Archivio del Tag ‘dollaro’
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Verità indicibili, le grandi intuizioni di Giuseppe Cosco
Chiunque – come me – abbia iniziato a navigare in Internet all’inizio del millennio, si sarà certamente imbattuto in qualche articolo di Giuseppe Cosco. Chi invece è arrivato in rete più tardi, molto probabilmente non conosce nemmeno il suo nome, perché nel frattempo il suo lavoro è stato superato e soppiantato da quello di molti altri ricercatori. Ma Giuseppe Cosco rimane un antesignano in senso assoluto. In rete è stato il primo, ad esempio, a parlare dei Templari oppure dei Rosacroce, di rituali satanici, di Skull&Bones e di Nwo, oppure di pedofilia. Oggi chiunque si metta a navigare in rete scopre, entro 20 minuti al massimo, il simbolismo esoterico che si cela nell’occhio incastonato nella piramide che compare sul dollaro americano. Ma il primo a parlarne fu proprio Giuseppe Cosco, quasi 20 anni fa. Cosco era anche interessato al campo della medicina alternativa. I suoi articoli spaziavano da “La medicina a misura d’uomo di Paracelso” fino a “Tutto quello che non vi hanno detto sull’Aids”, dai rapporti fra “Stress e cancro” fino alla (oggi ben nota) terapia anticancro a base di ascorbato di potassio del dottor Pantellini.Giuseppe Cosco fu anche il primo in assoluto ad intervistare e mettere in rete le informazioni su un oncologo molto particolare, che sosteneva di poter curare il cancro con il bicarbonato di sodio: tale Tullio Simoncini. Ho fatto due chiacchiere su Giuseppe Cosco sia con il figlio Alfredo, sia con Paolo Franceschetti, che naturalmente è un ottimo conoscitore del lavoro di Cosco. «A quel che mi risulta – dice Franceschetti – Cosco fu il primo a suggerire uno scenario con sfondo rituale per il grande mistero del Mostro di Firenze. Lui si è occupato di moltissimi argomenti dei quali oggi mi occupo io, e aveva già presentato, a livello intuitivo, molti collegamenti oscuri che oggi possono essere supportati da una ricerca ben documentata». Ed è proprio su questo argomento che ho posto al figlio la domanda: «Ma come faceva tuo padre a mettere insieme i vari pezzi di questo puzzle, quando ancora in rete non esisteva praticamente nulla al riguardo, ed era impossibile fare delle ricerche in merito?».«Mio padre lavorava in modo intuitivo – ha risposto Alfredo – e aveva la grande capacità di ricordare e di mettere insieme dei particolari apparentemente insignificanti, che trovava nei posti più disparati. Ad esempio, gli capitava di leggere una notizia su un quotidiano, e riusciva a ricollegarla a qualcosa che magari aveva letto in un libro, oppure ascoltato in una trasmissione televisiva, cinque anni prima». Infatti, se gli articoli di Cosco hanno una caratteristica in comune, è proprio quella di fare affermazioni che non sono quasi mai supportate da riferimenti verificabili: questo proprio perché la rete, come la intendiamo noi oggi, in quegli anni non esisteva ancora. Ed è questo che rende ancora più interessante il suo lavoro, a conferma che spesso l’intuizione è proprio la qualità principale che ci permette di giungere a conclusioni apparentemente irrazionali.Giuseppe Cosco era anche un esperto di grafologia, e come tale collaborava spesso con la magistratura di Catanzaro (la città in cui viveva), fornendo un importante contributo nelle varie indagini criminali. Ed è proprio in un tribunale di Catanzaro, durante un’udienza dove stava presentando una perizia grafologica, che Giuseppe Cosco si è improvvisamente accasciato, in un giorno del 2002, apparentemente colpito da un infarto. Paolo Franceschetti ha avanzato dei dubbi su questa morte improvvisa, che egli ha definito «quantomeno sospetta». Lo stesso figlio di Cosco, Alfredo, dice che le cause della morte sono state stabilite in modo superficiale e generico, anche se non ritiene che esistano elementi sufficienti per parlare con certezza di una eliminazione intenzionale.«Al giorno d’oggi – dice Franceschetti – sarebbe perfettamente inutile eliminare un personaggio del genere, che dice cose che sono comunque conosciute e diffuse dappertutto. Ma 15 anni fa Giuseppe Cosco era l’unico a sostenere queste tesi, ed è quindi assolutamente plausibile che qualcuno abbia voluto levarlo di mezzo, prima che arrivasse a rivelare i veri segreti della casta degli intoccabili». Di certo possiamo dire una cosa: che Giuseppe Cosco sia morto per cause naturali, oppure che sia stato eliminato, nessuno potrà mai cancellare il percorso e la memoria di un uomo che ha aperto per tutti noi un sentiero completamente nuovo: quello della ricerca e dell’indagine indipendente sulla rete. Un sentiero che oggi, grazie anche al contributo di personaggi come Giuseppe Cosco, sta diventando una vera e propria autostrada.(Massimo Mazzucco, “Un ricordo di Giuseppe Cosco”, da “Luogo Comune” del 20 gennaio 2016).Chiunque – come me – abbia iniziato a navigare in Internet all’inizio del millennio, si sarà certamente imbattuto in qualche articolo di Giuseppe Cosco. Chi invece è arrivato in rete più tardi, molto probabilmente non conosce nemmeno il suo nome, perché nel frattempo il suo lavoro è stato superato e soppiantato da quello di molti altri ricercatori. Ma Giuseppe Cosco rimane un antesignano in senso assoluto. In rete è stato il primo, ad esempio, a parlare dei Templari oppure dei Rosacroce, di rituali satanici, di Skull&Bones e di Nwo, oppure di pedofilia. Oggi chiunque si metta a navigare in rete scopre, entro 20 minuti al massimo, il simbolismo esoterico che si cela nell’occhio incastonato nella piramide che compare sul dollaro americano. Ma il primo a parlarne fu proprio Giuseppe Cosco, quasi 20 anni fa. Cosco era anche interessato al campo della medicina alternativa. I suoi articoli spaziavano da “La medicina a misura d’uomo di Paracelso” fino a “Tutto quello che non vi hanno detto sull’Aids”, dai rapporti fra “Stress e cancro” fino alla (oggi ben nota) terapia anticancro a base di ascorbato di potassio del dottor Pantellini.
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William White: il mondo va verso epiche bancarotte
«La situazione d’oggi è peggio che nel 2007. Le nostre munizioni macro-economiche per contrastare la caduta sono state tutte sparate»: così al “Telegraph” William White, presidente della commissione revisioni dell’Ocse e già capo economista della Banca dei Regolamenti internazionali. Lettura consigliata a tutti quelli che credono sia in corso una crisi delle banche italiane, strapiene di crediti marci, e godono perché ce l’hanno con Renzi. «I debiti han continuato ad accumularsi negli ultimi otto anni – dice White – ed hanno raggiunto un livello tale in tutte le parti del mondo da esser divenute una potente causa di zizzania criminale. La sola domanda è se saremo capaci di guardare in faccia la realtà e affrontare que che sta avvenendo in modo ordinato, o disordinato». Quale sarebbe il modo ordinato? «I giubilei del debito avvengono da 5 mila anni, dal tempo dei Sumeri». Dedicato a quelli che “i debiti vanno pagati”. Commenta Evans Pritchard, il più limpido giornalista economico nel mazzo: il compito che aspetta autorità globali sarà come gestire cancellazioni del debito, e di conseguenza un grande riordino dei vincenti e perdenti nella società – senza scatenare una tempesta politica.Dunque è una questione di potere: i vincenti (non so se ho detto Germania) devono subire un ridimensionamento a favore dei perdenti? Ovvio che resistano: gli attacchi di Juncker a Renzi sono uno dei fenomeni della resistenza dei vincitori, che non vogliono fare la loro parte, e continuare a vincere fino al default generale dei perdenti. Secondo mr. White, i creditori europei sono quelli che probabilmente subiranno un più grosso taglio da un giubileo. Le banche europee hanno ammesso di avere un trilione di prestiti non funzionanti; sono pesantemente esposte ai mercati emergenti e stanno certamente prolungando debiti marciti che non hanno mai rivelato (viene a mente Deutsche Bank, il buco con un paese attorno? Non solo…). Il sistema bancario europeo dovrà essere ricapitalizzato su scala mai immaginata prima, e le nuove regole di bail-in significano che ogni depositante sopra i garantiti 100 euro dovrà contribuire al pagamento (si capisce perché Berlino ha salvato le sue banche con quasi 300 miliardi di soldi pubblici, poi ha fatto votare al parlamento italiano le norme sul bail-in?)White è uno dei pochissimi che ha detto ad alta voce, dal 2008, che la finanza occidentale stava andando a sbattere provocando una violenta crisi finale. Il solo a dire che stimolare l’economia a forza di stampaggio e tassi zero da parte delle banche centrali dopo la crisi Lehman (2007) alimentava “stimoli” dell’Asia e nei mercati emergenti, gonfiando bolle di credito, e un aumento dell’indebitamento in dollari che era difficile da controllare in un mondo di libera circolazione di capitali. La globalizzazione capitalistica ha sempre prodotto lo stesso danno finale: chi lo ha negato per tutti questi anni, è solo perché ci guadagnava: faceva vincere la sete del potere invece della verità. Il risultato? che anche gli emergenti sono oggi nel gorgo del debito. I debiti privati e pubblici sommati sono saliti in questi mercati al 185% del Pil, e nei paesi Ocse del 265 per cento: «Il 5 per cento in più rispetto all’altro ciclo del 2007» che ha portato al disastro Lehman e alla crisi recessiva mondiale in corso. Con questa complicazione: «I mercati emergenti, allora, furono parte della soluzione. Adesso anch’essi sono parte del problema». Traduzione: il capitalismo si salvò indebitando (pardon, “facendo giungere capitali per lo sviluppo dei”) paesi emergenti, fino a renderli come sono ora, insolventi. Ora anche loro anno bisogno di un giubileo.Che cosa produrrà il crollo del sistema dando il via alle epiche bancarotte mondiali? Impossibile dirlo: «Il sistema ha perso la sua ancora ed è prono alle rotture in modo inerente». Una svalutazione cinese può metastatizzare. «Ogni paese grande s’è lanciato in una guerra valutaria, anche se si ostina a dire che il quantitative easing non ha nulla a che fare con la svalutazione competitiva. Hanno giocato, tranne la Cina – fino ad ora». L’effetto dello stampaggio è uno spendere in anticipo sul futuro; ciò provoca una tossicodipendenza e, alla fine, non riesce più a “fare trazione” Alla fine, il futuro arriva nel presente, e non puoi più spenderlo. E il gioco mica l’han cominciato dal 2007. Già nel 1987 la Fed ha iniettato troppo stimolo per prevenire una “purga” (dei creditori) dopo il crash che avvenne allora. Dopodiché le “autorità”, banche centrali e governi, hanno lasciato che ogni boom facesse la sua corsa, pensando che avrebbero avviato la pulizia più tardi, e rispondendo ad ogni shock con altra stampa, alacremente. Ciò ha portato, secondo l’esperto della Bri, la finanza a una convinzione della facilitazione perpetua, fino alla caduta degli interessi al disotto del loro “tasso naturale”, cessando di essere un segnale del rischio di credito.«L’errore fu peggiorato negli anni ’90, quando Cina ed Europa dell’Est sono state unite improvvisamente all’economia, inondando il mondo con esportazioni a basso prezzo. I prezzi calanti dei beni industriali hanno mascherato l’inflazione degli attivi (finanziari) che stava avvenendo. I politici sono stati indotti all’inazione da una serie di credenze consolanti, che ora si rivela false. Sono stati indotti a credere che finché l’inflazione è sotto controllo, tutto va bene». Ecco in poche limpide parole perché gli americani hanno accelerato la globalizzazione, fatto entrare il gigante cinese nel mercato mondiale nonostante la sua economia statalista, ed aperto all’Est europeo: per gonfiare la loro bolla, e andare avanti ancora un po’. Adesso la Cina, dopo uno sviluppo eccessivamente rapido artificialmente montato dai capitali, si è trasformata da locomotiva in valanga. Una valanga immane.La Fed ha prodotto bolle su bolle, fino a provocare quella in cui siamo oggi: la “debt deflation” preconizzata da Irving Fisher, il grande economista della Grande Depressione. Oggi la Fed è in «un terribile dilemma», e tenta di raddrizzare la nave sottraendosi a ulteriori quantitative easing. «Se alzano i tassi, sarà brutta. Se non li alzano, non si fa’ che peggiorare la cosa. La situazione è così maligna, che non esistono risposte giuste per risolverla. E’ la trappola del debito, non c’è uscita facile». Secondo mr. White, un inizio sarebbe che i governi smettano di dipendere dalle banche centrali per non essere loro a fare il lavoro sporco. Le banche centrali non possono risolvere un problema di insolvenza, possono solo risolvere problemi di liquidità. I politici «devono ritornare al fondamentale attività di bilancio, chiamatela keynesiana se volete, e lanciare un mai visto e potente programma di investimenti sulle infrastrutture, che si paghi grazie alla crescita maggiore».E’ il momento delle soluzioni alternative, del “quantitative easing per il popolo”? la speranza è che al Forum di Davos i potenti del mondo affrontino in questo problema così limpidamente posto da White e dal “Telegraph”. Ecco uno dei motivi per cui la cancelliera Merkel ha annullato la sua partecipazione a Davos? Se è così, sarà un crollo disordinato, una guerra europea. I tedeschi e Bruxelles sanno che posson perdere tutto,e fanno i duri….E noi, o metà dei media e del popolo italiota, a “prendere le distanze da Renzi”. Lo so anch’io che Renzi è un peso minimo. Ma è lui a questo passo cruciale della storia, ed è la carta con cui dobbiamo giocare. Se aspettiamo – come sempre facciamo noi italiani – l’arcangelo Michele che prenda il governo italiota, per finalmente sentirci ben guidati e pronti alla lotta, abbiamo da aspettare…la possibilità reale è che ci mettano di nuovo Monti, Letta, o Giuliano Amato, o Napolitano. O la Mogherini: vi ho fatto paura, vero?(Maurizio Blondet, “Il mondo va verso epiche bancarotte”, dal blog di Blondet del 20 gennaio 2016).«La situazione d’oggi è peggio che nel 2007. Le nostre munizioni macro-economiche per contrastare la caduta sono state tutte sparate»: così al “Telegraph” William White, presidente della commissione revisioni dell’Ocse e già capo economista della Banca dei Regolamenti internazionali. Lettura consigliata a tutti quelli che credono sia in corso una crisi delle banche italiane, strapiene di crediti marci, e godono perché ce l’hanno con Renzi. «I debiti han continuato ad accumularsi negli ultimi otto anni – dice White – ed hanno raggiunto un livello tale in tutte le parti del mondo da esser divenute una potente causa di zizzania criminale. La sola domanda è se saremo capaci di guardare in faccia la realtà e affrontare que che sta avvenendo in modo ordinato, o disordinato». Quale sarebbe il modo ordinato? «I giubilei del debito avvengono da 5 mila anni, dal tempo dei Sumeri». Dedicato a quelli che “i debiti vanno pagati”. Commenta Evans Pritchard, il più limpido giornalista economico nel mazzo: il compito che aspetta autorità globali sarà come gestire cancellazioni del debito, e di conseguenza un grande riordino dei vincenti e perdenti nella società – senza scatenare una tempesta politica.
