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Archivio del Tag ‘violenza’

  • Il Corriere: aerosol tra le nuvole, la geoingegneria è realtà

    Scritto il 10/11/18 • nella Categoria: segnalazioni • (10)

    Nuvole gonfiate e aerosol salveranno la Terra? Lo scrive, già nel 2012, il “Corriere della Sera”, presentando la geoingegneria come «la (buona) scienza che manipola il clima». Tempi non sospetti: sei anni fa era ancora scarso il “gossip” sulle cosiddette scie chimiche, e forse i cieli non erano ancora così intasati di “strisce” rilasciate dagli aerei, fino a stendere quello strano, persistente velo nuvoloso al quale siamo ormai abituati anche nelle giornate serene. Soprattutto, non era ancora accaduto che un paese come l’Italia venisse colpito da tempeste violentissime, con venti furiosi (190 chilometri orari) in grado di sradicare centinaia di migliaia di alberi proprio il 4 novembre, anniversario della Grande Guerra, e proprio nella geografia del Nord-Est – le Dolomiti, il Piave – che nel 1918 salutò l’affermazione “patriottica” della giovane nazione italiana. Complottisti scatenati e dubbiosi in aumento, vista la perdurante riluttanza delle autorità nel rilasciare dichiarazioni chiarificatrici, una volta per tutte, riguardo all’ipotetica correlazione tra scie bianche, innalzamento climatico ed eventi catastrofici generati dal meteo “impazzito”. Nulla che peraltro non fosse paventato, come pericoloso effetto collaterale, dagli esperti sondati nel 2012 da Emanuele Buzzi, autore di una ricognizione giornalistica per il “Corriere”.
    Un tramonto rosso fuoco perenne e specchi giganti nello spazio per riflettere la luce solare? «Orizzonti alla Blade Runner, ma non è fantascienza», scrive Buzzi. «È il futuro (forse) del nostro pianeta: ipotesi di ingegneria climatica che sono già al vaglio degli esperti». Per Buzzi, sei anni fa, la geoingegneria era «una realtà complessa», che stava «mobilitando la comunità scientifica internazionale», facendola discutere. Obiettivo dichiarato: «Combattere il surriscaldamento globale», ma con interventi molto diversi tra loro: «C’è chi studia l’immagazzinamento e lo smaltimento di anidride carbonica e c’è un ramo più radicale che propone esperimenti “solari”, che mutino o catturino le radiazioni a livello della stratosfera». Molto prudente, allora, un tecnico come Antonello Provenzale, ricercatore del Cnr di Torino in forza all’Isac, Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima: «A mio parere, mentre ha senso la rimozione di CO2, sono ancora inopportuni interventi di altro tipo». Ovvero: «Prima di agire ci sono dei fattori che vanno presi in considerazione: la sostenibilità nel tempo di azione del genere, la loro effettiva efficacia e la nascita di ampie alleanze geopolitiche in grado di sostenerle».
    Le teorie al vaglio degli scienziati, scrive Buzzi nel 2012, spaziano per cieli, terra, aria e mari: «Si va dalla “semina” di ferro negli oceani, per aumentare la presenza dei microrganismi che intercettino la CO2, all’adozione di specie di piante ad alto potere riflettente, alla messa in orbita di giganteschi parasole». Ma l’idea più discussa «riguarda l’uso di gas aerosol come l’anidride solforosa da immettere con costanza nella stratosfera per riflettere la luce solare». Controindicazioni del caso: «Secondo alcuni studiosi (e detrattori della teoria), le emissioni assottiglierebbero lo strato di ozono». In realtà, sottolinea il “Corriere”, i gas aerosol sono già presenti nell’atmosfera. E non solo: «Negli ultimi anni», annota lo stesso Provenzale, «sono state individuate altre due cause oltre all’effetto serra che hanno provocato l’innalzamento delle temperature: la massiccia deforestazione e l’uso di gas aerosol di origine antropica, specie in Cina e nel Sudest Asiatico». Una differenza però c’è: «Rispetto all’anidride carbonica, questi gas stanno meno tempo nell’atmosfera, circa 10-15 giorni».
    Intanto, segnala il “Corriere” sempre nel 2012, l’idea di manipolare il clima «ha già catturato l’attenzione di plurimiliardari come Bill Gates, Richard Branson e il fondatore di Skype, Niklas Zennstrom». Anche Buzzi cita il Bpc, Bipartisan Policy Center di Washington, indicato dal reporter Gianni Lannes come think-tank neocon, punta di lancia della lobby che spingerebbe per la manipolazione climatica tramite l’irrorazione sistematica dei cieli. Il “Corriere” la definisce «un’organizzazione non profit fondata da quattro ex senatori Usa, due repubblicani e due democratici», che nel 2011 ha invitato la Casa Bianca a creare «un programma di ricerca federale». Scienziati delle università inglesi, aggiunge Buzzi, hanno organizzato «un test per pompare nella stratosfera particelle chimiche». Esperimento che però è «abortito», anzi «rimandato». Anche perché è stata proprio la Royal Society britannica, alla conferenza sul clima di Durban nel 2011, a presentare un rapporto sugli scenari della geoingegneria: «Giocare con la natura in questo modo deve essere solo una soluzione estrema», scrivevano sette anni fa gli scienziati inglesi, «ed è comunque una soluzione pericolosa».
    Sulla stessa linea anche un report commissionato dal ministero dell’educazione e della ricerca tedesco, che all’epoca auspicava «ulteriori ricerche» e sosteneva che «le conseguenze dell’utilizzo di queste tecniche non possono essere stimate con la precisione necessaria». Nessun allarmismo in Cina, invece, dove si ipotizzano nuove frontiere, chiosa Buzzi sul “Corriere”: a Pechino, «gli effetti della geoingegneria sono già tangibili», da molti anni. Nel 2012 la Cina ammise di stipendiare non meno di 36.000 “rainmaker”, equipaggiati con razzi, cannoni e arei per intervenire sulle nubi e scatenare precipitazioni nelle zone aride. «Mentre in altri paesi sono state sperimentate solo occasionalmente, a Pechino e nella regione di Jilin le piogge artificiali – grazie a nuvole “gonfiate” con ioduro d’argento – sono una realtà», scriveva Buzzi, sei anni fa. «E il governo – aggiungeva – sta pianificando di estendere l’esperimento ad altre cinque zone». Oltre alla Cina, l’altro paese che ammette di condurre test di manipolazione meteo è Israele, mentre analoghe notizie filtrano da Messico e Sudafrica. Nel frattempo, i nostri cieli si sono riempiti di strisce bianche rilasciate dagli aerei: semplici scie di condensazione, secondo le autorità, che però non spiegano come mai l’ipotetico vapore acqueo non si dissolva, ma anzi permanga in atmosfera per ore, estendendosi fino a velare interamente il cielo.

    Nuvole gonfiate e aerosol salveranno la Terra? Lo scrive, già nel 2012, il “Corriere della Sera”, presentando la geoingegneria come «la (buona) scienza che manipola il clima». Tempi non sospetti: sei anni fa era ancora scarso il “gossip” sulle cosiddette scie chimiche, e forse i cieli non erano ancora così intasati di “strisce” rilasciate dagli aerei, fino a stendere quello strano, persistente velo nuvoloso al quale siamo ormai abituati anche nelle giornate serene. Soprattutto, non era ancora accaduto che un paese come l’Italia venisse colpito da tempeste violentissime, con venti furiosi (190 chilometri orari) in grado di sradicare centinaia di migliaia di alberi proprio il 4 novembre, anniversario della Grande Guerra, e proprio nella geografia del Nord-Est – le Dolomiti, il Piave – che nel 1918 salutò l’affermazione “patriottica” della giovane nazione italiana. Complottisti scatenati e dubbiosi in aumento, vista la perdurante riluttanza delle autorità nel rilasciare dichiarazioni chiarificatrici, una volta per tutte, riguardo all’ipotetica correlazione tra scie bianche, innalzamento climatico ed eventi catastrofici generati dal meteo “impazzito”. Nulla che peraltro non fosse paventato, come pericoloso effetto collaterale, dagli esperti sondati nel 2012 da Emanuele Buzzi, autore di una ricognizione giornalistica per il “Corriere”.

  • Žižek: abbiamo smesso di pensare il mondo, ecco il guaio

    Scritto il 10/11/18 • nella Categoria: idee • (34)

    Il mondo “ricco” ha urgente bisogno di affrontare le ragioni alla base della migrazione di massa, piuttosto che i suoi sintomi. La migrazione è, ancora una volta, notizia principale. Colonne di migranti dell’Honduras si stanno avvicinando al confine degli Stati Uniti attraverso il Messico; i migranti africani hanno rotto le barriere e sono entrati nella piccola enclave spagnola sulla punta settentrionale dell’Africa; i migranti mediorientali stanno cercando di entrare in Croazia. Sebbene i numeri siano relativamente piccoli, essi segnalano un fatto geopolitico di base. Nel suo “World Interior of Capital”, il filosofo tedesco Peter Sloterdijk dimostra come, grazie alla globalizzazione, il sistema capitalista abbia determinato tutte le condizioni di vita. Il primo segno di questo sviluppo fu il Crystal Palace di Londra, il sito della prima Esposizione Mondiale nel 1851. La sua struttura rese palpabile l’esclusività della globalizzazione come la costruzione e l’espansione di un mondo interiore i cui confini sono invisibili, ma praticamente insormontabili dall’esterno, e che ora è abitato da un miliardo e mezzo di vincitori della globalizzazione.
    Tuttavia, tre volte questo numero è lasciato in piedi fuori dalla porta. Di conseguenza, «l’interno del mondo del capitale non è un’agorà o una fiera sotto il cielo aperto, ma piuttosto una serra che ha attirato verso l’interno tutto ciò che una volta era all’esterno». Questo interno, costruito sugli eccessi capitalistici, determina tutto: «Il fatto principale dell’Età Moderna non era che la terra girasse intorno al sole, ma che i soldi girano intorno alla terra». Ciò che Sloterdijk ha giustamente sottolineato è che la globalizzazione capitalista non sta solo per apertura e conquista, ma anche per un globo chiuso in se stesso che separa l’interno dal suo esterno. I due aspetti sono inseparabili: la portata globale del capitalismo è radicata nel modo in cui introduce una divisione radicale di classe in tutto il mondo, separando quelli protetti dalla sfera da quelli al di fuori della sua copertura. Il flusso di rifugiati è un ricordo momentaneo del mondo violento al di fuori della nostra Cupola. Un mondo che per noi, addetti ai lavori, appare per lo più in trasmissioni televisive su paesi lontani violenti, non come parte della nostra realtà, e invadente.
    Sta emergendo un nuovo ordine mondiale in cui l’unica alternativa allo “scontro di civiltà” rimane la coesistenza pacifica delle civiltà (o dei “modi di vita”, un termine più popolare oggi): i matrimoni forzati e l’omofobia (o l’idea che una donna che va da sola in un luogo pubblico provoca lo stupro) sono Ok, solo che sono limitati a un altro paese che è altrimenti pienamente incluso nel mercato mondiale. La triste verità che sostiene questa nuova “tolleranza” è che il capitalismo globale di oggi non può più permettersi una visione positiva dell’umanità emancipata, nemmeno come un sogno ideologico. L’universalismo liberal-democratico di Fukuyama fallì a causa dei suoi limiti e incongruenze immanenti, e il populismo è il sintomo di questo fallimento, la sua malattia quella di Huntington. Ma la soluzione non è il nazionalismo populista, la destra o la sinistra. Invece, l’unica cura è un nuovo universalismo – è richiesto dai problemi che l’umanità sta affrontando oggi, dalle minacce ecologiche alle crisi dei rifugiati. La seconda reazione è il capitalismo globale con un volto umano personificato in figure aziendali socialmente responsabili come Bill Gates e George Soros. Anche nella sua forma estrema – “apri i nostri confini ai rifugiati, trattali come uno di noi”.
    Tuttavia, il problema con questa soluzione è che fornisce solo quello che in medicina è chiamato un trattamento sintomatico – una terapia di una malattia che lascia intatta la situazione globale di base; riguarda solo i suoi sintomi, non la sua causa. Tale trattamento è mirato a ridurre i segni e i sintomi per il comfort e il benessere del paziente – ma, nel nostro caso, questo ovviamente non è sufficiente, poiché la soluzione non è ovviamente che tutti i disgraziati del mondo entreranno nella sicurezza della Cupola. Abbiamo bisogno di passare dall’attenzione umanitaria al disgraziato della Terra, alla miseria stessa della Terra. La terza reazione è quindi quella di raccogliere il coraggio e prevedere un cambiamento radicale che si impone quando assumiamo pienamente le conseguenze del fatto che viviamo in un mondo. Un tale cambiamento è un’utopia? No, la vera utopia è che possiamo sopravvivere senza una tale rivoluzione.
    (Slavoj Žižek, estratto dall’intervento “Fino a quando il mondo ricco non pensa ‘un mondo’, la migrazione si intensificherà”, pubblicato su “Rt” il 28 ottobre 2018 e ripreso da “Come Don Chisciotte).

