Archivio del Tag ‘Yitzhak Rabin’
-
La sfida dell’eresia, dai Catari al mondo del pensiero unico
“Airesis”: scelta, contraria al dogma. A cosa servono, gli eretici? Spesso, a far fare passi da gigante, al mondo. La nonviolenza di Gandhi di fronte alla brutalità coloniale inglese. L’eroica tenacia di Nelson Mandela, ai lavori forzati per aver denunciato il delirio sociale di un paese africano per soli bianchi. Può vincere, l’eresia? Forse alla distanza, aprendo una crepa innanzitutto culturale, per poi scavare nella coscienza di ciascuno. Sul piano politico, invece, generalmente gli eretici vengono sconfitti, e il più delle volte ci rimettono la pelle. Martin Luther King sognava un’America fraterna, senza più discriminazioni razziali. Yitzhak Rabin osò immaginare un Medio Oriente libero dall’odio e dall’orrore. Sacco e Vanzetti? Fritti sulla sedia elettrica per aver lottato contro un sistema ingiusto. Thomas Sankara voleva un’Africa nuova, sollevata dal giogo finanziario del debito occidentale. Sono caduti tutti, ma oggi siedono in un pantheon intoccabile: in un certo senso, sono ancora qui. Non è possibile cancellare l’immagine del giovane Cassius Clay che getta nel fiume Hudson la medaglia olimpica conquistata a Roma, dopo esser stato respinto – perché “negro” – da un ristorante di New York. Il dissidente compie sempre qualche gesto simbolico, che costringe l’umanità a pensare. A ragione o a torto, l’eretico rischia in prima persona. Si ribella a un dogma imposto, cioè al non-pensiero di un mondo senza libertà.In questa Italia frastornata da una campagna elettorale stanca e mediocre, condizionata dal dogmatismo neoliberista del pensiero unico imposto da Bruxelles, serpeggia la tentazione di una sorta di diserzione di massa, mentre cresce – silenziosamente – una minoranza sempre meno sparuta di cittadini che si fanno domande, si documentano in proprio e si riuniscono, consultando esperti, nel fondato sospetto che qualsiasi versione ufficiale – dai vaccini alla geopolitica fino alla storiografia, passando per l’esegesi biblica dottrinaria – sia sempre inattendibile, incompleta, reticente. E’ un panorama, questo, nel quale fioriscono iniziative impensabili, fino a dieci anni fa: come la lusinghiera campagna di crowdfunding per finanziare, dal basso, il documentario “Bogre”, girato da Fredo Valla tra Bulgaria, Italia, Catalogna e soprattutto Occitania. Un viaggio affascinante, che ripercorre le remote geografie della più importante eresia del medioevo, cioè il Cristianesimo “dualistico” interpretato dai bogomili nei Balcani e poi dai càtari, i “bulgari” travolti dalla Crociata Albigese nella contea di Tolosa, per poi essere annientati da settant’anni di spietate persecuzioni ad opera dell’Inquisizione. Una tragedia che causò la rovina socio-economica della terra dei Trovatori, che alla fine del 1100 era tra le regioni europee più prospere e avanzate, più libere e tolleranti.Fu un trauma, per lo sviluppo armonico dell’Europa: lo sostiene una scrittrice a sua volta “eretica” come Simone Weil, secondo cui proprio la brutale repressione dell’eresia càtara – gli assedi e le stragi, il terrore scatenato dagli inquisitori – alimentò nel continente la generale rassegnazione al culto della forza, alla guerra come esito inevitabile di qualsiasi conflitto, fino al supremo orrore dell’abominio nazista. Chi è l’eretico? E’ uno che si alza in piedi e dice, semplicemente: non sono d’accordo. E spiega il perché. Chi lo ascolta, sa che sta rischiando il carcere, magari la vita. Il coraggio dell’eretico ricorda a tutti, inevitabilmente, che le versioni dei fatti sono sempre almeno due, mai una sola. Se invece l’ideologia è unica, per di più non proposta pacificamente ma imposta in modo dogmatico (cioè con l’esplicito divieto di metterne in discussione i fondamenti) allora l’umanità è in pericolo, si disumanizza, si divide in buoni e cattivi. Sotto il governo di Raimondo VI, conte di Tolosa, sul finire del 1100 poteva capitare di assistere, nelle chiese, ad avvincenti dispute teologiche tra parroci cattolici e predicatori càtari, di fronte alla platea dei fedeli: oggi, nel 2018, è praticamente impossibile che alla televisione abbia accesso qualche vero “eretico”, radicalmente critico nei confronti del sistema socio-economico che ci viene presentato come l’unico possibile.Quella del Catarismo è una storia spesso denegata, che le burocrazie religiose tendono a sminuire, come fosse un fantasma scomodo. Lo è: ma per il potere in generale e non solo per la Roma di allora, se è vero che l’Inquisizione inaugurò la prima vera forma di terrorismo totalitario, ostacolato – per reazione – dalla rivolta armata dei cavalieri “Faidits”, i primi guerriglieri della storia europea. Uno schema che poi non ha fatto che ripetersi, in modo tragicamente sistematico. Vaticano medievale e càtari? Ruoli e maschere di quasi mille anni fa. Più che la casacca indossata, in fondo può contare un gesto destinato a rimanere vivo: come l’immensa pietà per gli sconfitti, che risuona tra i versi cavallereschi della Canzone della Crociata, scritti da cattolici. E l’ultimo “perfetto” càtaro d’Occitania, Guilhelm Belibàsta, a un passo dalla morte sul rogo arrivò a perdonare (e a tentare di convertire) l’uomo che l’aveva tradito, consegnandolo ai carnefici. E questa l’umanità che il film “Bogre” cercherà di riesumare, dopo otto secoli di oblio, tra le pieghe di vicende solo in apparenza lontane da noi. L’eresia è una domanda, che costringe a interrogarsi. E’ il contrario dell’odio, che teme le domande e ama le guerre, vietando ai soldati di pensare. Rileggere l’avventura dei càtari può servire a scoprire di cos’è stata capace, l’umanità, prima di arrendersi al comodo letargo delle verità imposte.(E’ possibile aderire alla campagna di crowdfunding del documentario “Bogre” attraverso la piattaforma “Produzioni dal basso”; in cambio, si potrà ricevere il film in anteprima).“Airesis”: scelta, contraria al dogma. A cosa servono, gli eretici? Spesso, a far fare passi da gigante, al mondo. La nonviolenza di Gandhi di fronte alla brutalità coloniale inglese. L’eroica tenacia di Nelson Mandela, ai lavori forzati per aver denunciato il delirio sociale di un paese africano per soli bianchi. Può vincere, l’eresia? Forse alla distanza, aprendo una crepa innanzitutto culturale, per poi scavare nella coscienza di ciascuno. Sul piano politico, invece, generalmente gli eretici vengono sconfitti, e il più delle volte ci rimettono la pelle. Martin Luther King sognava un’America fraterna, senza più discriminazioni razziali. Yitzhak Rabin osò immaginare un Medio Oriente libero dall’odio e dall’orrore. Sacco e Vanzetti? Fritti sulla sedia elettrica per aver lottato contro un sistema ingiusto. Thomas Sankara voleva un’Africa nuova, sollevata dal giogo finanziario del debito occidentale. Sono caduti tutti, ma oggi siedono in un pantheon intoccabile: in un certo senso, sono ancora qui. Non è possibile cancellare l’immagine del giovane Cassius Clay che getta nel fiume Hudson la medaglia olimpica conquistata a Roma, dopo esser stato respinto – perché “negro” – da un ristorante di New York. Il dissidente compie sempre qualche gesto simbolico, che costringe l’umanità a pensare. A ragione o a torto, l’eretico rischia in prima persona. Si ribella a un dogma imposto, cioè al non-pensiero di un mondo senza libertà.
-
Ma il nemico è comodo, per gli oligarchi del Medio Oriente
Quando la smetteranno, israeliani e palestinesi, di fornire alibi a chi campa da decenni speculando comodamente sul loro drammatico conflitto? Un accordo diretto e spettacolare che puntasse a una pace definitiva, oggi impensabile, spiazzerebbe di colpo tutte le diplomazie, regionali e mondiali, da sempre abituate a dare per scontata l’impossibilità di risolvere una buona volta quello scontro ormai antico, degenerato in cancrena. «Ci provò il massone progressista Yitzhak Rabin, ma sappiamo come finì». Fu assassinato a Tel Aviv il 4 novembre del ‘95 da un ebreo fondamentalista, contrario al processo di pace e spaventato dalla determinazione del primo ministro, un uomo che la pace la voleva davvero. «Gli eroi come Rabin, però, illuminano il percorso di quelli che verrano dopo», dice Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, a colloquio con David Gramiccioli di “Colors Radio” all’indomani della decisione di elevare Gerusalemme al rango di capitale dello Stato ebraico, con il placet della Casa Bianca, nonostante il prevedibile terremoto in corso, fatto di proteste e tensioni. «Deploro la metodologia utilizzata», chiarisce Magaldi: non è con simili alzate d’ingegno che si può trovare una soluzione, tantomeno nell’assenza (catastrofica) di una politica europea in grado di far sedere israeliani e palestinesi allo stesso tavolo.Sarebbe un bel sogno, dice Magaldi, veder sorgere la democrazia sia in Europa che in Medio Oriente: un’Europa «unita e finalmente democratica al posto dell’attuale Europa matrigna», e sull’altra sponda del Mediterraneo una convivenza-modello tra due Stati che si rispettano, Israele e Palestina. Ma se oggi questo sogno resta nel cassetto, aggiunge, è anche per colpa degli europei, dei loro leader inconsistenti: «L’alto commissario per gli affari esteri Ue è Federica Mogherini, scelta perché non avrebbe fatto ombra a nessuno. Ma non è che gli altri brillino per carisma e personalità: l’Ue è inesistente, lo si è visto nella crisi dell’ex Jugoslavia e lo si vede oggi nell’assoluta incapacità di fornire una voce univoca per la soluzione del problema israelo-palestinese». Magaldi si definisce filo-israeliano nella misura in cui resta minaccioso il fronte anti-istraeliano: «Quel piccolo Stato, un fazzoletto di terra, lo considero la maggior garanzia, anche psicologica, per tutti gli ebrei nel mondo: la sua esistenza certifica che non accadrà mai più quello che è accaduto in secoli e millenni, con persecuzioni e vessazioni materiali incise nella carne viva di tanti ebrei».Al tempo stesso, però, Magaldi è favore della costituzione di uno Stato palestinese che possa convivere pacificamente con Israele «e che però sia guidato, a differenza di quanto accaduto sin qui, da autorità governative garanti di un equilibrio democratico, laico e liberale». Ma attenzione: «Spesso gli attori del Medio Oriente non sono quello che sembrano e non pensano davvero di voler fare quello che dicono: c’è una narrazione infedele, spesso da decodificare, fatta di avvertimenti incrociati». Se la bandiera della pace ancora non sventola, fra Tel Aviv e Ramallah, è soprattutto per colpa di classi dirigenti caratterizzate da una visione «bieca e spregiudicata, spesso d’intesa con quelli che appaiono nemici». Troppe volte, insiste Magaldi, «tra settori israeliani e settori apparentemente anti-istraeliani ha pesato una segreta e occulta connivenza nel senso dello sfascio, attraverso progressive provocazioni che poi consentono agli uni e agli altri di perseguire propri interessi inconfessabili». Una politica a doppio fondo, nutrita di sangue (per lo più palestinese) e perfettamente impunita, anche grazie alla vergognosa assenza del vicino più potente, l’Europa.Quando la smetteranno, israeliani e palestinesi, di fornire alibi a chi campa da decenni speculando comodamente sul loro drammatico conflitto? Un accordo diretto e spettacolare che puntasse a una pace definitiva, oggi impensabile, spiazzerebbe di colpo tutte le diplomazie, regionali e mondiali, da sempre abituate a dare per scontata l’impossibilità di risolvere una buona volta quello scontro ormai antico, degenerato in cancrena. «Ci provò il massone progressista Yitzhak Rabin, ma sappiamo come finì». Fu assassinato a Tel Aviv il 4 novembre del ‘95 da un ebreo fondamentalista, contrario al processo di pace e spaventato dalla determinazione del primo ministro, un uomo che la pace la voleva davvero. «Gli eroi come Rabin, però, illuminano il percorso di quelli che verrano dopo», dice Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, a colloquio con David Gramiccioli di “Colors Radio” all’indomani della decisione di elevare Gerusalemme al rango di capitale dello Stato ebraico, con il placet della Casa Bianca, nonostante il prevedibile terremoto in corso, fatto di proteste e tensioni. «Deploro la metodologia utilizzata», chiarisce Magaldi: non è con simili alzate d’ingegno che si può trovare una soluzione, tantomeno nell’assenza (catastrofica) di una politica europea in grado di far sedere israeliani e palestinesi allo stesso tavolo.
