verità devono emergere in questo momento storico». Oltre al film che sta realizzando, Grieco ha pubblicato anche un libro: “La macchinazione. Pasolini, la verità sulla morte”, uscito da poche settimane, edito da Rizzoli. Grieco fu tra i primi a raggiungere il luogo in cui fu trovato il corpo senza vita di Pasolini, insieme al medico legale Faustino Durante, anche se «risultava che sul luogo del delitto non fosse mai stato convocato un medico legale». Inoltre, Grieco è stato il compagno di Bruna Durante, figlia del medico legale.Se l’infinita odissea processuale – proprio come quelle delle stragi e dei casi di cronaca “irrisolti” – naufraga in un mare di ombre, sospetti, menzogne e depistaggi, Stefania Nicoletti si concentra sul profilo “simbolico” della vicenda, sempre trascurato. «A mio parere – scrive – nella scelta del luogo e nella modalità dell’omicidio, è stata applicata più volte la legge del contrappasso». L’Idroscalo è un aeroporto (per gli idrovolanti), e Pasolini «aveva scoperto la verità sull’omicidio di Enrico Mattei, morto in un incidente aereo». Un “contrappasso per analogia”? «Anche nella messa in scena del movente sessuale possiamo trovare un contrappasso: l’hanno ammazzato nei luoghi degradati e negli ambienti violenti che aveva sempre descritto nelle sue opere. Le borgate, i ragazzi di vita, l’omosessualità. Da un lato era un ottimo modo per avere una rapida risoluzione del caso e per poi continuare ad infangarne la memoria, dall’altro fu un omicidio per analogia: ti facciamo morire come uno dei tuoi personaggi. Stessi luoghi, stesse persone, stesse modalità».Ancora cinema: alla fine del 2013 è stata annunciata la pubblicazione di una sceneggiatura risalente al 1959 e rimasta finora inedita, “La Nebbiosa”, in cui Pasolini aveva descritto un omicidio uguale al suo. La trama: un gruppo di teppisti sequestra un omosessuale, lo conduce in uno spiazzo deserto e lo picchia a sangue fino alla morte. I giornali parlano di “visione profetica”, scrivendo che Pasolini “sapeva come sarebbe morto” e che “ha anticipato lo scenario” del suo omicidio. «In realtà, non è che sapeva come sarebbe morto, e nemmeno ha anticipato o profetizzato la sua morte», puntualizza Stefania Nicoletti. «Invece è il contrario: l’hanno ucciso come il personaggio di questa sua opera inedita ora pubblicata. E anche qui possiamo quindi trovare la legge del contrappasso». Secondo la Nicoletti, «è la stessa operazione che fecero con Rino Gaetano e la sua canzone “La ballata di Renzo”», in cui il cantante descrisse la morte di un giovane rifiutato da più ospedali e morto dissanguato nella notte, come in effetti poi accadde all’autore di “Nun te reggae più”. «Anche nel caso di Rino Gaetano si disse che aveva profetizzato la sua morte molti anni prima, quando invece fu il contrario: lo uccisero come in quella sua canzone».Sulla storia descritta ne “La Nebbiosa”, il quotidiano “Libero” scrive: «L’alba è vicina e i ragazzi caricano in macchina un omosessuale, lo portano in uno spiazzo isolato, lo spogliano e lo massacrano a sangue. Una scena che sconvolge perché ricorda molto da vicino proprio le modalità con cui Pasolini verrà ucciso nel 1975 al Lido di Ostia. Talmente da vicino che, se stessimo scrivendo un giallo e non un articolo, potremmo ipotizzare che chi ha ucciso Pasolini avesse letto il copione e avesse tutto l’interesse a farlo scomparire. Quasi che “La Nebbiosa” potesse contenere quei segreti sulla morte dello scrittore che nemmeno la magistratura è mai riuscita del tutto a chiarire». Preveggenza, appunto, o piuttosto esecuzione progettata sulla base del copione narrato dalla stessa vittima? Per questo Stefania Nicoletti si concentra su “Salò o le 120 giornate di Sodoma”, l’ultimo film di Pasolini, uscito postumo due mesi dopo la sua morte. Il regista terminò il montaggio proprio il giorno prima di essere ucciso. Film legato a doppio filo all’omicidio: non solo perché si conclude con una strage, ma perché finì direttamente nelle indagini a causa di materiale cinematografico rubato e poi utilizzato per condizionare il regista, forse addirittura per tendergli l’agguato mortale.E’ noto infatti l’episodio delle bobine di “Salò” rubate alla Technicolor: unico caso nella storia del cinema di furto di “pizze” con richiesta di riscatto (due miliardi di lire). Pasolini si rifiutò di pagare: disse al produttore che avrebbe ricavato un negativo da un positivo e che avrebbe fatto a meno degli originali. Poco dopo, continua Stefania Nicoletti, un personaggio oscuro della malavita romana – si dice che fosse un esponente della Banda della Magliana – andò dal regista Sergio Citti e gli disse di essere in possesso delle pellicole e di poterle restituire anche gratis se avesse organizzato un incontro con Pasolini. Fu lo stesso Citti, amico e collaboratore del regista, a raccontare l’episodio nel 2005, dichiarando anche di non essere mai stato chiamato a testimoniare (secondo il regista Federico Bruno, invece, Citti sarebbe stato ascoltato dagli inquirenti). Pasolini dapprima rifiutò l’incontro per la restituzione delle “pizze”, non fidandosi dell’ambiente da cui proveniva la proposta. Ma in un secondo momento accettò, convinto da Pino Pelosi, che conosceva da qualche mese. «Pelosi fece quindi da esca – consapevole o meno – alla trappola tesa per portare Pasolini a Ostia e ucciderlo».Il film “Salò” è ispirato al romanzo del marchese De Sade “Le 120 giornate di Sodoma”, ma Pasolini ne colloca l’ambientazione tra il 1944 e il 1945, nel Nord Italia occupato dai nazifascisti durante la Repubblica Sociale Italiana (da cui il titolo “Salò”). In una villa isolata, si riuniscono quattro rappresentanti del potere: il Duca, il Monsignore, l’Eccellenza (Giudice di Corte d’assise), e il Presidente (di una banca). I quattro Signori fanno rapire decine di ragazzi e ragazze, e nella villa infliggono loro