Archivio del Tag ‘vulnerabilità’
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Musica infelice, poi non stupiamoci se la rockstar si suicida
Non molto tempo dopo lo scioccante suicidio di Chris Cornell, frontman di Audioslave e Soundgarden, il mondo musicale ha perso un altro talento il 21 luglio. Chester Bennington, 41 anni, frontman dei Linkin Park, si è tolto la vita dopo anni di dipendenza da droga e depressione. Ha lasciato la moglie e sei figli. Queste morti non sono del tutto inaspettate, visti i frequenti casi di depressione e morti premature nel mondo della musica. Negli ultimi decenni, suicidi, omicidi e morti accidentali sono diventati cosa comune per i musicisti. Da Elvis a Kurt Cobain, da Jim Morrison ad Amy Winehouse, molti grandi artisti hanno perso la vita prematuramente a causa di stili di vita distruttivi. Uno studio condotto da Diana Kenny dell’Università di Sydney ha infatti mostrato che le rockstar tendono a vivere fino a 25 anni meno del resto della popolazione e che i loro tassi di suicidio, omicidio e mortalità accidentale sono molto più alti. Ma perché? In realtà, parte della risposta è facile: la cosiddetta “fast life”, in cui questi giovani artisti si trovano catapultati, è estremamente tossica, nonostante il glamour con cui i media la ritraggono.L’arrivo improvviso della fama, assieme ad un’indulgenza eccessiva e ad alcool e droghe, troppo spesso si dimostra essere una formula fatale. Certo, non tutti i musicisti sono colpiti allo stesso modo, ma troppi sono caduti in questo circolo vizioso. Soprattutto quando questi eccessi incontrano la cultura dell’odio e del materialismo oggi dominante, emergono sentimenti distruttivi che iniziano a perseguitare molti artisti di talento. Odio, ostilità e crudeltà sono pandemici su Internet. La gente si attacca senza sosta solo perché ha pensieri o look diversi. Per le celebrità, tuttavia, la storia è totalmente diversa. Sono costantemente perseguitati, insultati, minacciati e criticati sia dai media che dal pubblico. Non importa quanto successo abbiano, bisogna sempre fare di più. Sono giudicati per ogni piccola cosa che fanno. Dalle loro acconciature alla loro arte e ai loro sguardi ai figli, sono costantemente sottoposti ad impensabili quantità di scrutinio ed animosità; in aggiunta, non riescono quasi mai a trovare persone attorno a loro di cui possano davvero fidarsi.Questo persistente isolamento spesso apre profonde ferite che, nella negatività del mondo della musica, trovano terreno fertile. Di conseguenza, molti musicisti commettono l’errore di rivolgersi ad alcool e droghe, che non fanno altro che aggravare i problemi. Tutti questi fattori inevitabilmente si riflettono nella loro musica. Innumerevoli giovani impressionabili in tutto il mondo li guardano in tutto ciò che fanno e di conseguenza anche loro sono travolti da angoscia e pessimismo. Questa negatività si impossessa facilmente delle loro vulnerabili menti ed anime. Questa è una delle ragioni dietro l’aumento dei tassi di depressione, ansia, delinquenza, abuso di sostanze e suicidio tra gli adolescenti. Secondo uno studio, il tasso di suicidio tra gli adolescenti è aumentato del 200% tra il ’62 e l’82. L’Oms stima che ogni anno più di 800.000 persone muoiono per suicidio e che il gruppo di età 15-29 – i seguaci più attivi dell’industria musicale – ne sono i maggiormente colpiti. Certo, i fattori che contribuiscono a questa tendenza sono molti, ma non c’è dubbio che la cultura della depressione promossa da alcune rockstar svolga un ruolo importante.Molti studi dimostrano che ascoltare musica triste può essere molto pericoloso, soprattutto per persone già affette da ansia e depressione. In uno studio, i ricercatori hanno fatto ascoltare ai partecipanti musica felice, aggressiva e triste: hanno scoperto che chi aveva ascoltato musica triste presentava livelli più elevati di ansia. Milioni di giovani che già hanno problemi di angoscia e bassa autostima ignorano il fatto che ascoltare musica triste peggiori le cose. Non è difficile immaginare come questa tendenza possa influire sul futuro del nostro mondo. Se l’industria musicale però capisse che i valori spirituali sono più importanti di quelli materiali, potrebbe favorire una diversa visione del mondo, che aiuti le persone a superare la propria tristezza e a diventare migliori.Non c’è dubbio che la musica e l’arte possano essere modi estremamente efficaci per sollevare gli spiriti della gente ed aiutarli verso un percorso di costante automiglioramento. Infatti, in molti studi diversi, gli scienziati hanno scoperto che l’ascolto di una musica felice migliora la salute e le sensazioni complessive di soddisfazione. Una volta che i musicisti si saranno messi in testa di rendere il mondo un posto migliore, capiranno rapidamente che il loro contributo è estremamente importante. Questo è fondamentale, non solo per il bene dei talenti musicali, ma anche per i loro milioni di fan che formeranno il nostro mondo futuro.(Harun Yahya, “Quando finiranno i suicidi delle rockstar?”, da “AhTribune” del 24 luglio 2017, ripreso da “Come Don Chisciotte” con traduzione a cura di Hmg).Non molto tempo dopo lo scioccante suicidio di Chris Cornell, frontman di Audioslave e Soundgarden, il mondo musicale ha perso un altro talento il 21 luglio. Chester Bennington, 41 anni, frontman dei Linkin Park, si è tolto la vita dopo anni di dipendenza da droga e depressione. Ha lasciato la moglie e sei figli. Queste morti non sono del tutto inaspettate, visti i frequenti casi di depressione e morti premature nel mondo della musica. Negli ultimi decenni, suicidi, omicidi e morti accidentali sono diventati cosa comune per i musicisti. Da Elvis a Kurt Cobain, da Jim Morrison ad Amy Winehouse, molti grandi artisti hanno perso la vita prematuramente a causa di stili di vita distruttivi. Uno studio condotto da Diana Kenny dell’Università di Sydney ha infatti mostrato che le rockstar tendono a vivere fino a 25 anni meno del resto della popolazione e che i loro tassi di suicidio, omicidio e mortalità accidentale sono molto più alti. Ma perché? In realtà, parte della risposta è facile: la cosiddetta “fast life”, in cui questi giovani artisti si trovano catapultati, è estremamente tossica, nonostante il glamour con cui i media la ritraggono.
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Smith: verso la legge marziale in Inghilterra, usando l’Isis
«Temo che il Regno Unito finirà sotto legge marziale entro un anno: a meno che la gente non faccia qualcosa adesso, cadranno in un regime totalitario». Lo sostiene un analista indipendente come Brandon Smith, secondo cui «a lungo termine, aiuteranno solo quei globalisti che il movimento Brexit in particolare ha cercato di combattere: lo faranno calpestando l’immagine del nazionalismo e della sovranità usando la filosofia della sicurezza fornita dal governo», in modo da rendere il globalismo «piacevole e tollerabile». Questo, secondo Smith, il possibile esito degli attentati targati Isis che stanno martellando la Gran Bretagna, tutti messi a segno grazie ad anomale distrazioni delle forze di sicurezza e – dopo l’iniziale emozione – archiviati in fretta. «La ripetizione di tali attacchi sta assuefacendo il pubblico, quello europeo in particolare: non è raro ora che gli attacchi vengano dimenticati in una settimana». La grande paura tra gli europei “liberali”, scrive Smith, è un ritorno al fervore nazionalista, che loro credono abbia generato l’ascesa del Terzo Reich: ignorano «il coinvolgimento dell’élite “corporate” e bancaria nel finanziamento e nella fornitura di tecnologia vitale ai nazisti prima e durante la Seconda Guerra Mondiale».Questa manipolazione sui veri retroscena del nazismo ha reso l’Europa vulnerabile, permettendo ai globalisti di portare a forza milioni di immigrati musulmani in Ue, attraverso politiche di frontiera aperta, senza adeguate procedure di verifica. E nessuno ha fiatato, temendo di essere tacciato di “fascismo”, scrive Smith in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”. «La più grande minaccia non è solo il condizionamento della popolazione ad accettare l’invasione culturale, bensì ciò che inevitabilmente accadrà tra poco: l’apatia di una nazione sulla scia della prossima legge marziale». In risposta agli attentati-kamikaze dell’Isis, Theresa May ha dichiarato di “averne abbastanza”, e ha chiesto una revisione della strategia antiterroristica: la polizia di Londra è stata invitata ad adattarsi alle nuove condizioni, pattugliando le strade fortemente armata e usando elicotteri di sorveglianza con l’aiuto di unità speciali. «Dovremmo fare ancor di più per limitare la libertà e i movimenti dei sospetti terroristi». Noto teorema: meno libertà, più sicurezza. E cioè: esattamente quello che vorrebbe l’Isis, se fosse un soggetto autonomo, anziché una semplice pedina della strategia della tensione.Lo spiegamento di oltre 5.000 soldati britannici in posizioni strategiche, aggiunge Smith, fa parte di un piano del 2015 chiamato “Operation Temperer”: prevede la diffusione di truppe in risposta a “forti minacce terroristiche”. «In sostanza, è un programma di legge marziale che agisce in modo incrementale, piuttosto che apertamente. Una volta implementata, “Temperer” sarà difficile da invertire. Come i capi militari britannici hanno avvisato quando l’operazione è stata esposta pubblicamente, le truppe non verrebbero messe a riposo fino a che la minaccia terroristica non verrà “ridotta”, lasciando la definizione del “livello di minaccia” aperta ad un’interpretazione piuttosto ampia». L’operazione “Temperer” è oggi in pieno svolgimento, dato che i servizi di polizia richiedono aiuto militare. E’ già legge marziale? «Non proprio, ma ci va molto vicino», dice Smith. «Questo è il modo in cui la tirannia viene comunemente implementata; non tutta in una volta, ma un mattoncino alla volta». La May ha introdotto queste misure dopo l’attentato di Manchester, senza però riuscire a impedire l’ultimo attacco a Londra. Elezioni ed equivoco Brexit: al posto dello slancio sovranista subentra un esperimento ultraliberista, reazionario e securitario?«E’ tutto parte del piano», scrive Smith, secondo cui «stiamo forse assistendo alla più grande “psy-op” di quarta generazione nella storia». Ovvero: «I globalisti hanno deliberatamente modificato le condizioni: le nazioni, quelle europee in particolare, o verranno travolte da un’ideologia straniera, senza essere protette dai propri governi, o dovranno rispondere con difficili contromisure. Vale a dire, gli europei dovranno fare una falsa scelta tra il multiculturalismo o vivere sotto legge marziale». La Brexit e Trump sono stati “concessi”. Ma, «nonostante le illusioni di alcuni nel movimento libertario, il “Deep State” è perfettamente posizionato per approfittare di entrambi gli eventi. Non si sono opposti affatto. Perché? Perché vogliono distruggere il nazionalismo, pensano a lungo termine. E il Regno Unito sembra essere in prima fila». Gli attacchi terroristici stanno aumentando, la soluzione che presenteranno sarà «ancor più esercito, non meno», fino alla legge marziale permanente: «Il governo potrebbe non definirla apertamente così, ma è quello che sarà». Avverte Smith: «Guardate le scelte concesse al popolo britannico: accettare il multiculturalismo senza domande o avere una Stato di polizia sacrificando la libertà personale».«Temo che il Regno Unito finirà sotto legge marziale entro un anno: a meno che la gente non faccia qualcosa adesso, cadranno in un regime totalitario». Lo sostiene un analista indipendente come Brandon Smith, secondo cui «a lungo termine, aiuteranno solo quei globalisti che il movimento Brexit in particolare ha cercato di combattere: lo faranno calpestando l’immagine del nazionalismo e della sovranità usando la filosofia della sicurezza fornita dal governo», in modo da rendere il globalismo «piacevole e tollerabile». Questo, secondo Smith, il possibile esito degli attentati targati Isis che stanno martellando la Gran Bretagna, tutti messi a segno grazie ad anomale distrazioni delle forze di sicurezza e – dopo l’iniziale emozione – archiviati in fretta. «La ripetizione di tali attacchi sta assuefacendo il pubblico, quello europeo in particolare: non è raro ora che gli attacchi vengano dimenticati in una settimana». La grande paura tra gli europei “liberali”, scrive Smith, è un ritorno al fervore nazionalista, che loro credono abbia generato l’ascesa del Terzo Reich: ignorano «il coinvolgimento dell’élite “corporate” e bancaria nel finanziamento e nella fornitura di tecnologia vitale ai nazisti prima e durante la Seconda Guerra Mondiale».
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Attacco hacker WannaCry, prove generali di cyber-golpe?