-
La Truffa dei Sei Giorni: così Israele eliminò l’Ataturk arabo
La Truffa dei Sei Giorni: «In realtà la guerra-lampo del 1967 durò appena 6 minuti, il tempo che impiegò l’aviazione israeliana per annientare quella egiziana, ancora a terra», senza che un solo aereo del Cairo avesse potuto decollare. E i famosi Sei Giorni? «Servirono solo a occupare e annettere territori non-israeliani, che da allora – con la sola eccezione del Sinai – fanno parte di Israele». Parola dello storico statunitense Norman Filkenstein, intervistato da Aaron Mate per l’emittente “The Real News” nel cinquantesimo anniversario della Guerra dei Sei Giorni, giugno 1967, evento fondante del mito vittimistico dell’autodifesa di Israele, paese “attaccato dagli arabi”. Un falso storico, accusa l’autore del bestseller “Palestine: Peace Not, Apartheid”, tradotto in 50 paesi. Fu Israele a provocare il conflitto, afferma Filkenstein: abbattè deliberatamente alcuni aerei siriani, ben sapendo che l’Egitto sarebbe stato costretto a schierarsi con la Siria, cui era legato da un patto di mutua assistenza. Obiettivo segreto di Tel Aviv: conquistare falcilmente territori, sapendo (da Cia e Mossad) che gli arabi non avrebbero potuto resistere. E soprattutto: demolire il leader politico egiziano Nasser, temutissimo come possibile “Ataturk arabo”, capace di guidare lo sviluppo laico del Medio Oriente, superando la storica arretratezza della regione.A partire dal 5 giugno del 1967, ricorda Filkenstein, Israele «ha catturato il Sinai egiziano, le alture del Golan siriano, la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Con l’eccezione del Sinai, Israele controlla ancora tutti questi territori. Di fatto l’occupazione militare israeliana della Cisgiordania e di Gaza è la più lunga dei tempi moderni». La versione ufficiale del mainstream è quella ancora oggi rilanciata dal “New York Times”, che scrive: «Quest’anno segna mezzo secolo dalla guerra arabo-israeliana del 1967, nella quale Israele ha resistito vittoriosamente a una minaccia di annientamento da parte dei suoi vicini arabi». Tutto falso, replica lo storico: «E’ un grosso problema, è ciò che noi chiamiamo “falsificare la storia”». E spiega: sia la Cia che il Mossad – è documentato – sapevano perfettamente che gli eserciti arabi non avrebbero potuto resistere all’attacco di Israele, la cui unica preoccupazione era: come avrebbe reagito il presidente americano Lyndon Jonhson? «Nel 1957, dieci anni prima, gli Usa avevano agito con molta severità. Dwight Eisenhower aveva dato a Israele un ultimatum: uscite dal Sinai, o dovrete affrontare una forte reazione del governo degli Stati Uniti. Nel 1967 gli israeliani avevano paura che si ripetesse la situazione del 1957».Sicché, Tel Aviv mandò emissari a tastare il polso di Washington. Come il generale Meir Amit, capo del Mossad. La risposta degli Usa: nessun indizio che il presidente egiziano Abdel Gamal Nasser stesse per attaccare Israele. Nasser, disse Johnson, sa benissimo che, «se vi attacca, voi israeliani gli darete una batosta». Una valutazione Cia, identica a quella del Mossad. Tel Aviv sapeva perfettamente che non aveva nulla da temere, dall’Egitto. Il segretario alla difesa, Robert McNamara, fu ancora più preciso: disse a Israele che, in caso di guerra, avrebbe vinto in 7 giorni, 10 al massimo. Era vero: la guerra sarebbe terminata «non solo in 6 giorni, ma letteralmente in 6 minuti circa», afferma Filkenstein. «Nel momento in cui Israele ha lanciato il suo attacco-lampo e distrutto la flotta aerea egiziana, che era ancora al suolo, ha tolto tutti gli appoggi aerei alle truppe al suolo. Era finita. L’unica ragione per la quale questa guerra è durata sei giorni, è perché volevano impadronirsi dei territori. Era un’occupazione violenta delle terre». Come sono riusciti a coinvolegere l’Egitto, sapendo che mai Nasser – di sua iniziativa – avrebbe aperto le ostilità? Semplice: attaccando la Siria, alleata dell’Egitto. Fu lo stesso Moshe Dayan ad ammettere che, nell’aprile del 1967, Israele abbattè 6 aerei siriani, uno dei quali nel cielo sopra Damasco.Ammise Dayan, poi uomo-chiave del governo Begin a partire dal 1977: «Vi dirò perché noi avevamo tutti questi conflitti con la Siria. C’era una zona smilitarizzata tracciata dopo la guerra del 1948 tra la Siria e Israele. Almeno l’80% del tempo noi mandavamo dei bulldozer in questa zona smilitarizzata perché Israele era impegnata a occupare territori con la forza». Israele, quindi, cercava di impadronirsi di terre nella zona smilitarizzata. Racconta Filkenstein: «Mandava dei bulldozer, i siriani reagivano, e questo aumentava la tensione. Nel aprile 1967 questo è sfociato in un combattimento aereo tra siriani e israeliani. Dopodiché Israele ha cominciato a minacciare, verbalmente, di lanciare un attacco contro la Siria. La dichiarazione più celebre in quel momento la fece Yitzhak Rabin, ma numerosi responsabili israeliani minacciavano la Siria». Lo storico israeliano Ami Gluska, nel suo libro “L’esercito israeliano e le origini della guerra del 1967”, scrive: «La valutazione sovietica della metà di maggio 1967, che Israele stava per colpire la Siria, era giusta e ben fondata». C’erano voci attendibili, dunque, secondo le quali Israele avrebbe aggredito gli arabi. Gluska «conferma che gli israeliani avevano preso la decisione di attaccare».L’Egitto aveva un patto di difesa con la Siria: sapendo che era imminente un attacco israeliano aveva l’obbligo di andare in aiuto di Damasco. Per questo, Nasser ha schierato – a scopo dissuasivo – delle truppe egiziane nel Sinai, zona allora presidiata da una forza di pace dell’Onu, l’Unef. La United National Emergency Force divideva l’Egitto da Israele. Nasser ha chiesto a U Thant, segretario generale dell’Onu, di ritirarla. In forza della legge, U Thant era obbligato a ritirare quelle truppe. «Ma c’era una risposta molto semplice alla richiesta di Nasser: spostate le truppe dell’Onu sul versante israeliano», ricorda Filkenstein. «Nel 1957, quando era stata schierata l’Unef, si erano accordati per disporla sia sul lato egiziano della frontiera, sia sul lato israeliano. Così, nel 1967, quando Nasser ha detto: “Ritirate l’Unef dalla nostra parte”, tutto quello che Israele doveva dire era: “Bene, noi la riposizioniamo dalla nostra parte della frontiera”, sul versante israeliano. Ma non lo hanno fatto». Ragiona lo storico: «Se l’Unef avrebbe veramente potuto evitare un attacco egiziano, come suggerisce Israele quando dice che U Thant ha commesso un errore monumentale ritirando la forza dell’Onu, perché gli israeliani non l’hanno semplicemente schierata dall’altra parte della frontiera?». Ovvio: perché erano loro a volere la guerra.Altro piccolo casus belli: c’erano degli attacchi di guerriglia contro la frontiera israeliana lanciati dalla Giordania e dalla Siria, descritti nella storia ufficiale come una grande minaccia per la sicurezza di Israele. Si trattava di incursioni di commandos palestinesi, sostenuti principalmente dal regime siriano. «Ma come hanno riconosciuto anche gli ufficiali superiori israeliani – obietta Filkenstein – la ragione per la quale la Siria incoraggiava questi raid di commandos era l’occupazione delle terre nelle zone smilitarizzate da parte di Israele». Inoltre si trattava di «azioni coraggiose ma estremamente inefficaci», peraltro «compiute da persone che erano state private della loro patria nel 1948». In alre parole, quei palestinesi «erano dei rifugiati». Avverte lo storico: «Ricordatevi che era passato poco tempo tra il 1948 e il 1967, meno di una generazione». Ma, appunto, quegli attacchi erano poco più che simbolici. A confermarlo è uno dei capi dello spionaggio israeliano, Yehosafat Harkabi, che dopo il 1967 li ha descritto come «ben poco significativi, secondo tutti i metri di giudizio».L’altro incidente storico importante che viene citato er giustificare la guerra-lampo di Israele è la chiusura, da parte dell’Egitto, dello Stretto di Tiran, all’imbocco del Mar Rosso, strategico per accedere al porto israeliano di Eilat. Passaggio marittimo chiuso effettivamente da Nasser a metà maggio. «Israele adesso respira con un solo polmone», protestò il diplomatico Abba Eban, allora rappresentante israeliano all’Onu, poi ministro degli esteri. Era vero? Non proprio, osserva Filkenstein: intanto, Israele disponeva di riserve di petrolio che garantivano allo Stato ebraico un’autonomia