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Isis, Cia, Mossad e gli altri gangster al potere con Obama
Perché il mondo dovrebbe preoccuparsi della politica estera americana? La risposta è piuttosto semplice: se morirete mentre siete a casa vostra, se sarete fatti a pezzi insieme alla vostra famiglia, probabilmente sarà stata l’America ad uccidervi. Gli americani sono consapevoli di tutto questo. La maggioranza della popolazione non approva la folle politica estera americana, ma l’“opposizione” costituita dalla destra repubblicana non solo la sostiene, ma crede che Obama non stia ammazzando a sufficienza – e certamente non ovunque sia necessario. Il mondo, di conseguenza, è costretto a vivere e a morire all’ombra della politica di Washington, minacciato dalle spaventose politiche di Obama (che rappresenta, oltretutto, il punto di vista ‘moderato’) e da una dozzina di pazzi che, dietro le quinte, è in attesa sia degli eserciti promessi dagli americani in Africa e in Medio Oriente che dell’imposizione dell’egemonia statunitense in tutta l’Asia – oltre che dell’annientamento nucleare di tutti coloro che osassero disapprovare. E’ davvero questa la situazione? La risposta è un sonoro ‘sì’. E’ un pezzo di storia che si sta ripetendo.Le migliori informazioni che potete trovare là fuori, i dettagliati rapporti investigativi trapelati dal governo degli Stati Uniti, indicano tutti che le vicende del 9/11 furono una congiura internazionale e che, sì, l’Arabia Saudita era pienamente coinvolta. Nel maggio del 2014, quando i documenti prodotti dalla Russia furono pubblicati (peraltro solo da “Veterans Today”, dopo essere stati rifiutati dalla Cnn), nessuno prestò attenzione a quello che non voleva sentirsi dire. Quei documenti facevano riferimento non solo all’Arabia Saudita, ma anche ad una ‘cabala’ costituita da leader politici e finanziari americani, canadesi, israeliani e sudafricani – sostenuta dai gruppi-canaglia presenti nella Cia e nel Pentagono, ma anche dai servizi segreti sauditi e israeliani. In quei documenti non si parlava degli ‘Stati estremisti islamici’ (e nemmeno di Osama Bin Laden), ma si faceva il nome di alcuni personaggi riservati e potenti, come ad esempio ‘Bronfman’ o ‘Netanyahu’. Nessuno si nascondeva nelle caverne, non i veri colpevoli, gli stessi che oggi sostengono l’Isis. Questo gruppo terroristico proviene dalle sale di rappresentanza di Zurigo e Londra, non dai tunnel sotto Mosul.La ragione per cui ancora una volta torniamo su questa vicenda [9/11] è che ‘l’era di Bush’ potrebbe ripetersi. Suo fratello Jeb è uno dei capofila nelle elezioni presidenziali statunitensi. Anche Donald Trump potrebbe essere eletto e, insieme a lui, anche degli altri … ma lavorano tutti per la ‘Koch Brothers’ e per il losco padrone israeliano del gioco d’azzardo, Sheldon Adelson. Sono tutti alla ricerca di una nuova guerra mondiale. Hanno tutti questa cosa in comune, vogliono dichiarare guerra alla Russia. Vogliono che il mondo diventi uno Stato di polizia caratterizzato dalla sorveglianza universale ed auspicano (fatto che si capisce ancor meno) il collasso ambientale che, a sua volta, porterebbe inesorabilmente allo spopolamento del mondo. La ragione per cui sto citando gli eventi del 9/11 ed alcuni fatti largamente provati (l’esplosivo posto sulle ‘tre torri’, l’arresto in tutta New York di personaggi appartenenti al Mossad, il disturbo ed il blocco delle trasmissioni-radio, la ‘fuga’ dal paese delle persone ‘sospette’, i due aerei carichi di sauditi e israeliani etc.), è che quelle vicende si stanno ripetendo.Vengono raggruppate sotto il nome di ‘Isis’, ma si tratta della stessa ‘unione’ fra i servizi segreti israeliani e sauditi che abbiamo visto all’opera il 9/11 – che questa volta coinvolge anche Erdogan. Lavorando a stretto contatto con la Cia ed il Pentagono, ‘l’unione’ comanda le unità dell’Isis, le rifornisce di armi e paga il petrolio in contanti, nell’ambito di ‘quell’enorme commercio’ che è stato provato dalla Russia, ma di cui tutti sapevano da molto tempo. I protagonisti sono sempre gli stessi, che si parli di Isis, di Ucraina, di Boko Haram o di al-Shebab in Kenya e in Africa Orientale, di ‘guerra allargata’ in Afghanistan o di ‘guerra al terrore’ in Europa e negli Stati Uniti. E allora, cos’è che tutto questo ha a che fare con la politica americana e con Barak Obama? Sette anni fa il presidente americano, entrando sulla scena politica, si rivolse al mondo offrendo ai musulmani la ‘pace’ e agli americani una migliore ‘giustizia sociale’ ed una ‘nuova direzione’. In America, la sua politica interna ha portato a dei relativi successi economici – Obama ed il Partito Democratico hanno lottato per i diritti dei lavoratori, per la salute, per l’istruzione e, in generale, per un ritorno dei ‘diritti degli elettori’.Sotto la sua presidenza, tuttavia, gli omicidi commessi dalla polizia sono notevolmente aumentati (o hanno cominciato ad essere denunciati, dopo anni di silenzio. Non sappiamo quale delle due sia l’affermazione giusta), le ‘Primavere Arabe’ hanno portato centinaia di milioni di persone verso il disastro politico (un chiaro ‘disegno’ della Cia) ed infine una nuova ‘Guerra Fredda’, basata sull’ennesimo complotto fra Mossad e Cia, questa volta in Ucraina, incombe spaventosa su di noi. Quelle che sono delle cose un po’ da pazzi (o che almeno sembrano esserlo), sono le mosse che il presidente Obama sta facendo in direzione opposta: l’accordo nucleare con l’Iran e il recente accordo in Siria con la Russia, tanto per citarne due. E così, se da un lato Obama e Kerry sputano le bugie più goffe ed evidenti perseguendo delle palesi politiche genocide (in particolare verso Iran, Siria, Russia e Cina), dobbiamo prendere atto che, poco tempo dopo, si presentano al tavolo delle trattative con iniziative competenti e razionali! Questa è schizofrenia allo stato puro.Ad esempio, non c’è dubbio che la Russia sia stata letteralmente spinta a tracciare una linea di demarcazione in Siria, contro l’aggressione americana. Ma, qualunque cosa si possa dire al riguardo (in particolare sul fatto che Obama non sia riuscito a combattere l’Isis), coloro che sono maggiormente preoccupati per lo Stato Islamico sono gli stessi che hanno contribuito a fondarlo e che continuano a sostenerlo! Chiaramente, non stiamo parlando solo di Israele, Arabia Saudita e Turchia, ma anche della ‘destra’ degli Stati Uniti, di quelle stesse persone che hanno contribuito agli eventi del 9/11 per creare un clima di paura. Infine, come piccola ‘questione a parte’, poniamoci una semplice domanda: qual’é la differenza fra la Nsa (National Security Agency), che intercetta le comunicazioni mondiali, e la ‘Google Corporation’?. La risposta è molto semplice: nessuna. Il presidente Obama, in sette anni, non è riuscito a portare l’America al di fuori del ‘cono d’ombra’. Al contrario, ha spinto il mondo verso una nuova ‘Guerra Fredda’ e precipitato l’Europa in un periodo di follia politica, come non si vedeva dall’agosto del 1914.Ancora oggi sono gli stanchi protagonisti di allora ad esercitare il potere reale: i gangster politici americani, il ‘cartello’ McCain-Romney legato alla famiglia messicana dei Salinas, l’impero Adelson di Macao ed infine i Rothschild-Rockefeller che guidano il ‘Cartello della Federal Reserve’, che a sua volta controlla le valute mondiali e le banche. Questo è ciò a cui oggi stiamo assistendo. Un’America governata dai criminali e dagli scamster [coloro che ingannano gli altri per prendere i loro soldi, ma non solo], dagli interessi dell’industria del petrolio, della difesa, delle assicurazioni, dell’energia nucleare e del carbone, dei cartelli della droga e di alcune potenti famiglie, come quella del gruppo Walton-Walmart. E dietro a tutto questo non c’è l’America in quanto tale, ma un ‘fronte’ sottile che vuol porre la potenza militare [americana] nelle mani della criminalità organizzata globale, più in senso ‘millenario’ che ‘multi-generazionale’.(Gordon Duff, “Il mondo sopravviverà all’ultimo anno di Obama?”, intervento pubblicato da “Neo”, New Eastern Outlook, e “Veterans Today” il 27 dicembre 2015, tradotto e ripreso da “Come Don Chisciotte”).Perché il mondo dovrebbe preoccuparsi della politica estera americana? La risposta è piuttosto semplice: se morirete mentre siete a casa vostra, se sarete fatti a pezzi insieme alla vostra famiglia, probabilmente sarà stata l’America ad uccidervi. Gli americani sono consapevoli di tutto questo. La maggioranza della popolazione non approva la folle politica estera americana, ma l’“opposizione” costituita dalla destra repubblicana non solo la sostiene, ma crede che Obama non stia ammazzando a sufficienza – e certamente non ovunque sia necessario. Il mondo, di conseguenza, è costretto a vivere e a morire all’ombra della politica di Washington, minacciato dalle spaventose politiche di Obama (che rappresenta, oltretutto, il punto di vista ‘moderato’) e da una dozzina di pazzi che, dietro le quinte, è in attesa sia degli eserciti promessi dagli americani in Africa e in Medio Oriente che dell’imposizione dell’egemonia statunitense in tutta l’Asia – oltre che dell’annientamento nucleare di tutti coloro che osassero disapprovare. E’ davvero questa la situazione? La risposta è un sonoro ‘sì’. E’ un pezzo di storia che si sta ripetendo.
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Il massacro di Parigi e le rivelazioni-choc di Gioele Magaldi
Poi non dite che non vi avevano avvisato. Anche la nuova strage di Parigi era annunciata, e non solo dai proclami bellicosi dell’Isis. Da almeno un anno, nelle librerie italiane (non sui giornali che avrebbero dovuto recensirlo) fa bella mostra di sé lo sconvolgente libro “Massoni”, di Gioele Magaldi, edito da Chiarelettere. Un saggio deliberamente ignorato dal mainstream, che presenta contenuti scomodi e addirittura devastanti, al punto da costringere a rileggere la storia del ‘900. Alla storiografia ufficiale – l’intreccio di dinamiche socio-economiche di massa – il libro aggiunge l’influenza di una regia occulta. E’ il “convitato di pietra”, il vertice massonico mondiale, spesso evocato ma mai prima “presentato”, con nomi e cognomi. Una struttura di potere marcatamente progressista fino ai primi decenni del dopoguerra, e poi – col doppio omicidio di Bob Kennedy e Martin Luther King – rovinosamente degenerata in una parabola reazionaria, neo-feudale, neo-aristocratica. Dallo storico patto “United Freemasons for Globalization”, la nuova élite ha avuto mano libera fino al Pnac, il piano dei neo-con per il “nuovo secolo americano” su cui costruire il “nuovo ordine mondiale”, quindi l’11 Settembre e la “guerra infinita” (Iraq, Afghanistan, Libia, Siria) che è sotto i nostri occhi, compreso l’ultimo spaventoso massacro di Parigi. E resta sempre nell’ombra uno dei soggetti-chiave degli ultimi sanguinosi sviluppi: si chiama “Hathor Pentalpha” ed è una delle 36 superlogge internazionali dell’oligarchia mondiale.“Hathor” è l’altro nome della dea egizia Iside, e non è un caso – per Magaldi – che si chiami proprio Isis l’armata di tagliagole del “califfo” Al-Baghdadi, terroristi e miliziani sostenuti da Turchia e Arabia Saudita, appoggiati da settori dell’intelligence Usa e impiegati in diversi teatri, sempre con la medesima missione: destabilizzare gli assetti statali, generare terrore e caos, ingaggiare l’Occidente in una sorta di Terza Guerra Mondiale che ha come obiettivo strategico il depotenziamento della Cina, vero competitor mondiale dell’egemonia del dollaro, e il suo alleato più potente, l’indocile Russia di Putin. Analisi sviluppate in questi anni da decine di osservatori internazionali, ma solo da Magaldi integrate anche con le lenti dell’élite massonica planetaria. Già “gran maestro” della loggia Monte Sion aderente al Grande Oriente d’Italia, Magaldi rivendica orgogliosamente la sua appartenza libero-muratoria e, nel libro, insiste sulla paternità massonica della modernità: «Lo Stato laico, la democrazia e il suffragio universale non li ha portati la cicogna». Rivoluzione Francese, Rivoluzione Americana. Persino la Rivoluzione d’Ottobre: «Prima di far nascere l’Urss, Lenin fondò a Ginevra la superloggia Joseph De Maistre». Inutile stupirsi più di tanto: «E’ comprensibile che il soggetto storico che ha introdotto la modernità poi cerchi anche di pilotarla a suo piacimento».Nei libri di storia, però, di massoneria si accenna, al massimo, tra le pagine dedicate al Risorgimento italiano – essendo massoni Mazzini, Garibaldi e Cavour, anch’essi appartenenti a una corrente impegnata in una lotta secolare contro l’assolutismo monarchico e l’oscurantismo vaticano. Fuoriuscito dal Grande Oriente d’Italia per fondare una sua associazione, il Grande Oriente Democratico, Magaldi è stato affiliato anche a una storica Ur-Lodge progressista anglosassone, la “Thomas Paine”. E ora ha fondato un organismo politico-culturale, il Movimento Roosevelt, che si richiama al lascito dei Roosevelt, entrambi massoni progressisti: il presidente Franklin Delano, fautore del New Deal, e sua moglie Eleanor, promotrice all’Onu della Dichirazione universale dei diritti dell’uomo. Un orizzonte liberal-socialista, nutrito di idee keynesiane, quelle che ispirarono lo storico piano elaborato da George Marshall per far risorgere l’Europa dalle macerie del dopoguerra. Tradotto oggi: fine dell’austerity disposta dall’Ue ed estensione della spesa pubblica espansiva, verso la piena occupazione. Anche qui: si parla spessissimo di Keynes e del Piano Marshall, evitando però di ricordare che l’insigne economista inglese e il famoso generale erano entrambi massoni progressisti. Magaldi rivela che il loro ultimo “discendente”, il celebre sociologo Arthur Schlesinger Jr., elemento di punta della super-massoneria progressista anglosassone, è l’uomo a cui l’Italia deve il fallimento dei tentativi di colpi di Stato rapidamente succedutisi, promossi da elementi della super-massoneria reazionaria.