    Il mondo “ricco” ha urgente bisogno di affrontare le ragioni alla base della migrazione di massa, piuttosto che i suoi sintomi. La migrazione è, ancora una volta, notizia principale. Colonne di migranti dell’Honduras si stanno avvicinando al confine degli Stati Uniti attraverso il Messico; i migranti africani hanno rotto le barriere e sono entrati nella piccola enclave spagnola sulla punta settentrionale dell’Africa; i migranti mediorientali stanno cercando di entrare in Croazia. Sebbene i numeri siano relativamente piccoli, essi segnalano un fatto geopolitico di base. Nel suo “World Interior of Capital”, il filosofo tedesco Peter Sloterdijk dimostra come, grazie alla globalizzazione, il sistema capitalista abbia determinato tutte le condizioni di vita. Il primo segno di questo sviluppo fu il Crystal Palace di Londra, il sito della prima Esposizione Mondiale nel 1851. La sua struttura rese palpabile l’esclusività della globalizzazione come la costruzione e l’espansione di un mondo interiore i cui confini sono invisibili, ma praticamente insormontabili dall’esterno, e che ora è abitato da un miliardo e mezzo di vincitori della globalizzazione.

  • L’antifascismo dei cretini: puro odio, in assenza di fascismo

    Scritto il 10/11/18 • nella Categoria: idee • (21)

    Abbiamo sempre avuto pazienza con i cretini non cattivi e con i cattivi ma intelligenti. Non riusciamo però ad averne con i cretini cattivi, magari in origine solo cretini poi incattiviti oppure solo cattivi poi rincretiniti. Ma sono cresciuti a dismisura e si sono aggravati. Sto parlando del nuovo antifascismo, collezione autunno-inverno, che si alimenta di fascistometri per misurare il grado di fascismo che è in ciascuno di noi e di istruzioni per (non) diventare fascisti, di Anpi posticce che sventolano l’antifascismo anche il 4 Novembre, non più costituite da partigiani ma da militanti dell’odio perenne; e poi di mobilitazioni, manifestazioni e mascalzonate, veicolate da giornaloni, telegiornaloni, talk show e da tante figurine istituzionali. Come quel Figo che alterna dichiarazioni d’antifascismo a dichiarazioni surreali d’amore a proposito degli stupri e i massacri tossico-migranti. Per lui le violenze si combattono con l’amore, come dicevano i più sfigati figli dei fiori mezzo secolo fa. Lui ci arriva adesso, cinquant’anni dopo e a proposito di un fatto così terribile come uno stupro mortale a una ragazzina.

  • Italia, clima sabotato? Magaldi: possibile, ma improbabile

    Scritto il 07/11/18 • nella Categoria: segnalazioni • (32)

    Qualcuno ha deciso di “bombardare” l’Italia scatenando tempeste e alluvioni? Le tecnologie di manipolazione del clima esistono, ammette Gioele Magaldi, che però aggiunge: chi mai potrebbe essere così irresponsabile da utilizzare deliberatamente, e in modo doloso, strumenti così pericolosi? La storia degli ultimi decenni, dice Magaldi in diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, dimostra che finora, anche nei momenti peggiori, è sempre prevalsa una sorta di saggezza di fondo: la stessa che, durante la Guerra Fredda, ha impedito a Usa e Urss di impiegare i rispettivi, devastanti arsenali nucleari. Certo, aggiunge il presidente del Movimento Roosevelt, la catastrofe meteorologica che sta flagellando l’Italia impone un drastico ripensamento del nostro rapporto con l’ambiente. Abusi e devastazioni possono presentare un conto salatissimo, anche se stavolta l’apocalisse delle Dolomiti – valli sventrate e intere foreste secolari cancellate – disegna un orizzonte inedito. Il panorama è più inquietante del consueto, drammatico bollettino di guerra stagionale fatto di strade interrotte, ponti crollati e paesi isolati, acquedotti lesionati e infrastrutture distrutte. La minaccia si chiama surriscaldamento climatico, e sembra inarrestabile. Gli alberi crollano, seminando morti e feriti, sotto trombe d’aria mai viste a queste latitudini. E potrebbe essere solo l’inizio.
    I paesi del Mediterraneo sono quelli più a rischio, dicono recenti studi universitari: ci siamo surriscaldati più del resto del mondo (+1,4 gradi centrigradi) e siamo stati bersagliati da un maggior numero di eventi estremi. Peggio: nei prossimi anni, per la nostra area si prevede un riscaldamento del 25% in più rispetto alla media mondiale. I dati emergono da una ricerca internazionale condotta da svariati atenei dell’area (Marsiglia e Barcellona, Salento e Nicosia, Haifa e Rabat), pubblicata sulla “Nature Climate Change”. Il riscaldamento nel Mediterraneo è più elevato che nel resto del mondo per una serie di motivi combinati tra loro: «La regione si trova in una zona di transizione fra i regimi di circolazione atmosferica delle medie latitudini e della fascia subtropicale. È caratterizzata da una complessa morfologia di catene montuose e forti contrasti terra-mare, una popolazione umana densa e in crescita, e varie pressioni ambientali». Secondo 13 agenzie Usa, è colpa dell’uomo se si registrano temperature da record. Quelle degli Stati Uniti sono aumentate drammaticamente negli ultimi decenni, toccando il loro livello più alto da 1.500 anni. A dirlo è un rapporto federale: per gli scienziati, dal 1880 al 2015 le temperature sono aumentate di 1,6 gradi Fahrenheit (0,9 gradi centigradi) e le cause sono da considerarsi legate al comportamento degli esseri umani.
    Dal 1980 la situazione è addirittura precipitata, secondo il rapporto Usa, con un drammatico aumento delle temperature che ha portato al clima più caldo degli ultimi 1.500 anni: «Ci sono evidenze che dimostrano come le attività umane, specialmente le emissioni di gas serra, sono le principali responsabili dei cambiamenti climatici rilevati nell’era industriale. Non ci sono altre spiegazioni alternative, non si tratta di cicli naturali che possano spiegare questi cambiamenti climatici». Secondo un rapporto dell’istituto europeo Climate Analytics, non sarà possibile contenere l’aumento della temperatura globale sotto i 2 gradi centigradi se l’Unione Europea non avvierà da subito la chiusura di oltre 300 centrali a carbone. In Italia, l’impatto delle violentissime perturbazioni “tropicali” è reso ancora peggiore a causa dello stato di abbandono e di degrado di troppe aree: deforestazione e cementificazione selvaggia. Non è il caso però delle Dolomiti, dove sono stati rasi al suolo – in modo inaudito – migliaia di ettari di bosco in perfetta salute. A chi si interroga sull’anomalo infittirsi di scie rilasciate dagli aerei (paesi come Israele e la Cina ammettono di utilizzare l’aviodispersione per modificare il clima) si risponde che mancano riscontri certi sulle vere cause del disastro che sta mettendo in ginocchio l’Italia. Certo è la Terra a presentarci il conto dei troppi abusi subiti, mentre il rialzo termico non accenna ad arrestarsi e le temperature restano pericolosamente molto al di sopra delle medie stagionali.
    A un quadro già così fosco è possibile aggiungere l’impatto di un’ipotetica modifica climatica segreta? Nel suo bestseller “Massoni”, Magaldi ha svelato i peggiori retroscena del potere mondiale. Sabotatori del clima a scopo anti-italiano? «Se qualcuno suppone che vi siano degli interventi proditori, questi sono tecnicamente possibili, in certi casi», ammette Magaldi: «Siamo nell’ambito del possibile, non sono tesi assurde o strampalate. Poi però – aggiunge – bisogna verificare i fatti, in termini scientifici, avendo la capacità di ricostruire una narrativa coerente e congruente». Innanzitutto: cui prodest? «A chi giova mettere in atto, da apprendista stregone, delle dinamiche tragiche e che possono diventare incontrollabili?». Si tratterebbe di «strumentazioni potentissime e pericolosissime», alla portata del Deep State e del back-office del potere? Se ad allarmarsi sono i comuni cittadini, che magari «seguono siti o pubblicazioni più o meno complottarde», figuriamoci se la situazione potrebbe mai cogliere di sorpresa «tutti i segmenti delle agenzie di intelligence». In altre parole: «Non è facile, fare delle cose del genere», ribadisce Magaldi. «Tenderei a ritenere poco plausibile, anche se possibile, che qualcuno voglia operare in questi termini, cioè scatenare proditoriamente e consapevolmente delle situazioni di questo tipo. Però – ripete – siamo nel campo delle ipotesi: in termini scientifici, se qualcuno ha gli strumenti (e le fonti) per approfondire in modo adeguato, lo faccia e lo racconti».

    Qualcuno ha deciso di “bombardare” l’Italia scatenando tempeste e alluvioni? Le tecnologie di manipolazione del clima esistono, ammette Gioele Magaldi, che però aggiunge: chi mai potrebbe essere così irresponsabile da utilizzare deliberatamente, e in modo doloso, strumenti così pericolosi? La storia degli ultimi decenni, dice Magaldi in diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, dimostra che finora, anche nei momenti peggiori, è sempre prevalsa una sorta di saggezza di fondo: la stessa che, durante la Guerra Fredda, ha impedito a Usa e Urss di impiegare i rispettivi, devastanti arsenali nucleari. Certo, aggiunge il presidente del Movimento Roosevelt, la catastrofe meteorologica che sta flagellando l’Italia impone un drastico ripensamento del nostro rapporto con l’ambiente. Abusi e devastazioni possono presentare un conto salatissimo, anche se stavolta l’apocalisse delle Dolomiti – valli sventrate e intere foreste secolari cancellate – disegna un orizzonte inedito. Il panorama è più inquietante del consueto, drammatico bollettino di guerra stagionale fatto di strade interrotte, ponti crollati e paesi isolati, acquedotti lesionati e infrastrutture distrutte. La minaccia si chiama surriscaldamento climatico, e sembra inarrestabile. Gli alberi crollano, seminando morti e feriti, sotto trombe d’aria mai viste a queste latitudini. E potrebbe essere solo l’inizio.