di mesi. «Ma la cosa più importante è che non c’è stato un blocco. Nasser era un fanfarone: ha annunciato il blocco, lo ha applicato per ciò che si stima abitualmente essere due o tre giorni, poi ha cominciato a lasciar passare tranquillamente le navi israeliane. Non c’era blocco, il problema non era un blocco fisico effettivo, il problema era politico. E cioè che Nasser aveva sfidato pubblicamente Israele. La chiusura di un canale navigabile non è un attacco armato. Comunque la si guardi, Israele non aveva alcuna valida ragione».L’Egitto aveva reagito in modo prevedibile – con il blocco (solo simbolico) del Mar Rosso – per “difendere a distanza” la Siria attaccata un mese prima dall’aviazione israeliana, agevolando così la “regia occulta” della guerra, progettata unilateralmente da Tel Aviv, travestitasi da vittima. Domanda Aaron Mate: perché Israele ha preso delle misure così straordinarie per iniziare quella guerra e impadronirsi di così tanti territori? Risponde Norman Finkelstein: perché il vero incubo di Israele era il presidente egiziano Nasser. Un politico arabo laico, indipendente, autorevole. Fin dalla sua fondazione nel 1948, il leader fondatore di Israele, David Ben Gurion, «si è sempre preoccupato che potesse arrivare al potere nel mondo arabo quello che lui chiamava un Ataturk arabo. Cioè qualcuno come il personaggio turco Kemal Ataturk, che ha modernizzato la Turchia, ha introdotto la Turchia nel mondo moderno; Ben Gurion ha sempre avuto paura che una figura come Ataturk potesse emergere nel mondo arabo, e quindi il mondo arabo si sottraesse allo Stato di arretratezza e di dipendenza dall’Occidente e potesse diventare una potenza con la quale bisognava fare i conti nel mondo e nella regione». La paura del regime sionista si impersonificò nel 1952, quando emerse Nasser come leader della rivoluzione attraverso cui l’Egitto si liberò del dominio europeo post-coloniale.Nasser, continua Filkenstein, era una figura emblematica di quell’epoca «molto inebriante», chiamata “decolonizzazione”: «L’epoca del dopoguerra, dei non-allineati, del terzomondismo». Anti-imperialismo e decolonizzazione: leader come Nehru in India, Tito in Jugoslavia. E Nasser. «Non erano ufficialmente compresi nel blocco sovietico. Erano una terza forza. Non allineata». Più incline a rivolgersi al blocco sovietico perché «ufficialmente antimperialista», ma solo a scopo difensivo: nel 1956, quando Nasser aveva sbarrato il Canale di Suez per protestare contro la mancata concessione del maxi-prestito della Banca Mondiale (Usa) per costruire sul Nilo la Diga di Assuan che averebbe dato respiro all’agricoltura egiziana, francesi e inglesi sbarcarono in armi a Port Said minacciando di deporre Nasser. Intervenne direttamente l’Urss, rivolgendo un ultimatum agli eserciti europei, tacitamente avallato dagli Stati Uniti: se le truppe anglo-francesi non avessero lasciato il litorale egiziano, Mosca le avrebbe colpite con la bomba atomica. Questo consacrò Nasser come grande leader arabo, senza farne – per forza – un satellite dei russi. Inutile aggiungere che il crescente prestigio internazionale del carismatico leader egiziano faceva paura soprattutto a Israele: sembrava davvero arrivato “l’Atarurk arabo”, il modernizzatore paventato da Ben Gurion.«Israele era considerato non senza ragione, come una postazione occidentale nel mondo arabo, e veniva ugualmente interpretato come il tentativo di mantenere nell’arretratezza il mondo arabo», osserva Filkenstein. C’era dunque una sorta di conflitto e di contrapposizione tra Nasser e Israele. E questo ha dato il via, come viene documentato anche stavolta assai scrupolosamente non da Finkelstein ma da uno storico importante molto considerato, cioè Benny Morris. Nel libro “Le guerre di frontiera di Israele”, che parla del periodo tra il 1949 ed il 1956, Morris dimostra che «intorno al 1952-53 Ben Gurion e Moshe Dayan erano veramente determinati a provocare Nasser, a continuare a stuzzicarlo fino a che avessero un pretesto per distruggerlo: volevano sbarazzarsi di lui». Insistettero, in modo che a un certo punto il leader egiziano non potesse fare a meno di rispondere: «Sostanzialmente Nasser è stato preso in trappola». Per Morris, la stessa crisi di Suez del 1956 era nata da «un complotto ordito dagli israeliani per rovesciarlo, con il concorso degli inglesi e dei francesi», con i quali Israele collaborò invadendo il Sinai.Gli americani non si opposero alla ferma difesa di Nasser da parte dell’Urss. «Eisenhower pensava che non fosse ancora il momento adatto», per abbattere il “raiss” egiziano. «Ma anche gli americani sicuramente volevano sbarazzarsi di Nasser», aggiunge Filkenstein: «Lo vedevano tutti come una spina nel fianco». Sicché, la guerra-lampo del 1967 non sarebbe altro che «una ripetizione del 1956, con una differenza fondamentale: il sostegno americano». Alla Guerra dei Sei Giorni, infatti, «gli Stati Uniti non si sono opposti», restando «molto prudenti e cauti nelle loro dichiarazioni». Non hanno sostenuto apertamente la guerra di Israele, «perché era illegale». E gli Usa erano già impantanati nella tragedia del Vietnam, estremamente impopolare: «Non volevano impegnarsi anche nel sostegno a Israele, che sarebbe stato visto allo stesso modo come il colonialismo occidentale che tenta di prevalere sul Terzo Mondo, sul mondo non-allineato». Ma c’era un comune interesse strategico: eliminare Nasser. «Era un obiettivo a lungo termine, mantenere il mondo arabo nell’arretratezza. Mantenerlo in uno stato subordinato, primitivo».Perfettamente funzionali, in questo, il “falchi” israeliani come Ariel Sharon: «Dobbiamo attaccare adesso, perché altrimenti perdiamo la nostra capacità di dissuasione». Frase storica, rimasta – da allora – a fondamento della “dottrina” politico-militare di Israele, la propaganda vittimistica che ha giustificato massacri come quello della popolazione della Striscia di Gaza. «La “capacità di dissuasione” – traduce Filkenstein – significa: “la paura che di noi ha il mondo arabo”». La “colpa” di Nasser? «Risollevava il morale degli arabi, i quali non avevano più paura». E per gli israeliani la paura «è una carta molto forte, per tenere gli arabi al loro posto». A questo, ovviamente, si aggiunge la “necessità”, per Israele, di incrementare i propri territori a spese degli arabi. E in tutto questo, chiarisce lo storico, la religione non c’entra: «Bisogna ricordare che il movimento sionista era per la maggior parte secolare, per la grandissima parte ateo. Una larga parte si considerava socialista e comunista e non aveva nessun aggancio con la religione. Ma consideravano lo stesso di avere un titolo legale di proprietà sulla terra perché nel loro pensiero la Bibbia non era solo un documento religioso, era un documento storico». Una mentalità “secolare”, «profondamente radicata e fanatica». Al punto da falsificare la storia, inventare un’aggressione araba mai avvenuta e organizzare la Truffa dei Sei Giorni per metter fine alla carriera di Nasser, il temutissimo Ataturk arabo.La Truffa dei Sei Giorni: «In realtà la guerra-lampo del 1967 durò appena 6 minuti, il tempo che impiegò l’aviazione israeliana per annientare quella egiziana, ancora a terra», senza che un solo aereo del Cairo avesse potuto decollare. E i famosi Sei Giorni? «Servirono solo a occupare e annettere territori non-israeliani, che da allora – con la sola eccezione del Sinai – fanno parte di Israele». Parola dello storico statunitense Norman Finkestein, intervistato da Aaron Mate per l’emittente “The Real News” nel cinquantesimo anniversario della Guerra dei Sei Giorni, giugno 1967, evento fondante del mito vittimistico dell’autodifesa di Israele, paese “attaccato dagli arabi”. Un falso storico, accusa l’autore del bestseller “Palestine: Peace Not, Apartheid”, tradotto in 50 paesi. Fu Israele a provocare il conflitto, afferma Finkestein: abbattè deliberatamente alcuni aerei siriani, ben sapendo che l’Egitto sarebbe stato costretto a schierarsi con la Siria, cui era legato da un patto di mutua assistenza. Obiettivo segreto di Tel Aviv: conquistare falcilmente territori, sapendo (da Cia e Mossad) che gli arabi non avrebbero potuto resistere. E soprattutto: demolire il leader politico egiziano Nasser, temutissimo come possibile “Ataturk arabo”, capace di guidare lo sviluppo laico del Medio Oriente, superando la storica arretratezza della regione.