Siamo al primo attacco informatico globale: decine di migliaia di siti e server infettati (9.000 all’ora, di ben 99 paesi diversi) sia di comuni cittadini che di banche, ospedali, imprese di trasporto o istituzioni da parte di un virus denominato WannaCry. Il virus ha attaccato i pc con la richiesta di 300 dollari in bitcoin per poter essere sbloccato. Peraltro un giovanotto poco più che ventenne è riuscito in 24 ore a fornire il programma che ha neutralizzato (forse solo in parte) l’attacco. Di che si tratta? In apparenza, per l’ampiezza e la contemporaneità dell’attacco, sembrerebbe l’impresa di un gruppo di hacker particolarmente dotati. Non sono un esperto in materia e non so giudicare quanto sia stata tecnologicamente sofisticata l’azione (chiederò lumi ai miei amici), ma ad occhio e da profano, non mi sembra una cosa tanto comune, visto che è riuscito a neutralizzare molti dispositivi antivirus anche di qualche livello: fra gli infettati c’è stato anche il sito della banca centrale russa che, si immagina, abbia antivirus un po’ più potenti di quelli di un comune utente di Internet. Quindi, non sembrerebbe una cosa alla portata di qualsiasi hacker, ma di un gruppo particolarmente agguerrito; ma di cosa può trattarsi?L’apparenza farebbe pensare ad un’azione a scopo estorsivo, quindi un episodio, per così dire, di cybercriminalità comune. Può darsi, perché no? Ma la cosa convince poco, per diversi motivi. Logica vorrebbe che attacchi di questo tipo mirino ai grandi numeri di utenti comuni, per chiedere piccoli riscatti, oppure, al contrario (ma è molto più impegnativo) pochi siti importanti per chiedere riscatti ben più consistenti. Qui abbiamo una strana ammucchiata con la richiesta di poche centinaia di dollari, per di più in bitcoin, che non sappiamo se e come pensino di convertire in valuta ufficiale. Insomma: ti attrezzi per violare siti particolarmente protetti e che, dopo, scateneranno una reazione di potenti servizi segreti, il tutto per 300 dollari? Poi, che io sappia, è la prima volta che si chiede un riscatto in bitcoin che espone a rischi di tracciabilità ben più consistenti del comune denaro. Ne so poco, ma immagino che, se si segnano con inchiostri simpatici le banconote dei riscatti, sia ancora più realizzabile “marcare” l’algoritmo di un bitcoin in modo da renderlo riconoscibile e risalire a chi lo abbia speso. Poi sorprende la grande rapidità con cui l’attacco sia stato neutralizzato. Insomma, la cosa vi convince?Sarebbe più credibile l’ipotesi di una specie di “spot pubblicitario” di una qualche impresa che venda antivirus, anche se si tratterebbe di una cosa molto rischiosa. E, peraltro, la facilità con cui il virus è stato neutralizzato farebbe pensare ad un flop. L’ipotesi più consistente è quella dell’attacco di un servizio segreto statale e, infatti, due giganti della lotta al cybercrime come l’americano Symantec ed il russo Kaspersky hanno offerto elementi che indicano come possibile responsabile il servizio segreto nord-coreano. Sostanzialmente gli elementi sarebbero questi: l’attacco è avvenuto in concomitanza con il lancio del missile balistico a lungo raggio da parte del regime di Kim Jong-un; in secondo luogo, “WannaCry” avrebbe al suo interno codici che risalgono ad una precedente versione dello stesso virus usato in passato dal “Lazarus Group”, che opererebbe nella Corea del Nord, che proprio con questa precedente versione di “WannaCry” riuscì a depredare 81 milioni di dollari da una banca del Bangladesh. Resta da capire perché questa volta si accontenterebbero di soli 300 dollari in bitcoin.Intendiamoci: l’ipotesi ci sta tutta, perché è evidente che in un paese come la Nord Corea un gruppo hacker del genere non potrebbe operare se non fosse una costola dei servizi segreti; peraltro, Kim Jong-un è sospettabilissimo di qualsiasi cosa. Però, qui abbiamo solo indizi: la coincidenza con il lancio del missile potrebbe essere del tutto occasionale e la presenza di pezzi di un programma precedente non vuol dire molto, dato che potrebbero benissimo esser stati usati da altri, magari interessati proprio ad attaccare la Nord Corea. Dunque ipotesi possibile, ma sin qui non provata. C’è un’altra ipotesi che merita d’essere valutata: che questo colpo venga da un qualche servizio segreto statale, ma diverso dalla Nord Corea e magari di qualche grande potenza, che non proviamo neppure a identificare sulla base di questi dati. Con che scopo? E se fossimo in presenza di una sorta di grande prova? Come cantava Jannacci, qualcosa per “vedere di nascosto l’effetto che fa”. O anche un sasso lanciato in piccionaia per vedere che uccelli si alzano in volo. Fuor di metafora: per saggiare i punti vulnerabili e la reazione degli altri. Una sorta di grandi manovre “cyber”, in preparazione di qualcosa. Non è un segnale tranquillizzante, decisamente.(Aldo Giannuli, “L’attacco hacker WannaCry, bruttissimo segno”, dal blog di Giannuli del 17 maggio 2017).Siamo al primo attacco informatico globale: decine di migliaia di siti e server infettati (9.000 all’ora, di ben 99 paesi diversi) sia di comuni cittadini che di banche, ospedali, imprese di trasporto o istituzioni da parte di un virus denominato WannaCry. Il virus ha attaccato i pc con la richiesta di 300 dollari in bitcoin per poter essere sbloccato. Peraltro un giovanotto poco più che ventenne è riuscito in 24 ore a fornire il programma che ha neutralizzato (forse solo in parte) l’attacco. Di che si tratta? In apparenza, per l’ampiezza e la contemporaneità dell’attacco, sembrerebbe l’impresa di un gruppo di hacker particolarmente dotati. Non sono un esperto in materia e non so giudicare quanto sia stata tecnologicamente sofisticata l’azione (chiederò lumi ai miei amici), ma ad occhio e da profano, non mi sembra una cosa tanto comune, visto che è riuscito a neutralizzare molti dispositivi antivirus anche di qualche livello: fra gli infettati c’è stato anche il sito della banca centrale russa che, si immagina, abbia antivirus un po’ più potenti di quelli di un comune utente di Internet. Quindi, non sembrerebbe una cosa alla portata di qualsiasi hacker, ma di un gruppo particolarmente agguerrito; ma di cosa può trattarsi?
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Coi vaccini cresce la mortalità infantile, lo dice la sanità Usa
E’ ufficiale: i vaccini aumentano il tasso di mortalità infantile. Lo afferma l’istituto nazionale di sanità Usa, un’agenzia del dipartimento della salute. «Il dibattito sui vaccini va riaperto: esistono pericoli mortali e ignorati, con prove terrificanti», afferma Paolo Barnard, che ha scovato uno studio governativo del 2011 condotto da due ricercatori, Neil Miller e Gary Goldman, del “National Center for Biotechnology Information”, una costola delle “National Institutes of Healths”. Un allarme clamoroso: da studi statistici emerge che il rapporto tra vaccinazioni e salute è inversamente proporzionale. In altre parole: più sono i vaccini inoculati, più crescono la mortalità infantile e la “Sids”, sindrome del decesso improvviso infantile. Un sasso nello stagno, lo studio – largamente ignorato – di Miller e Goldman, condotto in un paese come gli Usa, che impone la somministrazione di 26 dosi-vaccino (ma lasciando ai genitori libertà di obiezione salvo in due Stati, Mississippi e West Virginia). L’analisi però si estende al resto del mondo. E si scopre che, anche nei paesi più poveri, in Africa e in Asia, la mortalità infantile cresce, anziché diminuire, proprio là dove si iniettano più vaccinazioni.L’analisi della regressione lineare della mortalità infantile media, scrivono i due ricercatori americani, «ha mostrato un’alta correlazione statistica significativa fra l’aumento del numero delle dosi-vaccino e l’aumento dei tassi di mortalità infantile». Già in premessa, gli studiosi raccomandano: «E’ essenziale che si faccia uno “screening” urgente della correlazione fra le dosi-vaccino, la loro tossicità biochimica o sinergistica, e il tasso di mortalità infantile». Secondo Barnard, «lo studio fa a pezzi Bill Gates»: se pensiamo ai bambini del terzo mondo, ci informa che di gran lunga la maggior causa di mortalità infantile non ha nulla a che vedere con le classiche malattie dell’infanzia, ma con la malnutrizione: li ammazza la fame». E qui, aggiunge Barnard, viene una clamorosa smentita al “teorema Bill Gates”, che proclama le vaccinazioni di massa nei paesi poveri come via di salvezza dei bimbi. Nei paesi poveri le vaccinazioni sono diffusissime, anche con tassi superiori al 90%, «eppure hanno lo stesso una “Imr” tragica». Per “Imr” si intende “Infant Mortality Rate”. «Per dare un termine di paragone, la “Imr” degli Usa è 6,2 morti su 1.000 parti; il Gambia obbliga i bambini a 22 dosi di vaccini, ma la “Imr” è di 68,8. La Mongolia somministra lo stesso numero di dosi vaccini, con “Imr” di 39,9».«Questo – scrivono Miller e Goldman – prova che la “Imr” in molto del terzo mondo ha assai più a che fare con la malnutrizione, acqua infetta, e sistemi sanitari carenti. Non l’assenza di vaccini». Peggio ancora: «Abbiamo scoperto che anche nei paesi in via di sviluppo esiste una relazione inversamente proprorzionale fra il numero dei vaccini somministrati e la “Imr”: le nazioni con la peggiore mortalità infantile sono quelle che somministrano ai bambini il maggior numero di vaccini». Lo studio torna all’Occidente ricco: gli hanno visto pochissimi progressi nel tasso di mortalità dall’anno 2000, e le tradizionali cause (complicanze da parto), secondo i due ricercatori «non spiegano questo fenomeno». Miller e Goldman fanno notare che, nel 2009, cinque delle 34 nazioni con il miglior tasso di “Imr” richiedevano solo 12 dosi-vaccino, il numero minore, mentre gli Stati Uniti ne richiedevano 26, il maggior numero al mondo. Tutto ciò, concludono, ci fornisce «la prova di una correlazione positiva: “Imr” e dosi-vaccino tendono a crescere assieme».Bimbi morti e vaccini vanno di pari passo, sottolinea Barnard, riportando un’altra frase-chiave dello studio: «Fra le 34 nazioni ricche analizzate, quelle che richiedono il più alto numero di vaccini, tendono ad avere la peggior “Imr”». Stessa tendenza per il “decesso improvviso infantile”, in gergo “Sids”, cioè “Sudden Infant Death Syndrome”. «Prima dei programmi di vaccinazione – afferma lo studio governativo Usa – la “Sids” era così rara che neppure veniva citata nelle statistiche della “Imr”», la mortalità infantile. E la tempistica è altrettanto allarmante: «Negli Usa le campagne di immunizzazione nazionali iniziarono nel 1960, e per la prima volta nella storia i nostri bambini furono vaccinati contro difterite, pertosse, tetano, polio, morbillo, orecchioni e rosolia. Improvvisamente – continuano Miller e Goldman – nel 1967 la medicina clinica coniò una nuova forma di mortalità infantile, la “Sids”. E dal 1980, la “Sids” è divenuta la maggior causa di mortalità post-neonatale in America». Uno studio citato dai due ricercatori «scoprì che 2/3 degli infanti morti di “Sids” erano stati vaccinati contro difterite-pertosse-tetano appena prima di morire».Secondo altri ricercatori citati, Fine e Chen, «i bambini muoiono di “Sids” a un tasso quasi 8 volte superiore alla norma entro 3 giorni dall’inoculazione contro difterite-pertosse-tetano». Un terzo studio documenta il caso di un infante di tre mesi, morto di “Sids” dopo una inoculazione di 6 vaccini contemporaneamente: «Questo caso ci offre un allarme unico nel capire il possibile ruolo di queste vaccinazioni nel causare morti improvvise in bambini vulnerabili». Infatti, avvertono gli scienziati, «senza studi anatomopatologici su larga scala di questi decessi infantili, alcuni casi chiaramente correlati alle vaccinazioni verranno ignorati». Queste informazioni, sottolinea Barnard, sono «documentazione scientifica ufficiale al più alto livello sanitario tecnologico del mondo, quello degli Usa», il cui governo è anche «il promotore mondiale dei vaccini». E lo studio è del 2011: «Loro sapevano che i vaccini possono uccidere».E’ ufficiale: i vaccini aumentano il tasso di mortalità infantile. Lo afferma l’istituto nazionale di sanità Usa, un’agenzia del dipartimento della salute. «Il dibattito sui vaccini va riaperto: esistono pericoli mortali e ignorati, con prove terrificanti», afferma Paolo Barnard, che ha scovato uno studio governativo del 2011 condotto da due ricercatori, Neil Miller e Gary Goldman, del “National Center for Biotechnology Information”, una costola dei “National Institutes of Healths”. Un allarme clamoroso: da studi statistici emerge che il rapporto tra vaccinazioni e salute è inversamente proporzionale. In altre parole: più sono i vaccini inoculati, più crescono la mortalità infantile e la “Sids”, sindrome del decesso improvviso infantile. Un sasso nello stagno, lo studio – largamente ignorato – di Miller e Goldman, condotto in un paese come gli Usa, che impone la somministrazione di 26 dosi-vaccino (ma lasciando ai genitori libertà di obiezione salvo in due Stati, Mississippi e West Virginia). L’analisi però si estende al resto del mondo. E si scopre che, anche nei paesi più poveri, in Africa e in Asia, la mortalità infantile cresce, anziché diminuire, proprio là dove si iniettano più vaccinazioni.