ogni tipo di violenza e tortura psicologica, fisica e sessuale. Con il passare del tempo, i giovani perdono la dignità umana e si abbandonano al loro destino, consegnano il proprio corpo e la propria anima ai Signori. Giunti quasi al termine delle 120 giornate, in cerca di una violenza sempre più intensa, i Signori decidono di passare alla forma più estrema di “piacere”: quello assassino, uccidendo la maggior parte dei ragazzi. «È un film scioccante, crudele, terribile. Ma è più di un film… racconta la realtà. Una realtà che non si riferiva solo al periodo in cui è ambientato – afferma Stefania Nicoletti – ma che esisteva anche negli anni ’70 quando Pasolini ha scritto e girato il film, e che continua ad esistere anche oggi».Una realtà «fatta di abusi atroci, di torture sessuali, di delitti rituali commessi da coloro che detengono il potere, i cosiddetti “insospettabili”, professionisti e persone rispettabili, i vertici del Sistema». Ne parlò anche il blog di Franceschetti nel 2011, riportando «testimonianze di sopravvissuti a un sistema di abusi simili a quelli descritti da Pasolini». Nel film “Salò”, i quattro Signori «rappresentano i rami del potere: nobiliare, ecclesiastico, giudiziario, economico-bancario». Il vero potere. «Nel film i quattro potenti assoldano dei giovani repubblichini di leva e delle SS, e li incaricano di rapire i ragazzi e portarli alla villa. Le milizie nazifasciste rappresentano sia il potere militare (ma a livelli bassi: non sono generali o comunque ufficiali) sia quello politico, che è subordinato agli altri poteri: i quattro Signori si servono dei repubblichini per raggiungere i loro scopi». Il film è suddiviso in quattro parti, che richiamano nel titolo la geografia dantesca dell’Inferno: Antinferno, Girone delle Manie, Girone della Merda e Girone del Sangue. Chi conosce il blog di Franceschetti sa quanto siano importanti Dante e la Divina Commedia per le società segrete, sia quelle originarie (iniziatico-libertarie) che quelle più recenti e deviate: «Pasolini, che conosceva bene il sistema in cui viviamo, in questo film ha descritto proprio le organizzazioni massoniche ed esoteriche “nere” che compiono abusi e delitti rituali; e forse, con il richiamo all’Inferno, ha voluto darci un’ulteriore indicazione sulla natura di ciò che ha raccontato».Un altro particolare che Pasolini ha preso dalla realtà, continua Stefania Nicoletti, è la modalità del rapimento: «I giovani vengono scelti in base a determinate caratteristiche, e vengono strappati dalle proprie famiglie; ma talvolta sono invece i loro stessi familiari che li vendono». Inoltre prendono parte alle sevizie anche le figlie dei quattro super-potenti, trattate come schiave. Significativo anche il fatto che, secondo il regolamento della villa, “i più piccoli atti religiosi, da parte di qualunque soggetto, verranno puniti con la morte”. Nel film come nella realtà, infatti, «all’interno di queste organizzazioni occulte viene osteggiato qualunque tipo di religiosità o di spiritualità autentica, per lasciare spazio invece a quella deviata», scrive la Nicoletti. «Chi “tradisce” il regolamento viene ucciso, come la ragazza a cui nel film viene tagliata la gola davanti a un altare religioso, e il corpo viene mostrato a tutto il gruppo come monito». Molto eloquente il discorso che il Duca pronuncia quando “accoglie” le giovani vittime nella sua villa: «Deboli creature incatenate, destinate al nostro piacere, spero non vi siate illuse di trovare qui la ridicola libertà concessa dal mondo esterno. Siete fuori dai confini di ogni legalità. Nessuno sulla terra sa che voi siete qui. Per tutto quanto riguarda il mondo, voi siete già morti».Una logica che «esprime perfettamente quello che succede davvero all’interno delle organizzazioni di potenti che commettono abusi e delitti come quelli narrati». Nella sua ultima intervista televisiva, concessa a una tv francese il 31 ottobre 1975 (due giorni prima della morte), in occasione dell’uscita del film, Pasolini affermò: «Il cannibalismo? In certi ambienti è un fatto politico reale, in certi ambienti è un fatto politico metaforico». Insomma, a una lettura attenta e profonda, secondo Stefania Nicoletti «si può capire come Pasolini abbia usato l’espediente dell’ambientazione durante l’occupazione nazifascista per raccontare una realtà molto più grande e attuale». “Salò” illuminerebbe un vero e proprio inferno, retroterra di troppe sparizioni “inspiegabili”, delitti eccellenti, fatti di sangue che restano senza colpevoli. E sparizioni di centinaia di minori, in Italia e nel mondo, ogni anno. «Una realtà fatta di violenze e di abusi rituali, di delitti e di sacrifici umani. Una realtà che coinvolge i vertici del potere, ma che viene sistematicamente occultata. Qualcosa di molto pericoloso, che Pasolini non avrebbe dovuto raccontare e che ha pagato con la vita».Tu chiamalo, se vuoi, movente esoterico. Nasce dalla chiave di lettura “simbolica” dell’evento, quella che fa caso a dettagli in apparenza insignificanti, senza valore per la verità giudiziaria. In base a questa analisi, Pasolini sarebbe stato assassinato con le modalità del sacrificio rituale, in base alla “pena del contrappasso” enunciata da Dante Alighieri, per due ragioni sostanziali. La prima: aveva denunciato la subdola ferocia del potere mettendo alla berlina, col romanzo “Petrolio”, i mandanti dell’omicidio Mattei. E soprattutto, attraverso le atroci sequenze del suo ultimo film, “Salò”, ispirato al romanzo del marchese De Sade “Le 120 giornate di Sodoma”, aveva osato mettere in scena l’abominio di perversioni sessuali violente, fino alla morte delle giovani vittime, perpetrato da una super-casta annidata tra i massimi vertici. Non un incubo o una fantasia terribile, ma l’agghiacciante rappresentazione di una realtà indicibile, sostiene Stefania Nicoletti. Per questo Pasolini è stato ucciso, e in quel modo: con “Salò”, film strettamente collegato all’omicidio (le pellicole rubate), aveva denunciato una pratica selvaggia, di spaventosa brutalità, tragicamente ordinaria in alcuni ambienti insospettabili.