  • Strinati: caro Giacomelli, unico giudice ucciso in pensione

    Scritto il 06/11/18 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Un delitto “senza”: senza clamore e senza assassini (mai tro­vati), senza movente per lungo tempo, senza lapidi e celebrazioni per ricordare l’uomo e il magistrato. Un delitto senza niente e senza tutto, quello del giudice trapanese Alberto Giacomelli, freddato dai killer il 14 settembre 1988: il primo a morire già in pensione, dopo aver osato (di nuovo: per primo) applicare in Sicilia la legge Rognoni-La Torre sulla confisca dei patrimoni mafiosi. «Un giudice dimenti­cato un attimo dopo la sua morte violenta», lo ricorda Attilio Bolzoni nella sua prefazione della biografia “Un uomo per bene” (Edb, 2018) scritta da Salvo Ognibene. Giacomelli? «Inghiottito da maldicenze e depistaggi, dall’omertà, dall’ignoranza. Inghiottito da una Sicilia che appena qualche giorno dopo stava piangendo il presidente della Corte d’assise Antonino Saetta e qualche giorno dopo ancora il giornalista Mauro Rostagno». Proprio ad Alberto Giacomelli, su Libridee, Fabio Strinati dedica un’intensa rievocazione poetica.
    Si saprà solo dopo molti anni – quando ne parleranno i pentiti di Cosa Nostra – che Alberto Giacomelli aveva “pagato” per avere confiscato con un provvedimento un “bene di famiglia”, una proprietà di Gaetano Riina, il fratello dello “zio Totò”, il capo dei capi, in quel 1988 latitante già da quasi vent’anni. Giacomelli, scrive ancora Bolzoni, era presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribu­nale di Trapani: un uomo defilato, silenzioso, sobrio. Dietro il sipario, decideva i desti­ni economici di quei “galantuomini”. E aveva «messo la sua firma su un patrimonio che per sua volontà e in nome del popolo italiano non apparteneva più al mafioso di Corleone», il feroce padreterno che in Sicilia «decideva chi dove­va vivere e chi doveva morire». Così è uscito di scena, in punta di piedi, «un coraggiosissimo magistrato siciliano che non aveva mai avuto le attenzioni dei cronisti o le luci degli studi televisivi». Così è morto in solitudine Alberto Giacomelli, classe 1919, in magistratura dal ‘45, congedato nell’87 e assassinato appena un anno dopo, con un proiettile in testa.
    Il fatale provvedimento l’aveva firmato quattro anni prima. Pentiti di mafia e collaboratori di giustizia confermarono che fu proprio quella decisione a costargli la vita. Per la prima volta, Cosa Nostra decise di colpire un magistrato giudicante. E quello di Giacomelli resta l’unico caso di omicidio, nella storia d’Italia, di un magistrato in pensione. Ancora Bolzoni inquadra l’omicidio nella luce sinistra del biennio ‘88-89, che preparò le stragi di Capaci e via d’Amelio. «Corvi, talpe, sciacalli, candelotti di dinamite, “menti raffinatissime”, miste­ri che hanno fatto tremare l’isola e anche l’Italia». Inquietante il diario dell’ex sindaco palermitano Giuseppe Insalaco, che proprio nel 1988 indicò i “buoni” (Piersanti Mattarella, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Cesare Terranova e Pio La Torre, tutti assassinati), additando fra i “cattivi” Salvo Lima e Andreotti, il procuratore capo Vincenzo Pajno e l’esattore ma­fioso Ignazio Salvo. «E in mezzo, una Paler­mo sprofondata nella paura», in balìa dei sicari di Riina.
    Il maxi-processo si era concluso un anno prima, con le prime e de­cisive condanne per la Cupola. «L’impianto accusatorio del pool antimafia aveva retto alla prova della Corte d’Assise, ma in tan­ti speravano nell’appello per disintegrare quel capolavoro di ingegneria giudiziaria che aveva inventato Giovanni Falcone». Era già arrivata la stagione del disincanto, scrive Bolzoni. Fu in quella primavera, aggiunge, che a Roma «de­cisero di scavare la fossa istituzionale a Fal­cone». Al posto di Antonino Caponnetto, il consi­gliere istruttore che aveva sostituito Roc­co Chinnici (saltato in aria nell’83), il Csm nominò «un vecchio magistrato che non sapeva nulla di questioni mafiose e che in poche settimane disintegrò a col­pi di penna “l’unicità” di Cosa Nostra, spar­pagliando in mille rivoli tutte le indagini che il pool aveva centralizzato». Per Bolzoni, era la fine di un metodo di la­voro e di investigazione che aveva dato per la prima volta straordinari risultati. «Un segnale per Giovanni Falcone, den­tro e fuori Palermo, dentro e fuori lo Stato». Paolo Borsellino denunciò «la fine della lotta alla mafia».
    L’estate siciliana del 1988, aggiunge Bolzoni, se ne andò con un titolo in prima pagina – ogni giorno – su tutti i quotidiani italiani. Era esploso il “caso Palermo”, con il suo tribunale ormai chiamato il Palazzo dei Veleni, le infuo­cate polemiche sulla mancata nomina di Falcone a consigliere istruttore, il cambio improvviso dei vertici della po­lizia palermitana, i timori degli ambienti politici romani, le speranze dei siciliani. «Un’estate inquieta, che non era ancora finita. E il 14 settembre, di mat­tina, nel silenzio più cupo uccisero Alber­to Giacomelli, giudice figlio di un giudice, che da poco più di un anno aveva lasciato la toga». Delle indagini, ricorda oggi la Rai, si occupò lo stesso Borsellino, poi ucciso in via d’Amelio, in collaborazione con Paolo Germanà, scampato ai killer a Mazara del Vallo quattro anni dopo. Una storia esemplare ma coperta dal silenzio, quella di Giacomelli, in un paese – scrive Ognibene – che ha il difetto di dimenticare in fretta. Anche per questo assume un particolare valore la tensione emotiva della poesia di Strinati, commosso omaggio a un uomo mite e giusto come Giacomelli.
    AD ALBERTO GIACOMELLI
    Hanno contaminato il tuo addome
    avvelenato il tuo dabbene sguardo
    sottratto la tua anima alla vita
    usando il megafono della violenza
    il microfono dell’arroganza,
    il sotterfugio putrido vile dell’ignoranza;
    hanno calpestato il tuo onore
    pestato il tuo cognome da galantuomo
    scucito al mondo il tuo sorriso
    delicato che sapeva come corteggiare la speranza;
    hanno usato la peggior vergogna
    per ammorbare il tuo esile corpo
    attraverso un colorante colmo, strapieno di sangue…
    e ti hanno tolto l’esistenza
    perché figli di un frutto acerbo
    di un albero avverso nutrito dal morbo
    fradicio della menzogna
    la più cattiva rogna che sembra uno sciame,
    intinto, in un volume abnorme di peccato.
    (Fabio Strinati)
    Fabio Strinati (Esanatoglia, 1983) è poeta, artista visivo, compositore e fotografo. È presente in diverse riviste e antologie letterarie. Da ricordare “Il Segnale”, rivista letteraria fondata a Milano dal poeta Lelio Scanavini, la rivista  Fabio Strinati“Sìlarus” fondata da Italo Rocco, e “Osservatorio Letterario – Ferrara e L’Altrove”. È stato inserito da Margherita Laura Volante nel volume “Ti sogno, Terra”, viaggio alla scoperta di Arte Bellezza Scienza e Civiltà, inserito nei “Quaderni del Consiglio Regionale delle Marche”. Sue poesie sono state tradotte in romeno e in spagnolo. È inoltre il direttore della collana poesia per “Il Foglio Letterario” e cura una rubrica poetica dal nome “Retroscena”, proprio sulla Rivista trimestrale del “Foglio Letterario”. Pubblicazioni: “Pensieri nello scrigno. Nelle spighe di grano è il ritmo” (2014); “Un’allodola ai bordi del pozzo” (2015); “Dal proprio nido alla vita” (2016); “Al di sopra di un uomo” e “Periodo di transizione” (2017), “Aforismi scelti Vol.2” e “L’esigenza del silenzio” (2018).

    Un delitto “senza”: senza clamore e senza assassini (mai tro­vati), senza movente per lungo tempo, senza lapidi e celebrazioni per ricordare l’uomo e il magistrato. Un delitto senza niente e senza tutto, quello del giudice trapanese Alberto Giacomelli, freddato dai killer il 14 settembre 1988: il primo a morire già in pensione, dopo aver osato (di nuovo: per primo) applicare in Sicilia la legge Rognoni-La Torre sulla confisca dei patrimoni mafiosi. «Un giudice dimenti­cato un attimo dopo la sua morte violenta», lo ricorda Attilio Bolzoni nella sua prefazione della biografia “Un uomo per bene” (Edb, 2018) scritta da Salvo Ognibene. Giacomelli? «Inghiottito da maldicenze e depistaggi, dall’omertà, dall’ignoranza. Inghiottito da una Sicilia che appena qualche giorno dopo stava piangendo il presidente della Corte d’assise Antonino Saetta e qualche giorno dopo ancora il giornalista Mauro Rostagno». Proprio ad Alberto Giacomelli, su Libridee, Fabio Strinati dedica un’intensa rievocazione poetica.

  • Apocalisse maltempo: qualcuno sta bombardando l’Italia?

    Scritto il 03/11/18 • nella Categoria: segnalazioni • (44)