-
“Ma Trump voleva solo appalti, non diventare presidente”
Il più grosso problema di Donald Trump? Essere diventato presidente degli Stati Uniti: mai più pensava di essere eletto, né tantomeno ci teneva. «Il suo obiettivo era un altro: ottenere appalti per le sue aziende, nella posizione privilegiata di grande sconfitto». Lo sostiene l’avvocato Gianfranco Carpeoro, giornalista e scrittore, autore del recente saggio “Dalla massoneria al terrorismo”. «E’ la verità: Trump sperava solo di ottenere appalti una volta che fosse stata eletta Hillary Clinton. Che poi non è stata eletta soprattutto per un incidente di percorso a due settimane dal traguardo: la fuga di notizie sulle sue condizioni di salute. E gli americani, con il loro culto dell’efficienza, mai avrebbero eletto una presidente malata». Ed è così che “The Donald” si è ritrovato alla Casa Bianca, forse anche anche suo malgrado. Ma perché si era candidato? «Perché persino l’élite non avrebbe più tollerato alla Casa Bianca un altro esponente della famiglia Bush, specie dopo le notizie sul ruolo di quella famiglia nell’11 Settembre e nella nascita dell’Isis. Trump è stato candidato tra i repubblicani proprio per quello, per tagliare la strada a Jeb Bush».Affermazioni clamorose, che Carpeoro affida alla diretta web-streaming con Fabio Frabetti di “Border Nighs” il 29 gennaio. Sul tappeto, le roboanti iniziative del neo-presidente in materia di immigrazione. «Il Muro alla frontiera col Messico? Pochi lo dicono, ma quel muro esiste già: lo eresse Bill Clinton. Trump si è solo ripromesso di completarlo». In altre parole: cambiano gli orchestrali, non lo spartito. «Per il potere è indifferente il pullman su cui salire». L’annuncio del trasferimento dell’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme? «Non è un fatto epocale, come si pretende: Gerusalemme è già sotto il pieno controllo ebraico». Nel suo saggio sul rapporto fra massoneria e terrorismo, lo stesso Carpeoro racconta che, a Yalta, «due massoni e mezzo», cioè Roosevelt e Churchill, più Stalin, «negando la nascita di uno Stato palestinese accanto a quello ebraico stabilirono, già nel 1945, che in Medio Oriente la guerra sarebbe durata per sempre: questo era l’interesse del grande potere, che non ammette deroghe». La riprova? «Chiunque si sia opposto, scommettendo sulla pace, ha fatto una brutta fine: Arafat, Hussein di Giordania e lo stesso Rabin, ucciso da estremisti ebraici».Morale: «Non aspettiamo chissà cosa, da Trump. Il neoeletto vedrà il da farsi, volta per volta». Secondo Carpeoro, “The Donald” è alla Casa Bianca essenzialmente per via della defaillance di Hillary. Ed era stato candidato per opporsi, anche con l’aiuto inatteso della super-massoneria “progressista”, al pericoloso Jeb Bush, che Gioele Magaldi (nel libro “Massoni, società a responsabilità illimitata”) riconduce alla filiera della Ur-Lodge “Hathor Pentalpha”, creata da George Bush (padre) nel 1980, dopo la sconfitta subita per mano di Reagan alle primarie repubblicane. Magaldi la definisce «loggia del sangue e della vendetta», descrivendola come un circolo esclusivo e sanguinario, responsabile della strategia della tensione a livello internazionale, con il contributo di personaggi come George W. Bush, Nicolas Sarkozy, Tony Blair, Recep Tayyip Erdogan. «Quanto sta emergendo sul ruolo della “Hathor Pentalpha” in relazione al caso Bin Laden e all’Isis – afferma Carpeoro – ha motivato il sostegno a Trump per fermare Jeb Bush». E ora che Trump è alla Casa Bianca? Niente paura, conclude Carpeoro: «Come presidente non potrà più auto-assegnarsi appalti, ma li riceverà da Putin in Russia. E Trump contraccambierà, concedendo appalti a Putin in America».Il più grosso problema di Donald Trump? Essere diventato presidente degli Stati Uniti: mai più pensava di essere eletto, né tantomeno ci teneva. «Il suo obiettivo era un altro: ottenere appalti per le sue aziende, nella posizione privilegiata di grande sconfitto». Lo sostiene l’avvocato Gianfranco Carpeoro, giornalista e scrittore, autore del recente saggio “Dalla massoneria al terrorismo”. «E’ la verità: Trump sperava solo di ottenere appalti una volta che fosse stata eletta Hillary Clinton. Che poi non è stata eletta soprattutto per un incidente di percorso a due settimane dal traguardo: la fuga di notizie sulle sue condizioni di salute. E gli americani, con il loro culto dell’efficienza, mai avrebbero eletto una presidente malata». Ed è così che “The Donald” si è ritrovato alla Casa Bianca, forse anche anche suo malgrado. Ma perché si era candidato? «Perché persino l’élite non avrebbe più tollerato alla Casa Bianca un altro esponente della famiglia Bush, specie dopo le notizie sul ruolo di quella famiglia nell’11 Settembre e nella nascita dell’Isis. Trump è stato candidato tra i repubblicani proprio per quello, per tagliare la strada a Jeb Bush».
-
Poliziotti ora in pericolo, il potere stragista investe sull’odio
Quei due poliziotti di Milano ora sono in pericolo, ma a questo Stato «servono eroi da esibire», anche a rischio della loro incolumità: lo afferma l’avvocato Gianfranco Carpeoro, autore del libro “Dalla massoneria al terrorismo” che denuncia la “sovragestione” degli attentati, progettati da “menti massoniche” e coordinati da settori dei servizi segreti che utilizzano manovalanza di pretesa matrice islamista. «L’Isis è sostanzialmente una marionetta, a disposizione di Ur-Lodges reazionarie americane, prime fra tutte la “Hathor Pentalpha” e la “Three Eyes”», la cui esistenza è stata rivelata da Gioele Magaldi nel saggio “Massoni”, a fine 2014. La strage di Berlino? «Sembra attuata per colpire Angela Merkel in vista delle prossime elezioni politiche in Germania, per forzare il governo tedesco spingendolo ad assumere un atteggiamento intransigente verso l’immigrazione: come sempre – aggiunge Carpeoro – chi utilizza il terrorismo colpisce gli elementi moderati e dialoganti: in Italia fu colpito Moro perché dialogava col Pci, in Israele a cadere fu Rabin perché dialogava coi palestinesi. Gli estremisti invece non vengono mai toccati, perché seminano odio, e l’odio fa sempre comodo al potere».Riflessioni a caldo, che Carpeoro ha consegnato alla diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di Border Nights la mattina di Natale. Durissimo il giudizio dello studioso sulla decisione di esporre al pubblico l’identità dei due agenti di polizia che, a Sesto San Giovanni, hanno fermato e poi abbattuto il tunisino Anis Amri, sospettato di essere l’autore della strage di Berlino dopo il ritrovamento dei suoi documenti sotto il sedile del camion-killer. «Un terrorista “normale” non va a compiere un attentato portando con sé il passaporto: il far ritrovare prontamente il documento è la prova della “sovragestione” che ha diretto l’attentato», sostiene Carpeoro, che spiega: «Risalire immediatamente al presunto killer, in modo da neutralizzarlo subito, è estremamente utile agli strateghi del terrorismo: una prolungata caccia all’uomo manterrebbe in tensione per molto tempo le forze di polizia, e questo disturberebbe i piani dei manovratori occulti». A Milano, inoltre, l’identità dei poliziotti è stata esibita: «Il problema è questo potere ha bisogno di eroi», insiste Carpeoro, «e questa sua esigenza è superiore al tutelare la vita delle persone che lavorano per noi». Finì sotto i riflettori anche il “Capitano Ultimo”, l’ufficiale dei carabinieri coinvolto nella cattura di Riina: «Fu gettato in pasto ai porci in maniera evidente, esposto al rischio della vita in modo ancora più efferato».Carpeoro sta analizzando le clamorose analogie tra l’attentato di Nizza del 14 luglio e quello di Berlino al mercatino natalizio. Identiche modalità: «Un camion lanciato contro la folla è uno strumento probabilmente più facile da utilizzare, non richiede requisiti tecnici come invece gli esplosivi, e infine un mezzo di trasporto non suscita di per sé allarme, può sfuggire al controllo delle forze di sicurezza». Di regola, questi attentati stragicisti sono “firmati” con un corredo simbolico, «segnali in codice rivolti a chi li può intendere», nei circoli del massimo potere. In attesa di decifrare quali segni (anche nascosti) possano legare la strage di Nizza e quella di Berlino, Carpeoro avverte: «Temo che siamo di fronte a un’escalation», uno “sciame” di stragi «destinate a preparare il terreno per un evento ancora più grave e sanguinoso». La “filosofia” che muoverebbe questa regia occulta? Sempre la stessa: alimentare l’odio, attraverso il falso “scontro di civiltà”. «La paura e l’odio sono strumenti adottati dall’attuale élite di potere, il cui obiettivo è impedire qualsiasi cambiamento dello status quo, dopo che la finanza ha neutralizzato la democrazia. Non serve nemmeno una Terza Guerra Mondiale: basta e avanza quello che è già in atto, cioè un insieme di tante guerre locali». Paura, tensione, odio: funzione che, in Europa, è svolta dal terrorismo “sovragestito”, comodamente targato Isis.Quei due poliziotti di Milano ora sono in pericolo, ma a questo Stato «servono eroi da esibire», anche a rischio della loro incolumità: lo afferma l’avvocato Gianfranco Carpeoro, autore del libro “Dalla massoneria al terrorismo” che denuncia la “sovragestione” degli attentati, progettati da “menti massoniche” e coordinati da settori dei servizi segreti che utilizzano manovalanza di pretesa matrice islamista. «L’Isis è sostanzialmente una marionetta, a disposizione di Ur-Lodges reazionarie americane, prime fra tutte la “Hathor Pentalpha” e la “Three Eyes”», la cui esistenza è stata rivelata da Gioele Magaldi nel saggio “Massoni”, a fine 2014. La strage di Berlino? «Sembra attuata per colpire Angela Merkel in vista delle prossime elezioni politiche in Germania, per forzare il governo tedesco spingendolo ad assumere un atteggiamento intransigente verso l’immigrazione: come sempre – aggiunge Carpeoro – chi utilizza il terrorismo colpisce gli elementi moderati e dialoganti: in Italia fu colpito Moro perché dialogava col Pci, in Israele a cadere fu Rabin perché dialogava coi palestinesi. Gli estremisti invece non vengono mai toccati, perché seminano odio, e l’odio fa sempre comodo al potere».