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Volevano suicidare la Russia, odiano Putin che l’ha salvata
Quando la Russia era amica degli Stati Uniti, Pavel Grachev era ministro della difesa, dal 1992 al 1996. Erano gli anni della transizione post sovietica. Il presidente Yeltsin e i suoi giovani riformatori traghettavano un paese lacero e miserabile verso un futuro di libertà stracciona, di occidentalismo predatorio, di privatizzazione da Far West. Una Russia società aperta, che danzava ubriaca sulla fune sopra il baratro. E senza rete di salvataggio. Era, quella, la Russia degli americani. In nessun periodo storico fu Mosca più vezzeggiata, lusingata e accarezzata dall’affabile alleato transatlantico. Nel momento in cui rinunciò a qualunque politica estera, a qualunque sfera di influenza, all’interesse nazionale e alla geopolitica, i sorrisi della politica americana si sprecarono per anni, promettendo ai russi integrazione, sviluppo, benessere. E consegnando invece, tutt’al più, una copia vintage e involgarita delle luci di New York sulle cupole zariste e i condomini khruscioviani lungo la Moscova. Pochi russi ammassavano fortune d’altri tempi sulle ceneri di una superpotenza in saldo. Una generazione di giovani vedeva scomparire l’istruzione, la sanità, la sicurezza di uno stipendio povero ma in grado di assicurare la spesa quotidiana e un tetto.Milioni di ragazze scoprivano che i loro corpi avevano un mercato, per le strade di Mosca invase dai turisti o nelle città d’Europa finalmente accessibili per una schiavitù diversa dalla solita, e più brutale. Gli orfanotrofi traboccavano di creature malnutrite rifiutate da famiglie scomparse e abbandonate da uno Stato in bancarotta. La droga, il collasso dei servizi pubblici e l’anomia sociale mietevano un numero incalcolabile di giovani vittime ai quattro angoli di un impero arrugginito, venduto pezzo per pezzo come metallo di scarto sui mercati mondiali della corruzione e del malaffare. Mosca e San Pietroburgo, di notte, facevano paura. Crimine fuori controllo, omicidi spiccioli ed esecuzioni mafiose in grande stile terrorizzavano città senza più legge, dove la polizia sopravviveva grazie alle mazzette e all’estorsione e i malviventi regnavano come mai i Corleone e i Riina avrebbero potuto sognare nella loro terra. La Russia di Yeltsin non era più orso. Era semmai un elefante mutilato e sanguinante, cui bracconieri indigeni e stranieri somministravano stupefacenti per tenerlo in vita, mentre gli rubavano avorio, organi, e anima.E poi c’era l’esercito. L’istituzione che aveva, sin dalla rivoluzione d’ottobre, rappresentato la gloria e la potenza, il vanto e l’orgoglio, il blasone e il sigillo della leadership mondiale della Russia dei Soviet. Non più Armata Rossa ma Russa, l’esercito era allora sotto la guida di Grachev. Una figura dimenticata ma preziosa, per capire la storia. Non la storia dei summit e delle dichiarazioni diplomatiche, no. La storia di uomini e donne, di carne e di sangue, di vita e di morte. La storia dei russi, contro la storia dei think tank e delle accademie e dei fondi monetari. Era il dicembre 1994 e Grachev aveva dichiarato con boria mediatica che l’esercito russo avrebbe potuto conquistare Grozny in 24 ore con un solo reggimento di paracadutisti. Perché oltre che dissanguata, derelitta e derubata, la Russia di Yeltsin era anche a un passo dalla disintegrazione. Regioni ribelli guidate da delinquenti e corrotti premevano per la secessione da un potere centrale che non aveva più potere, né centralità. E se il corpo rischiava la metastasi, il cancro da cui questo minacciava di diffondersi era la Cecenia.Dicono i pettegolezzi, che sono un po’ anche cronaca, che Grachev avesse dato l’ordine di invadere Grozny di notte, ubriaco. E così la mattina di capodanno del 1995 la capitale caucasica fu svegliata dalle bombe e dai carri armati. Era la prima volta che l’Armata Russa combatteva. E fu un disastro che nemmeno gli analisti più cinici avrebbero previsto. Lungi dall’impiegare un solo battaglione di paracadutisti, Grachev riversò su Grozny tutto quello che aveva. Tank, artiglieria, aviazione. E lungi dall’ottenere la rapida vittoria che aveva promesso, si risvegliò dalla supposta sbronza con le notizie di una catastrofe nazionale. L’Armata Rossa non solo aveva cambiato nome. Non esisteva neanche più. C’era, al suo posto, l’esercito di Yeltsin. Della nuova Russia occidentale, prediletta discepola degli amici d’America. Un’armata brancaleone di ragazzini adolescenti strappati alle famiglie e scaraventati al fronte. Mezzi antiquati e colonne sbandate. Strategie militari da prima guerra mondiale. Se un simbolo della rovina materiale, morale e umana in cui la transizione benedetta dall’America aveva gettato la Russia esiste, questo e’ senz’altro la campagna cecena di Pavel Grachev. D’altronde, l’Armata Russa era la stessa di cui filtravano notizie di soldati ridotti alla fame nelle basi dell’estremo Oriente, o venduti a San Pietroburgo come prostituti a ora per clienti facoltosi, o massacrati nei riti d’iniziazione sfuggiti a qualunque regola e disciplina, o suicidi in massa per sfuggire a violenze e soprusi impuniti.E così in Cecenia, dopo un bilancio di migliaia di soldati uccisi e fatti prigionieri, di una città rasa al suolo e di civili sterminati, il cancro non era stato nemmeno estirpato. E un anno dopo, i ribelli l’avrebbero riconquistata. Grachev perse la faccia. E la Russia con lui. Mentre le madri dei piccoli soldati usati come carne da cannone iniziarono le loro coraggiose manifestazioni pubbliche davanti ai lugubri ministeri moscoviti, che tanto le facevano