    Siamo stati deliberatamente “bombardati” da nubifragi devastanti, scatenati da perturbazioni artificiali? «Il prossimo che riparla di scie chimiche andrà sottoposto a un Tso», disse a mo’ di battuta Matteo Renzi, scoraggiando ulteriori interrogazioni parlamentari, sul fenomeno, da parte di esponenti del Pd. Oggi però, con il Nord-Est raso al suolo da eventi mai visti a memoria d’uomo, c’è chi torna sul tema in modo più che esplicito: «Bombardamento climatico sull’Italia, un avvertimento al governo?», si domanda il blog “Disquisendo”, secondo cui «nei giorni precedenti al disastro, ci sono state fortissime operazioni di aviodispersione a bassa quota». Tutti hanno visto il cielo sereno “rannuvolarsi”, dopo l’emissione di una rete fittissima di migliaia di scie bianche rilasciate dagli aerei di linea. Follia? Complottismo da strapazzo? L’unica vera certezza è la storica carenza di spiegazioni ufficiali definitive ed esaurienti. Si accumulano invece informazioni parziali, da fonti indipendenti, riguardo al presunto impiego clandestino della geoingegneria, inaugurata da Israele per far piovere sul deserto del Negev. La stessa Cia, oggi, ammette che sono in corso vaste sperimentazioni. Nel saggio “Owning the wheather” (possedere il clima), l’economista canadese Michael Chossudowsky svela che la “guerra climatica” è ormai una realtà.
    Un silenzio tombale è calato sulle rivoluzionarie scoperte del fisico Nikola Tesla, all’epoca emarginato dalla comunità scientifica, mentre l’ingegnere bresciano Rolando Pelizza ha raccontato a due docenti universitari, Francesco Alessandrini e Roberta Rio, che il geniale Ettore Majorana (ufficialmente scomparso nel 1938 ma in reatà nascosto in Calabria fino al 2005) progettò una “macchina” capace di mutare il clima all’istante. «Dello sviluppo di questa “macchina”, costruita in 50 esemplari su istruzioni dello stesso Majorana – dice ancora Pelizza – fu incaricato direttamente il governo italiano tramite Giulio Andreotti, che poi passò il dossier alla Cia». Un altro italiano, l’imolese Pier Luigi Ighina – assai meno celebre di Majorana, ma notissimo agli appassionati – riprodusse anche per le telecamere di “Report”, su Rai Tre, il suo straordinario esperimento, condotto con mezzi artigianali: Ighina era in grado di far piovere, creando nuvole nel cielo sereno (o a scelta, di far spuntare il sole tra i nuvoloni) semplicemente azionado, da terra, le pale di una sorta di ventilatore gigante, cosparse di alluminio. Il trucco? Cambiare la consistenza elettromagnetica della bassa atmosfera, immettendo vortici di onde.
    «La manipolazione climatica è realtà», sostiene il sito “Dionidream”, citando estati torride e mezze stagioni scosse da nubifragi e alluvioni di inaudita violenza, come quelli che hanno messo in ginocchio varie aree della Pensiola, a cominciare dal Veneto, dove le trombe d’aria hanno divelto decine di migliaia di alberi, devastando storiche foreste alpine. Fuori dall’Italia, il fenomeno della manipolazione climatica non è esattamente una novità: «Festa in cielo, vietata la pioggia», titolò il Tgcom24 di Mediaset il 23 marzo 2009, parlando di «aerei in cielo per disperdere le nubi» in occasione del settantesimo anniversario della “repubblica popolare” fondata da Mao. «Per impedire che la pioggia rovini i grandiosi festeggiamenti in programma, si ricorrerà a una tecnica senza precedenti», raccontò il telegiornale: «L’aviazione impiegherà 18 apparecchi che disperderanno nell’atmosfera prodotti chimici per impedire che dal cielo sopra Pechino cada la pioggia». Nello stesso anno, a novembre, sempre la Cina s’imbiancò fuori stagione, come raccontò “La Repubblica”: «Una nevicata precoce ha coperto con un’abbondante coltre bianca Pechino. Il tutto ha però ha avuto un aiutino dell’Ufficio Modificazione del Tempo della capitale cinese».
    I tecnici, riferì tranquillamente l’agenzia “Xinhua”, «hanno riversato in cielo con degli aerei 186 dosi di ioduro d’argento, per approfittare delle nuvole e del brusco calo della temperatura». Questo, scrisse “Repubblica”, «ha generato la nevicata», il cui scopo era «alleviare la persistente siccità». Ammise Zhang Qiang, responsabile dell’ufficio meteorologico: «Non ci facciamo sfuggire occasione per provocare precipitazioni, da quando Pechino registra una persistente condizione di siccità». Due anni dopo, nel 2011, l’allora presidente iraniano Mahmud Ahmedinejad accusò l’Occidente di aver provocato una gravissima siccità per mettere in crisi l’economia agricola del paese. «Secondo rapporti sul clima, accuratamente verificati, le potenze occidentali forzano le nuvole fino a far piovere», dichiarò Ahmedinejad, come confermato dal “Giornale”. «I nostri nemici distruggono le nuvole prima che arrivino sul nostro paese». Ancora la Cina, già nel 2011, è tornata protagonista sul tema, annunciando un investimento da 120 milioni di euro per riuscire, entro il 2015, a far aumentare del 10% le precipitazioni nelle zone più aride.
    «Un primo esperimento in tal senso era stato già condotto nel febbraio 2009, quando diverse regioni erano state irrorate da una pioggerellina leggera, generata da agenti chimici sparati nell’atmosfera con 2.392 razzi e 409 cannoni, in grado di creare nuvole cariche di pioggia», scrove il sito “Greenews”. «Le nuvole ‘adatte’ alle precipitazioni vengono ‘seminate’ con ioduro d’argento, un agente chimico che favorisce l’aggregazione delle molecole d’acqua per creare grandi gocce abbastanza pesanti da cadere al suolo». La tecnologia in realtà non è nuova, aggiunge “Greenews”: i primi esperimenti risalgono alla Guerra Fredda. «Durante la guerra del Vietnam, gli Stati Uniti lanciarono l’Operazione Popeye per cercare di intensificare i monsoni sul Sentiero di Ho Chi Minh, la rete di strade che andavano dal Vietnam del Nord al Vietnam del Sud passando per Laos e Cambogia, usate dai Vietcong e dai loro sostenitori. Nel 1978, però, gli esperimenti per far piovere artificialmente negli Usa furono interrotti, in seguito a una grave inondazione causata dal bombardamento chimico delle nubi». Dal Sud-Est Asiatico al Medio Oriente: «Israele “stimola” le nuvole dal 1961 e riesce così a rendere fertili e rigogliose terre di per sé aride».
    «Nel mondo ci sono diversi esperimenti in corso di questo tipo, ma siamo lontani dal poter dire di essere in grado di controllare la pioggia», disse nel 2012 a “Greenews” uno specialista come Sandro Fuzzi, climatologo del Cnr di Bologna, al quale allora sembrava remoto il rischio di gravi effetti collaterali, dato che gli interventi si svolgevano «su scala ridotta, al massimo di qualche decina di chilometri», mentre i fenomeni più distruttivi, come le alluvioni, «riguardano fronti di centinaia e anche migliaia di chilometri». L’ultima frontiera, aggiunge ancora “Greenews”, consiste nel bombardare le nuvole dal basso con dei laser: esperimento condotto nel 2010 in laboratorio e poi «replicato a Berlino da un gruppo di ricercatori dell’università di Ginevra e pubblicato sulla rivista “Nature Photonics”». Con un laser di grande potenza, una specie di “cannone energetico”, i ricercatori hanno colpito ed “eccitato” le molecole di gas presenti nell’aria. «Il risultato è stata la formazione di nuclei di condensazione attorno ai quali si sono create piccole gocce di acqua». Secondo il blog “Shivio news”, già nel 2012 erano oltre 20 i paesi impegnati nella sperimentazione di nuove tecniche per provocare precipitazioni.
    In vetta classifica primeggiano i soliti cinesi: Pechino, letteralmente, «impiega nel “rainmaking” oltre 37.000 addetti, fra tecnici e ricercatori», mentre «una trentina di aerei, 4.000 rampe per razzi e 7.000 cannoni vengono usati per sparare in cielo nuclei di sostanze intorno alle quali stimolare processi di condensazione di gocce d’acqua o cristalli di ghiaccio». Negli Stati Uniti, gli aerei «gettano nelle nuvole ghiaccio secco e ioduro d’argento». In Sudafrica si usa invece il cloruro di potassio: «I sali vengono diffusi da aerei che volano sotto le nubi in formazione, e servono ad aumentare il numero e la misura delle gocce». Anche il Messico, aggiunge “Shivio”, sta sperimentando la tecnica sudafricana, che «sembra che sia in grado di aumentare di un terzo il volume delle precipitazioni». Qualcuno poi ricorderà la primissima performance, in assoluto, della geoingegneria più spettacolare: il 9 maggio del lontano 2007, in occasione della fastosa celebrazione dell’anniversario della vittoria dell’Urss nella Seconda Guerra Mondiale, il Tg1 riprese lo spettacolo del sole riapparso “miracolosamente” tra le nubi nerissime del cielo di Mosca, grazie a una portentosa miscela a base di azoto, iodio e argento diffusa dagli aerei.
    Dall’uso civile a quello militare, il passo è breve: «Almeno quattro paesi – Stati Uniti, Russia, Cina e Israele – dispongono delle tecnologie e dell’organizzazione necessaria a modificare regolarmente il meteo e gli eventi geologici per varie operazioni militari ufficiali e segrete, legate a obiettivi secondari, tra cui il controllo demografico, energetico e la gestione delle risorse agricole». Lo disse già nel 2012 l’esperto aerospaziale Matt Andersson, allora in forza alla compagnia hi-tech Booz Allen Hamilton di Chicago. In un’intervista al “Guardian”, Hamilton ha ammesso: il nuovo tipo di guerra non convenzionale «comprende la capacità tecnologica di indurre, spingere o dirigere eventi ciclonici, terremoti e inondazioni, includendo anche l’impiego di agenti virali per mezzo di aerosol polimerizzati e particelle radioattive, trasportate attraverso il sistema climatico globale». Lo stesso Hamilton ha citato una think-tank della galassia neocon, il Bpc (Bipartisan Policy Center, con sede a Washington) e il suo rapporto nel quale chiede agli Usa e agli alleati di accelerare la sperimentazione su larga scala del cambiamento climatico.
    Secondo il “Guardian”, il gruppo è finanziato da «grandi compagnie petrolifere, farmaceutiche e biotecnologiche», e rappresenta «gli interessi corporativi del mondo militare e scientifico statunitense». Il newsmagazine “Sputnik News”, citando il canadese Chossudovsky, osserva: la geoingegneria ha omai prodotto «sofisticate armi elettromagnetiche». E anche se la cosa non è ammessa ufficialmente, men che meno a livello scientifico, le capacità di manipolare il clima (anche per scopi militari) sono in stato avanzatissimo. La storia di questa disciplina risale addirittura al 1940, quando il matematico americano John Von Newman, al Pentagono, iniziò la sua ricerca per la modifica del clima. Obiettivo: alterare i modelli meteorologici. Una tecnologia sviluppata negli anni ‘90 secondo il programma di ricerca della cosiddetta “alta frequenza aurorale attiva” (Haarp, High Frequency Active Auroral Research Program), come appendice di una iniziativa strategica di difesa, le “Guerre stellari”. Il programma Haarp, installato in Alaska e poi bloccato, sarebbe stato parte di una strategia tuttora attiva: le brusche modifiche del clima possono «estendersi, avviando inondazioni, uragani, siccità e terremoti».
    Ammissioni ufficiali? Impensabili. Meglio lasciare che certe voci circolino in modo incontrollato (bufale comprese), per poi liquidare il tutto sotto la voce “teoria del complotto”. «E’ naturale che su un tema come il cambiamento climatico la Cia collaborerebbe con gli scienziati per meglio comprendere il fenomeno e le sue implicazioni sulla sicurezza nazionale», ha detto un portavoce dell’intelligence Usa, dopo la diffusione della notizia, da parte del sito legato al periodico statunitense “Mother Jones”, secondo cui proprio la Cia starebbe aiutando con ingenti finanziamenti la Nas, National Academy of Sciences, impegnata in uno studio sull’applicazione della geoingegneria per manipolare il clima. Su “Meteoweb”, Filomena Fotia spiega che “Mother Jones” descrive lo studio come un’inchiesta riguardante «un numero limitato di tecniche di geoingegneria, inclusi esempi di tecniche di gestione delle radiazioni solari (Srm, Solar Radiation Management e rimozione dell’anidride carbonica (Cdr, Carbon Dioxide Removal). Geoingegneria “buona”, per proteggerci dall’attività solare divenuta pericolosa per la Terra?
    «La manipolazione meteorologica – aggiunge Fotia – è stata riportata in auge da molti commentatori statunitensi in occasione dei devastanti tornado in Oklahoma, o di altri eventi estremi come l’uragano Sandy, che sarebbero stati “generati dal governo” usando la base dell’Haarp in Alaska». Ma, appunto: il tema si presta a speculazioni incontrollate, vista la mancanza di riscontri esaurienti da parte delle autorità, sempre estremamente laconiche, come quelle interpellate nel 2014 da Alessandro Scarpa, allora consigliere comunale di Venezia. “Grandinata anomala e scie chimiche, il maltempo si tinge di mistero”, titolò il 24 settembre il “Gazzettino”, storico quotidiano veneziano, dopo «una grandinata fuori dal normale», sotto un cielo «carico di nubi come mai si era visto». E lassù, «quelle scie bianche nel cielo terso il giorno dopo». Sono bastati questi due fenomeni, scriveva il “Gazzettino” quattro anni fa, a ridestare un quesito: e se questo maltempo eccezionale non fosse il risultato delle bizze atmosferiche, ma di qualcosa di “chimico”?
    In redazione arrivò una lettera allarmatissima: grondaie intasate da “noci” di ghiaccio persistenti ed enormi: «Come mai questo ghiaccio non si è sciolto? Sembrerebbe di formazione chimica, da laboratorio, e non naturale». Per Alessandro Scarpa, vale la pena di esaminarli, certi fenomeni, «se non altro per capire di cosa si tratta» Ad esempio, «le strane scie chimiche che si vedono nei nostri cieli». Molte le segnalazioni pervenuite al Consiglio comunale, «da parte di cittadini veneziani, preoccupati, che chiedono spiegazioni». Scarpa si è rivolto inutilmente all’Enav, l’ente nazionale di assistenza al volo, che gestisce il controllo del traffico degli aerei civili. Nessun lume neppure dal ministero dell’ambiente di Roma: risposte evasive o bocche cucite. «È quindi opportuno – sottolinea Scarpa – preoccuparsi seriamente per noi e per i nostri figli». E aggiunge, rivolto ai giornalisti disattenti: «Questa mattina, quando il cielo era limpidissimo, si sono viste una quindicina di linee nel cielo veneziano». Quattro anni dopo, la situazione è gravemente peggiorata: non c’è più una giornata serena senza che il cielo non sia “sporcato” dalle scie, di ora in ora, mentre l’Italia sta diventando il bersaglio di violentissime tempeste di tipo tropicale, come quella che ora ha messo in ginocchio il Nord-Est.
    Lo scorso anno, a gennaio, il colonnello Mario Giuliacci – affabile volto televisivo – sul suo sito ha tentato di sgombrare il campo da ogni illazione, presentando testualmente un comunicato ufficiale dell’aeronautica militare. La spiegazione dei militari è ineccepibile, riguardo alla vistosa presenza di molte delle scie: «Le nuove generazioni di motori che equipaggiano i moderni aeroplani a reazione, per avere un miglior rendimento termodinamico dato dalla differenza di temperatura tra la camera di combustione e l’ambiente esterno, impiegano miscele di acqua e carburante la cui combustione genera le enormi quantità di vapore acqueo che sono all’origine delle scie». Secondo i militari, dunque, sono aumentate in modo esponenziale le scie di condensazione, in gergo “contrails”, destinate poi a scomparire nell’atmosfera. «Per le caratteristiche termodinamiche dei motori, per le quote di volo e per la localizzazione – aggiunge l’aeronautica – la quasi totalità delle scie che si osservano in cielo sono prodotte dai jet di linea degli operatori commerciali. La loro durata è variabile da pochi istanti a minuti e talvolta a ore, in dipendenza dell’umidità, delle temperature e in genere delle condizioni termodinamiche dell’aria circostante».
    Poi la chiosa: «Per quanto ci compete, l’Aeronautica Militare non possiede aeromobili che generano o emettono scie differenti da quelle prodotte a causa della condensazione di vapore acqueo». Il che – alla lettera – non significa escludere la presenza di altre scie, di ben diversa natura, emesse da velivoli estranei all’aeronautica militare italiana: le famigerate “chemtrails”, appunto. Tra le pagine del blog “Su la testa”, il giornalista investigativo Gianni Lannes (vittima di minacce e attentati per le sue indagini scomode, specie quelle sulla mafia dei rifiuti) sostiene che si è ormai clamorosamente violata la “Convenzione sul divieto dell’uso di tecniche di modifica dell’ambiente”, a fini militari o ad ogni altro scopo ostile, nota anche come Convenzione Enmod: «E’ il trattato internazionale che proibisce l’uso delle tecniche di modifica dell’ambiente». Firmata il 18 maggio 1977 a Ginevra, è entrata in vigore il 5 ottobre 1978, approvata anche dall’Onu. Gli Stati firmatari sono 48, inclusi gli Usa, di cui 16 non hanno ancora ratificato il trattato. In totale, i paesi che vi hanno aderito sono 76. «L’Italia ha firmato la Convenzione a Ginevra il 18 maggio 1977 e l’ha ratificata con la legge numero 962 del 29 novembre 1980, grazie al presidente della Repubblica Sandro Pertini e all’approvazione quasi all’unanimità del Parlamento».
    Secondo Lannes, questa verità viene regolarmente “oscurata” perché illegale, oltre che aberrante. Ma l’Italia, sostiene Lannes, ha concesso i propri cieli durante l’infelice G8 di Genova del 2001, quando Berlusconi firmò un trattato segreto, con Bush, che trasformava il nostro paese in un’area-test per l’irrorazione dell’atmosfera. Dal 2003, l’operazione è scattata. E nessuno ne parla: è top secret. Si chiama “Clear Skies Initiative”. Lannes attinge direttamente a fonti della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato: le pagine istituzionali americane ammettono apertamente che il 19 luglio 2011, a Genova, Bush e Berlusconi impegnarono i loro paesi in un programma di ricerca sul cambiamento climatico e sullo sviluppo di “tecnologie a bassa emissione”. Operazione poi approvata il 22 gennaio 2002 dal ministero italiano dell’ambiente e dal Dipartimento di Stato Usa. Dunque, scrive Lannes nel blog “Su la testa”, cambiamenti climatici indotti e “collaborazione” (si fa per dire) tra Stati Uniti e Italia, con quest’ultima a fare da cavia. «Dalla documentazione delle autorità nordamericane emerge che in questa vasta operazione gestita in prima battuta dal Pentagono, dalla Nasa e dalla Nato, sono coinvolte addirittura le industrie e le multinazionali più inquinanti al mondo: Exxon Mobil, Bp Amoco, Shell, Eni, Solvay, Fiat, Enel».
    Tutti insieme appassionatamente, secondo il giornalista, compreso il settore scientifico: università italo-americane, Enea, Cnr, Ingv, Arpa e così via. «Insomma, controllori e controllati. L’Enac addirittura ha partecipato ad un test “chemtrails” in Italia insieme a Ibm, ministero della difesa, stato maggiore dell’aeronautica e ovviamente Nato». Mancano, sempre, le conferme ufficiali. In compenso si scatenato i “debunker” come Paolo Attivissimo: “Scie chimiche, aria fritta con contorno di bufala e grana”. Dopo il disastro aereo del volo Germanwings del 2015, schiantatosi sulle Alpi francesi, anche il “Giornale” si sbizzarrisce: “Airbus, dalle scie chimiche alle ’strane scritte’: complottisti scatenati”. Nel frattempo Enrico Gianini, ex addetto aeroportuale di Malpensa, racconta a “Border Nights”: una volta a terra, gli aerei delle compagnie low-cost perdono liquido inquinato da metalli pesanti, e non lasciano più caricare i bagagli nelle stive di coda, come se fossero ingombre di serbatoi clandestini. «Se mi denunciano, chiederò al tribunale di “smontare” uno di quegli aerei: così scopriranno finalmente cosa trasporta». Ma la notizia resta negli scantinati del web, mentre il finimondo rade al suolo il Veneto e la Cina stipendia i suoi “rainmaker”.