-
Massoni terroristi, quella dell’élite è una religione segreta
C’era una volta il massone. Un giorno indossò il cappuccio ma dimenticò squadra e compasso, fino a diventare qualcos’altro. Un paramassone: non più un iniziato che cerca la divinità, ma un contro-iniziato che si crede Dio. Sembra una fiaba nera, ma sta dando spettacolo: la grande crisi e il grande terrorismo non sono che due facce, entrambi atroci, dello stesso show. Ed è così potente, l’incantesimo, da incrinare la storia, compromettendo la pace sin dal dopoguerra, già da Yalta, quando i massoni Roosevelt e Churchill – insieme a Stalin – non accordano ai palestinesi la nascita di un loro Stato, in equilibrio col futuro Stato ebraico, innescando così il provvidenziale focolaio da cui nascerà il primo terrorismo dell’Olp. Quando il miracolo economico travolge anche l’Italia, spalancando orizzonti impensabili, viene fermato e “sacrificato” l’uomo che meglio incarnava un possibile futuro democratico anche per gli arabi, Enrico Mattei. Se ancora l’Europa crede in un modello diverso, democratico, in Svezia viene prontamente ucciso l’apostolo del welfare, Olof Palme. E in Israele finisce assassinato Rabin, colpevole di aver costruito una vera pace geopolitica, che coincide con «una autentica pax massonica». Morte a Rabin, dunque, perché l’odio deve continuare a vincere. Fino a quando?Può sembrare incredibile, ma Gianfranco Carpeoro – l’autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, che denuncia la matrice massonica della “sovragestione” del terrorismo, attraverso élite che controllano servizi segreti – sostiene che, in fondo, la colpa è nostra. O meglio: la nostra ignoranza consente al super-potere di manipolarci indisturbato, costruendo mostri. Capeoro cita il suo antico maestro, Francesco Saba Sardi, grande intellettuale inserito dal Quirinale tra le più eminenti personalità culturali della storia italiana: nel mini-saggio “Istituzione dell’ostilità”, riportato testualmente nel libro di Carpeoro, Saba Sardi (traduttore di Borges, Simenon, Pessoa, Joyce e Garcia Marquez, nonché biografo di Picasso) sostiene che solo la nostra disponibilità all’odio ci rende inconsapevoli “soldati” della causa altrui, nient’altro che docili strumenti. Siamo pigri, non ci accorgiamo di vivere in un Truman Show. Prendiamo per buono perfino l’Isis, il cui capo – il “califfo”Abu-Bakr Al Baghdadi – fu stranamente liberato nel 2009 dal centro di detenzione di Camp Bucca, in Iraq, dopo esser stato affiliato alla Ur-Lodge “Hathor Pentalpa”, nella quale (secondo Gioele Magaldi, autore del libro “Massoni”) hanno militato George W. Bush e Condoleezza Rice, il politologo Michael Ledeen, Nicolas Sarkozy, Tony Blair, il leader turco Erdogan.Impressionante, nella ricostruzione di Carpeoro, l’affollamento dei messaggi simbolici che “firmano” i recenti attentati in Francia, affidati a manovalanza islamista: se la strage del Batalclan (13 novembre) è il “calco” della data-simbolo della persecuzione dei Templari, mentre quella di Nizza (14 luglio) colpisce al cuore i valori della Rivoluzione Francese, “sacri” per la massoneria democratica, devastando peraltro la città natale del massone progressista Garibaldi, anche gli attacchi di Bruxelles (aeroporto e metropolitana, “come in cielo, così in terra”) richiamano universi simbolici tutt’altro che islamici, «secondo un preciso schema operativo – scrive Carpeoro – che sceglie di utilizzare un linguaggio estraneo o addirittura “avverso” agli esecutori», giusto per inquinare le acque. Bruxelles, 22 marzo: stessa data del decreto di soppressione dei Templari, nel 1312. Giorno fatale, il 22 marzo: nel 1457, Gutenberg stampò la prima Bibbia. Nel 1831 venne fondata la Legione Straniera, in funzione anti-araba. Ancora: sempre il 22 marzo (del ‘45) nasceva la Lega Araba, «che l’Isis vede come il fumo negli occhi». E nel 2004 venne ucciso a Gaza lo sceicco Ahmed Yassin, leader spirituale di Hamas. Ma il fatidico 22 marzo “parla” anche ai cattolici osservanti: le letture liturgiche per la messa di quel giorno propongono la restaurazione del regno di Israele (Isaia), che abbreviato è “Is”, come “Islamic State”.Non è un gioco: per Carpeoro, la matrice massonica della “sovragestione” ricalca in modo quasi maniacale – ribaltandoli – gli insegnamenti di Vitruvio, «personaggio storico che ha avuto grande rilievo nella massoneria», perché nel “De Architectura” il grande architetto romano enuclea i principi-cardine, anche etici e spirituali, che devono orientare la scienza della costruzione, riflesso terreno della bellezza universale. Ebbene, i contro-iniziati che incarnano la “sovragestione” li ribaltano in modo puntuale e speculare, secondo lo stereotipo del satanismo: «Hanno utilizzato tutti gli strumenti descritti da Vitruvio: le lettere, per organizzare la disinformazione; il saper disegnare, per delineare il simbolismo dei loro atti; la geometria, per concatenare le distruzioni; l’ottica, per stabilire i punti di osservazione; l’aritmetica, per i tempi degli attentati; la storia, per il linguaggio simbolico delle date». I fantasmi della “sovragestione” «sono colti, sanno disegnare», padroneggiano matematica e filosofia, medicina e giurisprudenza, astronomia e astrologia». Chi sono, in realtà?Massoni, tutti. O forse no: si tratta di paramassoni, ma in fondo ormai «è solo questione di termini», ammette Carpeoro, che – massone lui stesso, già gran maestro dell’“obbedienza” di Palazzo Vitelleschi, poi dimissionario dopo aver disciolto la sua stessa loggia – accusa la massoneria di aver “perso l’anima”, riducendosi a mera struttura di potere. Nel suo libro accenna alle origini mistiche della libera muratoria (bibliche, egizie) come cemento culturale delle primissime corporazioni, quelle dei costruttori di cattedrali, gelosi custodi dei loro “segreti professionali”, basati sulla sacralizzazione del lavoro al servizio della bellezza. Poi, con la fine dei grandi edifici sacri, la nascita della massoneria “speculativa”, tra ortodossia metodologica e devianze, sbandamenti, infiltrazioni. Pietra miliare, il 1717: brucia Londra, ma l’architetto Chistopher Wren, leader della massoneria inglese, incaricato di riedificare la città, rifiuta di ricostruire il Tempio. «Il 1717 è considerato l’anno di nascita della massoneria moderna, ma in realtà segna l’inizio della fine della vera massoneria», network necessariamente cosmopolita che, come tale, faceva gola al potere: gli ex costruttori di cattedrali erano un’élite della conoscenza ben radicata in tutta Europa.Più che gli Illuminati di Baviera, il gruppo visionario creato sempre nel ‘700 da Jean Adam Weischaupt (nuovo ordine mondiale da costruire radendo al suolo il sistema, cominciando dall’abolizione della proprietà privata), secondo l’indagine di Carpeoro la malapianta della “sovragestione” che sta minacciando il pianeta va ricercata nel pensiero oligarchico di personalità più recenti e magari sconosciute ai più, come Joseph Alexandre Saint-Yves, marchese d’Alveydre, un medico francese di fine ‘800 che compare tra le figure di maggior rilievo dell’esoterismo del XIX secolo. Al sorgere del socialismo (e dell’anarchia), Saint-Yves contrappose la “sinarchia”: un modello di governo pre-ordinato, basato su schemi universali, con «ruoli e funzioni sociali secondo un ordine di strati e condizioni rigide, in una concezione piramidale della società». Il tutto, «legittimato da una mistica teocratica tipica delle società più antiche», Egitto e Persia, India. «Significa che alcuni sono naturalmente destinati a comandare». In altre parole, l’esoterista Saint-Yves (fervente cattolico, in strettissimi rapporti col Vaticano) «auspicava il governo di un’élite predestinata e piuttosto aristocratica».Pochissimi sanno “quel che si deve fare”, tutti gli altri devono sottostare alle indicazioni dell’élite. E’ qualcosa di davvero diverso dal pensiero che sembra promanare da Christine Lagarde del Fmi, che Magaldi dichiara affiliata alle Ur-Lodges “Three Eyes” e “Pan-Europa”? E’ tempo di sacrifici? Bisogna (“dovete”) soffrire? A parlare è il marchese Saint-Yves o Mario Monti (Gran Loggia di Londra e Ur-Lodge “Babel Tower”), o magari il “venerabile” Mario Draghi della Bce (“Edmund Burke”, “Pan-Europa”, “Compass Star-Rose”, “Three Eyes” e “Der Ring”)? La nascita delle superlogge internazionali era assolutamente ineluttabile, osserva Carpeoro: la stessa tensione civile e sociale che durante l’Illuminismo aveva condotto i massoni a battersi per «i valori democratici e libertari, propri della dottrina muratoria» condusse le logge di fine ‘800 a coordinarsi, «anche al di fuori dell’organizzazione rituale», affiliando – nelle Ur-Lodges – anche «presidenti, banchieri, industriali», non necessariamente passati per la tradizionale procedura iniziatica.Per quello spiraglio, sottolinea Carpeoro anche nell’articolata trattazione del capitolo italiano su Gelli e la P2 (dove emerge un’Italia di fatto tuttora “sovragestita” da una fantomatica P1, protetta da silenzi e omissioni), il potere avrebbe definitivamente svuotato il network massonico di ogni autentica valenza esoterica e libertaria. Tutto sarebbe ridotto a una piramide che parla una sola lingua, quella del denaro, imposta con la globalizzazione forzata del pianeta a beneficio di una casta di “eletti” che, della massoneria, mantengono solo il linguaggio cifrato, magari per “firmare” crisi, guerre e persino attentati terroristici, sanguinose tappe di una strategia della tensione progettata per imporre agli “inferiori” il dominio della paura. Cosa c’è nella testa dei fantasmi della “sovragestione”? Probabilmente, il verbo di Saint-Yves, la “sinarchia”, una filosofia addirittura mistica, secondo cui «l’élite è in armonia con le leggi universali è in pratica una classe sacerdotale». La “sinarchia”, conclude Carpeoro, è dunque «una forma di teocrazia, un governo di sacerdoti o di re-sacerdoti». Il dogma del rigore, imposto all’Europa, impossibile da discutere: «La “sinarchia” arriva a suggerire che quest’élite illuminata sia in diretto contatto con le intelligenze spirituali che governano l’universo e da cui riceve istruzioni». Per i comuni mortali, nessuna speranza. A meno che non si “risveglino”, nell’unico modo possibile: disertando, rifiutando la guerra che viene quotidianamente allestita.(Il libro: Giovanni Francesco Carpeoro, “Dalla massoneria al terrorismo”, sottotitolo “Come alcune logge massoniche sono divenute deviate e come con i servizi segreti vogliono controllare il mondo”, Revoluzione edizioni, 192 pagine, euro 13,90).C’era una volta il massone. Un giorno indossò il cappuccio ma dimenticò squadra e compasso, fino a diventare qualcos’altro. Un paramassone: non più un iniziato alla ricerca della divinità, ma un contro-iniziato che si crede Dio. Sembra una fiaba nera, ma sta dando spettacolo: la grande crisi e il terrorismo permanente non sono che due facce, entrambe atroci, dello stesso show. Ed è così potente, l’incantesimo, da incrinare la storia, compromettendo la pace sin dal dopoguerra, già da Yalta, quando i massoni Roosevelt e Churchill – insieme a Stalin – non accordano ai palestinesi la nascita di un loro Stato, in equilibrio col futuro Stato ebraico, innescando così il provvidenziale focolaio da cui nascerà il primo terrorismo dell’Olp. Quando il miracolo economico travolge anche l’Italia, spalancando orizzonti impensabili, viene fermato e “sacrificato” l’uomo che meglio incarnava un possibile futuro democratico anche per gli arabi, Enrico Mattei. Se ancora l’Europa crede in un modello diverso, socialista, in Svezia viene prontamente ucciso l’apostolo del welfare, Olof Palme. E in Israele finisce assassinato Rabin, colpevole di aver costruito una vera pace geopolitica, che coincide con «una autentica pax massonica». Morte a Rabin, dunque, perché l’odio deve continuare a vincere. Fino a quando?