«L’Italia è sempre stato un paese-laboratorio, un campo di battaglia decisivo dove attuare esperimenti democratici oppure autoritari», spiega Magaldi: «Non a caso, in Portogallo la Rivoluzione dei Garofani del 1974 venne fatta scoccare il 25 aprile, anniversario della Liberazione italiana, per rispondere al golpe dei colonnelli in Grecia». Come sempre, anche oggi l’Italia è nel mirino: nel 2011 è stata investita in pieno dalla potenza di fuoco dell’élite tecnocratica europea, dopo la lettera della Bce con cui la Troika disarcionò Berlusconi, firmata da Jean-Claude Trichet e dal “fratello” Mario Draghi, cui rispose il “fratello” Napolitano insediando a Palazzo Chigi il “fratello” Mario Monti. Le informazioni contenute nel suo libro, assicura Magaldi, sono tutte documentate in 5.000 pagine di archivio, che l’autore si è sempre dichiarato pronto a esibire in caso di contestazioni. Ma non ce n’è stato bisogno: “Massoni, la scoperta delle Ur-Lodges” è stato accolto nel modo più comodo, cioè con la congiura del silenzio da parte di tutti, nel mainstream politico-editoriale. Troppe rivelazioni scomode, per troppi personaggi ancora al potere, da Draghi in giù.Silenzio anche dagli storici, presi in contropiede dalla sconcertante rilettura magaldiana del ‘900: il massone Pinochet contro il massone Allende in Cile, il sostegno della massoneria progressista a John Kennedy, lo “scudo massonico” organizzato per tentare di proteggere Bob Kennedy e Martin Luther King, dalle cui uccisioni scaturì una drammatica rottura. Dagli anni ‘70 si affermò l’ala destra, incarnata da leader come Kissinger e Brzezinski, destinati a mettere all’angolo i leader della corrente progressista. Segreti, misteri e contorsioni anche inattese: l’attentato a Reagan promosso dai sostenitori occulti di Bush e l’attentato (speculare e simmetrico) a Papa Wojtyla, orchestrato dall’élite massonica che aveva sostenuto Reagan. La stessa oligarchia del regime di Bruxelles è interamente massonica, sostiene Magaldi, e appartiene alla corrente neo-conservatrice. Per questo oggi siamo arrivati alla recessione strutturale, alla disoccupazione-record, alla depressione storica di un paese come l’Italia. Loro, i neo-aristocratici, hanno colonizzato il pianeta (e l’Europa) col pensiero unico neoliberista: lo Stato deve capitolare, rinnegare la sua funzione storica, servire le multinazionali e non più i cittadini, rassegati a ridiventare sudditi. Per Magaldi non è solo un attentato alla democrazia, è anche il tradimento della più autentica vocazione massonica.Nel suo saggio, Magaldi rilegge gli eventi epocali che hanno determinato la situazione di oggi, a partire da libri-evento come “La crisi della democrazia” promosso dalla Commissione Trilaterale sempre con lo stesso obiettivo: collocare i propri uomini (Thatcher, Reagan, Kohl, Mitterrand) alla guida dei paesi-chiave, per occupare lo Stato e asservirlo ai diktat delle grandi lobby multinazionali.Nulla di tutto ciò è avvenuto per caso, avverte Magaldi, che nell’esplosiva appendice del suo lavoro editoriale fa dire al massone oligarchico “Frater Kronos” che qualcosa è andato storto, qualcuno è andato oltre il perimetro concordato. Un nome su tutti: quello del “fratello” George Bush senior, che sarebbe “impazzito di rabbia” dopo la bruciante sconfitta inflittagli nel 1980 dai sostenitori di Reagan. Da allora, ancor prima di diventare a sua volta presidente, Bush avrebbe dato vita alla «inquietante, pericolosa e sanguinaria» superloggia denominata “Hathor Pentalpha”, che avrebbe reclutato il gotha neocon del Pnac, il piano per il Nuovo Secolo Americano, da Cheney a Rumsfeld, nonché fondamentali alleati europei, da Blair a Sarkozy, incluso il turco Erdogan. Missione del clan: destabilizzare il pianeta, anche col terrorismo, a partire dall’11 Settembre.Per questa missione, si legge sempre nel libro di Magaldi, è stato riciclato il “fratello” Osama Bin Laden, arruolato dallo stesso Brzezinski ai tempi dell’invasione sovietica in Afghanistan. Risultato, dopo l’attentato alle Torri: una serie di guerre, in sequenza, dall’Afghanistan all’Iraq, dalla Libia alla Siria, anche dietro il paravento della “primavera araba”. Ultimo bersaglio, la Russia di Putin. Ma la “geopolitica del caos” si avvale sempre di più della più grottesca creatura dell’intelligence, il fondamentalismo islamico: nel lontano 2009, i militari americani del centro iracheno di detenzione di Camp Bucca si videro recapitare l’ordine di rilascio dell’allora oscuro Abu Bakr Al-Baghdadi, l’attuale “califfo” dell’Isis. Oggi, Al-Baghdadi è l’uomo che minaccia l’Europa e fa strage di innocenti a Parigi, e c’è chi se ne stupisce: politici e giornalisti esibiscono sconcerto e raccapriccio, come se brancolassero nel buio. Eppure, tra le pagine di “Massoni”, era tutto in qualche modo già scritto. Ma non c’è pericolo che le analisi di Magaldi emergano al punto da affacciarsi in prima serata sul mainstrem televisivo, e neppure sulle pagine sempre reticenti della grande stampa.(Il libro: Gioele Magaldi, “Massoni. Società a responsabilità illimitata. La scoperta delle Ur-Lodges”, Chiarelettere, 656 pagine, 19 euro).Poi non dite che non vi avevano avvisato. Anche la nuova strage di Parigi era annunciata, e non solo dai proclami bellicosi dell’Isis. Da almeno un anno, nelle librerie italiane (non sui giornali che avrebbero dovuto recensirlo) fa bella mostra di sé lo sconvolgente libro “Massoni”, di Gioele Magaldi, edito da Chiarelettere. Un saggio deliberamente ignorato dal mainstream, che presenta contenuti scomodi e addirittura devastanti, al punto da costringere a rileggere la storia del ‘900. Alla storiografia ufficiale – l’intreccio di dinamiche socio-economiche di massa – il libro aggiunge l’influenza di una regia occulta. E’ il “convitato di pietra”, il vertice massonico mondiale, spesso evocato ma mai prima “presentato”, con nomi e cognomi. Una struttura di potere marcatamente progressista fino ai primi decenni del dopoguerra, e poi – col doppio omicidio di Bob Kennedy e Martin Luther King – rovinosamente degenerata in una parabola reazionaria, neo-feudale, neo-aristocratica. Dallo storico patto “United Freemasons for Globalization”, la nuova élite ha avuto mano libera fino al Pnac, il piano dei neo-con per il “nuovo secolo americano” su cui costruire il “nuovo ordine mondiale”, quindi l’11 Settembre e la “guerra infinita” (Iraq, Afghanistan, Libia, Siria) che è sotto i nostri occhi, compreso l’ultimo spaventoso massacro di Parigi. E resta sempre nell’ombra uno dei soggetti-chiave degli ultimi sanguinosi sviluppi: si chiama “Hathor Pentalpha” ed è una delle 36 superlogge internazionali dell’oligarchia mondiale.
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Pace con la Cina e fine della crisi, o Terza Guerra Mondiale
L’Isis, la Siria, la Russia. E poi l’Iran, Israele, la Turchia, l’emergenza migrati, la guerra in Yemen. Prove tecniche di Terza Guerra Mondiale? Ci stanno pensando seriamente, anche per azzerare i conti: viceversa, il dominio del dollaro – non più sostenibile – dovrebbe cedere al passo al nuovo mondo dei Brics, multipolare, guidato dalla Cina. Lo sostiene l’economista Vladimiro Giacché, leggendo in chiave economico-finanziaria i devastanti rivolgimenti geopolitici in corso. Il cui punto di partenza non è in Medio Oriente, ma a Wall Street: il capitalismo finanziario non si è più ripreso dopo la grande crisi del 2007, annega nel debito e ne fa pagare il conto ai paesi emergenti, e stampa montagne di moneta ma non riesce a risollevare l’economia reale. «Dopo la grande recessione, i paesi dell’Occidente capitalistico non sembrano capaci di uscire dal modello, inaugurato negli anni Ottanta e definitamente entrato in crisi nel 2007/2008, di una crescita alimentata dal debito e dall’abnorme sviluppo della finanza». Si tratta di un modello «che ha comprato la crescita nei paesi capitalistici avanzati con un’insostenibile crescita di debito e asset finanziari», che in poco meno di trent’anni, dal 1980, sono passati dal 119% del Pil mondiale all’attuale 356%.Proprio il doping finanziario dell’economia ha tenuto in vita i consumi negli Usa, in Europa e in Giappone, nonostante «salari reali calanti dall’inizio degli anni Settanta», e questo «grazie alla speculazione di Borsa e allo sviluppo del credito al consumo». Sempre la finanziarizzazione ha sorretto industrie decotte in settori “maturi”, come quello dell’auto, e alle stesse aziende ha offerto la possibilità di fare profitti attraverso la speculazione di Borsa. La crisi esplosa nel 2007 ha rotto il giocattolo, «ma non è riuscita a rilanciare l’accumulazione di capitale su scala globale». Stati Uniti, Giappone e Unione Europea, «e più in particolare l’Eurozona», si trovano molto al di sotto della crescita potenziale stimata prima della crisi, precisa Giacché nella sua relazione presentata ad un recente convegno romano sulla Cina post-crisi. «Nel mondo ci sono decine di milioni di disoccupati in più, soprattutto nei paesi a capitalismo avanzato, e quindi salari mancanti per oltre 1,2 trilioni di dollari, che gravano sulla domanda globale», spiega Giacché. «Il debito complessivo, al contrario, è cresciuto di 57 trilioni di dollari dal 2007», e questo «sia nei paesi a capitalismo maturo, sia nelle economie emergenti, Cina inclusa».Nei paesi più avanzati, è calato il debito privato ma in compenso è molto cresciuto il debito pubblico, a causa della enorme “socializzazione delle perdite” conseguente alla crisi: «Gli Stati hanno salvato a proprie spese dalla bancarotta il sistema finanziario e in qualche caso anche buona parte del settore manifatturiero». Dopo la crisi, le banche centrali di Usa e Giappone (e poi anche Ue) hanno inondato il mondo di liquidità, portando a zero i tassi d’interesse e acquistando massicciamente asset finanziari sul mercato. La Federal Reserve ha comprato titoli di Stato Usa e obbligazioni private per 4 trilioni di dollari, continua Giacché. E nell’Eurozona, oggi, i riacquisti di obbligazioni da parte della Bce sono superiori alle nuove emissioni. «Questo ha sostenuto i mercati azionari e quelli dei titoli di Stato», tuttavia «non ha fatto realmente ripartire la crescita». Una constatazione che ha indotto alcuni studiosi, tra cui il Premio Nobel Paul Krugman e un peso massimo dell’establishment di Washington, l’economista Lawrence Summers, a rispolverare il concetto di “stagnazione secolare”, nato durante la crisi degli anni Trenta.«Poche economie avanzate sono tornate ai tassi di crescita pre-crisi nonostante anni di tassi d’interesse praticamente a zero». E si temono nuove bolle finanziarie. Secondo Krugman, «periodi come gli ultimi 5 anni e oltre, in cui anche una politica di tassi d’interesse a zero non è in grado di ricreare una situazione di piena occupazione, sono destinati ad essere molto più frequenti in futuro». Quel modello è in crisi, dunque, ma i paesi non sanno rinunciarvi. Questo però si scontra con due problemi, osserva Giacché: «Il primo è la sproporzione crescente tra liquidità immessa nel mercato da parte delle banche centrali e risultati in termini di crescita», sproporzione «accompagnata dal rischio di alimentare instabilità finanziaria». Il secondo problema «consiste nel fatto che le politiche monetarie espansive (convenzionali e non) delle principali banche centrali occidentali sono di fatto pagate dai paesi emergenti, su cui le valute internazionali di riserva (e in particolare il dollaro) esercitano un diritto di signoraggio».In altre parole, «le manovre monetarie espansive del centro capitalistico sono pagate dalla periferia». Ovvero: «Espandendo la loro base monetaria, i paesi le cui monete sono valute internazionali di riserva scaricano infatti il costo della loro politica monetaria espansiva sui paesi emergenti, che sono costretti ad adoperare quelle valute per gli scambi internazionali». Inoltre, continua Giacché, rendendo negativi i tassi d’interesse sui propri titoli di Stato, il costo dell’operazione viene scaricato su chi li ha comprati (come è noto, la Cina ha molti titoli di Stato americani in portafoglio). Secondo Pingfan Hong, dell’Onu, qualcosa come 3.700 miliardi di dollari di valore sarebbero stati trasferiti in questo modo dai paesi in via di sviluppo ai paesi più ricchi del pianeta. Tutto questo «rappresenta un forte incentivo al superamento dell’attuale ordine monetario mondiale», fondato sulla valuta statunitense.L’obiettivo strategico dei paesi emergenti, dunque, è oggi quello chiarito in anticipo dall’agenzia cinese “Xinhua” già nel 2013: creare “una nuova valuta di riserva internazionale che rimpiazzi quella attualmente dominante, cioè il dollaro”. Obiettivo oggi perseguito costruendo progressivamente un’alternativa concreta all’uso del dollaro, dell’euro e dello yen nelle transazioni internazionali. «Questo sta già avvenendo: attraverso accordi bilaterali, un numero sempre maggiore di paesi ha stipulato con la Cina contratti in base ai quali le transazioni commerciali vengono regolate non più in dollari, ma in yuan. Ed è precisamente su questa base che fin dall’ottobre 2013 lo yuan ha superato l’euro e lo yen nel Trade Finance a livello internazionale, divenendo la seconda valuta mondiale in tale ambito».La richiesta di ammissione dello yuan alle monete del paniere Fmi rientra nella medesima strategia, aggiunge Giacché. Sulla stessa linea, la creazione di nuove banche multilaterali di sviluppo, dalla Banca dei Brics e all’Aiib. Prima missione: costruire infrastrutture finanziarie incentrate sui Brics «e non più sulla triade Europa-Stati Uniti-Giappone», e quindi «in grado di assecondare la transizione a un ordine monetario più bilanciato». L’altro obiettivo, enunciato due anni fa da Justin Yifu Lin nel saggio “Against the Consensus”, è quello di colmare il gap infrastrutturale fisico dei paesi emergenti, eliminando colli di bottiglia dello sviluppo e sbloccando così importanti riserve di crescita mondiale. «È importante notare che di questa crescita beneficerebbero sia i paesi emergenti (com’è ovvio), sia i paesi a capitalismo maturo (in grado di fornire oggi macchinari, domani beni di consumo ai mercati con migliore potenziale del mondo)». Per Giacché, «questa strategia per il rilancio dell’accumulazione di capitale su scala globale è l’unica vera alternativa oggi in campo, per uscire dalla crisi, alla riproposizione del modello imperniato sul capitale produttivo d’interesse e quindi sull’incremento esponenziale del capitale fittizio».Se ci fermiamo sulle più importanti infrastrutture ipotizzate, ossia la Via della Seta (terrestre e marittima), vediamo che «hanno un’implicazione geopolitica fondamentale: ossia l’avvicinamento di Europa ed Asia (e in prospettiva, forse, addirittura la creazione di un blocco eurasiatico)». Oggi, continua Giacché nella sua analisi, a questo avvicinamento si oppone non soltanto la carenza di infrastrutture di trasporto adeguate, ma anche l’“arco di instabilità” che destabilizza Medio Oriente e Asia Centrale, interrompendo in più punti entrambi i tracciati. «Questo dato di fatto ci offre una interessante lettura, non “energetica”, della situazione mediorientale». E «ci deve preoccupare, soprattutto in riferimento ad alcuni enunciati di Lawrence Summers nel contesto della sua ripresa della teoria della “secular stagnation”». Chi lavora per congelare il mondo in questa stagnazione infinita? L’Occidente, che prova ancora a «puntellare il modello di crescita precedente la crisi». Solito metodo: per contrastare il crollo dei profitti, si perpetua «l’egemonia del capitale produttivo d’interesse, pur sapendo che questo non farà che riproporre – e su scala ancora più estesa – i problemi che pochi anni fa hanno condotto a una delle più gravi crisi della storia del capitalismo».Lo stesso Summers accenna anche a una soluzione alternativa per far ripartire la crescita, citando Alvin Hansen che enunciò «il rischio di una stagnazione secolare alla fine degli anni Trenta, in tempo per assistere al boom economico contemporaneo e successivo alla seconda guerra mondiale». Per Summers «è senz’altro possibile che si produca qualche evento esogeno di grande portata». Un “evento esogeno”? Sì, e così esplosivo da «aumentare la spesa o di ridurre il risparmio in misura tale da accrescere il tasso di interesse reale da piena occupazione nel mondo industriale». Testualmente: «Guerra a parte, non è chiaro quali eventi del genere possano verificarsi». Un “evento esogeno” chiamato Terza Guerra Mondiale?«Se prendiamo sul serio queste affermazioni, e io credo si debba farlo – dice Giacché – quello che si sta svolgendo sotto i nostri occhi in Medio Oriente non è una recrudescenza di tribalismo islamico contro la “moderna civiltà occidentale”, e quanto avviene più complessivamente nel mondo non è l’emergere di presunti nuovi imperialismi contro i vecchi poteri capitalistici». Sul tavolo ci sono solo due opzioni: il modello di sviluppo multilaterale proposto dalla Cina, col rilancio della crescita dell’economia reale attraverso investimenti, oppure il modello di crescita solo finanziaria basato sul capitale d’interesse, e cioè «sul perpetuarsi di un signoraggio antistorico» che include «la difesa di vecchie rendite di posizione attraverso la destabilizzazione ora, e domani forse la guerra». E’ Proprio qui, conclude Giacché, che «si gioca oggi la partita – dall’esito tutt’altro che deciso – tra progresso e regressione».L’Isis, la Siria, la Russia. E poi l’Iran, Israele, la Turchia, l’emergenza migranti, la guerra in Yemen. Prove tecniche di Terza Guerra Mondiale? Ci stanno pensando seriamente, anche per azzerare i conti: viceversa, il dominio del dollaro – non più sostenibile – dovrebbe cedere al passo al nuovo mondo dei Brics, multipolare, guidato dalla Cina. Lo sostiene l’economista Vladimiro Giacché, leggendo in chiave economico-finanziaria i devastanti rivolgimenti geopolitici in corso. Il cui punto di partenza non è in Medio Oriente, ma a Wall Street: il capitalismo finanziario non si è più ripreso dopo la grande crisi del 2007, annega nel debito e ne fa pagare il conto ai paesi emergenti, e stampa montagne di moneta ma non riesce a risollevare l’economia reale. «Dopo la grande recessione, i paesi dell’Occidente capitalistico non sembrano capaci di uscire dal modello, inaugurato negli anni Ottanta e definitamente entrato in crisi nel 2007/2008, di una crescita alimentata dal debito e dall’abnorme sviluppo della finanza». Si tratta di un modello «che ha comprato la crescita nei paesi capitalistici avanzati con un’insostenibile crescita di debito e asset finanziari», che in poco meno di trent’anni, dal 1980, sono passati dal 119% del Pil mondiale all’attuale 356%.