    Siamo stati deliberatamente “bombardati” da nubifragi devastanti, scatenati da perturbazioni artificiali? «Il prossimo che riparla di scie chimiche andrà sottoposto a un Tso», disse a mo’ di battuta Matteo Renzi, scoraggiando ulteriori interrogazioni parlamentari, sul fenomeno, da parte di esponenti del Pd. Oggi però, con il Nord-Est raso al suolo da eventi mai visti a memoria d’uomo, c’è chi torna sul tema in modo più che esplicito: «Bombardamento climatico sull’Italia, un avvertimento al governo?», si domanda il blog “Disquisendo”, secondo cui «nei giorni precedenti al disastro, ci sono state fortissime operazioni di aviodispersione a bassa quota». Tutti hanno visto il cielo sereno “rannuvolarsi”, dopo l’emissione di una rete fittissima di migliaia di scie bianche rilasciate dagli aerei di linea. Follia? Complottismo da strapazzo? L’unica vera certezza è la storica carenza (in Italia, non all’estero) di spiegazioni ufficiali, definitive ed esaurienti, sulla manipolazione del clima. Si accumulano invece informazioni parziali, da fonti indipendenti, riguardo al presunto impiego clandestino della geoingegneria, inaugurata da Israele per far piovere sul deserto del Negev. La stessa Cia, oggi, ammette che sono in corso vaste sperimentazioni. Nel saggio “Owning the wheather” (possedere il clima), l’economista canadese Michael Chossudowsky svela che la “guerra climatica” è ormai una realtà.

  • Orrore indicibile: la polizia ritrova 123 bambini scomparsi

    Scritto il 16/10/18 • nella Categoria: segnalazioni • (17)

    Rapiti e poi “parcheggiati”, in attesa di essere massacrati. La polizia di Detroit li ha ritrovati tutti insieme: 123 bambini. Erano «in un grave stato di denutrizione e di sofferenza psicologica», scrive l’“Huffington Post”. Tuttavia, «dagli accertamenti svolti non sembrerebbe che siano stati vittime di violenze sessuali». Gli agenti hanno impiegato molte ore per rintracciare le loro famiglie e riconsegnare i piccoli, sequestrati nei giorni precedenti. Secondo il “New York Post”, gli inquitenti stavano indagando «su una rete di rapimenti di minori che poi venivano coinvolti in traffici sessuali». Quello che sorprende, di queste notizie – osserva Paolo Franceschetti – è che vengono date di sfuggita: «Poche righe, liquidate come se si trattasse di una notizia del tipo “Belen ha un nuovo fidanzato”. Il sindaco di Riace, reo di aver favorito (non si sa poi se vero o no) l’immigrazione clandestina, ce lo rifilano su tutti i giornali e in tutte le salse». E i bambini scomparsi, invece? E i nomi delle persone arrestate o coinvolte nella vicenda? In America, aggiunge Franceschetti, scompare un numero incredibile di minori. «Le pareti di autogrill e supermercati sono spesso tappezzate dalle foto e di persone scomparse nel nulla, da un momento all’altro, come se niente fosse».
    I piccoli appena ritrovati a Detroit? «Destinati ad essere impiegati nel mercato del sesso, ma anche degli organi e dei riti satanici». Se da noi scompaiono ogni anno senza essere ritrovati centinaia di minori, in altri paesi europei la situazione è ancora peggiore: solo in Francia, quest’anno, i bambini spariti sono 1.238. Che fine fanno? Sul blog “Petali di Loto”, Franceschetti – avvocato, indagatore dei misteri italiani come quello del Mostro di Firenze – punta il dito contro il satanismo e le potentissime organizzazioni pedofile: nel mondo di calcola che ogni anno scompaiano circa 100.000 bambini. Un caso particolarmente doloroso riguarda i bambini figli di extracomunitari non registrati ufficialmente, e quelli che vengono “comprati” già da prima della nascita: «Si paga una coppia in difficoltà affinché faccia nascere un bambino e lo consegni all’organizzazione che lo richiede; è il modo più sicuro; non lascia alcuna traccia del delitto commesso e il bimbo scompare nel nulla e mai comparirà neanche nelle statistiche». Il loro destino? «Molti finiscono nel traffico di organi». Alcuni vengono utilizzati per i “giochi di morte” filmati negli abominevoli “snuff movies”, altri ancora diventeranno super-soldati, psicologicamente “riprogrammati”.
    Ma il posto d’onore, nella strage silenziosa dei piccoli, è occupato proprio dalle reti pedofile: «Sono organizzate a livello internazionale e coperte da capi di Stato», sostiene Franceschetti: in alcuni casi, a tirare le fila di questa realtà sono proprio i soggetti istituzionali che dovrebbero invece tutelare la sicurezza dei bambini. Franceschetti allude a magistrati, autorità di polizia, funzionari dell’Onu. «Molte delle organizzazioni antipedofilia e dei centri che accolgono i bambini abbandonati, poi, non sono altro che trappole ben congegnate per accalappiare i malcapitati che cercano aiuto». Le prove? «Ce ne sono a bizzeffe, ma il quadro – sostiene Franceschetti – va ricostruito come un immenso puzzle». Fece epoca il caso del serial killer belga Marc Dutroux, ribattezzato “il mostro di Marcinelle”. Una storia dell’orrore, rievocata nel libro “Tutti manipolati”, pubblicato da “Stampa Alternativa” e scritto da un coraggioso gendarme belga, Marc Toussaint, che aveva partecipato alle indagini per poi esserne estromesso perché “troppo ligio al dovere”. Tentarono anche di farlo fuori, provocandogli un incidente in moto. Il libro, documentato e basato sugli atti dell’inchiesta, racconta di come nel caso Dutroux furono coinvolti cardinali, ministri, e addirittura il Re del Belgio, Alberto II.
    Nel 1996 scomparve una bambina belga, Laetitia. Le indagini individuarono il rapitore: Dutroux. Il pedofilo aveva ucciso almeno sei bambine, ma ci vollero otto anni prima di giungere al processo. Nel frattempo, due bambine erano state rinchiuse in casa Dutroux, «ma i depistaggi della gendarmeria e della magistratura fecero sì che le bambine non venissero trovate durante le perquisizioni». La scoperta avvenne fuori tempo massimo: le piccole erano già morte. L’inchiesta, ricorda Franceschetti, portò ad individuare come mandanti personaggi di altissimo livello, che arrivavano fino al coinvolgimento personale del sovrano belga. L’organizzazione era dedita a “snuff movies” e ad attività come «il gioco del gatto e del topo, che a quanto pare è una costante di queste organizzazioni». Ma giornalisti e inquirenti che seguivano il caso persero la vita: «Incidenti e suicidi, ovviamente». E così, «tutto venne messo a tacere dalla magistratura e dalla gendermeria».
    Dall’Europa agli Usa: un ex agente segreto ha salvato dagli abusi e dal controllo mentale una delle vittime di queste organizzazioni, Cathy O’Brien. Dopo essere sfuggiti più volte alla morte, lo 007 e la ragazza sono riusciti a scrivere due libri: “Accesso negato alla verità” (Macro edizioni) e “Trance-formation of America”. In quest’ultimo, spiega Franceschetti, si narra di come l’organizzazione che abusava la donna facesse capo addirittura al presidente degli Stati Uniti, George W. Bush. «Si narra dei legami di Bush e Clinton con i signori della droga, si narra dei legami con le organizzazioni pedofile e con quelle sataniche». In particolare si evidenziano i legami di Bush e Clinton con il “Tempio di Seth”, che è «la più potente organizzazione satanista ramificata a livello internazionale». La fondò Michael Aquino, un ex ufficiale dell’esercito statunitense molto amico di Bush. «Stupri, omicidi, pedofilia, droga, satanismo… tutto narrato nero su bianco, con nomi e cognomi».
    Stati Uniti, Europa e anche Africa: tempo fa, aggiunge Franceschetti, in Ciad vennero arrestate per pedofilia e commercio di esseri umani alcune persone – appartenenenti all’organizzazione “L’Arca di Zoe” – che stavano portando in Francia 103 bambini. «Che fine dovessero fare quei bambini non si sa», ma l’allora presidente Sarkozy andò personalmente a trattare la liberazione degli arrestati per riportarli in patria. Gli operatori fermati avevano dichiarato che i bambini erano orfani provenienti dal Darfur. «Poi si è scoperto che erano figli di famiglie del Ciad, e i genitori erano ancora viventi». Da notare che “L’Arca di Zoe” «era sotto inchiesta anche in Francia, sospettata di trafficare in bambini per scopi tutt’altro che leciti». Non che da noi non esistano, retroscena analoghi: anzi, «in Italia inchieste così eclatanti non sono neanche mai iniziate». O meglio: quelle avviate «non sono state divulgate», sostiene Franceschetti: «Nel 2006 venne arrestato un avvocato romano, Alberto Gallo, per pedofilia. I giornali riporteranno la notizia come se si trattasse di un pedofilo isolato, ma in realtà faceva parte di un’organizzazione internazionale». Lo stesso Dutroux, in Belgio, era solo una pedina di queste potenti reti senza frontiere.
    Nel suo romanzo “La Loggia degli Innocenti”, il commisario Michele Giuttari – fermato a un passo dall’aver risolto il giallo del Mostro di Firenze – descrive un’organizzazione pedofila che fa capo al procuratore fiorentino, a cui (nella fiction) dà un nome non casuale: Alberto Gallo. «In altre parole, Giuttari lega chiaramente l’ex procuratore di Firenze Piero Luigi Vigna alla rete pedofila che era sotto inchiesta in quel periodo». E il nome della “loggia” allude chiaramente all’Ospedale degli Innocenti, «storico palazzo fiorentino dove da secoli è ospitato un centro che tutela i minori abbandonati». Un puzzle infinito, che coinvolgerebbe capi di Stato e ministri, teste coronate, ma anche «militari, magistratura e forze dell’ordine», senza contare i cardinali che negli Usa sono oggi al centro di un clamoroso scandalo, con migliaia di minori abusati. Il guaio, dice Franceschetti, è che il fenomeno “pedofilia internazionale” (con la variante del satanismo) è costantemente negato da quelli che sono «i massimi garanti del sistema in cui viviamo», alcuni dei quali poi finiscono in televisione, consultati come “esperti”. Franceschetti ricorda le parole che gli rivolse il figlio di un boss della ’ndrangheta: «Da noi c’è più legalità e giustizia. In Calabria e in Sicilia i bambini non si toccano; da voi al Nord, invece sì».
    Quella che può sembrare una follia oggi può assumere un terribile significato. La gente comune, dice Franceschetti, non si stupisce più di tanto se scopre che i vertici della politica hanno contatti organici con la mafia, ma non potrebbe tollerare lo spettacolo dell’altro orrore – quello perpetrato ai danni dei minori scomparsi. «Siamo disposti ad accettare che si scatenino guerre da milioni di morti in Iraq, Afghanistan, in Africa. In fondo, quelli sono negri. Che ce ne importa? Basta che non ci tolgano la partita di calcio della domenica. Ma probabilmente – aggiunge Franceschetti – se si venisse a sapere la verità sui bambini scomparsi, nessuno potrebbe reggere ad un simile shock. E allora sì, forse qualcuno comincerebbe a capire che il mondo in cui viviamo non funziona esattamente come i giornali e i mass media in genere ce lo descrivono». Ecco perché, probabilmente, quella realtà resta avvolta in tanta, misteriosa segretezza. E se la polizia ritrova 123 bambini in un colpo solo, i media archiviano la notizia “en passant”, senza scavare per capire cosa si nasconde dietro quell’enormità.