assomigliare alle danze solitarie delle madri dei desaparecidos sudamericani. E sarebbe stata una ricerca disperata, straziante e inutile, perché dei figli soldati della Russia non v’erano notizie, né sepoltura, né nomi. Scomparsi nel nulla, saltati in aria nei carri sgangherati di Grachev, torturati nelle prigioni improvvisate dei mujaheddin ceceni. Inghiottiti dal drago di un paese allo sfacelo. Che però, allora, era il darling della Casa Bianca. Per questo, oggi, non capiamo Putin. Perché ci rifiutiamo di vedere la storia degli uomini e ci soffermiamo invece sui paper delle accademie. Quelli che ci dicono che Putin è un fascista che sta distruggendo la Russia. Quelli che ci parlano di un paese prigioniero di una nuova tirannia. Quelli che dipingono la Crimea come una nuova Cecoslovacchia e l’Ucraina come la Polonia di Hitler. Quelli che sono, oggi, la copia speculare di ciò che condannano: propaganda.Perché la Russia non è più stracciona, e Putin lentamente l’ha cambiata. Ha ricostruito lo Stato. Non è un modello di democrazia di Westminster, no di certo. Ma esiste, e fa qualcosa. Ha recuperato, legalmente e illegalmente, parte di quell’eredità che l’oligarchia mafiosa aveva comprato alla fiera dell’est, per due soldi. Ha curato i focolai tumorali che minacciavano la sopravvivenza della Federazione. Ha riparato i carri armati, e li ha svuotati degli adolescenti di leva, riempiendoli di soldati professionisti. Ha licenziato la leadership alcolista, e investito in ricerca e sviluppo. Ha riaperto le fabbriche del complesso militare industriale che non è certo la chiave del futuro, ma che è tutto ciò che la Russia aveva e da cui poteva ripartire. E quando il paese ha smesso di presentarsi ai summit internazionali scalzo e rattoppato per supplicare l’America e le sue istituzioni finanziarie di elargire un altro prestito ipotecando in cambio l’interesse nazionale, la Russia di Putin ne ha ripreso in mano il dossier. E ne ha rilette, una dopo l’altra, le pagine dimenticate.La sorpresa della Crimea, per questo motivo, è tale solo per gli ipocriti, gli smemorati, e gli ingenui. La Crimea fu uno degli scogli più insidiosi su cui la transizione post sovietica rischio’ di naufragare, già negli anni ‘90, quando per poco non scatenò una guerra. In Crimea c’erano Sebastopoli e la flotta del Mar Nero. L’intera geopolitica zarista e poi sovietica aveva da sempre cercato lo sbocco verso il Mediterraneo, lo sanno anche i bambini delle medie. Non è certo un’invenzione di Putin. La Crimea è stata sempre la colonna portante dell’interesse nazionale russo. Non è Putin che ha stravolto la storia rivendicandola e riconquistandola. Era stata la debolezza e la disperazione degli anni di Yeltsin a far accettare obtorto collo a Mosca la rinuncia a una penisola che è insieme strategia e letteratura e icona e identità. La perdita della Crimea fu per i russi una dolorosa circostanza storica, mai una scelta coraggiosa.L’aspro confronto tra Obama e Putin è tutto qui. L’elefante tramortito è ritornato orso. E rifiuta le sbarre della gabbia che la Nato nell’ultimo decennio gli ha costruito addosso, a dispetto delle dichiarazioni di amicizia e di rispetto. Il livore di Obama ha così dipinto la Crimea come la prova della cattiveria di Putin, e l’Europa sbadata gli ha creduto. E ora che la Russia interviene su uno scacchiere mediorientale da cui mancava da vent’anni, la Casa Bianca si agita scomposta. Ma vent’anni di egemonia statunitense in Medio Oriente e Nord Africa cosa hanno prodotto? La farsa dell’Iraq e la sua tragedia umana. Lo Stato Islamico e il suo regno di barbarie. Il collasso della Siria e i milioni di profughi e la sua guerra senza sbocco. La fine della Libia. Ed è solo l’inizio di un terremoto che l’America stessa ha scatenato, ma che le è ormai sfuggito di mano. Persino i paesi della regione lo sanno. E oggi iniziano a guardare a Putin più che a Obama, cui rimane la retorica da guerra fredda, l’uso spregiudicato delle sanzioni con la scusa dei diritti umani, e la scelta sconsiderata di perdere la Russia.Putin è un personaggio complesso, ma non è il diavolo. Ha il merito di avere mantenuto la Russia nella storia, in un momento in cui era tutt’altro che scontato. Il giovane ignoto che si insediò sullo scranno degli Zar quando Yeltsin barcollò via con un ultimo brindisi, non verrà giudicato dalla storia per i pettegolezzi su come abbia passato il compleanno e sul costo dell’orologio che porta al polso, temi oggi prediletti da riviste un tempo autorevoli come “Foreign Policy”. Il verdetto è già scritto. E’ nelle immagini che lo mostrano assieme al ministro della difesa Shoigu nelle stanze dei bottoni del suo esercito, da cui la campagna siriana viene coordinata. Sono passati solo due decenni, ma sembrano anni luce dalle gaffe di Yeltsin, e dalla disfatta cecena di Grachev. Se Obama non gradisce, non è per i diritti umani dei russi. Washington ha approfittato della penosa transizione russa per arraffare quanto più spazio geopolitico ha potuto, in Europa, in Medio Oriente, nel Pacifico. E adesso che al Cremlino non siede più un ubriacone cardiopatico, e l’esercito non è più il soldatino di latta di Grachev, l’America, di colpo, ha deposto le lusinghe. E ha perso il sorriso. E minaccia di trascinarci, tutti, in uno scontro frontale con la Russia. Per i suoi interessi, e contro i nostri. Che sono quelli di un’Europa che non si fermi di colpo alla frontiera bielorussa.