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Clima impazzito: c’è il rischio di mezzo miliardo di profughi
Succede in Louisiana, Brasile, New York, Australia, Thailandia, Filippine, Alaska. Succede un po’ dappertutto per le comunità di mare. Gente che vive sulle coste e che deve abbandonare le proprie case per colpa di erosione, innalzamento dei livelli del mare, tempeste violente, perdita di terreno. Secondo un recente articolo pubblicato su “Nature Climate Change”, sono circa 1 milione le persone che hanno dovuto abbandonare le proprie abitazioni. Per la precisione 1 milione e 300mila. E mentre fino a pochi anni fa si cercava di proteggere quello che c’era, adesso l’atteggiamento prevalente è di andare via. Cosa fare infatti con l’arrivo di mareggiate senza precedenti, allagamenti e continuo innalzarsi del mare? Si possono alzare le strade e le case, cercare di proteggere le lagune, migliorare i codici con cui si costruisce. Ma si può anche decidere di lasciare perdere, visto che i costi sono elevati, ed è certo che il clima e l’ambiente non torneranno quelli di prima. È questo il dilemma delle comunità costiere.Storicamente, migrazioni di massa collegate alle condizioni climatiche sono molto ben documentate, e quello che viviamo adesso – appunto il milione e trecentomila anime che hanno dovuto lasciare le proprie case – è la manifestazione dei nostri tempi del problema. Durante il secolo 1900-2000 i livelli del mare si sono innalzati di ben dodici centimetri. Le previsioni sono di varie decine di centimetri in questo secolo. Secondo alcuni studi circa 470 milioni di persone perderanno la casa. Alcuni ricorderanno l’uragano Sandy che colpì le coste del New Jersey nel 2012: molte delle case sono state rasate al suolo e mai piu ricostruite. Dopo il tifone Haiyan del 2013 le Filippine hanno messo il divieto di costruire a cinquanta metri dalla costa e hanno forzato l’evacuazione di 80.000 persone. Dopo lo tsunami del 2004, almeno 22.000 case sono state perse e non più ricostruite in zone costiere. A volte la gente via via in modo preventivo, e cioè prima che ci siano i disastri: le città vengono evacuate perché i cambiamenti climatici stanno piano piano portando via coste e case e non si vuole aspettare “il grande evento”.In Louisiana accade lo stesso: qui l’erosione dovuta alle estrazioni di petrolio e di gas ha fatto perdere case, terreni e coste. Il caso più eclatante è quello di Shishmaref in Alaska, città costruita sul ghiaccio e che è destinata a morire. Siamo a 160 miglia dalla Russia, il ghiaccio scompare. Nevica sempre di meno, e sempre più tardi e il ghiaccio si scioglie prima o neanche si forma. L’erosione monta. L’assenza di ghiaccio fa sì che durante le tempeste pezzi interi di costa vengono triturati e finiscono in mare, senza protezione. Una delle case è già crollata in mare nel 2006. Norman era un ragazzino che nel 2007 cadde risucchiato dal ghiaccio di Shishmaref che si scioglieva e morì. Ogni secondo pompiamo in atmosfera 1.200 metri cubi di CO2. Il pianeta si è surriscaldato, in media di un grado centigrado dalla rivoluzione industriale ad oggi, una enormità. L’Artico ha avuto livelli di aumento di temperatura doppi che il resto del pianeta. In Alaska ci sono almeno trentuno villaggi a rischio di scomparire, come Shishmaref: dodici di questi villaggi stanno cercando di capire dove e come evacuare, perché sanno che non c’è speranza.Siamo noi a causare tutto ciò, bruciando fonti fossili a ritmi allarmanti. Se l’obiettivo è di contenere l’aumento della temperatura a due gradi centigradi, una sola cosa si deve fare: non pompare mai più petrolio. Dall’altra parte del mondo, le isole Kiribati, le isole Marshall, le isole Fiji. Lontanissme dall’Alaska ma tutte che rischiano di scomparire. Isle di Jean Charles in Louisiana che pure sprofonda a causa dei cambiamenti climatici. A Miami Beach, Florida, hanno dovuto installare pompe speciali per evitare allagamenti, collegati all’erosione. Non tutte le comunità hanno i soldi per programmare l’evacuazione e la risistemazione delle persone. È costoso, la gente è vulnerabile, è una strada a senso unico.A Shishmaref sanno che non hanno scelta, e cosi la città ha deciso di evacuare prima che il mare porti via tutto. Ma non hanno i soldi. E dove evacueranno? Non si sa, forse verso l’interno. Ma questo significa perdita di identità: la maggior parte delle persone qui vive di pesca e di caccia e di tradizioni Inupiat collegate al mare. Saranno lo stesso popolo? Perché devono evacuare loro, se il loro stile di vita, di indigeni, è molto meno impattante di quello di centinaia di milioni di persone che sprecano, bruciano, e generano molto più inquinamento e emettono molta più CO2 di loro?(Maria Rita D’Orsogna, “Un milione di profughi del clima”, da “Comune-info” del 10 aprile 2017. Fisica e docente all’Università statale della California, la professoressa D’Orsogna cura diversi blog, consapevole dell’importanza dell’informazione indipendente).Succede in Louisiana, Brasile, New York, Australia, Thailandia, Filippine, Alaska. Succede un po’ dappertutto per le comunità di mare. Gente che vive sulle coste e che deve abbandonare le proprie case per colpa di erosione, innalzamento dei livelli del mare, tempeste violente, perdita di terreno. Secondo un recente articolo pubblicato su “Nature Climate Change”, sono circa 1 milione le persone che hanno dovuto abbandonare le proprie abitazioni. Per la precisione 1 milione e 300mila. E mentre fino a pochi anni fa si cercava di proteggere quello che c’era, adesso l’atteggiamento prevalente è di andare via. Cosa fare infatti con l’arrivo di mareggiate senza precedenti, allagamenti e continuo innalzarsi del mare? Si possono alzare le strade e le case, cercare di proteggere le lagune, migliorare i codici con cui si costruisce. Ma si può anche decidere di lasciare perdere, visto che i costi sono elevati, ed è certo che il clima e l’ambiente non torneranno quelli di prima. È questo il dilemma delle comunità costiere.
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Ecco perché Steve Jobs non lasciava usare l’iPad ai suoi figli
Un articolo pubblicato sul “New York Times” nel 2014 ha rivelato che il fondatore dell’Apple, Steve Jobs, insieme ad altri dirigenti di società tecnologiche, limitava ai propri figli l’utilizzo di dispositivi elettronici fino a proibirli. Secondo il giornale, in una delle sue interviste, Jobs affermò che i suoi figli non avrebbero utilizzato, una delle sue creazioni più popolari, l’ iPad. «Cerchiamo di ridurre al limite la quantità di tecnologia che i nostri figli possono usare a casa», ha detto il fondatore del colosso informatico. L’articolo rivela che un numero significativo di amministratori delegati di aziende tecnologiche, come Jobs, vivono secondo regole del tutto diverse da quelle suggerite, alla popolazione americana, dalle loro stesse aziende. Anche il Ceo della 3D Robotics, azienda produttrice di droni, Chris Anderson, ha il controllo totale sull’utilizzo di qualsiasi “gadget” dei suoi figli. Spiega questa sua scelta educativa perché ha vissuto «in prima persona i pericoli della tecnologia». «Non voglio che i miei figli passino la stessa cosa», ha confessato.Il fondatore di Twitter, Blogger e Medium, Evan Williams, e sua moglie, Sara Williams, per esempio, hanno regalato ai loro due bambini centinaia di libri che possono leggere quando vogliono invece che un iPad. Walter Isaacson, l’autore di “Steve Jobs”, afferma: «Ogni sera Steve faceva in modo di fare cena nel grande tavolo lungo nella loro cucina, discutendo di libri e storia e una varietà di cose. Nessuno ha mai tirato fuori un iPad o un computer. I bambini non sembrano richiedere per niente di tutti questi dispositivi». Secondo diversi studi clinici, l’utilizzo continuativo di dispositivi elettronici da parte dei bambini può portare a un aumento dei disturbi della vista e del sonno. Inoltre, i ricercatori ritengono che le frequenze wireless per la connessione a Internet usate dall’iPad e da altri tablet possano rappresentare potenziali rischi per la salute ed essere cancerogene.Questi dispositivi possono causare una diminuzione degli scambi tra il nucleo e la membrana cellulare, riducendo poco a poco la differenza di potenziale elettrico della cellula, causando così un malfunzionamento che può generare disfunzioni e malattie. Spesso infatti un luogo, reso insalubre dalla presenza di antenne per la telefonia mobile, di impianto elettrico e di cellulari, ha effetti biologici negativi sulla vita della persona: ne perturba l’energia e l’equilibrio individuale, provocando intolleranze e danni alla salute psicofisica e indebolendola nella sua totalità o funzioni di essa, anche solo in determinati periodi.Tra gli influssi nocivi più comunemente si notano malesseri di pertinenza neuropsicologica come sonno inquieto con frequenti risvegli e incubi, sonno non soddisfacente con sensazione di stanchezza o bassa energia mattutina, risveglio difficile e lungo, insonnia perniciosa, mancanza di concentrazione, stanchezza cronica, ricorrente mal di testa e di schiena, disturbi della colonna vertebrale, depressione atipica, inquietudine non spiegabile, sterilità, tachicardia e ipertensione essenziale, manifestazioni patologiche (senza accertate cause organiche) da sistema immunitario debilitato, emicranie resistenti alle terapie ufficiali frequentemente associate a irritabilità, brividi ed invecchiamento della pelle. Ciò avviene, con ampia variabilità individuale, in base alla sensibilità personale (più esposti sono i bambini e le donne), al livello di soglia di vulnerabilità allo stress e alla somma dei campi elettromagnetici negativi presenti nell’ambiente circostante.(Paolo Zucconi, “Ecco perché Steve Jobs non lasciava usare l’iPad ai suoi figli”; estratto da “Il manuale pratico del benessere”, edizioni Ipertesto, ripreso da “La Crepa nel Muro” il 9 dicembre 2016).Un articolo pubblicato sul “New York Times” nel 2014 ha rivelato che il fondatore dell’Apple, Steve Jobs, insieme ad altri dirigenti di società tecnologiche, limitava ai propri figli l’utilizzo di dispositivi elettronici fino a proibirli. Secondo il giornale, in una delle sue interviste, Jobs affermò che i suoi figli non avrebbero utilizzato, una delle sue creazioni più popolari, l’ iPad. «Cerchiamo di ridurre al limite la quantità di tecnologia che i nostri figli possono usare a casa», ha detto il fondatore del colosso informatico. L’articolo rivela che un numero significativo di amministratori delegati di aziende tecnologiche, come Jobs, vivono secondo regole del tutto diverse da quelle suggerite, alla popolazione americana, dalle loro stesse aziende. Anche il Ceo della 3D Robotics, azienda produttrice di droni, Chris Anderson, ha il controllo totale sull’utilizzo di qualsiasi “gadget” dei suoi figli. Spiega questa sua scelta educativa perché ha vissuto «in prima persona i pericoli della tecnologia». «Non voglio che i miei figli passino la stessa cosa», ha confessato.