-
Sovragestione: i padrini dell’Isis erano a Yalta nel 1945
Si credono Dio, anziché ricercare la propria spiritualità. Non sono più degli iniziati, ma dei contro-iniziati. Per il massone Gianfranco Carpeoro, è questa la profonda motivazione psicologica che spinge gli uomini del vertice-ombra dell’Occidente a organizzare il terrorismo più spietato, ieri affidato ad Al-Qaeda e oggi all’Isis. L’obiettivo strategico non cambia: mantenere il potere in pochissime mani, a qualsiasi costo, utilizzando l’intelligence per “fabbricare” leader islamisti adatti a reclutare kamikaze, figli di un mondo devastato dai dominus occidentali. Carpeoro la chiama “sovragestione”, ed è la chiave per capire di che morte stiamo morendo. I boss occulti della “sovragestione”? Si tratta di «un ristretto numero di persone, che fanno parte della finanza e della politica internazionale». A loro volta, «manovrano pezzi di governi, di amministrazioni, di servizi segreti, logge massoniche o paramassoniche, strutture religiose di varia estrazione, istituzioni bancarie, esponenti dell’economia o dell’imprenditoria». La struttura ricorda quella della ‘ndrangheta: «Una rete ad anelli, dove la regola aurea viene ampiamente rispettata: ogni anello conosce solo e soltanto l’anello che gli è immediatamente superiore e quello che gli è immediatamente inferiore e nulla più».Perché siamo finiti tra le spire della “sovragestione”, che ultimamente ha preso di mira l’Europa con gli attentati di Parigi, Bruxelles e Nizza, regolarmente targati Isis? Per Gioele Magaldi, autore del bestseller “Massoni” (Chiarelettere), non si può capire molto se non si legge tra le righe: l’origine del potere occidentale moderno è interamente massonico (democrazia, laicisimo). Ma nel dopoguerra la massoneria internazionale ha partorito 36 super-strutture segrete, chiamate Ur-Lodges (logge madri), che hanno intrapreso una gestione monopolistica della politica, dell’economia, della finanza. Alcune di queste hanno espresso una tendenza neo-conservatrice, aristocratica, neo-feudale. Fino all’eccesso: la strategia della tensione, i golpe in mezzo mondo. Avverte Magaldi: anche questo va interpretato; se sei consapevole di averla “inventata” tu, la modernità, mettendo fine all’assolutismo monarchico con la Rivoluzione Francese e all’oscurantismo vaticano con il Risorgimento italiano, può accadere che ti consideri il padrone del mondo, il nuovo mondo che hai contribuito in modo determinante a creare, abbattendo l’Ancien Régime.Il che è aberrante, ma aiuta a “vedere” come ragionano i capi supremi dell’élite mondiale reazionaria che dagli anni ‘80 ha preso il sopravvento, dichiarando guerra alla democrazia e imponendo la sua globalizzazione a mano armata, gestita dalle multinazionali finanziarie. E a questo disegno appartiene anche l’ultimissima stagione: quella del terrore, che ci sta investendo. Non a caso, nel mirino è finita anche l’Europa, terremotata dall’austerity. Se da qualche anno il terrore “islamista” si rivolge contro l’Europa, scrive Gianfranco Carpeoro sulla sua pagina Facebook, «non è certamente perchè il “sovragestore” vuole distruggerla». Al contrario: l’élite occidentale che organizza il terrorismo-kamikaze «ha interesse che rimanga così», questa Unione Europea interamente in mano a loro, gli oligarchi della finanza. Ergo: «Il neoterrorismo deve impedire che l’Europa si liberi dal giogo monetario delle banche e dalla soggezione al potere finanziario». Sono sempre “loro”, gli uomini al comando dietro le quinte: ieri col Trattato di Maastricht che ha rovinato l’Italia, poi con i diktat della Troika che hanno ridotto la Grecia alla fame. Gli europei cominciano a ribellarsi? Ed ecco gli attentati “islamici”. Il regno della paura serve a questo: impedire che si evada dal “lager”. La violenza terroristica è in aumento? Altro segnale, aggiunge Carpeoro: qualcuno, davanti a tanto sangue, si sta sfilando dall’élite criminale. E allora, forse, il super-vertice comincia ad avere paura, a sua volta. Per questo preme sull’acceleratore delle stragi.Secondo Carpeoro, il male viene da lontano: è figlio del sistema economico attuale. Il capitalismo finanziario mondializzato è feroce, disumano: perché qualcuno stia meglio, bisogna che qualcun altro stia peggio. Mors tua, via mea. Da lì in poi, “vale” tutto. Anche la guerra. Fino al neoterrorismo della “sovragestione”. Guai, infatti, se dovessero trionfare gli ideali proclamati all’Onu, all’indomani della Seconda Guerra Mondiale. Erano il cardine della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, fortemene voluta dalla “libera muratrice” Eleanor Roosevelt, secondo la quale «nessun sistema, nessun regime politico, nessuna dottrina sociale può essere giusta se ogni individuo, fino all’ultimo pigmeo africano, fino al più sfruttato lavoratore cinese o coreano, non può vivere con dignità o senza poter aspirare alla sua porzione di spazio spirituale e vitale, cioè di felicità». E allora ecco il “terrorismo interno” di oggi, la nuova strategia della tensione, che «salda il rapporto tra il popolo e il potere con il collante della paura, com’era già accaduto ai tempi di Al-Qaeda e delle Torri Gemelle». Perché poi la manovalanza è islamica? Opera nostra, anche quella: a partire da Yalta, dalla scelta di non dare uno Stato ai palestinesi.Una decisione fatale, dice Carpeoro, che determinò il ritiro dalla scena della componente più ispirata del mondo esoterico occidentale, la “fratellanza” dei Rosacroce, delusa dal patto di spartizione mondiale firmato da Roosvelt, Churchill e Stalin. Attorno alla “leggenda storicamente accaduta” dei Rosacroce, di cui è un grande studioso, Carpeoro ha scritto anche un romanzo, “Il volo del Pellicano”, edito da Melchisedek. Avvocato e giornalista (all’anagrafe, Gianfranco Pecoraro), Carpeoro è stato gran maestro della massoneria più “indipendente” (33esimo grado del Rito Scozzese), a capo di una comunione massonica auto-scioltasi per scongiurare pericolose infiltrazioni di potere. Ai Rosacroce si sarebbero ispirate correnti “deviate” fino al satanismo e vicinissime alla super-élite del massimo potere, quella della “sovragestione” degli “uomini che si credono Dio”. Di ben altra caratura, invece, i veri Rosacroce, il cui ultimo “Ormùs” fu il pittore Salvador Dalì, con accanto personaggi come Picasso, Erik Satie, Jean Cocteau, il regista moldavo Emil Loteanu. Era stata proprio la “paramassoneria” di potere, scrive Carpeoro, a sabotare – a Yalta – il grande progetto rosacrociano per il dopoguerra: pace in Medio Oriente. Vinsero gli altri, i protagonisti delle future Ur-Lodges: niente pace, meglio la guerra. Opportuno, quindi, coltivare i focolai dell’odio, partendo proprio dalla Palestina, in mezzo agli emirati del petrolio.«Il tutto – scrive Carpeoro – si concluse con la istituzione del solo Stato di Israele». Sicché, «non risulta niente affatto avventato definire tale esito come la premessa del sorgere di un progenitore del neoterrorismo islamico, e cioè quello palestinese, nella prima versione dell’Olp». Dal Medio Oriente all’Italia: «Altrettanto accadde in occasione dell’omicidio del povero Enrico Mattei, reo di voler sottrarre il mondo del petrolio arabo alla gestione economica, ma anche culturale, della lobby delle Sette Sorelle, in nome della sua formazione socialista, scarsamente sensibile al perpetuarsi del potere di certi sceicchi e califfi». Tessere di un mosaico, nemico della democrazia, da sud a nord: «Il progetto europeo di caratura liberalsocialista veniva definitivamente sabotato tramite l’omicidio del suo leader politico e spirituale Olof Palme, mettendo le basi di questa disgraziata Europa attuale, burocratica e disumana, unione solo di banche e burocratica distruttrice di economie produttive a favore di una finanza ormai astratta, estranea da ogni legittima aspirazione di popoli e individui». E dopo la Svezia, la “sovragestione” colpì di nuovo in terra d’Israele con l’omicidio del leader ebreo Rabin, «protagonista di una pax massonica, stavolta nel senso autentico, in Medio Oriente, che tanto aveva preoccupato i Signori della Guerra e del Terrore».Come dire: solo gli sprovveduti possono pensare che il tragico carnevale dell’Isis nasca dal nulla. Passo su passo, di attentato in attentato, l’Occidente ha fabbricato «una polveriera che si chiama Islam», ma attenzione: «Darle questo nome è un abuso nei confronti della dottrina religiosa in questione», che infatti è stata «modificata, redatta, interpretata nell’ignoranza e nell’arretratezza, sponsorizzata dai satrapi del petrolio e dai potenti protetti dall’Occidente per incrementare odio e integralismo da utilizzare per la autoconservazione di un potere assoluto e cieco». Luoghi comuni: «Quando si dice Islam, automaticamente si pensa al mondo arabo, ma la logica delle divisioni etniche in questo caso non aiuta: il popolo turco non è arabo, quello afghano tanto meno, e neanche la quasi metà del popolo indiano islamico e di quello africano». In realtà, aggiunge Carpeoro, la grande religione islamica è stata «riadattata a strumento permanente di supporto a regimi politici integralisti e assoluti, neganti ogni diritto e ogni libertà democratica, fautori di sistemi sociali dove c’è chi ha tutto funzionalmente allo sfruttamento di chi non ha nulla». Solo così, quella religione «è diventata il collante di popolazioni quasi abbrutite dall’ignoranza e dal bisogno, tramite una rete di imam e presunti padri spirituali la cui presenza e la cui legittimazione era stata la prima cosa assolutamente proibita dal Profeta».I veri leader islamici sono stati emarginati, e la parte sana delle popolazioni travolte dal terremoto è «dormiente e passiva di fronte a questo scempio». E siamo ai giorni nostri: «Ecco che dalla disperazione del popolo palestinese, dai flagelli vari, siccità, malattie, povertà del popolo africano, dalle drammatiche divisioni tra popoli asiatici nasce e si diffonde una vera e propria figura antropologica: il terrorista». Al terrorista, per decine di anni, «viene offerta la prospettiva simbolica che gli ha consentito di accettare il rischio di sacrificare la sua vita: il riscatto sociale». E i terroristi di oggi, annidati nelle nostre città che si vantano si realizzare una vera integrazione? «Quella che noi chiamiamo “integrazione” è stata solo la trasmissione di schemi consumistici e disumanizzanti», sostiene Carpeoro. Questo processo, è vero, «ha soppiantato il potenziale esplosivo del vecchio terrorismo», ma ne ha anche fatto impallidire le motivazioni sociali e politiche, che almeno ne consentivano la comprensione, mantenendo «un minimo di possibilità di recupero umano e sociale».Ora è tardi: «Aiutata dalla sapiente diffusione di nuove droghe raffinate e di ulteriori adattamenti snaturanti della religione islamica, la mutazione antropologica del terrorista si è ulteriormente evoluta: da esseri comunque umani a macchine del terrore». L’Isis, appunto: uomini «addestrati e resi dipendenti da varie droghe in campi adeguatamente finanziati e organizzati». Questo esercito di neoterroristi «è oggi pronto a spargersi nelle nostre città come metastasi di un carcinoma, e noi siamo impotenti». Ma attenzione: «E’ un esercito “sovragestito”, anche se dubito molto che chi ne fa parte ne sia consapevole». Sono temi che lo stesso Carpeoro approfondirà in un saggio che si annuncia esplosivo, “Dalla massoneria al terrorismo”, che uscirà in autunno per i tipi di Uno Editori. Si scrive Isis, ma si legge “sovragestione”. Il problema siamo noi, il nostro sistema: che va radicalmente bonificato nella sua struttura occulta di potere. «La vera scommessa dell’Occidente è la nascita di un Neoumanesimo».Si credono Dio, anziché ricercare la propria spiritualità. Non sono più degli iniziati, ma dei contro-iniziati. Per il massone Gianfranco Carpeoro, è questa la profonda motivazione psicologica che spinge gli uomini del vertice-ombra dell’Occidente a organizzare il terrorismo più spietato, ieri affidato ad Al-Qaeda e oggi all’Isis. L’obiettivo strategico non cambia: mantenere il potere in pochissime mani, a qualsiasi costo, utilizzando l’intelligence per “fabbricare” leader islamisti adatti a reclutare kamikaze, figli di un mondo devastato dai dominus occidentali. Carpeoro la chiama “sovragestione”, ed è la chiave per capire di che morte stiamo morendo. I boss occulti della “sovragestione”? Si tratta di «un ristretto numero di persone, che fanno parte della finanza e della politica internazionale». A loro volta, «manovrano pezzi di governi, di amministrazioni, di servizi segreti, logge massoniche o paramassoniche, strutture religiose di varia estrazione, istituzioni bancarie, esponenti dell’economia o dell’imprenditoria». La struttura ricorda quella della ‘ndrangheta: «Una rete ad anelli, dove la regola aurea viene ampiamente rispettata: ogni anello conosce solo e soltanto l’anello che gli è immediatamente superiore e quello che gli è immediatamente inferiore e nulla più».