(Mario Rimini, “Perché l’Occidente non capisce più la Russia. Una lettura critica”, da “Il Foglio” del 9 ottobre 2015).Quando la Russia era amica degli Stati Uniti, Pavel Grachev era ministro della difesa, dal 1992 al 1996. Erano gli anni della transizione post sovietica. Il presidente Yeltsin e i suoi giovani riformatori traghettavano un paese lacero e miserabile verso un futuro di libertà stracciona, di occidentalismo predatorio, di privatizzazione da Far West. Una Russia società aperta, che danzava ubriaca sulla fune sopra il baratro. E senza rete di salvataggio. Era, quella, la Russia degli americani. In nessun periodo storico fu Mosca più vezzeggiata, lusingata e accarezzata dall’affabile alleato transatlantico. Nel momento in cui rinunciò a qualunque politica estera, a qualunque sfera di influenza, all’interesse nazionale e alla geopolitica, i sorrisi della politica americana si sprecarono per anni, promettendo ai russi integrazione, sviluppo, benessere. E consegnando invece, tutt’al più, una copia vintage e involgarita delle luci di New York sulle cupole zariste e i condomini khruscioviani lungo la Moscova. Pochi russi ammassavano fortune d’altri tempi sulle ceneri di una superpotenza in saldo. Una generazione di giovani vedeva scomparire l’istruzione, la sanità, la sicurezza di uno stipendio povero ma in grado di assicurare la spesa quotidiana e un tetto.
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Levy: persino Gandhi capirebbe la violenza dei palestinesi
Attraverso la nebbia del senso di superiorità, della propaganda dei media, dell’istigazione, della disattenzione, del lavaggio del cervello e della vittimizzazione degli ultimi giorni, ritorna pienamente d’attualità la semplice domanda: chi ha ragione? Nell’arsenale propagandistico israeliano non ci sono argomenti giustificati accettabili per una persona onesta. Persino il Mahatma Gandhi capirebbe le ragioni di questo scoppio di violenza palestinese. Persino quelli che rifiutano la violenza, che la vedono come immorale ed inutile, non possono fare a meno di capire come mai scoppia periodicamente. La domanda è perché non scoppi ancora più spesso. Dalla domanda su chi ha iniziato tutto ciò a quella su chi è da condannare, il dito è giustamente puntato contro Israele, solo contro Israele. Non è che i palestinesi siano incolpevoli, ma la responsabilità principale ricade sulle spalle di Israele. Finché Israele non si libererà di questa colpa, non avrà ragioni per fare uno straccio di richiesta ai palestinesi. Ogni altra cosa è falsa propaganda.Come ha scritto recentemente l’attivista palestinese di lunga data Hanan Ashrawi, i palestinesi solo l’unico popolo sulla terra a cui si chiede di garantire la sicurezza dell’occupante, mentre Israele è l’unico paese al mondo che pretende protezione alle sue vittime. E come possiamo rispondere? Come ha chiesto il presidente Mahmoud Abbas in un’intervista ad “Haaretz”: «Come vi aspettate che la piazza palestinese reagisse dopo che l’adolescente Mohammed Abu Khdeir è stato bruciato vivo [nel luglio 2014, dopo l’uccisione di tre giovani israeliani], l’incendio della casa dei Dawabsheh [nell’agosto 2015, in cui è morto carbonizzato un bambino di 18 mesi e, dopo qualche settimana, sono deceduti i suoi genitori], le aggressioni dei coloni e gli attacchi contro le proprietà [palestinesi] sotto gli occhi dei soldati?». E cos’abbiamo da rispondere?Ai cento anni di spoliazione ed ai 50 anni di oppressione possiamo aggiungere gli ultimi anni, segnati dall’intollerabile arroganza israeliana che ci sta esplodendo ancora una volta in faccia. Sono stati gli anni in cui Israele ha pensato di poter fare qualunque cosa senza pagarne il prezzo. Ha pensato che il ministro della difesa [Moshe Ya’alon, del Likud, il partito di Netanyahu] potesse vantarsi di conoscere l’identità degli assassini dei Dawabsheh senza arrestarli, e i palestinesi si sarebbero controllati. Ha pensato che quasi ogni settimana un ragazzo o adolescente potesse essere ucciso dai soldati e i palestinesi sarebbero rimasti tranquilli. Ha pensato che i soldati israeliani potessero irrompere nelle case dei palestinesi ogni notte e terrorizzare, umiliare ed arrestare la gente. Che a centinaia potessero essere arrestati senza un’accusa. Che lo Shin Bet, il sevizio di sicurezza, potesse continuare a torturare i sospetti con metodi satanici.Ha pensato che i prigionieri che fanno lo sciopero della fame e che sono stati liberati potessero essere riarrestati, spesso senza alcuna ragione. Che Israele potesse distruggere Gaza una volta ogni due o tre anni e che Gaza si sarebbe arresa e la Cisgiordania sarebbe rimasta tranquilla. Che l’opinione pubblica israeliana avrebbe applaudito tutto ciò, nella migliore delle ipotesi con sorrisi e nella peggiore con la richiesta di più sangue palestinese, con una sete che è difficile da comprendere. E i palestinesi lo avrebbero perdonato. Tutto ciò potrebbe continuare ancora per molti anni. Perché? Perchè Israele è più forte che mai e l’Occidente è indifferente e gli consente di scatenarsi come non mai. I palestinesi, nel contempo, sono deboli, divisi, isolati e colpiti come non mai dai tempi della Nakba. Così tutto ciò potrebbe continuare perché Israele lo può fare – e il popolo [israeliano] lo vuole. Nessuno potrà fermare ciò, se non l’opinione pubblica internazionale, che Israele rifiuta in quanto anti-ebraica.E non abbiamo detto niente in merito all’occupazione in quanto tale e l’incapacità di porvi termine. Siamo stanchi. Non abbiamo detto una parola sull’ingiustizia del 1948, che avrebbe dovuto finire allora e non continuata con ancor maggiore forza nel 1967, e continuata senza che se ne veda la fine. Non abbiamo parlato delle leggi internazionali, del diritto naturale e l’etica umana, che non può assolutamente accettare niente di simile. Quando giovani uccidono coloni, lanciano bottiglie molotov contro i soldati e scagliano pietre contro gli israeliani, questo è il contesto. Ci vuole una buona dose di ottusità, ignoranza, nazionalismo e arroganza – o di tutto ciò insieme – per ignorare tutto ciò.