    Rapiti e poi “parcheggiati”, in attesa di essere massacrati. La polizia di Detroit li ha ritrovati tutti insieme: 123 bambini. Erano «in un grave stato di denutrizione e di sofferenza psicologica», scrive l’“Huffington Post”. Tuttavia, «dagli accertamenti svolti non sembrerebbe che siano stati vittime di violenze sessuali». Gli agenti hanno impiegato molte ore per rintracciare le loro famiglie e riconsegnare i piccoli, sequestrati nei giorni precedenti. Secondo il “New York Post”, gli inquirenti stavano indagando «su una rete di rapimenti di minori che poi venivano coinvolti in traffici sessuali». Quello che sorprende, di queste notizie – osserva Paolo Franceschetti – è che vengono date di sfuggita: «Poche righe, liquidate come se si trattasse di una notizia del tipo “Belen ha un nuovo fidanzato”. Il sindaco di Riace, reo di aver favorito (non si sa poi se vero o no) l’immigrazione clandestina, ce lo rifilano su tutti i giornali e in tutte le salse». E i bambini scomparsi, invece? E i nomi delle persone arrestate o coinvolte nella vicenda? In America, aggiunge Franceschetti, scompare un numero incredibile di minori. «Le pareti di autogrill e supermercati sono spesso tappezzate dalle foto e di persone scomparse nel nulla, da un momento all’altro, come se niente fosse».

  • Onfray: Besson, evasori e lacchè. L’oscena corte di Macron

    Scritto il 11/10/18 • nella Categoria: idee • (5)

    Vostra Altezza, Vostra Eccellenza, Vostra Serenità, Mio caro Manu, Mio Re, la stampa ha da poco riferito che tu hai nominato un mascalzone per rappresentare la nazione a Los Angeles. E, unico titolo di nobiltà diplomatica, dicono le malelingue, i gelosi e gli invidiosi, sarebbe un libro agiografico sulla tua campagna presidenziale. Al di fuori di questo fatto d’armi, tanto poco noto che nessuno ne conosce il titolo, la tua penna è una di quelle che si trovano nelle parti meno nobili della professione: il coccige, poiché è quella che manifesta più sovente il carattere inerente alla comunicazione istituzionale: la prosternazione. Da Sartre a BHL presso Sarko (dopo Mao), da Aragon a André Glucskmann presso lo stesso Sarko (anche lui dopo Mao), da Drieu de La Rochelle a Sollers presso Balladur (parimenti dopo Mao), da Brasillach a Kristeva presso il Bulgaro Jivkov (anche lei dopo Mao), gli ultimi cento anni ne hanno visti di scrivani dotati… per la genuflessione politica! Philippe Besson rientra in questa vecchia categoria dei valletti di penna, ma sappiamo ormai in che tipo di piumaggio risulti rilevante questo giovane uomo. Questo tipo di penna non è quello dei più talentuosi ma quello dei più venduti – io parlo dell’uomo, non dell’autore.

  • Ho visto un Re: a piangere è Calabresi, “ferito” da Di Maio

    Scritto il 08/10/18 • nella Categoria: idee • (7)

    «E sempre allegri bisogna stare», cantava Jannacci, «ché il nostro piangere fa male al Re». Fa male «al ricco e al cardinale», al punto che «diventan tristi se noi piangiam». C’è qualcosa di più insopportabile del vittimismo (grottesco) da parte del potere che “chiàgne e fotte”? Nell’arcaico pantheon medievale evocato dall’immenso cantautore milanese non c’era ancora posto, ovviamente, per il giornalista. Senza contare che allora, nel mitico 1968 – quando quel brano fu composto – erano ancora in circolazione giornalisti veri e propri. Magari non erano infallibili neppure loro, ma si chiamavano Bocca, Biagi, Montanelli. Ciascuno amato o detestato, a seconda delle platee, ma tutti rispettati: non cantavano in nessun coro e, nel caso, “sbagliavano” in proprio, senza prendere ordini dall’editore, dal partito, dall’establihment. Erano i tempi in cui sul “Corriere” scriveva Pasolini. Si era lontani anni luce dalle “carte false” che poi Giampaolo Pansa avrebbe messo alla berlina, denunciando la vocazione al servilismo che avrebbe fatalmente rovinato il giornalismo italiano, trasformandolo in docile strumento di propaganda.
    Giornali a fari spenti nella notte: tutti addosso ai ladri di polli di Tangentopoli, senza vedere il furto vero e colossale – sovranità, democrazia – messo a segno nel frattempo dall’élite finto-europeista. Oggi è diverso, è persino peggio: non si può più dire che i giornali sbaglino, non vedano, non capiscano. Oggi i giornali picchiano. Malmenano il nemico del padrone, ogni giorno, spudoratamente. Il primo a farlo è “Repubblica”, quotidiano fondato dall’ex fascista e poi socialista Scalfari, quindi a lungo diretto da quell’Ezio Mauro che demolì Berlusconi per i sexgate di Arcore, trasformando l’ultimo premier italiano eletto in qualcosa di cui gli anti-italiani Merkel e Sarkozy potevano ridere, proprio mentre si preparavano a spedire in Italia il loro uomo, Mario Monti, per inguaiare famiglie e aziende mettendo in ginocchio il sistema-Italia, comodamente spolpato da Germania e Francia, tra una risata e l’altra. Ridotta in macerie la politica – il populista Renzi, dopo il “sicario” Monti – oggi la ribellione di un paese scientificamente impoverito, terremotato dall’euro-crisi pilotata dai poteri che controllano la Bce, si esprime in modo grossolano per bocca di Salvini e Di Maio, il quale ha addirittura l’ardire di denunciare apertamente che il Re è nudo: tutto racconta, fuor che la verità. Apriti cielo: l’attuale direttore di “Repubblica”, Sergio Calabresi, apre il fazzoletto.
    Niente manganello, per una volta, ma fiumi di lacrime: i «nuovi potenti», singhiozza Calabresi, si sono accorti che – grazie al web – oggi «possono sperare di realizzare il sogno di ogni governante della storia: liberarsi dei corpi intermedi, delle critiche e delle domande scomode». Se queste parole fossero lette da archeologi fra tremila anni, e se non fosse più rintracciabile nessuna copia di “Repubblica”, nessuna prima pagina e nessun editoriale, qualcuno potrebbe persino prenderlo sul serio, Calabresi. Cosa ha detto, il mai impeccabile Di Maio? Due verità sacrosante. La prima: i giornali come “Repubblica” non fanno più informazione ma solo propaganda, spacciando “fake news”. La seconda: per fortuna, non li legge più nessuno. Esatto: vendono un terzo, un quarto delle copie che vendevano ai tempi di Biagi, Bocca e Montanelli, all’epoca in cui Ilaria Alpi faceva giornalismo d’inchiesta in Somalia, e in televisione campeggiavano Renzo Arbore e Gianni Minà. Persino i comici facevano pensare: Paolo Villaggio, Cochi e Renato diretti dallo stesso Jannacci (oggi il pubblico deve rassegnarsi a Crozza, che riesce a trasformare in eroe il sindaco di Riace, paragonandolo nientemeno che ai partigiani che “violarono la legge”, quando la legge era quella di Hitler).
    «Siamo “pericolosi”», dice Di Maio, perché i gialloverdi – raccontando il contrario della versione unilaterale dell’establishment – invadono (con verità insopportabili) quello che i giornali «considerano il loro territorio, la loro prateria». Per fortuna, aggiunge, «ci siamo vaccinati anni fa dalle bufale, dalle “fake news” dei giornali, e si stanno vaccinando anche tanti altri cittadini». Sarà per questo che il sistema sta aumentando le dosi di chemioterapia quotidiana con cui accecare il pubblico? Come spiegare diversamente la mostruosa tecnocrate Elsa Fornero trasformata in guru dell’economia dal valletto Floris, o l’inaudito Cottarelli – uomo del Fmi, coinvolto nella rovina della Grecia – venerato settimanalmente nel felpato salottino di Fazio? Ma il problema non è la fogna a cui è ridotto il mainstream italiano. Macchè, il problema è il minaccioso, terribile Di Maio. «Non abbiamo paura», proclama Calabresi, asciugandosi le lacrime copiosamente sparse. «Siamo preoccupati per noi e per il paese, per lo scadimento del dibattito che avvelena l’opinione pubblica». Lo scadimento di quale dibattito, please? Ai gialloverdi, il mainstream ha solo e sempre tolto il microfono dalle mani, presentandoli come appestati, folli, velleitari, cialtroni, razzisti e sessisti, violenti e scellerati, incompetenti. E’ accaduto l’impensabile, ecco il punto: oggi sono al governo, i mascalzoni. Non potendoli più ignorare, li si prende a cannonate dal mattino alla sera, a reti unificate.
    Non è cambiato, lo schema del regime insediato in Italia dopo la rimozione forzata, per via giudiziaria, dei politici della Prima Repubblica: ad avere l’ultima parola non sono gli elettori, ma il “vincolo esterno” in base al quale l’oligarchia europea governa l’Italia al posto del governo italiano, sorretta dall’establihment locale (politico, industriale, finanziario e, naturalmente, mediatico). L’algido Ferruccio De Bortoli lancia anatemi e auspica il ritorno alle Crociate: guai, se il governo italiano dovesse spuntarla contro Bruxelles sulla storia del deficit al 2,4%. L’opinione pubblica è strettamente sorvegliata da ex giornalisti come Lilli Gruber, in quota al Bilderberg, come ieri lo era da Monica Maggioni, presidente della Rai, oggi a capo della sezione italiana della Trilaterale. E se alla Rai gli impudenti Salvini e Di Maio riescono a piazzare un non-allineato come Foa, un giornalista indipendente, sono dolori: il mite Marcello Foa diventa, in un battibaleno, una specie di pericoloso terrorista. La sua colpa? Di tanti colleghi, ha la stessa opinione di Di Maio: venduti a un potere che ormai se ne frega, della democrazia. E se qualcosa per una volta va storto, se cioè la democrazia vince davvero, i nuovi eletti vanno abbattuti, anche per dare una lezione ai maledetti italiani che, dopo averli votati, hanno pure il coraggio di continuare a sostenerli.
    Non c’è bisogno di ricordare che ognuno ha il diritto di coltivare qualsiasi opinione, purché non leda l’altrui libertà. A proposito di Crociate, il conte di Tolosa – che difendeva la libertà di religione nel Midi pre-francese – protestò per la “desmisura” con cui veniva oppresso dal potere vaticano, folle di rabbia per la scelta dei tolosani di difendere i diritti religiosi dei Catari. “Desmisura”, in occitano medievale, significa questo: violare le regole, soffocare l’avversario, negargli la possibilità di esistere come soggetto pensante. Una tentazione totalitaria, che – secondo Simone Weil – in quel drammatico inizio del 1200 gettò il seme velenoso dei peggiori incubi europei dei Novecento. Soffocare le voci altrui: non un fiato, dalle testate dirette da uomini come Calabresi, s’è levato contro l’infame legge europea sul copyright, promossa dal galantuomo tedesco Günther Oettinger. Bavaglio al web: social media e motori di ricerca saranno costretti a bloccare la circolazione di idee scomode. E’ proprio lo stesso Oettinger che disse che sarebbero stati “i mercati”, i signori dello spread, a insegnare agli italiani come votare. Per questo, come cantava Jannacci, è meglio non fidarsi delle lacrime del Re: quello del lupo che si mette a piangere, travestito da agnello, è uno spettacolo esteticamente osceno, prima ancora che ipocrita sul piano politico.