-
Il mondo sta crollando, ma niente ferma il Tav in val Susa
Tutto va male, anzi malissimo, e noi che facciamo? Scaviamo un buco, dal 2011, tra le montagne che separano la valle di Susa dalla Savoia. Un altro buco, molto ipotetico e molto più lungo e più grande, oltre 50 chilometri, potrebbe un giorno attraversarle, quelle montagne, grazie alla altrettanto ipotetica ferrovia Torino-Lione, ieri definita Tav, treno ad alta velocità per passeggeri, poi convertita in linea Tac (alta capacità, per le merci) dopo l’estinzione dei passeggeri, che da vent’anni ormai preferiscono i voli low-cost. Nel frattempo si sono estinte anche le merci: l’attuale linea internazionale Torino-Modane che già attraversa la valle di Susa per collegare Italia e Francia è stata appena riammodernata, ma è deserta. Niente merci, niente treni. Eppure, la talpa che scava il buco – l’unico, finora, quello minuscolo, la breve galleria esplorativa di Chiomonte – non demorde, continua il suo lavoro sotterraneo tra rocce di amianto e vene radioattive di uranio. Scava il buco, la talpa, mentre l’Italia continua ad affondare, insieme a quel che resta dell’Europa, sempre più in bilico tra una pace precaria e l’assedio di una guerra deflagrante, con la certezza – ormai cronica – della cosiddetta “stagnazione secolare”, che condanna le economie del Pil alla non-crescita. Ma tutto questo, la talpa di Chiomonte non lo sa.Il progetto Torino-Lione sembra uscito da un romanzo di Dino Buzzati: si misura essenzialmente con l’assurdo, in una dilatazione spazio-temporale che rasenta la metafisica, archiviate l’economia e l’ingegneria, la scienza dei trasporti, le cifre del mondo reale. Come se un oscuro potere imperiale, quello che assiepa soldati alla Fortezza Bastiani nell’attesa eterna nel Nemico, avesse provveduto con incrollabile fede a istruire minuziose, inarrestabili procedure per l’avanzata della Grande Opera: una ferrovia-doppione, costosissima e devastante. Una strada ferrata che resterà senza treni, per mancanza di passeggeri e di merci, e ridurrà a deserto pericoloso e tossico il territorio attraversato. Ma non hanno orecchie, i grandi decisori, per ascoltare le argomentate proteste gridate e scritte, in tonnellate di carta, da ingegneri e geologi, ambientalisti, trasportisti italiani ed europei, criminologi antimafia, sentinelle mobilitate contro la finanza-canaglia che mette insieme partiti e banche, malaffare, alta burocrazia europea, élite industriale e finanziaria. Quella talpa cieca, semplicemente, deve continuare a scavare nel debito pubblico italiano, trasformato in tragedia dalla perdita di sovranità monetaria.Resiste a tutto, il progetto Tav Torino-Lione. Era nato alla fine degli anni ‘80, in previsione del collasso dell’Urss, per collegare via terra tutta l’Europa, da Lisbona a Kiev, proseguendo la sua corsa (largamente onirica) fino a Pechino. Erano gli anni della Perestrojka, della caduta del Muro. Poi vennero gli anni ‘90, la sciagura invisibile di Maastricht, Berlusconi e l’Ulivo di Prodi, Mario Draghi e il Britannia, Padoa Schioppa, Ciampi. La crisi in Somalia, la guerra in Cecenia, la devastazione della Jugoslavia, il Kosovo. Bill Clinton, la pace tra Rabin e Arafat, l’omicidio di Rabin e quello di Arafat, la fine del Glass-Steagall Act decretata da Clinton e quindi l’avvento della super-finanza onnivora senza più freni, fino all’apocalisse della Lehman Brothers. Era in corso una guerra invisibile, ma in Italia e in Europa di respirava ancora un clima di pace sostanziale, di economia non ancora in lacrime. Poi, nel 2011, la catastrofe. La Troika, Monti, la legge Fornero, la mannaia dell’austerity, il collasso di decine di migliaia di aziende, l’esplosione della disoccupazione. Nulla, comunque, che potesse fermare gli uomini d’acciaio decisi ad azzannare le rocce di Chiomonte, sgomberando a forza gli ultimi ostinati manifestanti, insieme alle loro insopportabili ragioni, tristemente verificabili come odiose verità matematiche.Da lì in poi, l’Italia non ha fatto che sprofondare in un incubo, smarrite tutte le certezze sociali ed economiche dei decenni precedenti, tra negozi sprangati e cervelli in fuga, giovani di quarant’anni mantenuti da genitori e nonni, aziende chiuse, suicidi a catena, licenziamenti in massa. Un terremoto senza precedenti, dal 1945. Spazzate via tutte le coordinate convenzionali della vita repubblicana, le tutele del lavoro rottamate insieme alla Costituzione e al sogno di una legge elettorale democratica. E attorno, un assedio livido e minaccioso, dall’Ucraina alla Siria fino alla Libia e al massacro della Grecia, vivisezionata senza anestesia a mo’ avvertimento, per tutti. Strategia della tensione, a livello internazionale: bombe e stragi “false flag”, i finanziamenti occulti e l’esodo biblico dei profughi, il terrorismo sporco dell’Isis e gli attentati opachi di Parigi. Prospettive, zero: un giovane su due è senza lavoro. Ma, naturalmente, la talpa di Chiomonte non si ferma: scava un buco, nel futuro più cieco di tutti i tempi.La storica battaglia dei NoTav era nata e cresciuta in tempo di pace, reclamando diritti a portata di mano, fino all’altro ieri. L’ambiente, il territorio, la salute, la giustizia, la trasparenza, l’economia reale. Era un mondo dove sembrava esserci ancora spazio per discussioni ragionevoli, seduti allo stesso tavolo. Ora, non c’è più neppure il tavolo: niente intermediazioni né dialogo, nessuna possibile trattativa. Siamo al diktat del 3%, imposto del super-potere bancario per tagliare la spesa sociale, anche a costo di far crollare, di conseguenza, l’economia privata, l’occupazione e il gettito fiscale, con ripercussioni fatali sul debito. Ma non importa, stiamo entrando nell’era del Ttip. Lo Stato senza più moneta, che deve farsi approvare il bilancio a Bruxelles, non conta più niente e conterà ancora meno, quando a dettare legge saranno direttamente le multinazionali, coi tribunali speciali istituiti dal trattato Usa-Ue che sbaraccherà ogni residua sovranità nazionale e locale. Fine dei microcosmi che abbiamo abitato, per decenni, confidando nella possibilità di migliorare la situazione. I NoTav sono ancora là, in valle di Susa, con le loro bandiere. Ma tutt’intorno, l’Italia sembra non esserci più – a parte quel buco ostinato e sempre più surreale, in quest’Europa desolata dagli oligarchi.Tutto va male, anzi malissimo, e noi che facciamo? Scaviamo un buco, dal 2011, tra le montagne che separano la valle di Susa dalla Savoia. Un altro buco, molto ipotetico e molto più lungo e più grande, oltre 50 chilometri, potrebbe un giorno attraversarle, quelle montagne, grazie alla altrettanto ipotetica ferrovia Torino-Lione, ieri definita Tav, treno ad alta velocità per passeggeri, poi convertita in linea Tac (alta capacità, per le merci) dopo l’estinzione dei passeggeri, che da vent’anni ormai preferiscono i voli low-cost. Nel frattempo si sono estinte anche le merci: l’attuale linea internazionale Torino-Modane che già attraversa la valle di Susa per collegare Italia e Francia è stata appena riammodernata, ma è deserta. Niente merci, niente treni. Eppure, la talpa che scava il buco – l’unico, finora, quello minuscolo, la breve galleria esplorativa di Chiomonte – non demorde, continua il suo lavoro sotterraneo tra rocce di amianto e vene radioattive di uranio. Scava il buco, la talpa, mentre l’Italia continua ad affondare, insieme a quel che resta dell’Europa, sempre più in bilico tra una pace precaria e l’assedio di una guerra deflagrante, con la certezza – ormai cronica – della cosiddetta “stagnazione secolare”, che condanna le economie del Pil alla non-crescita. Ma tutto questo, la talpa di Chiomonte non lo sa.