(Gideon Levy, “Perfino Gandhi capirebbe la violenza palestinese”, articolo pubblicato sul quotidiano israeliano “Haaretz” il 9 ottobre 2015 e tradotto da “Come Don Chisciotte”).Attraverso la nebbia del senso di superiorità, della propaganda dei media, dell’istigazione, della disattenzione, del lavaggio del cervello e della vittimizzazione degli ultimi giorni, ritorna pienamente d’attualità la semplice domanda: chi ha ragione? Nell’arsenale propagandistico israeliano non ci sono argomenti giustificati accettabili per una persona onesta. Persino il Mahatma Gandhi capirebbe le ragioni di questo scoppio di violenza palestinese. Persino quelli che rifiutano la violenza, che la vedono come immorale ed inutile, non possono fare a meno di capire come mai scoppia periodicamente. La domanda è perché non scoppi ancora più spesso. Dalla domanda su chi ha iniziato tutto ciò a quella su chi è da condannare, il dito è giustamente puntato contro Israele, solo contro Israele. Non è che i palestinesi siano incolpevoli, ma la responsabilità principale ricade sulle spalle di Israele. Finché Israele non si libererà di questa colpa, non avrà ragioni per fare uno straccio di richiesta ai palestinesi. Ogni altra cosa è falsa propaganda.
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Gender a scuola, i bambini e l’orco. Ma la famiglia dov’è?
Gender: tutti diversi, tutti uguali. Bellissimo, ma se poi la faccenda scappa di mano e la scuola diventa il paradiso degli orchi? A rimetterci sarebbero loro, i minori. A meno che non entri in scena un soggetto troppo spesso assente: la famiglia, con le sue responsabilità educative. «Quando sentii parlare di questa teoria e della sua diffusione nelle scuole, lì per lì pensai a una bufala perché veniva proposta come una specie di invito esplicito alla masturbazione e all’omosessualità anche per i bambini delle elementari e dell’asilo». L’ideologia Gender in classe? Superficialmente, scrive Paolo Franceschetti, si potrebbe credere che tutta la questione si riduca a un derby tra gay e omofobi, sinistra progressista e Vaticano conservatore. Già il governo Letta invitava gli insegnanti a educare alla diversità (“Rosa e i suoi due papà hanno comprato tre lattine di tè freddo al bar; se ogni lattina costa 2 euro, quanto hanno speso?”). «La necessità di approfondire la questione – ammette Franceschetti – mi è venuta quando ho letto che il ministro dell’istruzione minacciava querele contro chi osasse sostenere che la riforma Renzi introducesse la teoria Gender».A livello teorico, tutto nasce dagli studi di Margareth Mead, che dimostrano che i ruoli possono benissimo ribaltarsi, come in certe società tribali dell’Oceania: le donne a caccia, gli uomini a casa a farsi belli. Succede anche da noi, scrive Franceschetti nel suo blog: c’è l’amico Maurizio, «che fa il supermacho superscopatore, ma in privato mi confessa che gli piacciono le gonne e i vestiti femminili e quando è solo si veste con le scarpe coi tacchi della moglie». E all’opposto c’è l’amica Ambra, a cui domandi “cosa facciamo stasera?” e ti risponde “andiamo a tirare col fucile”, e al poligono «fa cento colpi e cento centri, una cosa mai vista in vita mia». Autore di clamorose denunce sul “lato oscuro del potere” (gli omcidi rituali, il Mostro di Firenze, la misteriosa setta criminale denominata Ordine della Rosa Rossa), l’ex avvocato Franceschetti, autore di un recentissimo libro, “Le Religioni”, che indaga sulla comune matrice spirituale delle grandi confessioni religiose del pianeta, si è anche distinto per i ripetuti allarmi lanciati in favore dei minori: ne spariscono troppi, anche in Italia. Centinaia, ogni anno. Dove finiscono? Nel traffico di organi e nelle reti potentissime dei pedofili d’alto bordo.Di fronte alle istanze “Gender”, Franceschetti riconosce che «la rigida divisione tra sessi che per secoli ha dominato la società ha portato, e porta tuttora, a degli squilibri». Una donna in carriera è considerata “poco femminile” e temuta dagli uomini, mentre un uomo “casalingo” «è visto con sospetto, come un parassita nullafacente». L’uomo che va con molte donne «è guardato con ammirazione», mentre la donna che ha molti uomini «è quasi sempre una troia». La divisione in sessi? Ha penalizzato chiunque, uomo o donna, rifiutasse gli obblighi sociali. «Non parliamo poi delle problematiche che sorgono se una persona vuole cambiare sesso, o se durante il matrimonio scopre di avere tendenze omosessuali». La teoria Gender vuole sicuramente «porre rimedio a questo stato di cose, introducendo una nuova mentalità, rispettosa delle differenze individuali, per educare la popolazione a una nuova concezione della sessualità e delle differenze di genere». E fin qui, tutto bene. Si prefigura «un meraviglioso mondo, dove l’uomo che voglia andare in giro con i tacchi a spillo e il rossetto venga rispettato, così come una donna che si metta a ruttare e fare a braccio di ferro bestemmiando al bar».Idem per i piccoli: «Nessun trauma arrivi a un bambino che sia allevato da due papà o due mamme, perchè la salute psichica del bambino si misurerà in funzione dell’affetto e degli insegnamenti che riceve, e non dal fatto che abbia necessariamente un padre maschio e una mamma femmina». Ma le ricadute pratiche? Utile leggere il dossier “Standard per l’educazione sessuale in Europa”, commissionato dall’Oms, per capire cosa si vuole fare nelle scuole. Rispetto, equilibrio, attenzione: un documento “amorevole”. Ma «il bello viene da pagina 37 in poi, dove ci sono le direttive sintetiche che gli insegnanti di educazione sessuale dovrebbero applicare sui bambini di varie fasce di età». Sono 144 disposizioni: «Il problema sorge per solo una ventina di direttive in tutto, sparse qua e là quasi innocentemente», specie quelle rivolte ai bambini dai 9 ai 12 anni. L’educatore deve «mettere il bambino in grado di decidere se avere esperienze sessuali o no, effettuare una scelta del contraccettivo e utilizzarlo correttamente, esprimere amicizia e amore in modi diversi, distinguere tra la sessualità nella vita reale e quella