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Mitterrand: basta deficit, troppi soldi (e potere) ai cittadini
Perché ancora oggi ci sono persone senza cibo o acqua mentre altre vivono nell’abbondanza? Perché ancora oggi ci sono persone senza un lavoro e altre che ne hanno svariati? Perché ancora oggi ci sono persone senza casa e altre che ne hanno svariate? Perché ancora oggi ci sono persone senza soldi e altre con tanti soldi? Se davvero esiste una soluzione ai problemi della gente, perché nessuno la metta in pratica? Perché tutti si occupano sempre degli effetti dei problemi, trascurando le cause? Perché nessuno ci spiega qual è la causa? Perché se qualcuno conosce la causa, nessuno mette in campo la soluzione? Qual è la soluzione? Quotidianamente guardiamo, ascoltiamo e leggiamo del problema dei soldi che non ci sono, della disoccupazione che aumenta, dell’economia che non va bene perché i soldi non ci sono, degli imprenditori e dello Stato che non possono assumere perché non ci sono i soldi; del fatto che il debito pubblico aumenta perché l’economia non va bene perché mancano i soldi e quindi bisogna tagliare le spese ed aumentare le tasse in modo da abbassare i decifit annuali e il debito pubblico.Spesso addirittura ci dicono che dobbiamo fare il surplus di bilancio: che in sostanza significa che lo Stato incassa più di quando spende, perché se abbassiamo il debito i “mercati” (che semplicemente sono dei privati da alcuni anni abilitati a prestarci i soldi – incredibile, ma vero…) ci guarderanno con occhio differente e le agenzie di rating americane che controllano la vita dei singoli Stati in giro per il mondo (la vita di tutti noi), saranno più felici e non ci declasseranno. Ma chi sono i proprietari di questi maledetti soldi? Ci sono persone che essendo promotrici di queste “politiche criminali” finalizzate all’arricchimento dei singoli a discapito di tutti gli altri, conoscono ovviamente anche la risoluzione dei nostri problemi: risoluzione/soluzione che potrebbe essere applicata nel giro di pochi mesi e servirebbe a mettere al sicuro miliardi di vite attualmente letteralmente abbandonate a se stesse o in estremo pericolo).Oggi gli Stati si dividono in due categorie: quelli che possiedono una moneta sovrana e quelli che non hanno moneta sovrana. Le monete sovrane, per essere considerate veramente tali, devono seguire tre criteri fondamentali: devono essere di proprietà dello Stato che le emette, non devono essere convertibili in nessun materiale concreto tipo oro o argento e devono essere fluttuanti, il che significa che non possono essere cambiate a un tasso fisso con altre monete, quindi vengono lasciate fluttuare sui mercati, che decidono di volta in volta i tassi di cambio. Il dollaro, la sterlina e lo yen, ad esempio, sono monete sovrane perché rispettano questi tre criteri. Le monete non sovrane, invece, sono monete che non hanno nessuna proprietà. Gli Stati a moneta sovrana spendono inventando la moneta e accreditano i conti correnti di coloro che vendono loro beni o servizi. Gli Stati a moneta sovrana, quindi, creano ricchezza quando spendono e tolgono ricchezza ai cittadini quando tassano. Da ciò si deduce che, se tutti gli Stati a moneta sovrana spendono più di quanto tassano, questo arricchisce la società.Negli Stati a moneta sovrana il debito pubblico non è il debito dei cittadini ma la loro ricchezza. Quindi, se uno Stato a moneta sovrana decide di eliminare o pareggiare il debito, esso cesserà l’arricchimento dei cittadini. Immaginiamo che oggi nasce lo Stato X, che abbiamo un debito zero e che il Governo appena eletto dal popolo il primo anno decide di costruire 10 caserme, 100 scuole, 1000 ospedali, 10.000 Università, 100.000 strade eccetera… quindi, cosa fa il governo? Semplicemente inventa la moneta, accredita i conti corrente delle persone che lavorano per la costruzione di queste opere, quindi spende e distribuisce ricchezza. Immaginiamo che il primo anno il governo spende 100 monete per costruire questi beni e tassa il popolo per 70 monete, quindi chiude il bilancio annuale con un debito di 30 monete. Cosa succede a fine anno? Semplicemente il governo ha arricchito il popolo di 30 monete perché ha creato un debito di 30 monete. Quindi: se il governo che possiede moneta sovrana crea debito, genera ricchezza e fa sì che le persone possano avere monete per fare la spesa, comprare casa, fare un viaggio, acquistare una macchina, eccetera.Immaginiamo invece la situazione opposta. Il governo decide di costruire altri beni, quindi paga le aziende private che gli forniscono questi beni e, naturalmente, assume ancora altro personale. Questa volta, però, il governo inventa e spende ancora 100 monete per pagare gli stipendi di coloro che gli forniscono questi beni e servizi ma tassa il popolo per 160 monete, quindi chiude il bilancio annuale in attivo, non fa alcun debito ed anzi: pareggia il debito che aveva accumulato nei primi due anni (il governo, in sostanza, in 3 anni di lavoro ha speso 300 monete ed ha incassato 300 monete). Cosa succede? Semplice: succede che i cittadini dello Stato X non avranno in tasca più nessuna moneta, quindi nessuno potrà più spendere finché il governo non deciderà di fare debito chiudendo il bilancio in passivo generando ricchezza. Il debito è la nostra ricchezza, e se i governi che possiedono moneta sovrana decidono di abbassare il debito anche di un solo punto, questo sottrae ricchezza ai popoli: azzerarlo, come sicuramente avrete compreso, è impossibile.Questo ragionamento, naturalmente, vale solo per gli Stati che possiedono la cosiddetta moneta sovrana: cioè tutti gli Stati proprietari della propria moneta (proprio come lo era l’Italia qualche anno fa: adesso, grazie all’euro, abbiamo perso la nostra sovranità e non possiamo più stampare, non possiamo più creare moneta, non possiamo più avere una vera politica, non possiamo più fare scelte autonome. Dice Paul Krugman, Premio Nobel per l’Economia: «Adottando l’euro, l’Italia si è ridotta allo stato di una nazione del Terzo Mondo che deve prendere in prestito una moneta straniera, con tutti i danni che ciò implica». L’unica alternativa che oggi tutti i paesi che non possiedono una moneta sovrana hanno a disposizione per cercare di sopravvivere è quella di chiedere la moneta ai mercati dei capitali privati che successivamente strangolano e distruggono questi paesi con gli interessi.L’altra possibilità che questi paesi hanno per sopravvivere, naturalmente, è quella di licenziare, non assumere, assumere attraverso contratti precari che costano poco, chiedere la moneta al popolo attraverso le tasse che aumentano quotidianamente, privatizzare, liberalizzare, svendere, innalzare l’età pensionabile, tagliare gli stipendi, tagliare le pensioni, tagliare i fondi alla cultura, alla ricerca, alla scuola, alle università, alla sanità, ai servizi sociali e locali e chi più ne ha più ne metta: ecco spiegata la quotidianità di tantissimi paesi ed il meccanismo all’interno della quale attualmente si trova anche il nostro paese. La moneta in generale, comunque, non è mai di proprietà dei cittadini privati o delle banche: essi possono solo usarla, prendendola in prestito dalle banche o guadagnandola attraverso il lavoro. I soldi sono un mezzo che lo Stato spende per primo e solo successivamente tutti i cittadini ne usufruiscono, spendendoli a loro volta.Hanno tolto ad alcuni Stati la possibilità di stampare moneta e hanno fatto credere ad altri che possono ancora stampare, che il debito sovrano di un paese è un vero debito per il preciso fine descritto in maniera impeccabile dall’economista Joseph Halevi: «Quello che è in gioco è la totale privatizzazione della finanza pubblica e dunque la distruzione degli Stati». Come ci spiega il “Rapporto Grandi Disuguaglianze Crescono” di Oxfam, presentato nel gennaio 2015: «La ricchezza detenuta da meno dell’1% della popolazione mondiale supererà nel 2016 quella del restante 99%.» François Mitterand, parlando con Halevi a proposito del tema inflazione, deflazione, disoccupazione, precarietà e naturalmente del tema della piena occupazione, affermava: «La gente deve togliersi di mezzo. La piena occupazione darebbe troppo potere al popolo. La deflazione, la disoccupazione e i lavori precari, invece, glielo sottraggono».Ok, ma quanto e fino a quando può spendere uno Stato? Randall Wray, tra i più importanti e accreditati economisti e monetaristi del mondo: «Se capiamo come funzionano i sistemi monetari, se comprendiamo che il denaro è solo impulsi elettronici o carta straccia inventata dal Tesoro e dalla Bc, allora possiamo dire che il governo a moneta sovrana può inventarsi tutti gli impulsi elettronici che vuole, con essi può pagare tutti gli stipendi che vuole, comprare tutto ciò che vuole. Possiamo avere la piena occupazione, il business può vendergli tutto ciò che deve vendere se il governo vuole comprarglielo. Può il governo permettersi queste spese? Certo, perché il governo non esaurirà mai gli impulsi elettronici, dunque non farà mai bancarotta; preme un bottone e gli stipendi appaiono sui computer delle banche. L’unico limite è l’inflazione, ma se il governo spende per aumentare la produttività nel settore privato, allora l’inflazione non è più un problema».Per quale motivo, se è così semplice raggiungere l’obiettivo della piena occupazione, esso non sia mai stato perseguito? Ancora Wray: «Non è successo perché innanzi tutto ci sono un sacco di politici ed economisti che non capiscono nulla dei sistemi monetari, cioè non sanno capire che il denaro è solo impulsi elettronici e carta straccia. Poi ci sono molti individui nelle posizioni chiave del potere che sono opposti ideologicamente a questa idea, cioè vogliono la disoccupazione, gli piace, gli dà schiere di lavoratori a stipendi sempre più ridotti e possono competere sui mercati esteri sempre meglio. Ma soprattutto questo, si faccia attenzione: se i cittadini, che formano gli Stati ed eleggono i governi, si rendessero conto che i governi possono spendere quanto vogliono senza limiti di debito, allora il settore pubblico acquisirebbe una percentuale della ricchezza nazionale troppo grossa».Eccesso di inflazione? Lo Stato introduce una tassa temporanea, in modo da togliere di mezzo gli eventuali soldi in eccesso e la situazione è risolta. In conclusione: se il settore pubblico acquisisse una percentuale della ricchezza troppo grossa, i privati non avrebbero più ragione d’esistere, avrebbero un ruolo troppo marginale, un ruolo di scarsa importanza, pochi soldi, troppo poco potere, sarebbero dei normali lavoratori: non sarebbero più intoccabili e onnipotenti come lo sono diventati oggi. Questo è il motivo per cui ci lasciano vivere nell’attuale mondo che funziona al contrario e con la quotidiana paura del debito e dell’inflazione che ci viene quotidianamente “imposta” da tutti i loro amici inseriti nell’informazione ufficiale.(Vincenzo Bellisario, estratti da “Riepilogo generale finalizzato alla comprensione dei meccanismi monetari ed economici in favore della piena occupazione applicabili in Italia e nel mondo”, intervento pubblicato sul sito del Movimento Roosevelt il 18 ottobre 2015).Perché ancora oggi ci sono persone senza cibo o acqua mentre altre vivono nell’abbondanza? Perché ancora oggi ci sono persone senza un lavoro e altre che ne hanno svariati? Perché ancora oggi ci sono persone senza casa e altre che ne hanno svariate? Perché ancora oggi ci sono persone senza soldi e altre con tanti soldi? Se davvero esiste una soluzione ai problemi della gente, perché nessuno la metta in pratica? Perché tutti si occupano sempre degli effetti dei problemi, trascurando le cause? Perché nessuno ci spiega qual è la causa? Perché se qualcuno conosce la causa, nessuno mette in campo la soluzione? Qual è la soluzione? Quotidianamente guardiamo, ascoltiamo e leggiamo del problema dei soldi che non ci sono, della disoccupazione che aumenta, dell’economia che non va bene perché i soldi non ci sono, degli imprenditori e dello Stato che non possono assumere perché non ci sono i soldi; del fatto che il debito pubblico aumenta perché l’economia non va bene perché mancano i soldi e quindi bisogna tagliare le spese ed aumentare le tasse in modo da abbassare i decifit annuali e il debito pubblico.