    «E sempre allegri bisogna stare», cantava Jannacci, «ché il nostro piangere fa male al Re». Fa male «al ricco e al cardinale», al punto che «diventan tristi se noi piangiam». C’è qualcosa di più insopportabile del vittimismo (grottesco) da parte del potere che “chiàgne e fotte”? Nell’arcaico pantheon medievale evocato dall’immenso cantautore milanese non c’era ancora posto, ovviamente, per il giornalista. Senza contare che allora, nel mitico 1968 – quando quel brano fu composto – erano ancora in circolazione giornalisti veri e propri. Magari non erano infallibili neppure loro, ma si chiamavano Bocca, Biagi, Montanelli. Ciascuno amato o detestato, a seconda delle platee, ma tutti rispettati: non cantavano in nessun coro e, nel caso, “sbagliavano” in proprio, senza prendere ordini dall’editore, dal partito, dall’establihment. Erano i tempi in cui sul “Corriere” scriveva Pasolini. Si era lontani anni luce dalle “carte false” che poi Giampaolo Pansa avrebbe messo alla berlina, denunciando la vocazione al servilismo destinata a rovinare fatalmente il giornalismo italiano, trasformandolo in docile strumento di propaganda.

  • Abrogare il vilipendio, antico reato che oggi condanna Bossi

    Scritto il 02/10/18 • nella Categoria: idee • (3)

    La notizia che Umberto Bossi è stato condannato in via definitiva dalla Cassazione a un anno e 15 giorni di reclusione per vilipendio al capo dello Stato poiché in un comizio del 29 dicembre 2011 aveva dato del “terrone” a Giorgio Napolitano aggiungendovi il gesto delle corna, era passata quasi sotto silenzio. Ma ieri, su Libero, scende in campo da par suo Renato Farina, il noto ‘Betulla’, che quando era vicedirettore di quel giornale collaborava per denaro con i servizi segreti italiani fornendo informazioni e pubblicando notizie false (che i nostri servizi si siano serviti di una nullità come Farina la dice lunga sulla loro efficienza). Giuliano Ferrara, anch’egli giornalista e anch’egli al soldo dei servizi segreti, questa volta americani, la Cia, lo difese così: «Farina ha preso due stipendi? Che male c’è? Se uno fa due lavori è ovvio che prenda anche due stipendi». Che sarebbe come dire che è giusto che un poliziotto prenda uno stipendio dallo Stato e che un altro stipendio lo ricavi dalla refurtiva che requisisce a suo uso e consumo. Naturalmente Farina non affronta il nocciolo della questione ma prende slancio da questa sentenza per attaccare la magistratura (e che altro potrebbe fare uno che agisce nell’orbita del “delinquente naturale”?) e per somministrarci una dotta disquisizione sul termine “terrone” dandosela da uno che la vita la conosce bene mentre in realtà ha frequentato solo oratori e le scuole delle “figlie di Maria”.
    La magistratura applica le leggi. E le leggi le fa o le convalida il Parlamento. Ciò che si dovrebbe fare oggi non è impetrare una grazia per Bossi, come fa Farina, ma chiedere e ottenere dal Parlamento, non a favore di Bossi ma di tutti i cittadini di questo paese, l’abrogazione di tutti i reati di opinione di cui è zeppo il nostro codice penale, eredità del Codice Rocco vigente durante il regime fascista, fra qui c’è anche il vilipendio: della Repubblica, delle istituzioni costituzionali, delle forze armate, alla bandiera o altro emblema dello Stato, alla nazione italiana, alla religione dello Stato. Per non farci mancar nulla, a queste leggi liberticide ne abbiamo aggiunta un’altra, ancora più aberrante, la legge Mancino del 1993 che punisce l’odio razziale, etnico, religioso, nazionale. Per la prima volta nella storia, credo, si sono volute mettere le manette anche ai sentimenti. Perché l’odio è un sentimento, come l’amore, la gelosia, l’ira.
    Io ho il diritto di odiare chi mi pare e di aderire alle ideologie, anche quelle che appaiono più aberranti, quelle naziste e fasciste, che più sento vicine. L’unico discrimine in democrazia è che nessun sentimento o idea, giusta o sbagliata che sia, può essere fatta valere con la violenza. E’ il prezzo che la democrazia, ammesso che un sistema del genere esista, paga a se stessa. Altrimenti si trasforma in una sorta di teocrazia laica. Ma uno dei problemi della cosiddetta democrazia italiana non sono solo i partiti che, debordando dalle disposizioni costituzionali, ammesso che la Costituzione abbia un senso, hanno occupato tutte le istituzioni, tutte le aziende di Stato e del parastato, di cui la Rai è solo l’esempio più evidente, ma sono proprio i giornalisti, quasi tutti i giornalisti che, senza arrivare agli estremi di Renato Farina o di Giuliano Ferrara, prendono due stipendi, uno dalle case editrici per cui lavorano, l’altro attraverso i vantaggi che ottengono dai partiti o dalle lobby cui si sono affiliati.
    (Massimo Fini, “Il reato di Bossi, il codice Rocco e i giornalisti con due stipendi”, dal “Fatto Quotidiano” del 29 settembre 2018, articolo ripreso da “Come Don Chisciotte”).

    La notizia che Umberto Bossi è stato condannato in via definitiva dalla Cassazione a un anno e 15 giorni di reclusione per vilipendio al capo dello Stato poiché in un comizio del 29 dicembre 2011 aveva dato del “terrone” a Giorgio Napolitano aggiungendovi il gesto delle corna, era passata quasi sotto silenzio. Ma ieri, su “Libero”, scende in campo da par suo Renato Farina, il noto ‘Betulla’, che quando era vicedirettore di quel giornale collaborava per denaro con i servizi segreti italiani fornendo informazioni e pubblicando notizie false (che i nostri servizi si siano serviti di una nullità come Farina la dice lunga sulla loro efficienza). Giuliano Ferrara, anch’egli giornalista e anch’egli al soldo dei servizi segreti, questa volta americani, la Cia, lo difese così: «Farina ha preso due stipendi? Che male c’è? Se uno fa due lavori è ovvio che prenda anche due stipendi». Che sarebbe come dire che è giusto che un poliziotto prenda uno stipendio dallo Stato e che un altro stipendio lo ricavi dalla refurtiva che requisisce a suo uso e consumo. Naturalmente Farina non affronta il nocciolo della questione ma prende slancio da questa sentenza per attaccare la magistratura (e che altro potrebbe fare uno che agisce nell’orbita del “delinquente naturale”?) e per somministrarci una dotta disquisizione sul termine “terrone” dandosela da uno che la vita la conosce bene mentre in realtà ha frequentato solo oratori e le scuole delle “figlie di Maria”.

  • Strinati: poesia per Nino Polifroni, l’eroe che rifiutò il racket

    Scritto il 30/9/18 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    «E’ logico che prima o poi un figlio raggiunga il padre sotto molti aspetti. Uno di questi è l’età. In quest’anno siamo coetanei. Lui si è fermato per aspettarmi, io da venti corro per raggiungerlo». Con queste parole, nel 2016, Bruno Polifroni ricordava il ventennale del sacrificio del padre, Antonino Polifroni, assassinato dalla ‘ndrangheta il 30 settembre 1996 a Varapodio, nella piana di Gioia Tauro. Aveva 49 anni. La sua colpa? Essersi rifiutato di pagare il pizzo alle ‘ndrine, denunciando alle forze dell’ordine i signori del racket calabrese. Padre di sei figli e imprenditore edile, fu sottoposto – insieme alla famiglia – a un autentico inferno, fatto di intimidazioni e attentati. Prima di essere “giustiziato” a colpi di lupara mentre viaggiava verso uno dei suoi cantieri, fece in tempo a diventare un simbolo della resistenza, in Calabria, al dominio della criminalità organizzata. In esclusiva per “Libreidee”, il poeta Fabio Strinati gli dedica un commosso ricordo, in versi, sottolineando il valore civile e il tratto umano di un italiano speciale, capace di anteporre il coraggio della dignità alla paura delle feroci ritorsioni alle quali si sarebbe esposto. Nel 1992 – quando ancora si sapeva poco, del potere della ‘ndrangheta – la tensione raggiunse il culmine: Nino Polifroni su preso a fucilate, prima alla guida di un camion e poi sulla porta di casa, rimediando gravi ferite. L’imprenditore non si piegò al terrore, fino al tragico epilogo che lo attendeva, quattro anni più tardi.
    «Ora che è successo – scrive il figlio, Bruno – posso meditare sulla sua storia da una diversa angolatura: prima d’ora, da figlio cercavo di immaginare il suo punto di vista, da persona ormai matura negli anni, e a come si potesse sentire quando era continuamente vessato dalla ‘ndrangheta. Ora che siamo “coetanei”, ho riavuto poche settimane fa il coraggio di rispolverare documenti e registrazioni del 1992: volevo risentire e studiare le sue reazioni nei momenti più bui, quando era giornalmente minacciato insieme ai suoi figli e qualche delinquente tentava di estorcergli denaro». Aggiunge Bruno: «Ho riascoltato le sue parole, il suo fiatone nel tentare di mantenere la calma, la tensione nel non sapere fare altro per combattere quel nemico invisibile». Li avrebbero presi, i maledetti killer: Bruno Polifroni ne era certo. «Caro papà, hai avuto coraggio e determinazione», scrive. «Senza la tua tenacia, oggi, invece di essere tutti qui a ricordarti ci saremmo occupati solo di vivere una normale giornata di settembre. E spesso ci siamo arrabbiati con te, perché più volte siamo caduti nell’errore di pensare che avremmo preferito fosse così. Ma mentre ti raggiungevo nell’età ho capito che nulla succede per caso e ogni storia ha il proprio significato da mostrare: grazie per averci insegnato a vivere e a farlo da persone libere. Se tu non ti fossi sacrificato per noi, oggi saremmo ancora imprigionati e schiavi di quei delinquenti. Grazie, papà».
    AD ANTONINO POLIFRONI
    Uomini senza cuore
    hanno chiuso il tuo sguardo
    posando un delitto scuro
    sopra la tua anima
    onesta ed integerrima.
    Uomini strani d’infima natura
    hanno spento con violenza
    i tuoi occhi vitali
    immersi di una luce chiara
    nutriti di memoria
    dentro una terra calda
    e assolata di natura…,
    ma quel ricordo vivo, denso
    di un coraggio fertile
    e di tanta premura che nel tuo petto
    ancora rintocca l’alba del mattino,
    mi ricorda il tuo esser fiero
    che di decoro s’è nutrito
    come materia di perpetua luce
    il tuo palpito infinito, smisurato
    come un fascio di biluce.
    (Fabio Strinati)
    Fabio Strinati (Esanatoglia, 1983) è poeta, artista visivo, compositore e fotografo. È presente in diverse riviste e antologie letterarie. Da ricordare “Il Segnale”, rivista letteraria fondata a Milano dal poeta Lelio Scanavini, la rivista  Fabio Strinati“Sìlarus” fondata da Italo Rocco, e “Osservatorio Letterario – Ferrara e L’Altrove”. È stato inserito da Margherita Laura Volante nel volume “Ti sogno, Terra”, viaggio alla scoperta di Arte Bellezza Scienza e Civiltà, inserito nei “Quaderni del Consiglio Regionale delle Marche”. Sue poesie sono state tradotte in romeno e in spagnolo. È inoltre il direttore della collana poesia per “Il Foglio Letterario” e cura una rubrica poetica dal nome “Retroscena”, proprio sulla Rivista trimestrale del “Foglio Letterario”. Pubblicazioni: “Pensieri nello scrigno. Nelle spighe di grano è il ritmo” (2014); “Un’allodola ai bordi del pozzo” (2015); “Dal proprio nido alla vita” (2016); “Al di sopra di un uomo” e “Periodo di transizione” (2017), “Aforismi scelti Vol.2” e “L’esigenza del silenzio” (2018).

    «E’ logico che prima o poi un figlio raggiunga il padre sotto molti aspetti. Uno di questi è l’età. In quest’anno siamo coetanei. Lui si è fermato per aspettarmi, io da venti corro per raggiungerlo». Con queste parole, nel 2016, Bruno Polifroni ricordava il ventennale del sacrificio del padre, Antonino Polifroni, assassinato dalla ‘ndrangheta il 30 settembre 1996 a Varapodio, nella piana di Gioia Tauro. Aveva 49 anni. La sua colpa? Essersi rifiutato di pagare il pizzo alle ‘ndrine, denunciando alle forze dell’ordine i signori del racket calabrese. Padre di sei figli e imprenditore edile, fu sottoposto – insieme alla famiglia – a un autentico inferno, fatto di intimidazioni e attentati. Prima di essere “giustiziato” a colpi di lupara mentre viaggiava verso uno dei suoi cantieri, fece in tempo a diventare un simbolo della resistenza, in Calabria, al dominio della criminalità organizzata. In esclusiva per “Libreidee”, il poeta Fabio Strinati gli dedica un commosso ricordo, in versi, sottolineando il valore civile e il tratto umano di un italiano speciale, capace di anteporre il coraggio della dignità alla paura delle feroci ritorsioni alle quali si sarebbe esposto. Nel 1992 – quando ancora si sapeva poco, del potere della ‘ndrangheta – la tensione raggiunse il culmine: Nino Polifroni fu preso a fucilate, prima alla guida di un camion e poi sulla porta di casa, rimediando gravi ferite. L’imprenditore non si piegò al terrore, fino al tragico epilogo che lo attendeva, quattro anni più tardi.