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Bersani non andrà da nessuna parte, ma nemmeno Renzi
Non andranno da nessuna parte, gli scissionisti del Pd: sono figure logore, nonché largamente compromesse con il peggior potere, quello che ha imposto all’Italia il regime dell’austerity. Beninteso: non andranno lontano nemmeno gli altri, i renziani, così come i berlusconiani. I grillini? Domani chissà, ma oggi – di fatto – non hanno vero un Piano-B per ribaltare l’economia italiana cambiando le regole del gioco. E’ la tesi di Gioele Magaldi, autore del bestseller “Massoni, società a responsabilità illimitata” (Chiarelettere), che illumina gli imbarazzanti retroscena del “back office” del potere mondiale, con 36 superlogge internazionali che “orientano” le grandi decisioni dei governi, attraverso il controllo della finanza e delle istituzioni “paramassoniche” come Fmi e Banca Mondiale, Bilderberg e Trilaterale, think-tanks e lobby che, di fatto, “dettano” direttive, leggi, tendenze. Una su tutte: la supremazia neoliberista del mercato a danno dello Stato, neutralizzato dai tecnocrati e disabilitato nelle sue capacità di spesa pubblica e investimento economico e sociale.«Si può dire anche molto male di Matteo Renzi, ma è pur sempre meglio di Pier Carlo Padoan, il ministro dell’economia, che – attraverso la Ur-Lodge “Three Eyes”, roccaforte storica della destra internazionale – è il terminale italiano dei super-poteri che predicano la privatizzazione universale». Ai microfoni di “Colors Radio”, Magaldi osserva con scetticismo lo spettacolare smottamento in corso nello scenario politico italiano, non solo nella cosiddetta sinistra, ma anche sul fronte opposto, dove – accanto a Salvini e Giorgia Meloni – emergono pulsioni “sovraniste” dalla ex destra sociale di Alemanno e Storace. Meglio di niente, sembra concludere Magaldi, che è progressista e ha fondato in Italia il Movimento Roosevelt, associazione meta-partitica con l’obiettivo di “inoculare il virus del risveglio”, liberando i partiti dalla loro sudditanza rispetto ai poteri forti. Magaldi ora va anche oltre, annunciando l’apertura di un cantiere politico per dare vita a un nuovo soggetto. Non l’ennesimo partitino, assicura, ma – sulla carta – l’unico strumento su cui far convergere un vero e proprio rovesciamento di valori e priorità, sulla scorta dell’esperienza condotta per la candidatura dell’economista keynesiano Nino Galloni al Comune di Roma.Tradotto: prima viene il recupero della sovranità finanziaria, anche monetaria, e soltanto dopo è possibile ridisegnare leggi e governi, con alle spalle una struttura (pubblica) capace di investire denaro per l’economia reale, quella delle aziende e delle famiglie. Nulla di tutto ciò è in vista, nel campo della sinistra italiana tradizionale: che magari sbatte la porta in faccia a Renzi, ma poi non osa alzare la voce con i veri potenti, cioè i guardiani dell’ortodossia ordoliberista incarnata dall’Unione Europea a trazione tedesca. «Non capisco come facciano, Bersani e compagni, a rinfacciare a Renzi la mancanza di una politica sociale, di sinistra, che parta dalle istanze del popolo, quando loro sono stati i primi, con D’Alema e anche Veltroni, a plaudire al governo Monti, progettato dai grandi poteri con l’aiuto di Napolitano». Dove pensano di andare, Bersani e Speranza? Alla loro sinistra si è accampata Sinistra Italiana, cioè la reincarnazione di Sel, il partito di Vendola, ben lungi – al netto della retorica – dall’aver affrontato il nodo vero della questione: la sovranità democratica dei governi europei, resi “sudditi” da Bruxelles, a danno della comunità nazionale.Più interessante il campo opposto, dove si registra quantomeno la vitalità di Salvini e Meloni, con il limite però di dover fare sempre i conti con l’eterno Berlusconi, che in vent’anni – reso vulnerabile dal ricatto incombente sulle sue aziende – non è riuscito a dire un solo “no” ai nemici dell’Italia. Restano i 5 Stelle: se non l’attuale dirigenza “grillo-replicante”, almeno la sincera disponibilità democratica della base. Per Magaldi, il ogni caso, il Pd è finito: «Marcirà, si estinguerà per putrefazione. Mentre l’Italia ha un disperato bisogno di rigenerazione, attraverso la rinascita del campo progressista», adeguata allo scenario di oggi: un rinascimento politico, che parta dalla battaglia (storica) per denunciare gli abusi dell’oligarchia europea e restituire piena sovranità finanziaria all’economia nazionale, condizione imprescindibile per poi riscrivere le leggi in senso democratico, ridisegnando il paese, dopo aver rimesso al potere politici legittimi, non più maggiordomi dell’élite.Non andranno da nessuna parte, gli scissionisti del Pd: sono figure logore, nonché largamente compromesse con il peggior potere, quello che ha imposto all’Italia il regime dell’austerity. Beninteso: non andranno lontano nemmeno gli altri, i renziani, così come i berlusconiani. I grillini? Domani chissà, ma oggi – di fatto – non hanno vero un Piano-B per ribaltare l’economia italiana cambiando le regole del gioco. E’ la tesi di Gioele Magaldi, autore del bestseller “Massoni, società a responsabilità illimitata” (Chiarelettere), che illumina gli imbarazzanti retroscena del “back office” del potere mondiale, con 36 superlogge internazionali che “orientano” le grandi decisioni dei governi, attraverso il controllo della finanza e delle istituzioni “paramassoniche” come Fmi e Banca Mondiale, Bilderberg e Trilaterale, think-tanks e lobby che, di fatto, “dettano” direttive, leggi, tendenze. Una su tutte: la supremazia neoliberista del mercato a danno dello Stato, neutralizzato dai tecnocrati e disabilitato nelle sue capacità di spesa pubblica e investimento economico e sociale.
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Le truffe della “spiritualità” e il Manuale del Partigiano Zen
Ti si sono aperti tutti i chakra e stai fluendo in sincronia perfetta con l’esistenza? Senti l’amore cosmico che ti fa salire la kundalini? Sei certo di essere a un passo dall’illuminazione? Senti energeticamente, dici che tutto è Uno, vedi le vite passate, hai preso 23 livelli di Reiki e hai 5 nomi sannyasin? Sei convinto che il mondo sia un’illusione e te ne freghi di tutto? O hai davvero qualcosa da insegnarci, o com’è più probabile, ci sei davvero dentro fin sopra il collo. Sei infettato dall’ego spirituale, un altro astuto nemico sulla strada verso la vittoria. L’ego spirituale è una delle più astute maschere dell’Io. È l’uso e il consumo di tutto ciò che è “spirituale” per la gratificazione dell’ego. È il nuovo vestito di quel vecchio ego che prima faceva classifiche mondane e misurava chi era il più figo, ma ora vuole accumulare cose nel mondo dello spirito. Però la puzza dell’ego è sempre la stessa. Solo che adesso vuole farsi bello con conquiste interiori, cambiamenti metafisici, seminari che danno i superpoteri, terapie che guariscono da tutti i problemi, ricette belle e fatte sulla felicità permanente.L’ego spirituale non guarda in faccia a nessuno, anche se spesso le sue prede preferite sono le persone sensibili, idealiste, sognatrici. L’ego spirituale è subdolo e pericoloso, perché meno visibile, molto astuto e più difficile da smascherare. Cerca di pompare la tua presunta intelligenza e la tua cosiddetta saggezza spacciandoli per verità e alla fine ci caschi anche tu. Le persone in preda all’ego spirituale sono in genere anime belle che cercano rifugio dal loro disagio in quello che ritengono il mondo dello spirito. Non bisogna dimenticare che la stragrande maggioranza delle persone arriva a un percorso “spirituale” perché avverte sofferenza e disagio, perché è in crisi, perché è confusa; e questo è sacrosanto, naturale. Essere in crisi è la porta di accesso al cambiamento e all’evoluzione, e tutti, prima o poi, passiamo di lì. Ma a volte ci si attacca forzatamente anche alle nostre presunte conquiste interiori per paura di restare vuoti e senza appigli. Dopo che hai sofferto trovi un insegnamento o qualcosa che ti fa stare bene: pensi di essere arrivato, di aver trovato la chiave, “the secret”, e ti dici: finalmente, ora ho capito! Così rischi di cristallizzarti in una nuova identità spirituale.Dietro c’è il bisogno di considerazione e di approvazione, e la voglia di fuggire dalle cose che non hai risolto. Indossare il nuovo vestito spirituale è una nuova bellissima e illusoria sicurezza: ti senti maggiormente accettato, ti piace avere un certo tipo di potere (io ti posso guarire!), di conoscenza, di amicizie, o un nuovo nome spirituale; senti che puoi avere le risposte, ti senti più utile, figo, sicuro, protetto, arrivato. Non c’è niente di male, ma è sempre il giochino dell’ego che prima o poi si romperà, e tu dovrai fare i conti con quelle cose che ti hanno legato all’ego spirituale: la ricerca di sicurezza, di potere, la paura di non essere accettato, il bisogno d’amore, la mancanza di senso, il dolore e l’angoscia, il desiderio di essere visto. Ecco che il mondo spirituale ti offre una meravigliosa occasione: prendi otto iniziazioni, fai diecimila corsi diversi cercando di risolverti, vuoi l’illuminazione in tre giorni, cerchi nelle presunte coincidenze la conferma a una tua credenza, leggi 10.000 frasi spirituali senza metterne in pratica nemmeno una. Vuoi diventare qualcuno nel mondo dello Spirito, ma attento, perché se incontri un vero Maestro diventerai Nessuno.Il grande pericolo di tutte le esperienze mistiche – esperienze di illuminazione, liberazione, e così via – è che verranno utilizzate dall’ego e trasformate in materiale usato dall’ego per i suoi fini. Quando il contesto della vita di un individuo è l’auto-referenzialità egoica – vale a dire che l’identificazione è con l’ego come unità separata – le esperienze mistiche, i momenti di illuminazione, le credenziali spirituali, diventano tutti beni potenzialmente pericolosi. La “valuta” della verità può essere velocemente scambiata per la valuta dell’ego, e tali esperienze ben presto diventano un altro ancora dei mezzi dell’ego per rafforzare il suo potere nella sua lotta contro la vera liberazione. L’ego può tentare e tenterà di trasformare tutto a suo beneficio. Ecco perché l’ambito delle esperienze mistiche e di illuminazione è così pericoloso. È proprio perché il loro valore è così alto per il sé essenziale che tali esperienze sono così interessanti, e anche minacciose, per l’ego.L’ego vuole fortificarsi, e vuole anche bloccare efficacemente la liberazione che percepisce come la propria fine. Perciò, diventare un “ego spirituale” è un travestimento geniale attraverso cui infiltrarsi nella vita spirituale sincera dell’individuo e sedurre la sua attenzione distogliendola dalla Verità o da Dio (M. Caplan). Anche l’esperienza della cosiddetta illuminazione (così ambita dall’ego spirituale) è sostanzialmente un’illusione egoica. Non che non esista l’illuminazione, ma l’ego non si può illuminare, quindi da questo punto di vista tu in quanto identità non ti illuminerai mai. Il tuo ego vuole una cosa per la quale è necessaria la sua morte e quindi volersi illuminare è una contraddizione in termini. La parola “spirituale” è una parola molto pericolosa, che ha creato spesso divisioni e fraintendimenti, e che io a questo punto abolirei e la sostituirei con naturale. Ecco, non mi diventare spirituale, diventa naturale! Scopri il tuo essere vero, autentico, selvaggio, musicale, libero, incondizionato, ignoto. Non ti atteggiare da quello che ci ha capito qualcosa. Lo sappiamo tutti che non sai niente! Sii quel niente!Una autentica ricerca spirituale ti mostra l’illusione dell’identità personale, ma allora come farai a far cadere la tua identità spirituale? Se sei un praticante spirituale, un maestro di meditazione, un grande ricercatore della via, un terapeuta dello spirito, un facilitatore olistico, un sannyasin o un religioso fervente, sei potenzialmente più nei casini che se fossi uno spazzino o un pizzaiolo. A un certo punto il giudice interiore ti romperà le scatole dicendoti: ma sono anni che ti occupi di queste cose, e guarda: non ti sei illuminato, ogni tanto stai da culo, a volte non sai che pesci pigliare, dio non sai dove sta di casa, e pretendi di aiutare gli altri e di mostrare loro la via? Oppure sarai così su di giri al pensiero di essere su un percorso spirituale da pompare l’ego finché non scoppia come un palloncino. Spesso si fugge dal dolore e dalla sofferenza attraverso qualcosa di spirituale, ma a volte proprio il dolore e la sofferenza sono “spirituali’’, nel senso che possono essere preziosi strumenti per comprendere, evolvere, amare. Stare con quello che c’è non è facile, ma è prezioso, disarmante, ed è la chiave del vero cambiamento.Se smettiamo di cercare, cosa ci resta? Ci resta ciò che è sempre stato qui, al centro. Dietro alla ricerca c’è l’angoscia, c’è il disagio. Quando lo capiamo, vediamo che il punto non è la ricerca, ma l’angoscia e il disagio che spingono a cercare. Capire che cercare all’esterno non è la via, è un momento magico. Ci rendiamo conto che qualunque cosa cerchiamo, saremo sempre delusi (C. Joko Beck). Se vai alla radice, se hai il coraggio di non prenderti per il culo, se vai a guardare come ti manipoli, se riconosci con coraggio come e quanto ti sei voluto ingannare, se lasci bruciare il tuo cuore in fiamme, se attraversi con pienezza quel dolore… allora diventi sempre più leggero e la luce inizia a filtrare. Io sono stato in India, ho fatto gruppi di terapia, ho conosciuto il mondo di Osho, ho conosciuto Maestri e persone meravigliose, mi hanno dato un nome spirituale, ho studiato tecniche di meditazione, ho girato in tondo come i sufi, ho recitato mantra, ho fatto viaggi sciamanici, e tante altre cose.Senza portare nessuna bandiera e senza sposare nessun credo, volevo e dovevo esplorare tutto questo perché in questa ricerca c’è sicuramente qualcosa che vale la pena. E ancora non ho finito. E quindi? Cosa ho compreso di essenziale? Quello che non ho mai perso e non potrò perdere. Questo semplice spazio di non sapere, questo cuore vulnerabile, questo lasciar andare quello che non sono. La Vita che spinge per riconoscere se stessa. Non c’è altro. E’ bellezza. E più comprendo e più non so. E’ tutto qui, per fortuna. L’unica Vera spiritualità è la totale autenticità verso ciò che sta accadendo nella tua Vita in questo momento. Alleluia.(“Ricerca spirituale a chi?! Cazzi e mazzi della ricerca spirituale”, estratto dal “Manuale del Partigiano Zen”, 22 agosto 2016).Ti si sono aperti tutti i chakra e stai fluendo in sincronia perfetta con l’esistenza? Senti l’amore cosmico che ti fa salire la kundalini? Sei certo di essere a un passo dall’illuminazione? Senti energeticamente, dici che tutto è Uno, vedi le vite passate, hai preso 23 livelli di Reiki e hai 5 nomi sannyasin? Sei convinto che il mondo sia un’illusione e te ne freghi di tutto? O hai davvero qualcosa da insegnarci, o com’è più probabile, ci sei davvero dentro fin sopra il collo. Sei infettato dall’ego spirituale, un altro astuto nemico sulla strada verso la vittoria. L’ego spirituale è una delle più astute maschere dell’Io. È l’uso e il consumo di tutto ciò che è “spirituale” per la gratificazione dell’ego. È il nuovo vestito di quel vecchio ego che prima faceva classifiche mondane e misurava chi era il più figo, ma ora vuole accumulare cose nel mondo dello spirito. Però la puzza dell’ego è sempre la stessa. Solo che adesso vuole farsi bello con conquiste interiori, cambiamenti metafisici, seminari che danno i superpoteri, terapie che guariscono da tutti i problemi, ricette belle e fatte sulla felicità permanente.