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Volkswagen, scandalo made in Usa: guai se Berlino scappa
Anno movimentato per il gruppo Volkswagen: prima un bilancio dagli utili record ed il traguardo da primo produttore mondiale in vista, poi la notizia delle centraline manipolate che nel giro di pochi giorni brucia metà della capitalizzazione in borsa. Ad innescare lo scandalo è la statunitense Environmental Protection Agency che accusa i diesel tedeschi di emettere ossidi d’azoto oltre i limiti consentiti: le teste dei vertici di Wolfsburg cadono e l’affidabilità teutonica incassa un duro colpo. Scrupolosità ambientalistica delle agenzie americane? Sgambetto industriale? «No. Come lo scandalo Fifa, la “scoperta” di illeciti su cui si è sempre chiuso un occhio, ha finalità politiche. Berlino, nonostante la gestione di Angela Merkel, è per gli americani l’incognita dirimente», scrive Federico Dezzani. «Se la Germania si sganciasse dal blocco atlantico, Washington perderebbe il teatro europeo e, di conseguenza, l’egemonia globale». Per questo, sostiene Dezzani, è inevitabile individuare una precisa regia statunitense nell’esplosione dello scandalo che sta demolendo la credibilità di una Germania che si è fatta detestare per il trattamento riservato alla Grecia.Ein Volk, ein Wagen, ein Skandal: diesel e Germania fanno un distico, scrive Dezzani sul suo blog. «Se si volesse una terzina, allora sarebbe Diesel, Germania e Volkswagen». È nella febbricitante Germania guglielmina, apripista della seconda rivoluzione industriale, che Rudolf Diesel inventa un motore basato sulla compressione dell’aria: l’impiego non tarda nell’industria bellica ma bisogna attendere gli anni ’30 perché una vettura di lusso, la Mercedes-Benz W138, monti un pesante e costoso motore a gasolio. «Quando Adolf Hitler affida al geniale Ferdinand Porsche la progettazione di un’auto per la motorizzazione di massa, la scelta cade non a caso su un più economico motore a benzina: sono le versioni da 1,1-1,6 litri che monta la Volkswagen Typ 1, meglio nota come il “Maggiolino”. Per abbattere i costi di produzione e rendere il prezzo abbordabile, si adottano le più moderne tecniche fordiste e si erigono fabbriche ex-novo: attorno a loro nasce la cittadina di Wolfsburg, sede dell’attuale gruppo Volkswagen».La casa tedesca segue da subito le fortune della Germania: gli impianti, convertiti ad uso bellico, crollano sotto le bombe alleate del ’44-’45. Le forze d’occupazione inglesi, resistendo alle pressioni di chi vuole “ruralizzare” la Germania sconfitta, acconsentono ad un rapida ripresa dell’attività: esportare, per i tedeschi, significa tornare a vivere, nell’immediato dopoguerra. E il mito felice del Maggiolino si afferma solo col “miracolo economico”. Il decollo però coincide con l’inizio della parabola discendente per la Fiat e passa per la prima Golf del 1974, disegnata da Giorgetto Giugiaro. «Protetta dalla “legge Volkswagen” che ne impedisce le scalate ostili e blindata dai pacchetti azionari in mano al land della Bassa Sassonia ed i discendenti di Porsche – continua Dezzani – la casa di Wolfsburg fa da polo aggregante per l’industria meccanica, inglobando marchi (Audi, Seat, Skoda, Bentley, Bugatti, Lamborghini, Porsche, Ducati, Scania, Man) che consentono una diversificazione per prodotto, fascia di prezzo e paese».Sono le proprio le vetture di lusso e la trentennale presenza in Cina (oggi secondo mercato per il gruppo) a regalare un bilancio 2014 da record: un fatturato da 200 miliardi di euro, 14 miliardi di utili e il traguardo come primo produttore mondiale in vista. Quando nel marzo 2015 è presentato il bilancio consolidato, le azioni Volkswagen sono scambiate a 250 euro: «La casa di Wolfsburg è all’apice del successo, specchio di una Germania sempre più sicura della propria forza economica e dell’influenza politica derivante». Man mano che dalla Cina giungono segnali di rallentamento, le azioni Vw danno segnali di malessere, attestandosi a 170 euro a metà settembre. «Poi ha inizio il bagno di sangue, un assalto speculativo in grande stile che ricalca le recenti ondate ribassiste contro il rublo e la borsa cinese». Lunedì 21 settembre le azioni perdono il 20% del valore, bruciando 14 miliardi, e nell’arco di una settimana la capitalizzazione in borsa è pressoché dimezzata, con le azioni scambiate il 30 settembre a 95 euro. A innescare il crollo è la notizia che l’agenzia statunitense per la protezione dell’ambiente (Epa) ha individuato un software nelle centraline delle Volkswagen che spegne il controllo delle emissioni durante la guida e lo riaccende per i test. Il gruppo tedesco, minaccia l’Epa, rischia una multa fino a 18 miliardi, 37.500 dollari per ognuna delle 480.000 auto turbodiesel incriminate.Immediata la campagna mediatica sul fallimento del sistema-paese della Germania, piuttosto che sui presunti danni all’ambiente: trascurando il fatto che i diesel ammontino solo al 24% delle vendite Volkswagen negli Usa e che l’inquinamento prodotto dal veicolo medio americano sia di gran lunga maggiore, viene «sferrato un tale bombardamento mediatico da obbligare la casa automobilistica a correre ai ripari: l’amministratore delegato Martin Winterkorn rassegna le dimissioni ed è annunciato uno “spietato repulisti” nell’azienda». Il Credit Suisse stima tra i 25 e i 75 miliardi di euro il costo dello scandalo, paventando la necessità di un aumento di capitale per la casa di Wolfsburg. La multa da 18 miliardi minacciata dall’Epa? «Un importo talmente alto da far pensare ad una provocazione, utile ad alimentare la tempesta mediatica». E’ la stessa somma appena pagata alle autorità americane dalla British Petroleum per il disastro ambientale della piattaforma Deepwater Horizon che nel 2010 causò la più grande fuoriuscita di petrolio della storia nel Golfo del Messico, con 500.000 tonnellate di greggio sversate in mare.«L’inflessibilità delle autorità americane e l’accanimento dei media sono poi doppiamente sospette se paragonate ad uno scandalo che ha recentemente coinvolto un’altra casa automobilistica, la General Motors», aggiunge Dezzani. Nel febbraio del 2014, Gm è stata costretta a richiamare 800.000 auto per un difetto al blocchetto d’accensione, che aveva provocato almeno 13 incidenti mortali. Per risparmiare pochi centesimi, la casa di Detroit aveva montato una molla difettosa che poteva ruotare la chiave sulla posizione di spegnimento ad auto in corsa, «spegnendo il motore, bloccando il servosterzo e disattivando gli airbag». Reazioni in Borsa? Nessuna. E una multa di appena 35 milioni di dollari. Fatte le debite proporzioni, la sanzione ipotizzate dall’Epa contro la Volkswagen equivarrebbero a «500 morti per avvelenamento da ossido d’azoto, peggio di una testata chimica su un centro abitato». Di certo non si ricorda un attivismo pari a quello prodigato oggi da Parigi e Londra sul caso dell’auto tedesca: il governo francese che invoca un’inchiesta europea, quello britannico definisce «inaccettabili le azioni di Vw», il “Financial Times” che alza il tiro, scrivendo che a casa di Wolfsburg è impunita, nell’Unione Europea sotto il tallone tedesco.«Lo scandalo Vw è una rappresaglia americana contro Berlino, che su troppi dossier, dall’eurocrisi alla Russia passando per il Medio Oriente, pecca di “eccesso di sicurezza”», scrive Dezzani, che denuncia anche la «strisciante retorica anti-tedesca», diffusa anche in Italia «dai media ossequiosi alle direttive d’Oltreoceano». Ovvero: «Man mano che l’eurocrisi evolveva differentemente da come preventivato, il marcescente estabilshment italiano è stato ben felice di scaricare su Berlino (a mezzo stampa) parte delle tensioni accumulate durante l’interminabile crisi economica». Dezzani invoca «un minimo di verità storica». E ricorda: «La Germania esce sconfitta dall’ultima guerra insieme all’Italia e al Giappone, e alla stregua di una potenza occupata è trattata: dispiegamento permanente di forze armate statunitensi, subalternità dell’apparato di sicurezza a quello angloamericano, pesanti limitazioni alla politica estera ed economica (vedi l’ostilità di Henry Kissinger alla Ostpolitik e gli accordi di Plaza del 1985 che, imponendo la rivalutazione del marco sul dollaro, misero a dura prova l’economia tedesca nel decennio successivo)».A differenza dell’Italia, continua Dezzan, la Germania è dotata di una classe dirigente «compatta, istruita e conscia degli interessi del paese». Mentre gli anni di piombo hanno messo in crisi l’Italia con lo smantellamento dell’economia mista, «tra bombe e assalti speculativi», la Germania è emersa nei primi anni ’90 con un manifatturiero accresciuto e «risorse tali da comprarsi la Ddr». Poi la Germania «subisce sì l’euro», ma mantiene una posizione di dominio sulla Bce. E ora «dispone di un mercato europeo senza barriere e di un enorme sistema a cambi fissi (l’euro) che consente di tosare le quote di mercato dei concorrenti (Italia in primis) ed accrescere l’attivo della bilancia commerciale». Perché gli Usa non solo acconsentono all’operazione ma addirittura la guidano? «Innanzitutto la Germania resta un paese militarmente occupato e le figure apicali dello Stato sono accuratamente selezionate in base ai criteri di Washington, poi la moneta unica non avrebbe dovuto essere fine a se stessa, bensì fonte presto o tardi di una crisi (quella attuale) che avrebbe dovuto sfociare negli Stati Uniti d’Europa, alter ego di Washington».«L’euro, come prevedibile, rende più ricca e sicura di sé la Germania, che almeno in tre riprese tenta di strappare agli angloamericani un nuovo status, non più potenza sconfitta e subalterna ma potenza alla pari», continua Dezzani. Prima, Deutsche Börse tenta di acquistare l’americana Nyse Euronext. Poi, nel 2003, Berlino cerca (senza riuscirci) di entrare nel super-esclusivo club di spionaggio “Five Eyes”, che riunisce i paesi anglosassoni (Usa, Uk, Nuova Zelanda, Australia e Canada). Infine c’è il tentativo, anch’esso fallito, da parte dell’editore tedesco Axel Springer (di provata fede atlantica) di acquistare nell’estate 2015 il pacchetto di controllo del “Financial Times”. «Il messaggio che gli angloamericani inviano alla Germania è chiaro: al tavolo con noi non vi sedete, restate nel mucchio con gli altri europei e pensate a risolvere la crisi dell’euro». Gli Usa restano scontenti di Berlino: approvano la svolta neoliberista dell’Ue, ma sanno che la moneta unica «è presto o tardi destinata a spezzarsi, se Berlino non accetta la condivisione dei debiti pubblici, la nascita di un Tesoro europeo e, a ruota, di un governo federale».Invece di imboccare la via delle federazione continentale, la Germania prima rifiuta gli eurobond nel 2011, poi si asserraglia sull’austerità che scarica tutto il peso dell’euro-regime sulla periferia: tagli ai salari e inasprimento fiscale per uccidere l’import e riequilibrare le bilance commerciali. «Quando Alexis Tsipras, che gode del palese appoggio di Washington e Londra, minaccia di rifiutare le politiche d’austerità, i falchi di Berlino non esitano a dire: bene, la porta è quella, esci dall’euro! Solo il clamoroso retromarcia di Alexis Tsipras (testimoniando quali interessi si celano dietro i vari Syriza e Movimento 5 Stelle) evitano che la Grecia abbandoni l’Eurozona, sancendo la reversibilità della moneta unica». Per Dezzani è sintomatico l’atteggiamento di Romano Prodi, il padre italiano dell’euro, che «da posizioni filo-tedesche ed anti-americane ai tempi della guerra in Iraq del 2003, si è riposizionato durante l’eurocrisi di 180 gradi ed abbraccia ora una linea anti-tedesca e filo-americana». In una recente intervista ad Eugenio Scalfari, dichiara: «I tedeschi non soltanto non credono negli Stati Uniti d’Europa, ma non li vogliono. Vogliono una Germania sola. Hanno accettato l’euro perché lo considerano soprattutto la loro moneta, il marco che ha cambiato nome, tant’è vero che la Bundesbank, la Banca centrale tedesca, si oppone alla politica di Draghi che invece considera l’euro come la vera moneta europea».Draghi, aggiunge Prodi, è uno dei pochissimi che vogliono gli Stati Uniti d’Europa, e utilizza gli strumenti a sua disposizione per spingere su quella strada. Lo stesso Prodi rincara la dose in un’intervista all’“Huffington Post”: «Il potere tedesco è arrogante. Quando arrivi a un livello di sicurezza, chiamiamola anche di arroganza, così forte, i freni inibitori sono a rischio. In Germania non c’è contraddittorio tra i vari attori sociali, c’è un sistema molto compatto. Oggi con il caso Dieselgate emerge una crisi di un sistema, molto più complicata di una crisi politica che interessa solo la Merkel. Non a caso le irregolarità legate alla Volkswagen sono state scoperte da un’autorità americana. La cosa è stata messa fuori da una struttura non europea». Come gli americani, anche Prodi «sa che l’euro è un aereo in stallo, sorretto solo dall’allentamento quantitativo di Mario Draghi e destinato a schiantarsi non appena verranno meno gli acquisti di titoli di Stato da parte della Bce (cui peraltro Berlino ha imposto che l’80% del debito acquistato finisse in pancia alle rispettive banche centrali nazionali)». Aggiunge Dezzani: «Quale investitore sano di mente acquisterebbe un Btp a 10 anni che rende l’1,6%, quando il paese flirta con la deflazione, ha un rapporto debito/Pil del 140% e istituti bancari appesantiti da 200 miliardi di crediti inesigibili?».Ma i motivi di tensione tra Berlino e Washington non si esauriscono qui e spaziano dalla questione del surplus commerciale tedesco all’Ucraina, passando per il Medio Oriente. Il primo a dissociarsi dall’appoggio garantito da Angela Merkel al cambio di regime a Kiev è stato il potentissimo mondo dell’industria, «che ha interessi da difendere a Mosca ben di più che a Kiev». Poi, continua Dezzani, è stato lo stesso governo tedesco a criticare i crescenti toni bellicistici contro la Russia del generale Philip Breedlove, responsabile del comando delle forze armate americane in Europa, con sede a Stoccarda. Non va meglio in Medio Oriente «dove la Germania, su posizioni sempre meno atlantiche e sempre più vicine ai Brics, prima si dichiara contro l’intervento militare in Libia (con la clamorosa astensione sulla risoluzione Onu 1973 che impone la “no-fly zone”) poi, è storia di questi giorni, quando la Russia opta per un intervento militare risolutivo in Siria, Berlino capovolge la politica finora seguita e afferma che Bashar Assad (la cui caduta è agognata da Washington e Tel Aviv sin dal 2011) è un interlocutore imprescindibile».Per Washington, occorre quindi “riportare all’ordine” la Germania. Come? «Ad agosto è aperta la via balcanica che, attraverso Macedonia, Serbia ed Ungheria, riversa in Austria e Germania decine di migliaia di persone nel lasso di poche settimane: benché Angela Merkel si dica pronta a ricevere 800.000 immigrati all’anno (esternazione che la fa precipitare nei sondaggi) il paese dà forti segnali di stress sotto l’improvvisa ondata migratoria (270.000 persone solo a settembre, più che nell’intero 2014). Non solo si moltiplicano gli attacchi dei gruppi di estrema destra contro le strutture d’accoglienza, dove peraltro aumenta la tensione tra immigrati, ma l’intero sistema di ricezione dei profughi si avvicina al punto di ebollizione: il presidente Joachim Gauck è costretto a rettificare le parole della cancelliera, chiarendo che c’è un limite all’accoglienza». Infine, arriva lo scandalo Volkswagen, «un vero attacco al sistema-paese». Domanda: «Basteranno queste rappresaglie a “riportare l’umiltà” in Germania?».Con l’attuale situazione internazionale, sempre più dinamica (l’intervento militare russo in Siria e il saldarsi dell’asse Mosca-Teheran-Baghdad-Damasco) la Germania «è il peso determinante, ovvero la potenza che sbilanciandosi verso uno schieramento (gli angloamericani e quel che resta della Francia) o l’altro (russi e cinesi) ne determina la vittoria». Se la Germania si saldasse con Russia e Cina, sostiene Dezzani, gli Usa sarebbero espulsi dall’Eurasia, e perderebbero la “testa di ponte” per proiettarsi nell’Hearthland. L’intervento di Putin in Siria «assegna, al momento, l’intero teatro mediorientale alla Russia, che spinge la propria influenza a latitudini così basse da stabilire un nuovo record». È molto difficile che Washington incassi in silenzio la sconfitta. «Più probabile, invece, è un contrattacco in Ucraina tramite le forze nazionaliste, con lo scopo di sottoporre Mosca al logorio di due fronti, oppure imboccare la via dell’escalation militare». Dalla risoluzione del dilemma di Berlino tra Mosca e Washington, conclude Dezzani, dipenderà l’esito del conflitto, che si sta spostando rapidamente dalla Borsa e dalla stampa ai teatri operativi.Anno movimentato per il gruppo Volkswagen: prima un bilancio dagli utili record ed il traguardo da primo produttore mondiale in vista, poi la notizia delle centraline manipolate che nel giro di pochi giorni brucia metà della capitalizzazione in borsa. Ad innescare lo scandalo è la statunitense Environmental Protection Agency che accusa i diesel tedeschi di emettere ossidi d’azoto oltre i limiti consentiti: le teste dei vertici di Wolfsburg cadono e l’affidabilità teutonica incassa un duro colpo. Scrupolosità ambientalistica delle agenzie americane? Sgambetto industriale? «No. Come lo scandalo Fifa, la “scoperta” di illeciti su cui si è sempre chiuso un occhio, ha finalità politiche. Berlino, nonostante la gestione di Angela Merkel, è per gli americani l’incognita dirimente», scrive Federico Dezzani. «Se la Germania si sganciasse dal blocco atlantico, Washington perderebbe il teatro europeo e, di conseguenza, l’egemonia globale». Per questo, sostiene Dezzani, è inevitabile individuare una precisa regia statunitense nell’esplosione dello scandalo che sta demolendo la credibilità di una Germania che si è fatta detestare per il trattamento disumano riservato alla Grecia.