rappresentata dai media». E deve «aiutare il bambino a sviluppare l’accettazione della sessualità (baciarsi, toccarsi, accarezzarsi)», nonché «trasmettere informazioni su masturbazione, piacere e orgasmo».Amarcord inevitabile: «Il pensiero corre ai miei professori del liceo», dice Franceschetti. «Quello di matematica che toccava sempre i seni alle ragazze, tranquillo dell’impunità del preside, tanto che quando fu denunciato da una ragazza fu la ragazza a dover cambiare istituto, non il professore». O quello di storia e filosofia, che sprecava intere lezioni «coi suoi racconti tesi a dimostrare che il sesso è peccato». Già alle elementari fioccavano ceffoni: rudi maestre, anziché «improvvisati educatori sessuali protetti dallo scudo delle direttive europee». L’idea Gender? «Meravigliosa e auspicabile se fossimo in un mondo ideale, e se chi la dovesse applicare fosse un essere umano ideale». Ovvero: un educatore «equilibrato, centrato, e amorevole», capace di «saper amare davvero l’altro e il prossimo e saperlo rispettare», dopo «essersi confrontato con la propria parte omosessuale ed essersi interrogato, ove tale parte sussista, su come viverla».L’insegnante-modello, inoltre, dovrebbe essere «monogamo per scelta, convinto che la fedeltà sia un dono, non un obbligo», dunque «una persona sessualmente attiva», che desidera altri partner ma si trattiene, e inoltre è «disposta ad accettare la poligamia del proprio». Di fronte al tradimento subito, massima comprensione: «Caro/a, ho scoperto che mi tradisci; è evidente che ho sbagliato in qualcosa». E poi dev’essere «uno che, scoperta l’omosessualità del figlio, anziché preoccuparsi, veda questo come un’opportunità di crescere insieme e apprendere di più dalla vita e da se stessi». E ancora, scoprendo l’omosessualità del partner, gli dovrebbe dire: «Ti amo, e per rispetto vorrei che tu vivessi appieno questa tua esperienza, finché non deciderai in che ruolo collocare il nostro rapporto». Tutto bene, «se esistesse un essere umano che ha raggiunto un tale grado di consapevolezza». Quanti ne conosciamo, nella vita quotidiana? Ovviamente, «questo ritratto di essere umano quasi perfetto è praticamente introvabile».La realtà, infatti, è desolatamente opposta: «Dal punto di vista sessuale, la maggior parte delle persone non solo non è affatto equilibrata, ma ha quelle che in psicologia sono considerate devianze o problemi: eiaculazione precoce, impotenza, anorgasmia, sadomasochismo, feticismo». E poi le “stranezze”, «come l’eccitarsi solo in determinate condizioni ambientali», magari con l’impiego di “oggetti particolari”, «per non parlare della percentuale, altissima, di coloro che hanno delle vere e proprie perversioni criminali». Morale: «Il problema dell’ideologia Gender è, molto semplicemente, che non esiste un numero sufficiente di educatori che abbia l’equilibrio tale da poter insegnare ai bambini il rispetto di genere (altrui e proprio) per il semplice motivo che ancora non hanno raggiunto tale equilibrio in loro stessi». Che medico sei, se non sai nemmeno curare te stesso?Sicché, le «demenziali 20 regole» indicate da Franceschetti «porteranno a una conseguenza inevitabile nelle scuole: abusi, facilitazioni della pedofilia e traumi vari ai bambini». Quindi, anche se «l’obiettivo teorico della riforma è lodevole e teoricamente condivisibile», visto che propone che i bambini devono essere educati al rispetto di genere, di fatto «la riforma conseguirà (volutamente, è il caso di dirlo) l’obiettivo opposto: aumenterà gli abusi sui minori nel lungo termine, e nel breve termine creerà la falsa contrapposizione tra progressisti e conservatori omofobi». Una riforma di questo tipo, «in mano a insegnanti e politici inconsapevoli e non in grado di gestire una problematica come quella del genere», secondo Franceschetti produrrà scontri, tensioni e cause legali: «Cattolici contro omosessuali, omosessuali contro eterosessuali, politici contro politici, genitori contro insegnanti, magistrati contro cittadini». Tutto questo, «in un clima in cui a risentirne e a restarne traumatizzati saranno soprattutto i bambini».Tradotto: anche questa del Gender «si inquadra in quel contesto di riforme volute dal Parlamento Europeo in tutti i campi (economico, politico, finanziario, sociale, scolastico) per distruggere i fondamenti della società e ricostruirne una nuova, basata sul Nwo, creando caos sociale ad ogni livello». Nuovo ordine mondiale? «La tecnica è nota», insiste Franceschetti: «Si parte da una premessa giusta (educare al rispetto delle diversità) e si fa una legge in parte giusta (educare i bambini alla sessualità) con qualche appiglio per ribaltare completamente il risultato e creare più caos di quanto già non ce ne sia (dando mano libera ai pedofili e ai pervertiti di poter agire liberamente nelle scuole)». E i primi frutti dell’introduzione dell’ideologia Gender si vedono già: «Alcuni sindaci hanno ritirato alcuni libri ispirati all’ideologia Gender dalle scuole. Una maestra è stata denunciata da un rappresentante dell’Arcigay e linciata mediaticamente, su tutti i giornali, per aver detto a scuola che l’omosessualità è una malattia (salvo poi essere scagionata dagli allievi, che hanno detto “ma no, veramente ha detto tutt’altro”)».Stefania Giannini, ministro dell’istruzione, minaccia denunce contro chi sostiene che la riforma Renzi della “buona scuola” obblighi a educare sessualmente i giovani secondo le teorie Gender: la riforma imporrebbe solo di “educare al rispetto della diversità”. «Ogni tanto sui giornali escono notizie di genitori preoccupati per i vibratori a scuola. Una preside ha inviato una lettera al ministero per denunciare l’introduzione della teoria Gender nelle scuola, e il ministero ha mandato gli ispettori (sic!) ritenendo inaccettabile il comportamento della preside». E ancora: «In una scuola sono state