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Berlino: altro sangue, sull’altare di un potere nel panico
Ankara, Zurigo, Berlino. Il più grosso è ovviamente a Berlino, 9 morti una cinquantina di feriti – modus operandi simile all’attentato di Nizza del 14 luglio; è la prima volta che un vero attentato “alla francese” colpisce la Germania. La Francia ha ed ha avuto le mani in pasta in Siria, fa i giochi sporchi da anni; Berlino è rimasta neutrale. A Zurigo, uno sconosciuto ha sparato in un centro islamico. Ad Ankara, ucciso da un poliziotto l’ambasciatore russo. E’ troppo presto per dire qualcosa di più preciso. L’assassinio di Ankara è stato rivendicato, più precisamente esaltato, dall’Is e da Al-Qaeda, certo, come no: attraverso il “Site” di Rita Katz. E’ un indizio abbastanza preciso. Anche Obama, anche al Dipartimento di Stato, e alla Cia, hanno ottime ragioni per esaltare l’omicidio, prima di dover traslocare. A che scopo?, mi chiede qualcuno. Che domanda: uno degli scopi della strategia della tensione, l’ondata sincrona di attentati l’ha già ottenuto dentro di voi: vulnerabili, esposti ad un’aggressione che può colpirvi in ogni momento, perché il nemico, musulmano, è folle.Lo è, infatti; solo pensate che è quel nemico musulmano che vi hanno imposto di accettare a centinaia di migliaia, masse troppo subitanee che manca il tempo di integrare, giovani maschi per lo più, per cui le fanciulle europee sono una provocazione sessuale; quanti di loro sono criminali e pregiudicati? Jihadisti? Ma se provate a fare questa domanda siete razzisti, egoisti, privi di carità. La centrale che vi obbliga ad accoglierli tutti è la stessa che vuol farvi paura – e giustamente – per questa invasione inassimilabile. Contraddizione? Ma questo è uno dei suoi strumenti più preziosi nella strategia della tensione, vi lacera fra due pulsioni opposte, due discrasie cognitive, fra senso di colpa e urto irrazionale di rabbia, voglia di uccidere. E’ un successo. Perché la strategia della tensione in Europa, in queste ore? Mentre Aleppo è liberata? Mentre Obama fa le valige? Putin, limpido, ha spiegato: «L’assassinio (dell’ambasciatore) è una provocazione mirante a impedire il miglioramento delle relazioni russo-turche, minare il processo di pace in Siria promosso da Russia, Turchia, Iran ed altri paesi interessati a risolvere il conflitto in Siria».Per noi europei, la strategia della tensione ha uno scopo quasi tradizionale: farci travolgere dal terrore che è dovunque, odiare i musulmani mentre ci obbligano ad accoglierli; significa che ci sentiamo insicuri – e perciò chiediamo un governo forte, autoritario, con una polizia che censuri i siti – non solo gli islamici, anche i nostri: ne va della nostra vita! Leggi speciali d’emergenza, legge marziale. O stringiamoci tutti sotto l’ombrello della Nato, che ci difende dai jihadisti… L’oligarchia di Bruxelles travolta dalle critiche e contestazioni, dal crescere del “populismo”, l’Unione Europea che vede incagliato il suo progetto sovrannazionale, può trovarvi il suo tornaconto: imporre ordine e disciplina, recuperare “autorità”. E’ presto per dirlo. Aspettiamo i media di domani, cosa dicono, quali ricette invocano, quale capo o “fratello” per l’emergenza, capace di calmare i nostri terrori: sono le parole d’ordine a cui ci faranno obbedire. Quale il prossimo “Je suis Charly”?(Maurizio Blondet, estratto da “State calmi, è strategia della tensione”, post pubblicato sul sito di Blondet il 19 dicembre 2016).Ankara, Zurigo, Berlino. Il più grosso è ovviamente a Berlino, 9 morti una cinquantina di feriti – modus operandi simile all’attentato di Nizza del 14 luglio; è la prima volta che un vero attentato “alla francese” colpisce la Germania. La Francia ha ed ha avuto le mani in pasta in Siria, fa i giochi sporchi da anni; Berlino è rimasta neutrale. A Zurigo, uno sconosciuto ha sparato in un centro islamico. Ad Ankara, ucciso da un poliziotto l’ambasciatore russo. E’ troppo presto per dire qualcosa di più preciso. L’assassinio di Ankara è stato rivendicato, più precisamente esaltato, dall’Is e da Al-Qaeda, certo, come no: attraverso il “Site” di Rita Katz. E’ un indizio abbastanza preciso. Anche Obama, anche al Dipartimento di Stato, e alla Cia, hanno ottime ragioni per esaltare l’omicidio, prima di dover traslocare. A che scopo?, mi chiede qualcuno. Che domanda: uno degli scopi della strategia della tensione, l’ondata sincrona di attentati l’ha già ottenuto dentro di voi: vulnerabili, esposti ad un’aggressione che può colpirvi in ogni momento, perché il nemico, musulmano, è folle.
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Sta fondendo l’Antartide: verso cataclismi inimmaginabili
Sta per collassare l’Antartide, e i ghiacci che si credevano “perenni” stanno fondendo alla velocità della luce: lo rivela uno studio che «dovrebbe spaventare a morte chiunque dubiti della solennità e della potenza dietro l’accelerazione del riscaldamento globale», avverte Robert Hunziker su “Counterpunch”, che presenta una ricerca «sconvolgente, dagli sviluppi raccapriccianti». Ovvero: «Se si sciogliesse integralmente l’intera Antartide, provocherebbe un innalzamento del livello del mare di circa 60 metri». Non faremo in tempo a vederlo, nella nostra vita («è troppo grande e richiederebbe decisamente troppo riscaldamento e davvero troppo tempo»), ma – intanto – un collasso della sola Antartide Occidentale, quella finita sotto i riflettori, «ha il potenziale, secondo la nuova ricerca, per sommergere Miami e New York durante le nostre vite attuali». Attenzione: «È la prima volta, questa, in cui delle osservazioni scientifiche giungono ufficialmente alla conclusione che una catastrofe così orrenda sia possibile, così presto». Miami Beach è già costretta a sollevare le strade di mezzo metro a causa delle persistenti inondazioni. «Un mare in crescita è la vendetta del riscaldamento globale per le sconsiderate, arroganti, presuntuosamente eccessive emissioni di CO2 di combustibile fossile, causate dall’uomo».Le nuove «spaventose scoperte», scrive Hunziker in un report tradotto da “Come Don Chisciotte”, includono il ghiacciaio di Pine Island, l’oggetto del lavoro di ricerca di Seongsu Jeong, Ian M. Howat, Jeremy N. Basis, “Accelerated Ice Shelf Rifting and Retreat at Pine Island Glacier, West Antarctica”, studio pubblicato da “Geophysical Research Letters” il 28 novembre 2016. Allarme rosso, già a partire dal titolo: “Accelerazione della frattura di una calotta di ghiaccio e arretramento del ghiacciaio di Pine Island, in Antartide Occidentale”. «Si dà il caso che il ghiacciaio di Pine Island fosse già la più grande massa al mondo di irreversibile scioglimento di ghiaccio». Adesso, con questa nuova analisi, «la tempistica sta assumendo una nuova preoccupante dimensione». Secondo Ian Howat, professore associato di Scienze della Terra presso l’università statale dell’Ohio, «questa sorta di formazione di fratture causa un altro meccanismo di arretramento rapido di questi ghiacciai, aggiungendo la probabilità che si possano vedere collassi significativi nell’Antartide Occidentale durante la nostra esistenza». Questa, sottolinea Huziker, è una minaccia di riscaldamento globale completamente nuova, per le sue impressionanti dimensioni e gli scenari tempistici ormai ravvicinati.Che cosa ha indebolito il centro della calotta antartica? E’ stato «un crepaccio, disciolto al livello di sostrato roccioso da un oceano riscaldato», visto che la base della lastra di ghiaccio dell’Antartide Occidentale si trova sotto il livello del mare. «Un oceano riscaldato appare come la causa di come l’oceano abbia assorbito il 90% del calore della Terra, aiutando a proteggere le creature sulla terraferma, come gli umani, da un reale surriscaldamento dannoso», scrive Hunziker. «Ma si raccoglie ciò che si semina, come è stato dimostrato in Antartide: tutto questo calore mondiale ci si sta ritorcendo contro sotto grandi, grosse lastre di ghiaccio». Qui le differenze rispetto alle ricerche del passato: le fratture si formavano generalmente ai margini delle calotte di ghiaccio, dando vita agli iceberg, ma non in profondità e all’interno, come invece evidenzia questa nuova scoperta. Inoltre, la frattura in questione è all’interno, a circa 32 km (20 miglia). «Il Ghiacciaio di Pine Island (tenendo le dita incrociate) funziona come misura di protezione, trattenendo grandi porzioni di ghiaccio dell’Antartide Occidentale dal riversarsi nel mare». In pratica «è come un portiere di hockey», impegnato a frenare «una parte delle lastre di ghiaccio del Massiccio dell’Antartide Occidentale».Quel grande ghiacchaio è dunque «l’ultima linea di difesa, che previene il collasso parziale delle grandi lastre di ghiaccio, che causerebbero un grande tonfo inimmaginabile, di grandezza inconcepibile». Lo conferma già nel 2015 “Science Magazine”, secondo cui basterebbe «un colpetto» a far collassare le lastre di ghiaccio dell’Antartide Occidentale, con il livello del mare che «si solleva di 3 metri». E’ esplicita, la rivista: «Non serve molto a causare il crollo totale della lastra di ghiaccio dell’Antartide Occidentale, e una volta iniziato non si fermerà». Nell’ultimo anno, aggiunhe Hunziker, «molti articoli hanno evidenziato la vulnerabilità della lastra di ghiaccio che ricopre la parte occidentale del continente, suggerendo che il suo crollo sia inevitabile, e probabilmente già in corso. Adesso, un nuovo modello mostra proprio come questa valanga possa realizzarsi». Una quantità relativamente piccola di scioglimento nel corso di pochi decenni «porterà inesorabilmente alla destabilizzazione dell’intera lastra di ghiaccio e all’aumento del livello del mare». L’ultima ricerca rivela che «le circostanze sembra si stiano accelerando».Con questa nuova scoperta, la tempistica per il collasso della lastra di ghiaccio dell’Antartide Occidentale è del tutto inquietante, sottolinea Hunziker: «In precedenza i ricercatori pensavano a decenni e secoli. Adesso, “all’interno delle nostre vite attuali”». Sperando che non sia già troppo tardi, aggiunge Hunziker pensando a Trump e ai negazionisti del “global warming”, «mai prima d’ora nella storia mondiale è stato importante avere una forte leadership in Usa, per fare qualunque cosa sia necessaria per tamponare un cambio climatico incombente, un cataclisma del riscaldamento globale. È in gioco il nostro stile di vita». In base a queste linee, dice ancora Hunziker, «la scienza che studia il clima è inspiegabilmente simile al rilevamento degli asteroidi vicini alla Terra», che nel corso dei millenni si sono occasionalmente scontrati col nostro pianeta, «annientando ad esempio i poveri e indifesi dinosauri». Se un asteroide vicino alla Terra è «progettato per urtare», forse «un certo tipo di dispiegamento può prevenire il grande schianto dall’annientamento della vita sul pianeta». E quindi: «Quale dispiegamento ferma le lastre di ghiaccio dal collasso?».Sta per collassare l’Antartide, e i ghiacci che si credevano “perenni” stanno fondendo alla velocità della luce: lo rivela uno studio che «dovrebbe spaventare a morte chiunque dubiti della solennità e della potenza dietro l’accelerazione del riscaldamento globale», avverte Robert Hunziker su “Counterpunch”, che presenta una ricerca «sconvolgente, dagli sviluppi raccapriccianti». Ovvero: «Se si sciogliesse integralmente l’intera Antartide, provocherebbe un innalzamento del livello del mare di circa 60 metri». Non faremo in tempo a vederlo, nella nostra vita («è troppo grande e richiederebbe decisamente troppo riscaldamento e davvero troppo tempo»), ma – intanto – un collasso della sola Antartide Occidentale, quella finita sotto i riflettori, «ha il potenziale, secondo la nuova ricerca, per sommergere Miami e New York durante le nostre vite attuali». Attenzione: «È la prima volta, questa, in cui delle osservazioni scientifiche giungono ufficialmente alla conclusione che una catastrofe così orrenda sia possibile, così presto». Miami Beach è già costretta a sollevare le strade di mezzo metro a causa delle persistenti inondazioni. «Un mare in crescita è la vendetta del riscaldamento globale per le sconsiderate, arroganti, presuntuosamente eccessive emissioni di CO2 di combustibile fossile, causate dall’uomo».