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L’Europa, la grande potenza mancata (azzoppata dall’euro)
L’adozione dell’euro fu un’operazione molto più politica che economica: la Germania aveva la concreta possibilità di coronare il sogno della riunificazione, ma questo incontrava molte diffidenze di americani, inglesi e russi. La Francia dette la garanzia politica, nel solco di quell’asse franco tedesco che dal 1963 regge l’intera costruzione europea, ma, in cambio chiese l’adozione della moneta unica, per un’Europa unita, pacifica e mercantilista. L’abbiamo detto molte volte: l’euro avrebbe dovuto far concorrenza al dollaro, diventare la locomotiva che avrebbe portato all’unità politica e far convergere le economie dei singoli paesi europei in un modello più o meno simile per tutti. Da questo nacque l’azzardo di una pluri-Stato che escluse dai trattati istitutivi la possibilità di recedere dal patto. La ratio era evidente: una moneta, anche se appartenente a più Stati, non è l’“Hotel del libero scambio” e la possibilità dei componenti di uscire avrebbe suggerito l’impressione di una moneta provvisoria, alla quale i mercati finanziari avrebbero attribuito scarsa credibilità. Considerazione giusta, ma più che un progetto di ingegneria monetaria; si trattò di una sorta di atto di fede che tutto sarebbe andato sempre bene.La scelta aveva un evidente punto debole di partenza: assemblava economie troppo diverse e senza un potere centrale che redistribuisse le ricchezze per riequilibrare la compagine. Sarebbero state possibili due scelte: o stati divisi ciascuno con la propria moneta, manovrabile secondo le esigenze di ciascuno, o centralizzare stato e moneta, compensando gli squilibri attraverso la redistribuzione. La via prescelta fu quella più a rischio: stati separati e moneta unica. E subito le condizioni del patto (debito al 60% del Pil, disavanzo di bilancio contenuto al 3% ed inflazione al 3%) vennero disattese. Di fatto, l’alternativa era: dare pieni poteri alla Bce, liquidando ogni regola democratica, o indebolire il patto di stabilità, riducendolo ad una dichiarazione di intenti. Prevalse la seconda scelta. A complicare le cose venne anche la decisione di permettere ad alcuni membri della Ue (essenzialmente il Regno Unito) di non aderire alla moneta, ma consentendogli non solo di restare nell’Unione, ma anche di far parte della Bce.Ne derivava un complicato intreccio fra Ue e Eurozona che si sommava alle altre difformità dell’Unione come l’appartenenza alla Nato di alcuni ma non di altri. Si cercò di dare inizio all’Europa politica con un “trattato istitutivo” della Ue che avrebbe dovuto averle il ruolo di Costituzione: venne clamorosamente bocciata nei referendum che ne seguirono. Quella architettura barocca e incoerente non convinceva nessuno perché rifletteva il caos concettuale che metteva insieme monarchie, repubbliche presidenziali, repubbliche parlamentari, stati federali, unitari, regionali, sistemi bipartitici e sistemi a pluralismo polarizzato, paesi di common law e paesi di tradizione codicistica. I giuristi ci misero del proprio con un fuoco artificiale di sciocchezze del tipo “diritto non statale”, “Unione non statale” e persino “Costituzione senza Stato” (che sembra lo statuto della bocciofila). L’unione era più di una alleanza ma meno di una federazione, più di una unione doganale ma meno di una confederazione, una unione monetaria di cui alcuni facevano parte e altri no, ma tutti conservavano la propria riserva aurea, i cui componenti non perdevano la sovranità mentre l’Unione diventava un soggetto “quasi sovrano”: una “dialettica dei distinti” senza sintesi possibile.Dopo quelle bocciature l’unione politica dell’Europa divenne solo una vuotissima espressione liturgica. L’Euro, dato il suo innegabile successo sino al 2008, restò l’unico collante. Gli europei non credevano più all’unione politica, ma ritenevano conveniente una moneta “forte” che garantiva stabilità: i paesi più deboli potevano accedere al mercato finanziario a prezzi molto bassi (che non avrebbero mai avuto da soli), i paesi forti, come la Germania, potevano approfittare della stabilità monetaria per sostenere le loro esportazioni verso i paesi del sud Europa e tutti potevano illudersi che questo stato di cose potesse continuare indefinitamente. L’Europa dei banchieri aveva sepolto definitivamente l’Europa politica. Ma la storia è ostinata e, anche se con ritardo, presenta sempre il conto che è venuto con la dèbacle dei debiti sovrani di Grecia, Portogallo ecc. e il trattato che non prevede nè uscite volontarie nè allontanamenti forzati diventa un problema in più.Il problema si pone su due piani: quello operativo immediato e quello di lungo periodo da affrontare dopo aver superato la tempesta. Allo stato attuale, il rischio evidente è quello del default di uno o più stati dell’Eurozona e, in questo caso la sopravvivenza dell’euro sarebbe a forte rischio. Ma una fine dell’Euro porterebbe con sè anche la fine della Ue, di cui resterebbero solo una serie di trattati inservibili. E se anche si trovasse il modo di far uscire un paese prima del suo default, si stabilirebbe un precedente che potrebbe essere imitato da altri e questo avrebbe conseguenze sugli interessi per i debiti degli altri partner, perchè tutti i titoli diverrebbero a rischio, se i mercati dovessero avere la sensazione di una uscita della Germania dalla moneta unica, per non pagare i costi di una inflazione causata da una eventuale emissione eccessiva di liquidità. E qui riaffiorano antiche lesioni mai superate.Berlino non ha saputo essere la capitale d’Europa, ma ha avuto la forza di impedire che potesse esserlo Parigi. Il risultato è stato una Ue che non è stata in grado di essere soggetto politico e, tantomeno, grande potenza. Barry Buzan, anni fa, riteneva Europa e Cina le uniche due grandi potenze in grado di porre una candidatura allo stato di superpotenza entro una ventina di anni, ma l’Europa si è sottratta al compito. Nei primi anni del secolo, Berlusconi, in una delle sue uscite estemporanee, propose l’ingresso della Russia nella Ue e l’allora Commissario europeo Romano Prodi bocciò l’idea con la motivazione che, in questo modo, l’Europa sarebbe diventata una superpotenza. Quello che, evidentemente era escluso programmaticamente. Ma, nel grande gioco della globalizzazione, chi non si costituisce come polo d’attrazione subisce fatalmente l’attrazione degli altri e rischia lo smembramento. L’Europa di oggi è in questa condizione, almeno sinchè non riprenderà un credibile progetto di unificazione politica e militare del continente indipendente da ogni alleanza.(Aldo Giannuli, “La grande potenza mancata: l’Europa”, dal blog di Giannuli dell’8 settembre 2015).L’adozione dell’euro fu un’operazione molto più politica che economica: la Germania aveva la concreta possibilità di coronare il sogno della riunificazione, ma questo incontrava molte diffidenze di americani, inglesi e russi. La Francia dette la garanzia politica, nel solco di quell’asse franco tedesco che dal 1963 regge l’intera costruzione europea, ma, in cambio chiese l’adozione della moneta unica, per un’Europa unita, pacifica e mercantilista. L’abbiamo detto molte volte: l’euro avrebbe dovuto far concorrenza al dollaro, diventare la locomotiva che avrebbe portato all’unità politica e far convergere le economie dei singoli paesi europei in un modello più o meno simile per tutti. Da questo nacque l’azzardo di una pluri-Stato che escluse dai trattati istitutivi la possibilità di recedere dal patto. La ratio era evidente: una moneta, anche se appartenente a più Stati, non è l’“Hotel del libero scambio” e la possibilità dei componenti di uscire avrebbe suggerito l’impressione di una moneta provvisoria, alla quale i mercati finanziari avrebbero attribuito scarsa credibilità. Considerazione giusta, ma più che un progetto di ingegneria monetaria; si trattò di una sorta di atto di fede che tutto sarebbe andato sempre bene.