  • Foa in Rai: che succede quando un eretico sale al potere?

    Scritto il 27/9/18 • nella Categoria: idee • (4)

    Che succede, quando il mondo si capovolge e un eretico sale al potere? In Italia, di solito, se un outsider assoluto conquista una poltrona significa che non è più un vero outsider, perché l’establishment se l’è già “comprato”: intende usarlo per drenare il dissenso, facendo sfogare in modo innocuo e illusorio il malcontento di cui era stato la voce. I posti di comando, in genere, sono pieni di ex rivoluzionari ben remunerati, arruolati per la peggiore delle missioni: rinnegare di fatto la propria storia, i propri ideali, e riallineare il pubblico alla “voce del padrone”, utilizzando il prestigio di quella che, un tempo, era stata una voce diversa, apprezzata proprio perché libera e indipendente, e quindi scomoda. Solo in casi rarissimi un vero eretico può raggiungere il ponte di comando rimanendo se stesso. Come accorgersene? Semplice: basta vedere che tipo di accoglienza gli viene riservata. Ed è il caso della nomina di Marcello Foa, nuovo presidente della Rai: i grandi media, in coro, lo accolgono nella migliore delle ipotesi con freddezza, come se si trattasse di un intruso molesto e sgradevole, un oscuro alieno anziché un illustre collega, mentre le macerie della vecchia politica – rottamata dagli italiani il 4 marzo 2018 – descrivono il neo-eletto come una specie di teppista, di impudente cialtrone. In questo, ricordano da vicino il sovrano disprezzo che i dittatori mostrano sempre per il loro popolo in rivolta, un minuto prima di essere defenestrati dalla storia.
    C’è qualcosa di meta-politico, di profondamente eversivo, nella sola idea di aver pensato a un cavaliere solitario e coltissimo come Foa, giornalista di razza e gentiluomo, per la presidenza della televisione di Stato, vera e propria fabbrica del consenso, per decenni affidata il più delle volte a mani servili e mediocri. È antropologicamente eversiva, la figura del liberale Foa al vertice della Rai: è il bambino che non può fare a meno di svelare l’imbarazzante nudità del sovrano, del monarca che si gloria nel celebrare una pace apparente, mentre intorno infuria la peggiore delle guerre. La guerriglia di oggi, nella quale Marcello Foa si trova coinvolto – dopo aver dato la sua avventurosa disponibilità a quell’ipotesi democratica chiamata “governo gialloverde” – non è un conflitto come quelli che l’hanno preceduto: è un sordido massacro quotidiano perpetrato ovunque, senza frontiere, senza più neppure le bandiere di un tempo. È una guerra orwelliana, affidata a mercenari. Navi corsare, che combattono (per lo più in incognito) per conto di padroni potentissimi, protetti dall’anonimato. Non c’è più neppure il triste onore della battaglia: si viene sopraffatti in modo subdolo, sistematicamente sommersi da menzogne spacciate per verità di fede, che il sistema mediatico non si cura più di verificare. Ed è proprio per questo che l’attuale sistema mediatico italiano detesta, e teme, Marcello Foa.
    Ascoltando solo e sempre un’unica campana, il sistema mainstream ci ha raccontato in questi anni che le poderose, ciclopiche Torri Gemelle di Manhattan sono crollate su se stesse, come se fossero state di cartone anziché di acciaio, solo perché colpite – con una manovra proibitiva persino per i migliori “top gun” – da normalissimi e leggerissimi jet di linea fatti di alluminio, dirottati da apprendisti piloti arabi, di cui tuttora non si sa nulla: non un’immagine, al fatale imbarco, di nessuno dei 19 presunti dirottatori (salvo poi rintracciare i loro passaporti, nientemeno, nell’inferno fumante di Ground Zero). Finge di credere sempre e soltanto alla versione ufficiale, il mainstream media, anche quando dimentica di ricordare che furono gli Usa a incoraggiare Saddam Hussein a invadere il Kuwait, dopo averlo spinto a combattere contro l’Iran. Dà retta unicamente al super-governo universale, il club dei telegiornali, anche quando assicura che Saddam disponeva di micidiali armi di distruzione di massa. E tace, invece, quando l’Onu dimostra che quelle armi erano pura fantasia, come i gas siriani di Assad, le fosse comuni di Gheddafi, le violenze della polizia di Yanukovich in Ucraina. E poi applaude a reti unificate, la consorteria mediatica, quando in Italia appaiono i cosiddetti salvatori della patria – i Monti, i Cottarelli – armati del bisturi che useranno per amputare carne viva, risparmi e pensioni, economia italiana di aziende e famiglie, oscurando il futuro dei giovani.
    All’epoca in cui Marcello Foa lavorava al “Giornale” di Indro Montanelli, il mondo probabilmente appariva infinitamente più semplice – più chiaro, più visibile nei suoi errori e orrori: la guerra fredda, il Medio Oriente e gli sconquassi africani della decolonizzazione, la strategia della tensione organizzata per gambizzare l’Italia e impedirle di prendere il volo come autonoma potenza euromediterranea fondata sulla forza formidabile dell’economia mista, pubblico-privata. In quella redazione milanese, dove Foa è cresciuto professionalmente, su una parete c’era appesa una carta geografica di Israele che indicava come capitale Gerusalemme, già allora, anziché Tel Aviv. Se Enrico Berlinguer impiegò anni per ammettere che si sentiva più al sicuro sotto l’ombrello della Nato piuttosto che tra i carri armati del Patto di Varsavia, Marcello Foa e il suo maestro Montanelli non avevano mai avuto dubbi sul fatto che niente di buono potesse venire, per l’Occidente, da un’oligarchia sedicente comunista che aveva soppresso sul nascere i primi vagiti democratici della Russia, cambiando semplicemente look all’antico dispotismo zarista. L’eroico sacrificio dell’Unione Sovietica, decisivo nell’abbattere il nazifascismo, non poteva cancellare né i Gulag di Stalin né l’esilio di Aleksandr Solženicyn. Era fatto di certezze, il mondo di Foa e Montanelli: la libertà (inclusa quella d’impresa) come fondamento irrinunciabile di qualsiasi comunità civile degna di chiamarsi democratica.
    Ed è questo che rende Foa insopportabile al potere economico di oggi, dove la libertà d’impresa cede il passo al dominio di immensi oligopoli finanziari globalizzati, privilegiati da legislazioni truccate come quelle dell’Unione Europea ordoliberista. È tanto più sgradevole e insidioso, Foa, perché non proviene – come invece molti anchorman televisivi – dalla contestazione giovanile del capitalismo: credeva, Foa, negli stessi valori professati dall’élite economica di un tempo, orientata pur sempre alla promozione della mobilità sociale, in sostanziale accordo con le forze sindacali dell’allora sinistra. Una dialettica anche aspra, ma vocata in ogni caso al miglioramento complessivo del sistema-paese. E mediata – sempre – dalla politica, letteralmente scomparsa dai radar italiani per 25 lunghissimi anni. Solo oggi, alla distanza, ci si mette le mani tra i capelli nel rivedere il film dell’euforia generale con la quale i cittadini avevano accolto il Trattato di Maastricht e, dieci anni dopo, l’ingresso nell’Eurozona disegnata dalle banche e governata dalla Bce con modalità feudali, imperiali, senza la supervisione di alcun controllo democratico. Succedeva negli anni cui, con la caduta del Muro di Berlino benedetta da Gorbaciov, l’umanità si era illusa che il fantasma della guerra sarebbe stato semplicemente cancellato dalla storia del pianeta.
    Magari fosse un comune complottista, Marcello Foa: sarebbe più comodo liquidarlo, come velleitario chiacchierone. Chi oggi gli promette guerra, invece, sa benissimo che l’ex caporedattore del “Giornale”, nonché docente universitario, nonché feroce critico del sub-giornalismo odierno, è un vero e proprio disertore. Non era un eretico: lo è diventato negli ultimi anni, disgustato dallo spettacolo al quale è stato costretto ad assistere. Per questo, al di là del reale potere che gli conferisce la carica di presidente Rai, Marcello Foa rappresenta un vero pericolo, per i malintenzionati che oggi gli danno del traditore. Nell’Italia corporativa delle caste, ha osato “sparare” contro la sua – quella dei giornalisti – definendoli “stregoni della notizia”, bugiardi e omertosi spacciatori di “fake news” di regime. E non c’è niente di peggio, per i servi, che l’ex schiavo che si libera delle catene: la sua rivolta personale, intellettuale, suona umiliante per chi si ostina a raccontare che la Terra è piatta, e che è il Sole a orbitarle attorno.
    Chi l’avrebbe detto? Oggi l’Italia riesce incredibilmente a piazzare una persona autorevole, onesta e competente, alla guida della televisione pubblica. Marcello Foa non è infallibile: ma quando ha sbagliato – anche di recente, prendendo per buona la notizia di presunte istruzioni che il governo tedesco avrebbe impartito alla polizia, per enfatizzare il terrorismo “casereccio” targato Isis – non ha esitato ad ammetterlo, tempestivamente. Quanti, al suo posto, avrebbero avuto lo stesso coraggio? E ora, questo volto pulito del nostro giornalismo è alle prese con una sfida estremamente impegnativa. È davvero impossibile fare molta strada, in politica, se non si è almeno in parte ricattabili, e quindi controllabili, in quanto complici dell’apparato da cui si è stati promossi? Così almeno ebbe a dire un protagonista della vita pubblica italiana come Giuliano Ferrara. Qualcuno – sincero o meno – obietterà che questa regola non vale necessariamente per tutti. Ma è sicuro che, una volta entrati in cabina di regia, le proprie virtù possono trasformarsi in problemi: in un ambiente non esattamente cristallino, le qualità naturali dell’eretico diventano un’enorme seccatura, se non un ostacolo da rimuovere prima che possa mettere in pericolo la sopravvivenza del sistema stesso.
    Questa è la sfida di Marcello Foa, nella quale è in gioco l’Italia intera: restare fedeli alla propria coscienza significa contribuire a riaccendere la luce sulle notizie. Senza un’informazione trasparente, lo sappiamo, non c’è neppure vera democrazia. Lo sostiene con vigore, Marcello Foa, che resta innanzitutto un uomo leale e garbato – anche quando si permette di dissentire in modo netto sull’operato del presidente della Repubblica: chi oggi lo accusa di aver addirittura insolentito Sergio Mattarella, dopo la bocciatura di Paolo Savona al ministero dell’economia, più che il prestigio del capo dello Stato sembra aver a cuore la disciplina sociale dell’ossequio, da imporre al popolo nei confronti di chiunque rivesta funzioni di potere. Non è questa la democrazia per la quale il giovane liberale Foa tifava, quando polemizzava con quel comunismo da cui provengono moltissimi dei suoi attuali, smemorati detrattori. Non sappiamo come si svilupperà, la sua avventura negli uffici della Rai. Ma sappiamo che – contro ogni previsione – è tornata sotto i riflettori, in Italia, un’antropologia che si credeva estinta. Quella delle persone per bene, a cui il governo in carica affida addirittura la guida della televisione.
    (Giorgio Cattaneo, “Marcello Foa alla guida della Rai: che succede quando un eretico sale al potere?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 27 settembre 201).

    Che succede, quando il mondo si capovolge e un eretico sale al potere? In Italia, di solito, se un outsider assoluto conquista una poltrona significa che non è più un vero outsider, perché l’establishment se l’è già “comprato”: intende usarlo per drenare il dissenso, facendo sfogare in modo innocuo e illusorio il malcontento di cui era stato la voce. I posti di comando, in genere, sono pieni di ex rivoluzionari ben remunerati, arruolati per la peggiore delle missioni: rinnegare di fatto la propria storia, i propri ideali, e riallineare il pubblico alla “voce del padrone”, utilizzando il prestigio di quella che, un tempo, era stata una voce diversa, apprezzata proprio perché libera e indipendente, e quindi scomoda. Solo in casi rarissimi un vero eretico può raggiungere il ponte di comando rimanendo se stesso. Come accorgersene? Semplice: basta vedere che tipo di accoglienza gli viene riservata. Ed è il caso della nomina di Marcello Foa, nuovo presidente della Rai: i grandi media, in coro, lo accolgono nella migliore delle ipotesi con freddezza, come se si trattasse di un intruso molesto e sgradevole, un oscuro alieno anziché un illustre collega, mentre le macerie della vecchia politica – rottamata dagli italiani il 4 marzo 2018 – descrivono il neo-eletto come una specie di teppista, di impudente cialtrone. In questo, ricordano da vicino il sovrano disprezzo che i dittatori mostrano sempre per il loro popolo in rivolta, un minuto prima di essere defenestrati dalla storia.

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