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Sorvegliati via smartphone: Singapore, governa Big Data
«Il nostro smartphone ci rende trasparenti e molto vulnerabili: certamente sarebbe meno pericoloso girare completamente nudi in un parco», anche perché il microfono «funziona anche quando la nostra conversazione è terminata (penso a Siri per l’iPhone)». Sicché, «ogni nostra parola, i suoni intorno a noi, i nostri movimenti, sono registrati». Un sistema di controllo perfetto. Perché allora non farne anche un sistema di governo? E’ esattamente la scelta di Singapore, che «sta progettando un nuovo modello d’ingegneria sociale che potrebbe presto essere applicato altrove, in particolare nelle grandi metropoli come Parigi», scrive il sociologo belga-canadese Derrick de Kerckhove, direttore scientifico della rivista italiana “Media2000” e dell’Osservatorio TuttiMedia all’Internet Forum di Pechino, dopo aver guidato il McLuhan Program di Toronto fino al 2008. Ora siamo alla “datacrazia” definitiva, il “potere dei dati”: i leader li crea direttamente un algoritmo, i cittadini si adeguano ai comportamenti sociali imposti dalla tecnologia, di cui il governo si serve per mantenere il controllo. Una “tirannia morbida”, verso il “governo delle macchine”.L’analisi di Derrick de Kerckhove, presentata su “Avvenire”, parte dall’esempio di una città-Stato, Singapore, dove il modello di gestione è fondato sulla tecno-etica. «Ho definito quest’organizzazione “datacracy”, perché è una civiltà che si fonda sui dati e apparentemente permette di vivere in un luogo ideale senza rapine né furti». Tutto è regolato secondo un nuovo ordine che parte dalla raccolta e dall’analisi dei dati. «Il protagonista di questo nuovo modello è lo smartphone, perché ci identifica molto più del nostro passaporto, della nostra carta di credito o del nostro certificato di nascita». Il telefono palmare, infatti, «contiene tutto ciò che riguarda ciascuno di noi ed è sempre pronto a condividere contenuti con chiunque abbia le giuste capacità tecniche, anche se non possiede requisiti giuridici o diritti legali». Di noi, lo smarthone registra tutto, cosa che «ormai è di dominio pubblico». Follia? No, è solo l’ultimo gradino della scala che stiamo scendendo, da anni: «Dall’arrivo di Internet – scrive il sociologo – abbiamo iniziato a perdere privacy e anche il controllo delle nostre idee, scritte o discusse. E presto, forse, perderemo anche l’esclusiva sui nostri pensieri».Le tracce che ciascuno di noi lascia, continua de Kerckhove, sono raccolte da banche dati e poi riutilizzati per tanti scopi. Scandaloso? Ma anche ineluttabile: «Quello che sta accadendo dopo l’adozione globale di Internet è una graduale diminuzione delle libertà civili e delle garanzie che associamo con l’idea di democrazia occidentale», ammette lo studioso. «La privacy svanisce più velocemente nelle società dove le garanzie per l’individuo sono meno sacre o addirittura inesistenti; ne è prova l’evoluzione di Singapore, dove Lee Hsien Loong, figlio di Lee Kuan Yew, continuando l’opera del genitore ha abilmente usato la tecnologia per mettere sotto sorveglianza permanente i suoi cittadini». E guarda caso, «Singapore è la città-Stato con il più alto tasso di penetrazione al mondo di smartphone». Fino a che punto il fine può giustificare i mezzi? «Singapore si pone come Stato precursore del controllo urbano attraverso la sorveglianza fondata su Big Data e smartphone». Un modello di vita basato sulla tecno-etica: «I cittadini di Singapore, come la maggior parte di noi, trascorrono molta della loro vita attiva di fronte a uno schermo, lasciano tracce: sono geolocalizzati, si sa cosa scrivono e dicono. Le istituzioni di Singapore hanno deciso senza pudore di fare pieno uso di tali informazioni al fine di garantire ordine sociale e comportamenti corretti. Nessuno sporca la città, nessuno trasgredisce la legge».Nella metropoli asiatica, rilva il sociologo, la tendenza alla sorveglianza occhiuta si manifesta tra il 1965 e il 1990, quando Lee Kuan Yew (premier e padre dell’attuale capo di governo), istituisce regole draconiane per ripulire la città e per gestire le tensioni tra i quattro gruppi etnici che popolano Singapore. Tante le imposizioni: vietato masticare chewingum fuori casa, sputare per terra; non azionare lo scarico nei bagni pubblici. Bacchettate sulle mani per gli autori di graffiti, fustigazione per gli atti vandalici. Idem per l’ambito privato: zero pornografia, illegale il sesso gay (due anni di carcere). E’ illegale persino camminare nudi, in casa, fuori del bagno. Questo regime ha un nome, si chiama “democratura”. E oggi sta diventando anche “datacracy” o “governo di algoritmi”. «L’imposizione di una trasparenza completa permette di sapere il più possibile su tutto e tutti». Salito al potere nel 2004, Lee Hsien Loong ha imposto nuovi divieti e onnipresenti telecamere di sorveglianza: «Siamo alla ricreazione di Argus, il gigante della mitologia greca che tutto vede con i suoi 100 occhi. L’attuale capo del governo ha sostituito la democratura del padre con la datacrazia: siamo al “governo dell’ algoritmo”. E questo significa che dai dati raccolti e analizzati viene automaticamente il responso e, nel caso, la pena».Nuovi sensori e telecamere poste su tutto il territorio di Singapore raccolgono dati e informazioni per consentire al governo di monitorare ogni azione o evento, controllare pulizia degli spazi pubblici, tassi d’inquinamento, densità di folla e movimento di tutti i veicoli. «La sorveglianza è completa grazie ai dati raccolti da smartphone, social media, sensori e telecamere pubbliche». Il sistema «assicura l’immediato giudizio, il verdetto e l’esecuzione della pena (multe o peggio)». E le persone? «Sembrano soddisfatte della situazione, che assicura pace e ordine, pulizia, e attrae investitori», senza contare «salute e tutto il benessere possibile». A Singapore, scrive Derrick de Kerckhove, «si respira un senso di armonia sociale di cui i cittadini sembrano essere orgogliosi». Tutti d’accordo? No, ovviamente: esiste «una frangia di dissenso», peraltro «già sotto stretta sorveglianza». I critici sostengono che l’uso di Internet non è sicuro e quindi le persone tendono all’auto-censura, preferiscono tenere la bocca chiusa. Anche perché i blogger dissidenti sono perseguitati: Amos Yee, 16 anni, è in carcere dal maggio 2015 per commenti offensivi. Ong e informazione libera sono scoraggiati, la tv è monopolio statale, la stampa è fortemente controllata.«La narrazione politica sulla supposta armonia interculturale impera», sottoinea de Kerckhove, «ma il razzismo continua, soprattutto nelle assunzioni». Intanto, «i simboli del passato vengono soffocati da opere moderne, senza rispetto per la storia della città», che viene «riscritta, nei testi scolastici, per soddisfare la propaganda di Stato». A maggior ragione, «l’accesso agli archivi governativi pubblici è limitata». Secondo il sociologo, «ci avviamo al punto di non ritorno di un cambiamento radicale, paragonabile solo al Rinascimento europeo. Questa volta, però, mondiale». De Kerckhove cita Marshall McLuhan, secondo cui l’elettricità è l’infrastruttura della rivoluzione: «Dispositivi d’informazione elettrici sono gli strumenti per la tirannia e la sorveglianza universale, dal grembo materno alla tomba. Nasce così un grave dilemma tra il nostro diritto alla privacy e la necessità della comunità di sapere. Le idee tradizionali legate ai pensieri e alle azioni private sono minacciate dai modelli di tecnologia meccanica che grazie all’elettricità permette il recupero istantaneo delle informazioni». Fascicoli zeppi di notizie e pettegolezzi che non perdonano: «Non c’è redenzione, nessuna cancellazione di “errori” di gioventù». Alla fine, conclude Derrick de Kerckhove, dovremo «trovare un equilibrio tra le esigenze di vita privata e quelle sociali». Cos’è peggio, la vecchia “democratura” o la nuova, inquietante “datacrazia”, ovvero il «potenziale tirannico di un governo dei Big Data»? E soprattutto: «Abbiamo ancora una scelta, in materia», o si tratta di un destino inesorabile?«Il nostro smartphone ci rende trasparenti e molto vulnerabili: certamente sarebbe meno pericoloso girare completamente nudi in un parco», anche perché il microfono «funziona anche quando la nostra conversazione è terminata (penso a Siri per l’iPhone)». Sicché, «ogni nostra parola, i suoni intorno a noi, i nostri movimenti, sono registrati». Un sistema di controllo perfetto. Perché allora non farne anche un sistema di governo? E’ esattamente la scelta di Singapore, che «sta progettando un nuovo modello d’ingegneria sociale che potrebbe presto essere applicato altrove, in particolare nelle grandi metropoli come Parigi», scrive il sociologo belga-canadese Derrick de Kerckhove, direttore scientifico della rivista italiana “Media2000” e dell’Osservatorio TuttiMedia all’Internet Forum di Pechino, dopo aver guidato il McLuhan Program di Toronto fino al 2008. Ora siamo alla “datacrazia” definitiva, il “potere dei dati”: i leader li crea direttamente un algoritmo, i cittadini si adeguano ai comportamenti sociali imposti dalla tecnologia, di cui il governo si serve per mantenere il controllo. Una “tirannia morbida”, verso il “governo delle macchine”.