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Panico Germania: Volkswagen? No, peggio: Deutsche Bank
Perché proprio adesso esplode lo scandalo della Volkswagen? La truffa sulle emissioni “pulite” delle auto è destinata a ferire l’orgoglio teutonico, affondando il mito dell’onestà del suo capitalismo. Perché la verità emerge solo ora? Se lo domandano in molti, specie quelli che ricordano anche i record meno presentabili della Germania: come la precarizzazione del lavoro varata già nel 2002 dal socialdemocratico Gerhard Schroeder e ispirata da Peter Hartz, il super-manager Volkswagen poi condannato per aver corrotto sindacalisti, inducendoli ad accettare condizioni sfavorevoli per gli operai. Riforma-simbolo, da cui nasce la flessibilizzazione dell’impiego in Europa, simboleggiata in Italia dal Jobs Act di Renzi. Allarme Berlino: un gigante dai piedi d’argilla, avverte il sociologo Luciano Gallino, che segnala l’esistenza in Germania dei salari più bassi d’Europa, i mini-job da 450 euro al mese con cui vive un tedesco su quattro. Colpa di un’economia interamente votata all’insana frenesia dell’export, spiega Paolo Barnard. L’export deprime i consumi interni e prima o poi la situazione precipita: «Si vede dalla Luna il buco della Deutsche Bank, la banca più fallita del mondo: 70.000 miliardi di debiti».Se n’è accorto anche un analista internazionale come Michael Snyder: «In Germania sta forse per accadere qualcosa che scuoterà il mondo intero?». Le avvisaglie dell’estrema fragilità tedesca, a livello politico, si sono appena manifestate con lo spietato trattamento riservato alla Grecia per volere dell’oligarchia finanziaria: attraverso maschere come quella di Wolfgang Schaeuble, ad Atene è stato inflitto il massimo rigore, dopo aver depistato l’opinione pubblica tedesca raccontando la fiaba dei greci “cicale”, da punire per il presunto “eccesso di debito”. Una versione lontana anni luce dalla verità: il “problema” greco ammonta a 30 miliardi di euro, cifra irrisoria per i bilanci Ue. Eppure, sulla condanna del popolo ellenico si è completamente appiattito il corpo sociale tedesco, rivelatosi insensibile alle inaudite sofferenze inferte a vecchi e bambini a causa dei sanguinosi tagli al welfare: salari, pensioni, sanità, protezioni sociali. Uno scandalo mondiale, denunciato anche in sede Onu: in Grecia non ci sono più cure né farmaci, i minori sono denutriti, ad Atene dilaga l’Hiv per mancanza di siringhe. E sono ricomparse malattie che si credevano archiviate dalla storia dell’Occidente. Eppure, la Merkel ha dovuto fronteggiare l’ala destra del Parlamento, che pretendeva per i greci una fine ancora peggiore.Sottoposta alla pressione migratoria dei profughi alle frontiere e strattonata dagli Usa per le sanzioni alla Russia in seguito alla drammatica crisi in Ucraina, scatenata dall’intelligence statunitense con manovalanza locale neonazista, la Germania ora scricchiola. Si sveglierà bruscamente dal sogno della “locomotiva europea” tutta lavoro e rigore? «Secondo alcune informazioni riservate di cui sono venuto a conoscenza – scrive Michael Snyder in un post tradotto da “Come Don Chisciotte” – sarebbe davvero imminente un grande evento finanziario che riguarda la Germania». In altre parole, «uno di quei momenti del tempo che presenta tutte le condizioni perché si ripeta un’altra Lehman Brothers». Certo, «la gran parte degli osservatori tende a considerare la Germania come quel baluardo che tiene economicamente insieme tutta l’Europa, ma la verità è che sotto la sua superficie fermentano grosse difficoltà». L’indice azionario tedesco Dax è crollato quasi del 20% dal massimo storico raggiunto lo scorso aprile, e sono numerosi i segni di agitazione all’interno della maggiore banca tedesca. E, proprio come la Lehman, anche la Deutsche Bank fa parte di quelle banche “troppo grandi per fallire”, che non crollano mai da un giorno all’altro. «Ma la verità è che ci sono sempre dei segni premonitori».Nei primi mesi del 2014, le azioni di Deutsche Bank sono state scambiate a più di 50 dollari. Da quel momento, scrive Snyder, il valore è caduto di oltre il 40% e oggi si scambiano a meno di 29 dollari. Attenzione: «E’ ben nota la natura profondamente corrotta della cultura aziendale della Deutsche Bank, e negli ultimi anni la banca è stata estremamente imprudente». Prima del “crollo improvviso” di Lehman Brothers il 15 settembre 2008, sulla stampa c’erano state notizie di licenziamenti di massa nell’azienda: «Quando le grandi banche iniziano a trovarsi in guai seri, questo è quello che fanno: cominciano a sbarazzarsi del personale. Ecco perché sono così preoccupanti i massicci tagli di posti di lavoro che la Deutsche Bank ha appena annunciato». Nel mirino ci sono 23.000 dipendenti, cioè circa un quarto di tutto il personale, secondo il piano dell’amministratore delegato John Cryan. Inoltre, negli ultimi tre anni la banca ha dovuto sborsare qualcosa come 9 miliardi di dollari per contenziosi legali, ed è così diventata «una sorta di manifesto di cultura aziendale corrotta».Nel mirino, anche «scambi irregolari di titoli ipotecari scadenti – sapientemente confezionati – intervenuti tra varie banche prima della crisi finanziaria». Jp Morgan, Bank of America e Citigroup, scrive Snyder, riuscirono ad effettuare queste operazioni quando la vigilanza era allentata. Oggi però il ministro della giustizia del governo Obama, Loretta Lynch, sarebbe «ben determinata a occuparsi seriamente» delle malefatte dei massimi colossi bancari, come Barclays, Credit Suisse, Hsbc, Royal Bank of Scotland, Ubs e Wells Fargo, inclusa ovviamente anche Deutsche Bank. «Naturalmente – continua Snyder – i problemi legali sono solo la punta dell’iceberg di tutto quello che è successo alla Deutsche Bank nel corso degli ultimi due anni». Già nella primavera 2014, la banca è stata costretta ad incrementare di 1,5 miliardi il Tier (capitale azionario e riserve di bilancio). Perché? Un mese più tardi, maggio 2014, è continuata la corsa alla liquidità, con la banca che annunciava la vendita di 8 miliardi di euro di titoli con uno sconto del 30%. «E ancora una volta: perché? Questa mossa ha messo la pulce nell’orecchio ai mezzi di stampa finanziaria. L’immagine esteriore, calma, della Deutsche Bank non rispecchiava i suoi sforzi concitati nell’aumentare la sua liquidità. Dietro doveva esserci per forza qualcosa di marcio».A marzo di quest’anno, la banca ha fallito gli stress-test della Bce, ricevendo «una severa intimazione a controllare la struttura del suo capitale». Ad aprile, Deutsche Bank ha confermato il suo accordo congiunto con Usa e Regno Unito sulla manipolazione del Libor, il tasso interbancario di riferimento per i mercati finanziari (tasso variabile, calcolato giornalmente, per cedere a prestito depositi in sterline, dollari, franchi svizzeri ed euro da parte delle principali banche operanti sul mercato interbancario londinese). Sul colosso tedesco incombe poi un enorme pagamento, oltre 2 miliardi di dollari, da versare al Dipartimento di Giustizia degli Usa, «comunque una bazzecola rispetto ai suoi guadagni illeciti». Negli ultimi mesi la situazione è precipitata: a maggio, il Cda ha conferito poteri speciali ad uno degli amministratori, Anshu Jain. Il 5 giugno, quando la Grecia non è riuscita a pagare il Fmi, le ripercussioni sono arrivare anche alla Deutsche Bank. E il 6/7 giugno i due Ceo della banca tedesca hanno annunciato entrambi le loro dimissioni, appena un mese dopo dal conferimento dei nuovi poteri (Anshu Jain lascerà per primo, alla fine di giugno; Jürgen Fitschen nel maggio 2016).Non è finita: il 9 giugno “Standard & Poor’s” ha ridotto il rating della Deutsche a BBB+, cioè «solo tre posizioni al di sopra del livello “spazzatura”», addirittura sotto il livello di rating che aveva Lehman Brothers poco prima del suo crollo. «Quello che ha reso le cose ancora peggiori è stato l’incauto comportamento della Deutsche Bank», scrive Snyder. «A un certo punto, si è potuta stimare un’esposizione in derivati da parte della Banca di ben 75 trilioni di dollari. Da tener presente che il Pil tedesco di un anno intero è di solo 4 trilioni di dollari. Così, quando alla fine anche la Deutsche Bank crollerà, né in Europa e né in qualsiasi altro luogo del mondo ci saranno abbastanza soldi per poter ripulire il pasticcio». Snyder le chiama “armi di distruzione finanziaria di massa”. «Se la Deutsche Bank dovesse fallire completamente, sarebbe un disastro finanziario peggiore di quello di Lehman Brothers: sarebbe come abbattere letteralmente l’intero sistema finanziario europeo e provocare a livello globale un panico finanziario mai visto prima d’ora». A quel punto, chiosa l’analista, «sarà meglio avere quel denaro con sé piuttosto che tenerlo in banca». Snyder teme che la calma apparente sia destinata a finire presto: «Credo che il resto del 2015 sarà estremamente caotico e accadranno cose piuttosto gravi, cose che nessuno avrebbe potuto oggi immaginare. Nei giorni che vengono, invito tutti a seguire attentamente sia la Germania che il Giappone. Stanno per accadere cose grosse, e milioni di increduli ne resteranno spiazzati».Perché proprio adesso esplode lo scandalo della Volkswagen? La truffa sulle emissioni “pulite” delle auto è destinata a ferire l’orgoglio teutonico, affondando il mito dell’onestà del suo capitalismo. Perché la verità emerge solo ora? Se lo domandano in molti, specie quelli che ricordano anche i record meno presentabili della Germania: come la precarizzazione del lavoro varata già nel 2002 dal socialdemocratico Gerhard Schroeder e ispirata da Peter Hartz, il super-manager Volkswagen poi condannato per aver corrotto sindacalisti, inducendoli ad accettare condizioni sfavorevoli per gli operai. Riforma-simbolo, da cui nasce la flessibilizzazione dell’impiego in Europa, simboleggiata in Italia dal Jobs Act di Renzi. Allarme Berlino: un gigante dai piedi d’argilla, avverte il sociologo Luciano Gallino, che segnala l’esistenza in Germania dei salari più bassi d’Europa, i mini-job da 450 euro al mese con cui vive un tedesco su quattro. Colpa di un’economia interamente votata all’insana frenesia dell’export, spiega Paolo Barnard. L’export deprime i consumi interni e prima o poi la situazione precipita: «Si vede dalla Luna il buco della Deutsche Bank, la banca più fallita del mondo: 70.000 miliardi di debiti».
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Craig Roberts: macché Cina, il disastro è tutto americano
Nel Matrix dove vivono gli americani, niente è mai colpa loro. Ad esempio, l’attuale svalutazione di borsa Usa non è dovuta ad anni di eccessive iniezioni di liquidità da parte della Federal Reserve che hanno generato una bolla così gonfiata che il valore di appena sei stock, alcuni dei quali valutati a prezzi completamente sproporzionati rispetto ai loro utili reali, contava per più di tutti i guadagni in capitalizzazione di mercato quotati nel S&P500 prima dell’ondata di svalutazione attuale. Nella nostra esistenza-Matrix la svalutazione delle borse non è dovuta alle multinazionali che reinvestono profitti, o persino ricomprano a debito, i loro stessi titoli, allo scopo di creare una domanda artificiale per le loro quote azionarie (equity share). Il declino non si deve all’ultimo rapporto mensile sugli ordini di beni durevoli su base annua che sono in caduta almeno da 6 mesi consecutivi.La svalutazione borsistica non è dovuta a una economia debole in cui una decade di presunta ripresa economica il mercato immobiliare, sia per il patrimonio esistente che per nuove costruzioni, è in diminuzione rispettivamente del 63% e del 23%, riferito ai livelli del picco di luglio 2005. La svalutazione di borsa non è dovuta al collasso della mediana dei salari reali per famiglia, e di conseguenza, al crollo della domanda interna, risultato di due decenni di rilocalizzazione offshore degli impieghi della classe media e al loro parziale rimpiazzo con impieghi “Walmart” del tipo part-time a salario minimo e senza benefit e ammortizzatori sociali i quali non danno reddito sufficiente a formare nuove famiglie. No, figuriamoci, nessuno di questi fatti è responsabile. Il colpevole del crollo delle borse Usa è la Cina.Che ha fatto la Cina? E’accusata di avere leggermente svalutato la sua moneta. E perchè mai un lieve aggiustamento nel valore di scambio dello yuan col dollaro dovrebbe causare il declino delle borse Usa ed europee? Infatti non è possibile. Ma cosa gliene importa ai media prostituiti, loro mentono per vivere. Inoltre, non è stata nemmeno una svalutazione. Quando la Cina avviò la transizione dal comunismo al capitalismo, decise di agganciare il cambio della sua valuta al dollaro americano allo scopo di dimostrare che la sua valuta era buona quanto la valuta di riserva mondiale. Nel tempo ha consentito che la sua valuta si apprezzasse rispetto al dollaro. Ad esempio, nel 2006 1 dollaro valeva 8,1 yuan cinesi. Di recente, prima della presunta svalutazione, un dollaro oscillava tra 6,1 e 6,2 yuan. Dopo l’aggiustamento del suo tasso di cambio variabile adesso uno yuan sia cambia per 6,4 dollari. Mi pare chiaro che un cambiamento del valore dello yuan da 6,1/6,2 a 6,4 per dollaro non è abbastanza a determinare un crollo nei mercati borsistici Usa ed europei.Inoltre il cambiamento del tasso in rapporto al dollaro non rappresenta un cambiamento del tasso in rapporto alle valute degli altri partner commerciali non-Usa. Ciò che è accaduto, è che la Cina ha corretto, è che come risultato delle politiche di emissione monetaria tipo quantitative easing attualmente praticate dalle banche centrali europea e giapponese il dollaro si è apprezzato rispetto ad altre valute. Dal momento che lo yuan cinese è agganciato al dollaro, la valuta cinese si è di conseguenza apprezzata rispetto a quelle dei suoi partner commerciali europei ed asiatici. L’apprezzamento della valuta cinese (dovuta all’aggancio col dollaro) non è una buona cosa per l’export cinese, specie in un periodo di difficoltà economiche diffuse. La Cina ha appena alterato il suo aggancio al dollaro per rimuovere gli effetti negativi dell’apprezzamento della sua valuta in riferimento a quelle di molti partner commerciali.Come mai la stampa finanziaria non spiega tutto ciò? La stampa finanziaria occidentale sarebbe così incompetente da non sapere questo? Sì. O piuttosto è che l’America non può mai e poi mai essere responsabile se qualcosa va storto. Chi noi? Noi siamo innocenti, sono sempre quei maledetti cinesi! Pensiamo ad esempio alle orde di rifugiati dalle invasioni americane, dai bombardamenti su sette paesi esteri diversi, che stanno invadendo l’Europa. Il massiccio spostamento di gente mosso dalle stragi di popolazioni perpetrate dall’America in sette paesi, consentite dagli stessi europei, sta causando sgomento in Europa e un revival dei partiti d’estrema destra. Oggi, per esempio, i neonazi hanno zittito la cancelliere tedesca Merkel, che cercava di fare un discorso di compassione verso i rifugiati. Ovviamente la stessa Merkel è tra i responsabili del problema rifugiati che sta destabilizzando l’Europa. Senza la Germania come Stato fantoccio degli Stati Uniti, una non-entità senza sovranità reale, un non-paese, solo un vassallo, un avamposto dell’Impero, agli ordini diretti di Washington, senza simili appoggi l’America non potrebbe condurre le guerre illegali che stanno producendo le orde di rifugiati che stanno portando al limite la capacità dell’Europa di accettare rifugiati e favorendo partiti “neo-nazi”.La stampa corrotta Usa o europea presenta il problema dei rifugiati come totalmente avulso dai crimini di guerra americani contro sette paesi. Seriamente, ma perchè mai la gente dovrebbe scappare da paesi dove l’America gli sta portando “libertà e democrazia”? Da nessuna parte nei media occidentali, eccetto qualche sito di informazione alternativa resta un grammo di integrità. I media occidentali sono un “Ministero della verità” (Orwell) che opera a tempo pieno in supporto dell’esistenza artificiale che gli occidentali vivono dentro il Matrix dove gli occidentali sussistono privi di pensiero. Considerando la loro inettitudine ed inazione, sarebbe lo stesso se la gente occidentale non esistesse affatto. Ben più che solo qualche indice di borsa colllasserà sui polli occidentali e sui loro cervelli lavati.(Paul Craig Roberts, “Wall Street e Matrix, dov’è Neo quando abbiamo bisogno di lui?”, dal sito di Craig Roberts del 26 agosto 2015, tradotto da “Come Don Chisciotte”).Nel Matrix dove vivono gli americani, niente è mai colpa loro. Ad esempio, l’attuale svalutazione di borsa Usa non è dovuta ad anni di eccessive iniezioni di liquidità da parte della Federal Reserve che hanno generato una bolla così gonfiata che il valore di appena sei stock, alcuni dei quali valutati a prezzi completamente sproporzionati rispetto ai loro utili reali, contava per più di tutti i guadagni in capitalizzazione di mercato quotati nel S&P500 prima dell’ondata di svalutazione attuale. Nella nostra esistenza-Matrix la svalutazione delle borse non è dovuta alle multinazionali che reinvestono profitti, o persino ricomprano a debito, i loro stessi titoli, allo scopo di creare una domanda artificiale per le loro quote azionarie (equity share). Il declino non si deve all’ultimo rapporto mensile sugli ordini di beni durevoli su base annua che sono in caduta almeno da 6 mesi consecutivi.