denunciate delle suore che, stando ai giornali, avevano fatto educazione alla masturbazione a bambini di 10 anni». In alcuni Comuni già si raccolgono firme “contro”. Ma attezione: «La maggior parte delle notizie sono false e volutamente distorte, per poter essere interpretate come uno preferisce. Come è falso che questa teoria sia “imposta” dall’Ue», che in realtà «impone solo, con vari regolamenti, direttive e indicazioni, di abolire le differenze di genere tra uomo e donna in tutti gli ambiti, il che è sacrosanto».Le teorie Gender a scuola sono già applicate in diversi paesi europei, «ma la situazione è di estremo caos». La confusione impazza, anche nel privato: «Solo per fare un esempio personale – racconta Franceschetti – ho postato sulla mia pagina Facebook un video dell’avvocato Amato, di tendenza dichiaratamente cattolica. Una ragazza omosessuale mi ha ritirato l’amicizia sentendosi profondamente ferita dal video (sue parole testuali). Un altro mi ha dato del fascista, dicendo in aggiunta che probabilmente poi di nascosto vado a trans». Tutto questo, «a riprova che non si può discutere serenamente di Gender senza creare conflitti: se sei contro questa nuova tendenza, sei omofobo e retrogrado; se sei a favore, sei un pedofilo o un frocio». Dobbiamo quindi preoccuparci, gridare allo scandalo e arroccarci sulle vecchie posizioni, o sposare le teorie Gender? «Nulla di tutto ciò. C’è invece la possibilità di trasformare la questione Gender in un’occasione favorevole per la crescita dei nostri figli e di noi stessi». E come? Mobilitando – per la prima volta, in molti casi – la cara, vecchia famiglia, troppo spesso assente, o peggio.«Lo sfascio del sistema in cui viviamo è inevitabile, e questa ideologia porterà, col tempo, allo sfascio della famiglia tradizionale e dei valori tradizionali», insiste Franceschetti. «I bambini saranno spesso abusati e traumatizzati. Ma purtroppo, occorre dirlo, i bambini sono da sempre stati abusati e traumatizzati perché – in questo ha ragione l’ideologia Gender – l’imposizione rigida dei ruoli ha provocato da sempre una serie di problemi psicologici». Il bambino è inoltre traumatizzato su vari fronti, non solo quello sessuale, e peraltro in tutte le epoche, «perché la maggior parte dei genitori riversa inevitabilmente i propri disturbi personali sul bambino stesso, che fin da piccolo è costretto a subire limitazioni prive di senso, ad essere sgridato senza criterio, talvolta picchiato, costretto a subire le urla dei genitori tra di loro, gli abbandoni, la violenza verbale e fisica che a volte sussiste nella coppia». Basta rileggere gli studi di Alice Miller: “Il dramma del bambino dotato”, “Il bambino inascoltato”, “La fiducia tradita”, “La chiave abbandonata”.Niente di nuovo sotto il sole: i bambini «saranno “solo” costretti a un ulteriore abuso, oltre a quelli che quotidianamente subiscono dagli ignari genitori», spesso convinti di essere impeccabili. «Questa situazione di caos e ulteriore abuso, però, potrà avere effetti positivi qualora le famiglie si riappropriassero del proprio ruolo, senza delegare alla scuola l’educazione dei bambini», sostiene Franceschetti. «Se fino ad oggi, a casa, di sesso non se ne parlava, o se ne parlava male», a questo punto «per arginare l’effetto traumatico della riforma Gender l’unica possibilità è che i genitori si sforzino sempre di più di dialogare con i figli, di accettare davvero le diversità e di spiegare loro che se l’insegnante si masturba in classe è solo un pervertito, non un educatore». E a fronte di un insegnante che vorrà “far provare nuove esperienze” al bambino di 9-12 anni, come da protocollo, «gli si spieghi che forse, a quell’età, tali esperienze potrebbero provocargli un trauma: sarà meglio rimandarle magari a quando sarà adulto e in grado di decidere da solo quali esperienze diverse provare».E di fronte a un insegnante che magari «esalterà l’omosessualità dicendo che è normale, invitando i bambini di 9 anni a farne esperienza», il genitore dirà: «Sì tesoro, in effetti è normale, ma statisticamente l’80% delle persone è ancora eterosessuale, quindi direi che potrai fare queste prove più in là, magari dopo i vent’anni». Così, «invece di portarli al doposcuola, forse sarà la volta buona che un genitore anaffettivo trovi una buona scusa per portare i figli con sé e passarci più tempo insieme», conclude Franceschetti. In pratica, proprio perché la riforma Gender è arrivata nel momento in cui l’istituzione familiare «si era deresponsabilizzata dal suo ruolo educativo», forse «è proprio questo il momento buono affinché l’educazione sessuale dei figli venga riportata nel luogo principale dove dovrebbe essere effettuata: la famiglia».Gender: tutti diversi, tutti uguali. Bellissimo, ma se poi la faccenda scappa di mano e la scuola diventa il paradiso degli orchi? A rimetterci sarebbero loro, i minori. A meno che non entri in scena un soggetto troppo spesso assente: la famiglia, con le sue responsabilità educative. «Quando sentii parlare di questa teoria e della sua diffusione nelle scuole, lì per lì pensai a una bufala perché veniva proposta come una specie di invito esplicito alla masturbazione e all’omosessualità anche per i bambini delle elementari e dell’asilo». L’ideologia Gender in classe? Superficialmente, scrive Paolo Franceschetti, si potrebbe credere che tutta la questione si riduca a un derby tra gay e omofobi, sinistra progressista e Vaticano conservatore. Già il governo Letta invitava gli insegnanti a educare alla diversità (“Rosa e i suoi due papà hanno comprato tre lattine di tè freddo al bar; se ogni lattina costa 2 euro, quanto hanno speso?”). «La necessità di approfondire la questione – ammette Franceschetti – mi è venuta quando ho letto che il ministro dell’istruzione minacciava querele contro chi osasse sostenere che la riforma Renzi introducesse la teoria Gender».