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Odio, nemico, guerra: potere cannibale, siamo tutti soldati
1. Empatia. Poniamo che io sia un pastore errante per l’Asia, con il mio picciol gregge. Che salga il pendio di un colle, e affacciato dalla sommità, veda un pastore errante per il Sahel, con pochi dromedariucci. Ciascuno di noi sorriderà all’alterità che così gli si rivela. Empatia. Che è, sì, partecipazione emotiva, è sì affinità, ma non elettiva, non dunque cercata, non voluta, e neppure passivamente accettata. Senza l’empatia, molto si può fare, non però le cose che si sottraggono alla sfera razionale, alla Discorsività. Si può per esempio tradurre un testo in modo che appaia accettabile alla scrittura (intesa come opposta alla letteratura che è al servizio del potere e delle sue norme grammaticali e sintattiche)? Si può eseguire, cioè tradurre in sonorità, uno spartito musicale, in modo che si distacchi e redima dalla discorsività che si esprime nel battito ritmico del piede dell’ascoltatore? Penso che né il testo né lo spartito possano venire degnamente interpretati muovendo dalla convinzione che soprattutto per la traduzione di opere scritte sia necessaria un’attività affine a un esercizio algebrico. A contestare l’empatia, interviene però quella prescrizione imposta dal beato Sigmund da Vienna laddove categorizza: “Wo Es war, soll Ich werden”, cioè al posto dell’Es è necessaria l’instaurazione dell’Io e, va da sé, del super-Io. Ed è la messa in mora della poiesis, la dichiarazione della sudditanza al discorso. Interviene insomma il potere, metaforizzato dal super-Io fallico nelle metastasi del dominio, che sono potere politico, potere religioso e potere di preparare e condurre la guerra.2. Dominio. Perché il dominio, per perdurare in ciascuna delle sue manifestazioni, ha bisogno di nemici che lo giustifichino. E non c’è differenza effettiva tra l’una delle metastasi in questione. Il potere politico si fonda e si replica in quello religioso e in quello bellico. E ciò fin dalla sua invenzione e introduzione nel mondo, risalente a circa quindicimila anni fa. E per la persistenza delle metastasi e dunque del Dominio stesso, è sempre indispensabile una forma o l’altra di mobilitazione. Necessaria per garantire il funzionamento degli stabilimenti industriali e degli uffici, perché occorre persuadere i dipendenti, operai o impiegati dell’opportunità di non opporsi alle rigide norme della produttività. Così, per riaffermare la fede dei credenti occorrono, certo, processioni, encicliche, corali, altre prediche e altre parafernalia, ma in primo luogo quella componente selettivamente mobilitatoria, persuasiva, che è la messa o il suo equivalente, la quale comporta l’inghiottimento del dio fatto particola o pane, di solito con accompagnamento del vino sacramentale riservato al sacerdote.In tutti i casi, la mobilitazione si basa sull’asserto che senza l’obbedienza ai superiori – manager, ministri del culto, gerarchie ecclesiastiche, comandanti militari – i nemici sempre in agguato (concorrenza nazionale e internazionale, crisi finanziarie causate da incompetenza o più spesso da malafede, eccetera) il sistema correrebbe seri pericoli. La funzionalità della mobilitazione si rivela, e anzi salta agli occhi anche di chi, operaio o impiegato, la vive o la subisce, sia pure in maniera meno palese, e anzi spesso senza che gli uni e gli altri si rendano conto della sua astanza. Ben più esplicita è la mobilitazione militare che riguarda tutti, intendo per tutti gli appartenenti alla Patria o alle strutture che parzialmente o totalmente l’hanno effettivamente o presuntamente vicariata. A questo punto, per i reggitori del sistema, padroni, uomini politici, dirigenti militari, si pone il problema, di fondamentalissima incidenza, consistente nel mascherare le esigenze e le pretese della patria o dei suoi equivalenti. Che hanno in comune i denti lunghi che sono un’eredità del cannibalismo degli antichi tempi e dei superstiti selvaggi.La Patria, voglio dire, imperversa, esige, pretende, impone – s ìenza proporre giustificazioni – il supremo sacrificio, considerandolo aprioristicamente un dovere al quale nessun mobilitato può sottrarsi. Con l’avvertenza che la preparazione alla guerra, che è perenne in tutti gli stati, non si traduce necessariamente nel richiamo immediato, urgente, alle armi. Ma è, ripeto e sottolineo, presente a tutti i livelli produttivi, persino alle attività di svago e riposo. Le quali sono appunto attività, dal momento che la consumazione esige la preventiva creazione dei mezzi, finanziari ma anche e soprattutto psicologici, che permettono lo spreco festoso. Quella che diciamo Patria, e quale che ne sia la struttura, è cannibale, pronta all’occorrenza a divorare i suoi figli, insensibile alle angosce e alle paure dei singoli mobilitati. La Patria-cannibale imperversa e a nulla serva implorare dal fondo di una trincea che si astenga dall’impiego e dall’essere il bersaglio di letali proiettili, razzi, gas tossici, assalti e distruttive manovre. La patria va però opportunamente mascherata, le sue pretese vanno attenuate, i suoi denti e le sue unghie limati. Non è bene inteso una giustificazione: è solo un sipario calato di fronte agli attori e spettatori. E lo si cala rendendo accettabile, addirittura affabile l’eventualità della morte che è lo scotto aprioristicamente imposto a chi si sia messo volontariamente o obbligatoriamente al suo servizio.3. La mobilitazione. Che, ripeto, ha luogo a tutti i livelli, compreso quelli scolastici, accademici, di produzione culturale e nell’ambito di tutte le attività economiche e produttive, comporta anche un’altra forma di persuasione, non meno importante, del richiamo del dovere verso la Madre, ed è la denigrazione sistematica del nemico. Occorre infatti che il nemico venga descritto come pericoloso, spietato, implacabile, proditorio, assetato di sangue, ma alla fin fine superabile dalle nostre armi e più ancora dal fegato e dal cuore dei nostri militi. Allo stesso modo il concorrente industriale, l’appartenente a un altro esercito produttivo che in ogni momento possa diventare ostile, sarà anch’esso necessariamente calunniato, fatto prescrittivamente oggetto di sospetto, deprecazione, finanche odio. Solo così la mobilitazione sarà effettiva ed efficace.L’operazione – odio del nemico – implica di necessità che il potenziale o attuale avversario, e in primo il nemico per antonomasia della società, il criminale comune o politico, giudicato, condannato e variamente isolato dal resto dei componenti la società mediante chiusura in carcere, detenzione in un campo di concentramento, esilio o internamento di altro genere, non sia oggetto di simpatie o anche solo di commiserazione. La punizione che gli viene inflitta deve essere pertanto resa nota, sottolineata, giustificata, spesso anzi proclamata. Il nemico interno della società deve essere cioè oggetto di disprezzo, deve essere calunniato, fatto segno di riprovazione e odio, esattamente come il nemico esterno. È quanto si è visto accadere nel caso dei campi di concentramento tedeschi, ma anche nei campi di lavoro, i gulag dei deportati sovietici. Nulla di nascosto: anzi, tutto dichiarato, esposto del ludibrio della parte “sana” delle popolazioni.4. L’Odio. Ma come si suscita ostilità e odio totale nei confronti del nemico esterno e ostilità e disprezzo di quello interno, il criminale comune o politico che sia? Va premesso che l’odio totale o l’odio temperato dal disprezzo, comunque l’ostilità, cresce – e si vuole appunto che accada – su se stessa. Una volta che il dominio sia riuscito ad avviare il meccanismo, di importanza fondamentale per al sua stessa sopravvivenza, chi se ne fa interprete o strumento andrà come alla scoperta di un continente, l’oscura, torbida regione della negatività. Io, l’odiatore, colui che ha fatto propria l’ostilità, divengo il mezzo per cui l’altro si è rivelato, si è attuato come oggetto della mia insopportabilità. Io, l’odiatore, sono l’arnese che serve ad attuare uno scopo specifico. Che è la dichiarata superiorità della mia parte – la patria o la parte sana della società. Scopro l’insopportabilità di ogni gesto, pensiero, azione del nemico dichiarato tale. Non posso – non devo – ignorare la presenza del nero accanto a me; buon cittadino di uno stato razzista, dovrò nutrire paura nei confronti dello zingaro; e, apertamente o meno, debitamente, desiderare di fargli del male, di perseguitarlo, di appenderlo a un ramo.E sono atteggiamenti emozionali in cui si riassume il desiderio di distruggere, o almeno di mettere in condizione di non nuocere, tutti i simili a lui, il nero o lo zingaro, cioè tutti quelli che stanno al di là, oltre la barricata: nei confronti dei quali, chiunque vi si trovi o corra il rischio di collocarvisi, l’odio dev’essere sempre pronto a scattare. E nell’odio, l’odiatore simboleggerà la volontà di affermare il proprio assoluto valore, la propria indiscutibile superiorità. L’odiatore sa che gli è propria una indiscutibile superiorità. L’odiatore sa che gli altri, oggetto prima del suo disprezzo (dal momento che la scuola dell’odio procede per crescenti fasi: disprezzo determinato dal fatto di detestare, via via, una, poi molte delle sue qualità) saranno al termine il bersaglio della negativa globalità dell’ostilità e dell’odio.5. Inutilità dell’Odio. Ma anche inutilità dell’odio. Per il fatto stesso di esistere, l’altro, l’odiato, costituisce un pericolo e una minaccia, ma l’odio non può sopprimere il fatto primordiale dell’esistenza altrui. L’odio è così minato da se stesso: non può impedire all’altro di rivelarsi quale presenza indispensabile. Qualcosa dell’altro mi sfugge sempre, o lo distruggo, e porto a compimento l’odio, ma in pari tempo nullifico l’odio (l’altro è esistito, l’altro fu una presenza: dell’altro aleggia il ricordo, i suoi occhi, il suo sguardo, la certezza che per questo spiraglio di luce che qualcosa mi è sfuggito) oppure gli do modo di crearsi una zona sua, non più grande di un’unghia ma imprendibile: l’odiato mi odia a sua volta, è me stesso in carne d’altri; e, a questa stregua, il mio odio non tocca il culmine, è un meccanismo che gira a vuoto. Con l’odio, la mia sconfitta è certa.Infatti, se odio faccio un ricorso come ultima istanza… che cosa mi resterebbe, che cosa ho concluso, una volta salito su un monte di cadaveri? La guerra – ogni guerra – finisce; poniamo che io, qualunque sia la nazione di mia appartenenza, abbia vinto, che guardiano di un campo di concentramento e di sterminio, abbia celebrato quella che allora è diventata la mia vittoria: ecco che mi ritrovo davanti a una folla di schiavi, che non ho più né scopo né ragione di odiare, dal momento che hanno cessato di costituire un pericolo. Ma riconquistare la propria integrità – ed è ciò che avviene al termine di ogni guerra, per quanto catastrofica sia stata – sarà tanto più difficile quanto più è avanzato il processo di decomposizione, di semplificazione, di riduzione: insomma, quanto più vasta è stata l’abiura alla mia umanità.6. Guerra. L’altra faccia della medaglia: guerra. Il problema, si è visto, è rappresentato dalle modalità usate per rendere il soldato invulnerabile alla pietà. Che il soldato possa diventare da semplice cittadino un carnefice, colui cioè che è incaricato di distruggere carne umana, è dimostrato dai campi di concentramento della Germania nazista durante la seconda guerra mondiale. I guardiani dei detenuti erano perlopiù SS che dopo aver combattuto su vari fronti, erano stati ritirati dal servizio attivo perché feriti o perché troppo usurati per venire impiegati in prima linea. Assurto alla figura di eroe, di collerico semidio incaricato di combattere e all’occorrenza eliminare, i nemici della “patria” e del sistema politico dominante: trasfigurato come tutti i guerrieri in incarnazione della violenza, dell’aldilà incontrollabile, l’SS ne reca addosso la maschera e il paludamento.Il soldato ridotto a stizzoso guardiano è anch’egli un masochista, anzi un sadomasochista. In quanto masochista, pronto a pagare uno scotto prima di commettere l’azione che sa o sospetta riprovevole. In quanto sadico, non è esattamente il beccaio: è un carnefice che deve riuscire a rendere masochista la vittima. Il suo proposito sarà dunque quello di escogitare tormenti tali da tappare la bocca del martire le cui lamentele lo irritano e incattiviscono. E martire e carnefice si vedranno così impegnati in un duello che non potrà, a un certo punto, non assumere l’apparenza della lealtà, dello scontro aperto, dichiaratamente senza esclusione di colpi. Col carnefice che dovrà, almeno con se stesso, ammettere la propria sconfitta, quando la vittima non si sia trasformata in oscurità rantolante, in annebbiamento e abiura, ma anche qualora il rantolo sia diventato irreversibilmente agonico.Supremo ideale del sadico: riuscire a trasformare l’altro in carne senza che costui cessi di essere strumento. Gli basta, per convincerlo di avere toccato la propria meta, l’implorazione della vittima? No, poiché anche nelle grida di terrore può celarsi la soperchieria. E l’atteggiamento del sadico, in questo caso soldato – carnefice, è dettato da volontà di potenza. Definizione che è una mera tautologia: resta da spiegare, infatti, il perché del gusto di dominare gli altri. E se il sadico questo impulso lo prova, è perché vede in esso la possibilità di avere la rivelazione dell’altro, – e di sé per riflesso – attraverso l’oppressione. Ma l’accettazione a cui l’altro si obbliga deve essere senza residui; e non basta neppure che la vittima rinneghi e abiuri, che strisci e urli. Occorre che quegli urli siano per così dire assoluti. In un certo senso, frutto di una libera scelta, e che tuttavia codesta scelta non lasci residui, ombre, ambiguità. La vittima dovrà interamente trasferirsi in quest’esito, senza avere più un secondo fine, soprattutto quello di convincere il sadico-carnefice di avere già pagato abbastanza e pertanto di persuaderlo a rinunciare alla continuazione della tortura. E allora?La tortura cessa: o la vittima è un freddo cadavere, o è tornata coscienza, astuzia, gioco, inganno. Il sadico-carnefice si sente defraudato nell’uno come nell’altro caso. Deve pertanto impedire che venga superata una linea di confine non oggettivamente determinabile, una soglia solo probabilisticamente fissabile. La sua è quindi la condanna alla tortura perenne: in ogni istante dovrà essere circondato almeno dagli emblemi del suo potere, e come un Dracula banchettare tra i cadaveri, o come i quattro signori delle Centoventi giornate di Sodoma, prescriversi un rigido rituale, un crescendo dell’orrore. Il sadismo diviene pertanto consumazione e autofagia: il sadismo perciò stesso si rifà al suo contrario, gli estremi