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Paghiamo il pizzo al Pentagono, purché non faccia più guerre
Non c’è voluto molto per la Lobby di Israele a mettere in ginocchio il presidente Obama per il suo divieto di costruire nuovi insediamenti illegali israeliani nei territori palestinesi occupati. Obama ha scoperto che un semplice presidente americano è impotente quando viene affrontato dalla Lobby di Israele, e che agli Stati Uniti semplicemente non viene permesso di avere una politica in Medio Oriente diversa da quella di Israele. Obama ha anche scoperto che non può cambiare niente, sempre che ne avesse mai avuto l’intenzione. Nell’agenda della lobby militare e della difesa c’è la guerra e uno stato di polizia interno, e un semplice presidente americano non può farci niente. Il presidente Obama può ordinare che vengano chiuse le camere della tortura di Guantanamo, e che i sequestri di persona e le torture vengano fermati, ma nessuno esegue i suoi ordini. In pratica, Obama è irrilevante. Può promettere che porterà a casa le truppe, e la lobby militare dice: “No, invece li manderai in Afghanistan, e nel frattempo inizierai una guerra in Pakistan e costringerai l’Iran in una posizione che ci darà un pretesto per fare una guerra anche lì. Le guerre sono troppo lucrose per noi perchè tu possa fermarle”. E il piccolo presidente dirà: “Sissignore!”.Obama può promettere l’assistenza sanitaria a 50 milioni di americani che non ce l’hanno, ma non può sconfiggere il veto della lobby della guerra e della lobby delle assicurazioni. La lobby della guerra dice che i profitti di guerra sono più importanti dell’assistenza sanitaria e che il paese non si può permettere sia la “guerra al terrore” che la “medicina socializzata”. La lobby delle assicurazioni dice che l’assistenza sanitaria deve venir data dalle assicurazioni sanitarie private; altrimenti non possiamo permettercela. Le lobby della guerra e delle assicurazioni hanno sventolato le loro agende con i contributi versati in campagna elettorale e molto velocemente hanno convinto il Congresso e la Casa Bianca che lo scopo reale del progetto di legge sull’assistenza sanitaria è di salvare soldi tagliando i benefici a “Medicare” e “Medicaid”, e quindi «mettere gli “entitlements” [diritti acquisiti] sotto controllo». “Entitlements” è una parola usata dalla destra per denigrare le poche cose che, in un lontano passato, il governo faceva per i suoi cittadini. La “Social Security” e “Medicare”, ad esempio, vengono denigrati come “entitlements”.La destra continua senza sosta a parlare della “Social Security” e di “Medicare” come se fossero regali dati a persone incapaci che rifiutano di prendersi cura di se stesse, quando in realtà i cittadini vengono di gran lunga sovratassati con un’imposta del 15% nelle loro paghe per avere in cambio dei magri benefici. Infatti per decenni ormai il governo federale ha finanziato le sue guerre e i budget militari con le entrate in surplus raccolte dalla tassa sul lavoro della “Social Security”. Sostenere, come fa la destra, che non possiamo permetterci l’unica cosa nell’intero budget che ha in modo consistente prodotto delle entrate in eccesso sta ad indicare che lo scopo reale è di portare il cittadino medio ad uno stato di indigenza. I veri “entitlements” non vengono mai menzionati. Il budget della “difesa” è un entitlement per il complesso militare e della difesa, sul quale il presidente Eisenhower ci mise in guardia 50 anni fa. Una persona dev’essere folle per credere che gli Stati Uniti, “l’unica superpotenza del mondo”, protetta da oceani ad Est e a Ovest e da Stati-fantoccio a Nord e a Sud, abbia bisogno di un budget della “difesa” superiore all’intera spesa militare del resto mondo messo insieme.Il budget militare è nient’altro che un “entitlement” per il complesso militare e della sicurezza. Per nascondere questo fatto, l’entitlement viene mascherato come una protezione contro i “nemici” e fatto passare attraverso il Pentagono. Io dico, eliminiamo l’intermediario e distribuiamo semplicemente una percentuale del budget federale al complesso militare e della sicurezza. In questo modo non avremo bisogno di inventare scuse per invadere altri paesi e andare a fare la guerra con il solo scopo di dare al complesso militare e della difesa il suo “entitlement”. Sarebbe molto più economico dargli i soldi direttamente, e salverebbe anche un sacco di vite umane e sofferenze in patria e all’estero. L’invasione statunitense dell’Iraq non aveva proprio niente a che fare con gli interessi nazionali americani. Aveva a che fare con i profitti sugli armamenti e con l’eliminazione di un ostacolo all’espansione territoriale israeliana. Il costo della guerra, oltre i 3 trilioni di dollari, è stato di 4.000 americani morti, oltre 30.000 feriti e mutilati, decine di migliaia di matrimoni americani distrutti e carriere perdute, un milione di iracheni morti, quattro milioni di iracheni profughi e un paese ridotto in macerie. Tutto questo è stato fatto per i profitti del complesso militare e della sicurezza e anche affinchè la paranoide Israele, armata con 200 bombe nucleari, potesse sentirsi “sicura”.La mia proposta renderebbe il complesso militare e della difesa ancora più ricco, dato che le compagnie riceverebbero i soldi senza aver bisogno di costruire le armi. Piuttosto, tutti i soldi potrebbero venir usati per bonus multimilionari e dividendi distribuiti agli azionisti. Nessuno, in patria o all’estero, dovrebbe venir ucciso, e il contribuente sarebbe ben più felice. Non c’è alcun interesse nazionale americano nella guerra in Afghanistan. Come rivelato dall’ex ambasciatore britannico Craig Murray, lo scopo della guerra è di proteggere gli interessi della Unocal per un oleodotto che passa attraverso l’Afghanistan. Il costo della guerra è di gran lunga superiore all’investimento dell’Unocal nell’oleodotto. L’ovvia soluzione è di comprare l’Unocal e dare l’oleodotto agli afghani come parziale risarcimento per la distruzione che abbiamo inflitto a quel paese e alla sua popolazione, e di portare le truppe a casa.Il motivo per cui le mie ragionevoli soluzioni non verranno attuate è che le lobby pensano che i loro “entitlements” non potrebbero sopravvivere se diventassero evidenti a tutti. Loro pensano che se il popolo americano sapesse che le guerre stanno venendo combattute per arricchire le industrie degli armamenti e del petrolio, la gente fermerebbe le guerre. In realtà, il popolo americano non ha diritto di opinione su ciò che il “suo” governo fa. I sondaggi mostrano che metà o più della metà del popolo americano non sostiene le guerre in Iraq e Afghanistan e non sostiene l’escalation del presidente Obama per quanto riguarda la guerra in Afghanistan. Nonostante ciò, le occupazioni e le guerre continuano. La Russia di Putin ha già paragonato gli Usa alla Germania nazista, e il premier cinese ha paragonato gli Usa a un debitore irresponsabile e immorale. Gli inglesi stanno indagando sul loro capo criminale, l’ex primo ministro Tony Blair, e l’inganno che mise in piedi contro il suo stesso consiglio dei ministri per fornire una scusa a Bush per la sua invasione illegale dell’Iraq.Agli investigatori inglesi è stata negata l’abilità di presentare accuse penali, ma la questione della guerra basata interamente su una macchinazione di bugie e inganni sta venendo ben diffusa. Riecheggierà per tutto il pianeta, e il mondo vedrà che non esiste un’indagine simile negli Usa, il paese da dove ebbe origine la Guerra Falsa. Nel frattempo, le banche d’investimento Usa, che hanno distrutto la stabilità finanziaria di molti governi, incluso quello degli Usa, continuano a controllare, come hanno sempre fatto fin dall’amministrazione Clinton, la politica economica e finanziaria degli Usa. Il mondo ha sofferto in modo terribile per i gangsters di Wall Street, e adesso guarda all’America con occhio critico. I sondaggi nel mondo mostrano che gli Usa e il suo capo-fantoccio vengono visti come le due più grandi minacce per la pace. Washington e Israele superano nella lista dei più pericolosi il regime pazzoide della Nord Corea. Quando il dollaro sarà sovra-inflazionato da una Washington incapace di pagare i suoi conti, il mondo sarà spinto dall’avidità e cercherà di salvarci per salvare i suoi investimenti, oppure dirà “grazie a Dio, che liberazione”.(Paul Craig Robers, estratti da “Il fantoccio Obama”, intervento pubblicato da “Information Clearing House” e ripreso dal blog “Vox Populi” il 25 agosto 2015. Eminente economista e politologo, Craig Roberts fu tra i più stretti collaboratori di Ronald Reagan).Non c’è voluto molto per la Lobby di Israele a mettere in ginocchio il presidente Obama per il suo divieto di costruire nuovi insediamenti illegali israeliani nei territori palestinesi occupati. Obama ha scoperto che un semplice presidente americano è impotente quando viene affrontato dalla Lobby di Israele, e che agli Stati Uniti semplicemente non viene permesso di avere una politica in Medio Oriente diversa da quella di Israele. Obama ha anche scoperto che non può cambiare niente, sempre che ne avesse mai avuto l’intenzione. Nell’agenda della lobby militare e della difesa c’è la guerra e uno stato di polizia interno, e un semplice presidente americano non può farci niente. Il presidente Obama può ordinare che vengano chiuse le camere della tortura di Guantanamo, e che i sequestri di persona e le torture vengano fermati, ma nessuno esegue i suoi ordini. In pratica, Obama è irrilevante. Può promettere che porterà a casa le truppe, e la lobby militare dice: “No, invece li manderai in Afghanistan, e nel frattempo inizierai una guerra in Pakistan e costringerai l’Iran in una posizione che ci darà un pretesto per fare una guerra anche lì. Le guerre sono troppo lucrose per noi perchè tu possa fermarle”. E il piccolo presidente dirà: “Sissignore!”.
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Escobar: a crollare non è la Cina, ma il delirio neoliberista
Le azioni sui mercati di Shanghai/Shenzhen hanno perso un roboante 150% nei 12 mesi prima di metà giugno. I piccoli investitori – che compongono circa l’80% del mercato – erano convinti che la festa non avrebbe mai avuto fine e spesso hanno richiesto grossi prestiti per spingere nel magna magna del “diventare ricchi è glorioso”. Una correzione è stata necessaria, scrive Pepe Escobar. Quelle azioni – che avevano raggiunto un picco dopo una crescita durata 7 anni – erano ovviamente ipervalutate. Sommate al fatto che tutti i dati mostrano un rallentamento dell’economia cinese, il risultato era facilmente prevedibile: Shanghai e Shenzhen hanno perso tutto ciò che avevano guadagnato nel 2015 – una vendita di massa globale studiata a tavolino. «Persino famosi miliardari hanno perso montagne di denaro in un batter di ciglia», annota Escobar su “Rt”, in una nota ripresa da “Come Don Chisciotte”. «Benvenuti nella nuova normalità cinese, o il nostro (miserabile) mondo nuovo».La secca correzione a Shanghai/Shenzhen è parte della fine di un ciclo, chiarisce Escobar: diciamo pure addio alla Cina che faceva affidamento su tassi di investimento pari al 45% del Pil, e diciamo addio anche alla insaziabile richiesta cinese di beni. Il problema dell’aggiustamento del modello economico cinese, osserva il giornalista, è direttamente connesso all’ininterrotto stato comatoso del disordine neoliberale, che si protrae fin dal 2007/2008. «Non serve essere Paul Krugman per sapere che la nuova normalità è un mercato globale anemico: una crisi profonda in tutti i mercati emergenti, la stagnazione con recessione dell’Europa e la “fabbrica del mondo” cinese che non riesce a vendere quanto faceva prima. Nel frattempo, l’ipervalutato dollaro Usa sta uccidendo le esportazioni statunitensi, scese del 3% nel solo primo semestre. Anche le importazioni sono calate del 2.2%, il che dimostra la riduzione del potere d’acquisto della classe media, dovuta alla corrosione strutturale dell’economia statunitense».Ovunque ci si volti, continua Escobar, tutto lo scenario strutturale grida alla crisi del disordine neoliberale: «Quando il motore turbo-capitalista cinese incontra problemi, si dimostra palesemente come il casinò della finanza mondiale non abbia alcun tipo di supporto da nessun altra parte». Infatti, più di 5 trilioni di dollari di denaro virtuale sono stati bruciati da quando Pechino ha (moderatamente) svalutato lo yuan l’11 di agosto – innescando la vendita di massa. «Ora la Fed potrebbe posticipare alla fine del 2015 l’innalzamento dei tassi d’interesse, per la prima volta in quasi 10 anni. Nessuno si azzarda a predire uno scenario di rosea crescita, considerando la forza del dollaro, lo yuan moderatamente svalutato e una continua discesa dei prezzi del greggio». Eppure, «contrariamente a quanto sostengono le previsioni/speranze dell’Occidente, la Cina non sta implodendo». Lo dimistrano le ultime analisi diffuse da Credit Suisse: «La Cina continua ad avere un surplus molto ‘in salute’, le sue riserve di capitali sono ancora parzialmente bloccate e le sue maggiori istituzioni finanziarie sono in larga parte di proprietà dello Stato».Questi fattori, aggiunge la banca svizzera, darebbero alle autorità monetarie di Pechino lo spazio di azione per creare liquidità nel sistema, in caso ce ne fosse bisogno. Ciò che accade è che «la crescita strutturale della Cina continuerà a rallentare nei prossimi anni». Non ci sarà un «innesco del crollo del credito», e quindi «il sistema finanziario e il regime di cambio potrebbero essere mantenuti relativamente stabili». Tuttavia, sperare che gli introiti e i guadagni delle imprese cinesi ritornino ai livelli di alcuni anni fa «non è realistico». Ma, essenzialmente, «la paura di un ripetersi del crollo dei mercati asiatici del 1997 o della crisi mondiale del 2008 non è giustificata». In conclusione, Credit Suisse invita a mantenere la calma: «Gli investitori dovrebbero concentrarsi maggiormente sulle azioni dei mercati cinesi e di Hong Kong che hanno forti micro-fondamentali e sono meno dipendenti dalla crescita economica cinese, ma che sono state affossate dalla recente debolezza dei mercati».Quindi, dal punto di vista di Pechino, tutto è abbastanza sotto controllo. «Ancora una volta: in termini globali, quest’ultima bolla del casinò della finanza non è nemmeno lontanamente paragonabile alla crisi finanziaria asiatica del 1997/1998. Piuttosto, continuano a persistere i segnali di una ininterrotta e ricorrente debolezza dei mercati considerata la nuova normalità, da affiancare al rifiuto categorico da parte di Wall Street di dare una forte regolamentazione alla finanza», scrive Escobar. La palla ora è nel campo della Fed: cosa fare riguardo lo tsunami delle valute straniere che fanno salire il dollaro, rendendo non competitiva l’industria statunitense? L’era delle banche centrali che stampano valuta virtuale a basso costo, per conferire “volatilità del mercato”, potrebbe non essere finita. «Le banche centrali adorano mandare al rialzo i prezzi dei mercati azionari per il beneficio dello 0.0001%, per cui aspettiamoci altre delusioni in futuro, con la certezza che tutto ciò che è solido evaporerà, insieme al sogno neoliberale».Le azioni sui mercati di Shanghai/Shenzhen hanno perso un roboante 150% nei 12 mesi prima di metà giugno. I piccoli investitori – che compongono circa l’80% del mercato – erano convinti che la festa non avrebbe mai avuto fine e spesso hanno richiesto grossi prestiti per spingere nel magna magna del “diventare ricchi è glorioso”. Una correzione è stata necessaria, scrive Pepe Escobar. Quelle azioni – che avevano raggiunto un picco dopo una crescita durata 7 anni – erano ovviamente ipervalutate. Sommate al fatto che tutti i dati mostrano un rallentamento dell’economia cinese, il risultato era facilmente prevedibile: Shanghai e Shenzhen hanno perso tutto ciò che avevano guadagnato nel 2015 – una vendita di massa globale studiata a tavolino. «Persino famosi miliardari hanno perso montagne di denaro in un batter di ciglia», annota Escobar su “Rt”, in una nota ripresa da “Come Don Chisciotte”. «Benvenuti nella nuova normalità cinese, o il nostro (miserabile) mondo nuovo».