-
Odio nucleare: era Israele il peggior nemico di Kennedy
Natural born killers, assassini nati. Tesi più che ardita, ma storicamente supportata da prove: cinque diversi primi ministri israeliani, prima di approdare alla politica, si erano fatti le ossa nel terrorismo sionista, firmando omicidi e stragi, per poi passare al Mossad. Perché mai non avrebbero potuto organizzare proprio loro l’omicidio di John Fitzgerald Kennedy, ovvero il più grande mistero irrisolto – dopo cinquant’anni – nella storia americana del secolo scorso? Se lo domanda Said Alami su “Rebelion”, citando nuovi dossier desecretati e libri-denuncia come “Final Judgment, the Missing Link in the Jfk assassination controversy”, del giornalista investigativo Michael Collins Piper. La tesi esplora un possibile movente: la centrale nucleare semi-clandestina che Israele stava allora costruendo a Dimona, nel deserto del Neghev, con tecnologia francese. Kennedy, molto contrariato, fece scendere il gelo sui rapporti con Tel Aviv. Ma non aveva calcolato che la Cia – con la quale era in guerra – era largamente infiltrata dal Mossad.La teoria secondo sui sarebbe stata proprio la Cia ad assassinare Kennedy si basa sulla profonda inimicizia che regnava tra Jfk e l’intelligence, dopo che il presidente si era rifiutato di sostenere militarmente l’agenzia durante l’invasione della Baia dei Porci nel 1963, fallita poi miseramente, causando il rafforzamento del regime rivoluzionario di Fidel Castro a Cuba. Stanco degli eccessi della Cia, Kennedy confidò al suo collaboratore Clark Clifford di voler smantellare la Cia in mille pezzi. E Israele, attraverso i suoi uomini nell’agenzia di Langley, era a conoscenza di questi rapporti di tensione tra Kennedy e l’intelligence, scrive Alami in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”. Possibile manovalanza dell’omicidio messo a segno a Dallas il 22 novembre 1963, la vasta rete criminale facente capo al gangster Meyer Lansky, boss della potentissima mafia ebraica negli Usa, anch’essa in stretto collegamento col servizio segreto israeliano.Le tensioni tra Usa e Israele cominciano tre anni prima dell’omicidio Kennedy, nel 1960, quando già il presidente uscente, Eisenhower, chiede spiegazioni al premier israeliano Ben Gurion sul misterioso impianto di Dimona, in pieno deserto. Gli israeliani mentono, sostenendo che si tratta di una innocua fabbrica tessile. La Cia però indaga fino a ottenere fotografie dell’installazione, classificate “top secret” ma poi pubblicate in prima pagina sul “New York Times”. Quando si insedia Kennedy, il 20 gennaio 1961, il caso Dimona è ormai diventato «un’autentica bomba a orologeria nelle relazioni fra Tel Aviv e Washington», ricorda Alami. La Casa Bianca aumenta le pressioni, e ottiene la prima ammissione: l’impianto in effetti è nucleare, ma “per scopi pacifici”. Kennedy allora rifiuta di invitare Ben Gurion a Washington, così il premier israeliano – per allentare la tensione – autorizza un’ispezione di due scienziati statunitensi, Ulysses Staebler e Jess Croach, che in un rapporto confermano la versione israeliana: Dimona non è un impianto militare. Questo sblocca il veto di Kennedy, che finalmente incontra Ben Gurion il 30 maggio e si fa promettere che Israele consentirà agli Usa (che non si fidano dell’alleato mediorientale) un monitoraggio costante dell’installazione.«Nei due anni successivi al colloquio, però – scrive Alami – la volpe israeliana non mantenne le promesse». Così, Kennedy si spazientisce e il 13 maggio 1963 intima a ben Gurion di riaprire alle ispezioni il sito di Dimona, pena l’isolamento mondiale di Israele. Per tutta risposta, Ben Gurion si dimette da primo ministro. A metà giugno, Jfk rivolge lo stesso ultimatum al successore di Ben Gurion, Levi Eshkol. Ed è qui – suggerisce Said Alami – che forse nasce il cambio radicale di strategia: far fuori il presidente-nemico, con l’aiuto della Cia. Il curriculum dei premier israeliani non è certo rassicurante, aggiunge Alami, ricordando le responsabilità della leadership di Tel Aviv nell’attività terroristica condotta per anni in Palestina, dalla pulizia etnica contro la popolazione civile agli attentati per colpire il protettorato britannico e ottenere lo status di paese indipendente.Ben Gurion, padre dello Stato di Israele, è responsabile di genocidio contro i civili palestinesi: il leader sionista fondò il primo gruppo armato, Hashomer, già nel 1909. Il suo successore al governo di Tel Aviv, Levi Eshkol, era uno dei capi dell’Haganah, organizzazione terroristica generata da Hashomer. Entrambi erano considerati «due criminali», peraltro «reclamati negli anni ’30 e ’40 dalla polizia britannica in Palestina e nel resto del mondo per i loro numerosi omicidi e attentati», ricorda Alami. Terzo illustre terrorista e futuro primo ministro di Israele è Yitzhak Shamir: era membro del gruppo terroristico ebraico Irgun e poi del gruppo Lehi, altra organizzazione terroristica in Palestina. Quando Eshkol diventò primo ministro, Shamir era a capo del comando omicidi del Mossad, dove ha servito dal 1955 al 1965, periodo in cui risiedeva per la maggior parte del tempo a Parigi, sede europea del Mossad.«Shamir serviva il Mossad, tra le altre cose, per eseguire l’Operazione Damocle, operazione in cui vennero uccisi vari scienziati tedeschi trasferiti in Egitto dopo la Rivoluzione degli Ufficiali Liberi in Egitto nel 1952 e l’arrivo al potere di Nasser», continua Alami. L’elenco prosegue col nome del quarto uomo, Menachem Beghin, anch’egli prima terrorista e poi premier. Già ricercato dalla giustizia britannica, Begin aveva militato fra i terroristi dell’Irgun fino a diventarne leader nel 1943. «E’ stato colui che ordinò la mattanza all’Hotel Rey David, a Gerusalemme, nel 1946, dove morirono 91 persone». Due anni più tardi, aggiunge Alami, 132 terroristi di Irgun, comandati proprio da Begin, furono protagonisti della famosa strage di Deir Yasin, in cui vennero assassinate centinaia di persone in due villaggi palestinesi, donne e bambini compresi. E’ dimostrato, dice Alami, che proprio Beghin abbia incontrato un gangster della mafia ebraica statunitense due settimane prima dell’omicidio di Kennedy: si tratta di Micky Cohen, uomo di fiducia di Meyer Lansky nella West Coast. Secondo Collins Piper, fu proprio Cohen a reclutare un altro ebreo, Jack Rubenstein, meglio conosciuto come Jack Ruby, per assassinare Lee Harvey Oswald, l’uomo accusato di essere l’autore materiale dell’omicidio di Dallas.Dalla ricostruzione, tacciata di “antisemitismo” dall’epoca dell’uscita del libro di Collins Pipier, negli anni ‘90, non si salva neppure il quinto futuro premier israeliano, il coraggioso Yitzhak Rabin, protagonista della storica pace con Arafat (gli accordi di Oslo del 1993) che gli valsero il Premio Nobel per la Pace ma anche la “condanna a morte”, eseguita nel ‘95 da un colono ebreo estremista. La notizia è che Rabin si trovava a Dallas il giorno dell’omicidio Kennedy. «Non sarebbe proprio una coincidenza – sostiene Alami – tenendo conto del fatto che anche Rabin lavorava per il Mossad». Collins Pipier ipotizza che proprio Rabin, in veste di giornalista, abbia intervistato Jack Ruby il giorno prima dell’assassinio di Oswald nel quartier generale della polizia di Dallas. Anche il dossier di Said Alami mette in luce un clamoroso intreccio di potenti uomini d’affari americani collegati a Israele, al Mossad, alla Cia e alla criminalità ebraica negli Usa. «In realtà, la teoria che Israele stia dietro all’omicidio Kennedy non è né nuova né strana», ammette Alami. La “notizia”, semmai, è che Washington e i media l’hanno semplicemente dimenticata. Magico potere della mitica “lobby ebraica” che presidia Wall Street? Una cosa è certa: i tempi in cui la Casa Bianca osa fare la voce grossa con Israele, pretendendo trasparenza, sono finiti esattamente cinquant’anni fa, nella stessa tomba di Kennedy.Natural born killers, assassini nati. Tesi più che ardita, ma storicamente supportata da prove: diversi primi ministri israeliani, prima di approdare alla politica, si erano fatti le ossa nel terrorismo sionista, firmando omicidi e stragi, per poi passare al Mossad. Perché mai non avrebbero potuto organizzare proprio loro l’omicidio di John Fitzgerald Kennedy, ovvero il più grande mistero irrisolto – dopo cinquant’anni – nella storia americana del secolo scorso? Se lo domanda Said Alami su “Rebelion”, citando nuovi dossier desecretati e libri-denuncia come “Final Judgment, the Missing Link in the Jfk assassination controversy”, del giornalista investigativo Michael Collins Piper. La tesi esplora un possibile movente: la centrale nucleare semi-clandestina che Israele stava allora costruendo a Dimona, nel deserto del Neghev, con tecnologia francese. Kennedy, molto contrariato, fece scendere il gelo sui rapporti con Tel Aviv. Ma non aveva calcolato che la Cia – con la quale era in guerra – era «largamente infiltrata dal Mossad».
-
Arafat assassinato col polonio, il super-veleno degli 007
Avvelenato col polonio-210: Yasser Arafat, storico padre della causa palestinese, sarebbe morto in seguito ad avvelenamento progressivo causato dal raro metalloide altamente radioattivo, talvolta utilizzato dai servizi segreti per eliminare nemici senza lasciare tracce visibili. La presenza del polonio è stata invece riscontrata oggi, quasi otto anni dopo la sua strana morte, sugli effetti personali di Arafat: lo spazzolino da denti, gli indumenti e l’inseparabile kefiah. A dare la notizia, il portavoce dell’Istituto Svizzero di Radiofisica di Losanna. Rivelazione subito ripresa da “Al Jazeera”, in un dossier che riapre il giallo sull’improvvisa scomparsa del leader palestinese, l’11 novembre 2004 in un ospedale parigino, in seguito ad una malattia repentina e misteriosa.
-
Israele, scuola di odio: oggi bimbi, domani killer in uniforme
Palestinesi? No, meglio: arabi. A meno che non ci sia di mezzo l’argomento principe: il terrorismo. Allora, come d’incanto, gli “arabi” che vivono tra Betlemme e Gaza diventano, magicamente, “palestinesi”. Per il resto, rimangono semplicemente “arabi”, magari a dorso di cammello, vestiti come Ali Babà. «Spregevoli, devianti e criminali, gente che non paga le tasse, che vive a spese dello Stato, che non vuole progredire». E’ quello che raccontano i libri di testo israeliani, che a partire dalla scuola elementare preparano i futuri soldati di leva a prendere a fucilate gli “arabi” dei Territori Occupati e magari qualche scomodo attivista loro amico, come l’americana Rachel Corrie o l’italiano Vittorio Arrigoni. Un’indecenza, alla quale ora si ribella una docente universitaria israeliana, Nurit Peled-Elhanan.
-
Crimini di guerra a Gaza, i soldati israeliani ora confessano
«Sì, abbiamo sparato su donne e bambini. Perché le vite umane dei palestinesi di Gaza erano considerate molto meno importanti delle nostre». A squarciare il silenzio di Tel Aviv sulle atrocità commesse durante l’operazione “Piombo Fuso” sono ora i racconti dei soldati, reduci dal massacro della Striscia. «E’ a rischio la tenuta morale del nostro esercito», hanno confessato durante una testimonianza-choc all’accademia militare ”Yitzhak Rabin”