finiscono per toccarsi. Il sadico può scoprire la possibilità che venga applicata a lui stesso l’impresa tentata a spese degli altri. Può allora accadere che il masochismo prevalga. Che il combattente veda, nel suo avversario, il nemico che dovrebbe odiare senza remissione, ed è ormai vano farlo; che scopra, nell’uomo dell’opposta trincea, il suo simile. Può accadere dunque che si verifichi un istante di empatia, quasi un ritorno a un’origine mai dimenticata, perché indimenticabile, un vuoto di memoria che può all’improvviso colmarsi. È accaduto tante volte, durante le stragi della prima e della seconda guerra mondiale.Può accadere, in qualunque guerra, che questa divenga ritualistica – che a prevalere sia la stanchezza e che ne derivi compassione per il nemico, e che dia luogo alla rassegnazione (di chi, sepolto nel rifugio, sperimenti, cieco, l’ossessione dei bombardamenti) e alla stanchezza dei disertori e addirittura degli ammutinati. Gli eserciti zaristi, nel 1917, proprio per questo si sono disfatti. È come se la vittima, anziché semplicemente soccombere – e pur restando condannata – sia entrata nel seno della sacralità. Che divenga intoccabile, ancorché si continui a toccarla, a disfarla. Si constata allora che il gioco dell’angoscia sia sempre lo stesso, angoscia fino alla morte, al sudore di sangue. E al di là della morte e della rovina, il superamento dell’angoscia, quello che ha popolato la terra di eroi e taumaturghi, di figli del sole e nati da vergini minacciati e invincibili come il sogno dell’uomo. Viene allora fatto di chiedersi: può allora l’uomo rinunciare ai sacrifici, concreti o simbolici? Può fare a meno di vittime a carnefici? Ed è legittimo il dubbio che anche tra i nostri progenitori paleolitici – e tra gli ultimi selvaggi – superstiti della civiltà – si desse e si dia la nostra stessa, attualissima suddivisione tra sofferenti e apportatori di sofferenza? In altre parole: l’uomo poteva allora, e può ancora, rinunciare all’angoscia? O l’angoscia è costitutiva dell’umanità?7. Beltran de Born. Dante lo incontra nel suo XXVIII dell’Inferno, ai versi 118 – 149. Nona Bolgia riservata ai seminatori di scandalo e scisma, e dunque «mali consiglieri». Dove i dannati girano perennemente tutt’attorno e vengono feriti di spada dal Diavolo. Le loro ferite si rimarginano prima che gli ripassino davanti. «Io vidi certo… / un busto senza capo andar…// e il capo tronco tenea per le chiome, / presol con mano a guisa di lanterna…». È Bertram de Born (per Dante, dal Bormio) trovatore (ca.1140-1215) signore del Castello di Hautefort tra il Périgord e il Limosino, coinvolto – si dice – in dispute feudali tra Francia e Inghilterra e suscitatore, forse, di discordia tra Enrico di Inghilterra e il padre, re Enrico II. Gli si devono una trentina di sirventesi in cui celebra le virtù cavalleresche, esalta la guerra come unica fonte di gloria, la morte in battaglia come liberazione dalle miserie terrene. La più celebre di tali composizioni è stata tradotta in toscano nel XV da un poeta di cui mi sfugge il nome. Dopo aver celebrato la primavera, la bella fioritura, i dolci canti degli uccelli, Bertram cambia di colpo registro: “Ma più mi piace veder per li prati alzar le tende e stendardi piantare. / E per i campi cavalieri andare. Tutti in ischieri su cavalli armati. / E piacemi se vedo scorridori, molti ed armati a tumulto venienti. / E piacemi se vedo inseguitori. Che fan fuggire con loro robe el genti. / Et ho allegrezza assai grande mirando. Forti castelli assaltati e crollare muri abbattuti / E le schiere ristare presso le fosse steccati innalzando”.Mi si farà notare che la guerra può eccitare con l’allucinazione del potere che conferisce, con la speranza di premi e ricompense, con la liceità di “perversioni” giudicate ammissibili e anzi consigliabili; e tuttavia potrebbe in ultima analisi esercitare un fascino solo per chi attribuisce scarso e nullo significato alla propria esistenza, e dunque per quelli che ci si ostina a chiamare «dannati della terra,» o a giovani incapaci di trovare una nobile ragione per vivere. Ma mi si farà anche notare che la guerra, ogni guerra, rappresenta la prosecuzione di un clima di festa, di messa in mora delle norme consuete. Di sospensione della separazione tra realtà e sogno, tra quotidianità e avventura. Né si mancherà di ricordarmi che la guerra è necrofila, in quanto esige dal combattente familiarità con la morte propria e altrui. Un fascino oscuro, quello esercitato dalla guerra: ma sono tutte considerazioni di accento negativo, laddove la celebrazione di Bertran de Born è una affermazione di vitalità spinta ai limiti.Gli è che la guerra ha una sua intrinseca bellezza, e lo comprovano i molti, celeberrimi dipinti di ogni secolo – a partire, facile notarlo, dal Neolitico, e più avanti dirò perché – i quali illustrano fatti d’armi, si tratti delle Termopili, della carica della cavalleria scozzese alla battaglia di Waterloo, o dell’enorme numero di film che continuano ad esaltarne l’importanza, la torbida bellezza, insomma l’incidenza enorme che le guerre, e soprattutto certe battaglie conclusive, hanno avuto e hanno sulle vicende sociali. Persino sulla delimitazione dei periodi che usiamo chiamare storici. L’Inghilterra è nata dalla conquista normanna del 1166. Cos’è dunque la guerra? Risposta di Karl von Clausewitz: «Limitiamoci alla sua essenza, il duello». Dove il grande teorico della guerra rischia la confusione tra violenza e guerra, come se fossero un’unica cosa. L’errore di Clausewitz è consistito nell’aver equiparato la guerra a un atto, o una serie di atti, istintuali. Quasi si trattasse di un litigio da osteria che finisca a coltellate.Ma la guerra non è l’istintuale. Non si guerreggia obbedendo a impulsi prerazionali. No, perché le guerra sono proprie, ed esclusivamente, di società gerarchiche, strutturate in piramidi formate da un vertice autorevole e da una successione di sudditi convinti all’obbedienza. Senza questa struttura, eminentemente razionale, e di ascendenza neolitica (e come tale furto dello stanziamento, della produzione agricola, dell’allevamento del bestiame, dell’invenzione della divinità, del dominio nella sua triplice articolazione, dell’invenzione della macchina, della proprietà privata – in una parola dell’epoca, appunto il Neolitico, di cui siamo gli eredi, e anzi i continuatori). Clausewitz, celebre autore del suo celeberrimo “Della guerra”, 1832-34, si è reso conto del suo errore. Dicendo che per il militare non esiste «la pace»: esiste solo la non-guerra, la tregua armata. E alludendo dunque alla perennità della mobilitazione continua a tutti i livelli della società e di conseguenza alla condanna del militarismo inteso quale politica che abbia a propria finalità e conclusione la guerra. Della politica, infatti, la guerra è, al più, la forma suprema, il culmine. E soltanto una politica stupida (e ne abbiamo avuto nel secolo scorso esempi clamorosi, Vietnam, Iraq, Afganistan…) si tramuta senz’altro in guerra, al di là di ogni considerazione di carattere razionale e utilitaristico.8. Meccanismo della Persuasione. Sì, perché esiste una tecnoscienza, ripetuta di generazione in generazione, della mobilitazione. Ed è quella che da altri, in particolare Clyde Miller, è stata chiamata Meccanismo della Persuasione. Né è certo una novità l’intervento di «persuasori occulti,» cioè di appelli all’irrazionale nella vita delle nazione: irrazionale camuffato, sia chiaro, da richiami ai principi di realtà. Elaborata da secoli a scopi mobilitatori, la propaganda politica nella fase attuale dello sviluppo civile ha investito la società in maniera un tempo sconosciuta. Le forme di propaganda rispecchiano i fondamenti economici della società che la usa, nonché gli intenti della sua classe dirigente; e, per ciò che riguarda le società odierne – tutte borghesi seppure con varie connotazioni, che siano o meno sottoposte al controllo di un partito unico – il modulo, l’insieme di tecniche impiegate allo scopo, è sempre lo stesso, che si tratti di agire nell’ambito della caserma o del supermercato, quale che sia la merce da indurre ad apprezzare, ad accettare, ad acquistare, formaggi o ideologie.Perché i problemi della persuasione si riducono a uno solo: sviluppare certi riflessi condizionati mediante ricorso a parole-chiave. A simboli-chiave, ad azioni-chiave. Il consumatore-mobilitando, il compratore-soldato, viene “precondizionato”, gli si stampa nel cervello l’elogio del prodotto in modo da escludere dubbi sulla sua assolutezza. Si tratta di agire programmaticamente su tutti i livelli dell’opinione, soprattutto a quelli consci o preconsci, (pregiudizi, terrori, credenze ancestrali, impulsi emotivi), applicando nei confronti del milite come del consumatore i ritrovati della ricerca motivazionale, dell’analisi delle motivazioni. Il prodotto – e l’ideologia – dovrà esercitare una suggestione sui sentimenti annidati nella psiche. Ma non si tratta di prassi inedite, inaspettatamente iniettate nelle vene della società borghese, anche se hanno assunto, soprattutto a partire dalla fine della seconda guerra mondiale e della guerra fredda, un’estensione rilevantissima in concomitanza con l’espansione del mercato. E la cura costante per le esigenze psicologiche degli eserciti (fino a tempi recentissimi quelli di massa, oggi in apparenza composti da volontari salariati) ha avuto uno sviluppo parallelo a quello dell’economia di mercato. Il cliente, milite o compratore, dovrà innamorarsi del prodotto, a esso legarsi mediante una fedeltà irrazionale.Per quanto riguarda il compratore, il prodotto apparirà ( anche se in effetti contenga veleni), casalingo, puro, cortese, pulito, onesto, paziente. Nel caso dell’acquirente del prodotto patria, dovrà apparire virile, forte, potente, autoritario. Sempre il prodotto dovrà avere una personalità, la stessa della patria o dei suoi equivalenti. Si offrirà così al mobilitando un’illusione di razionalità, un pretesto con il quale nascondere a se stesso l’irrazionalità su cui si fa leva. L’estetica dell’arma, da lustrare e curare, l’arma che prolunga la personalità del combattente, kalascnicov o elicottero che sia, fa il paio con l’idea dell’automobile come mezzo di espressione dell’“aggressività” di chi la acquista. Importantissime, ai fini della mobilitazione, le parate militari, che altro non sono se non l’esposizione di certi prodotti sapientemente architettati, accuratamente designed, carri armati dall’aria cattiva, di fosco colore, dalle minacciose torrette, mostri scientifici e metafisici insieme; e velivoli senza pilota, invisibili, irrintracciabili in cielo, di invincibile pericolosità; caccia-bombardieri nei quali la funzionalità si sposi alla misteriosità, all’incomprensibilità per il profano, e la cui efficienza sia già rivelata dal fracasso che producono volando o decollando e dalle enigmatiche scie di condensazione. Se al consumatore del supermercato piace vedere una grande abbondanza di merci che lo sazia letteralmente e preventivamente, al milite piace la sensazione di essere in tanti che partono in missione, e la constatazione di disporre di tante armi, presuntamente efficientissime, che si aggiungono all’euforia tipica delle manifestazione di massa, soprattutto quelle patriottiche-militaristiche.9. Il Militarismo. Il Militarismo è l’esplicita o sottilmente insinuata finalizzazione della politica alla guerra proclamata come necessaria. E tale è stata dichiarata, a sua giustificazione, la guerra del Vietnam, come quelle successive. Noi viviamo così in società della paura (qualcuno può sempre e comunque sganciare la BOMBA). Ma l’oscuro fascino della guerra è lungi dall’essersi spento e anche solo eclissato, e sussiste pur sempre la possibilità di sottrarsi collettivamente al logos inteso come super-Io, e di abbandonarsi lontano dalla città con le sue forclusioni, a una sorta di stravolta empatia (o controempatia) con la rivelazione però, non dell’Alterità, bensì della Morte. L’ostilità è così calata dal cielo a funestare la terra – ogni lembo di terra abitato dalla civiltà, che è per definizione bianca, occidentale. Né chiamatela follia. Poiché quella che si usa definire follia – oppure psicosi o altri presunti equivalenti – è innanzi tutto condizione della poiesis.Ed è hybris, è dissoluzione del soggetto, rifiuto dell’obbligatoria felicità, contestazione della volgarità sotto forma del rappresentabile e rappresentato – pittura, teatro, danza, o dalla rappresentabilità della Logica del Tempo, della Logica dell’Inconscio, in nome dell’eccesso, dell’estremismo, dell’ekstasis, parola greca che può indicare l’uscita dai ceppi della ratio come assoluta egemone, ma dalla quale deriva, guarda caso essere, non esser-ci: voglio dire l’inattingibile Carne, mai matrugiata dalla carne, forse intravista – budella squarciate, sublime dolore, dal samurai che pratica il seppuku, – e forse per un istante raggiunga il fondo supremo della rivelazione, il simbolo palpabile dell’aldilà, della sua presenza in noi. Cosa non data al soldato, e tanto meno al cosiddetto eroe. E mai al soldato. Soldato che inesorabilmente scopre la sua propria miseria.(Francesco Saba Sardi, “Istituzione dell’ostilità”, dalla pagina Facebook di Giovanni Francesco Carpeoro, 14 aprile 2016. Scrittore, saggista e traduttore, eminente intellettuale italiano, ha tradotto i maggiori scrittori mondiali dell’800 e del ‘900, nel 1958 ha firmato “Il Natale ha 5000 anni” e, in un altro saggio, “Dominio”, edito nel 2004, ha tracciato una lucida analisi della natura autoritaria del potere che ha guidato la civilizzazione terrestre, dall’avvento del neolitico ai giorni nostri).1. Empatia. Poniamo che io sia un pastore errante per l’Asia, con il mio picciol gregge. Che salga il pendio di un colle, e affacciato dalla sommità, veda un pastore errante per il Sahel, con pochi dromedariucci. Ciascuno di noi sorriderà all’alterità che così gli si rivela. Empatia. Che è, sì, partecipazione emotiva, è sì affinità, ma non elettiva, non dunque cercata, non voluta, e neppure passivamente accettata. Senza l’empatia, molto si può fare, non però le cose che si sottraggono alla sfera razionale, alla Discorsività. Si può per esempio tradurre un testo in modo che appaia accettabile alla scrittura (intesa come opposta alla letteratura che è al servizio del potere e delle sue norme grammaticali e sintattiche)? Si può eseguire, cioè tradurre in sonorità, uno spartito musicale, in modo che si distacchi e redima dalla discorsività che si esprime nel battito ritmico del piede dell’ascoltatore? Penso che né il testo né lo spartito possano venire degnamente interpretati muovendo dalla convinzione che soprattutto per la traduzione di opere scritte sia necessaria un’attività affine a un esercizio algebrico.